Polifenoli in bottiglia

Leggendo questo lancio di agenzia sul 240 raduno nazionale della American Chemical Society mi è subito venuto in mente il bel post meristemico sul fato dei polifenoli una volta estratti nella fatidica tazza di tè verde. Nel post si spiegava in dettaglio cosa succedesse dal punto di vista chimico alla classe chimica delle catechine, ed in particolare come la loro stabilità fosse molto bassa, e variasse molto per effetto “della temperatura, del pH, dell’esposizione a luce ed ossigeno, del tempo e del tipo di acqua in cui sono solubilizzate.”

Ebbene, nel report alla American Chemical Society (qui il programma del raduno), i ricercatori Shiming Li (stipendiato dalla WellGen, Inc, una azienda di biotecnologie alimentari) e Chi-Tang Ho hanno riportato che il livello di polifenoli nei prodotti commerciali imbottigliati a base di tè (verde e nero) è estremamente basso, a volte praticamente insignificante, rispetto a quanto si potrebbe assumere bevendo una tazza di tè fresca fatta in casa. Per dare un esempio della magnitudine della differenza, una generica tazza di tè (riportano i ricercatori) può contenere da 50 a 150 mg di polifenoli. I sei tè commerciali analizzati (bottiglie da circa mezzo litro, diciamo da 3 a 4 tazze) contenevano 81, 43, 40, 13, 4, e 3 mg. di polifenoli!

Anche partendo dal livello più basso per tazza di tè (50 mg) e da quello più elevato per bottiglia (81 mg) il prodotto commerciale contiene la metà dei polifenoli del tè fatto in casa. Se prendiamo poi in esame i poli estremi, (150 mg per tazza e 3 mg per bottiglia) dovremmo bere 40 bottiglie per assorbire lo stesso ammontare di polifenoli di una tazza.

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BOSTON, Aug. 22, 2010 — The first measurements of healthful antioxidant levels in commercial bottled tea beverages has concluded that health-conscious consumers may not be getting what they pay for: healthful doses of those antioxidants, or “poylphenols,” that may ward off a range of diseases.

Scientists reported here today at the 240th National Meeting of the American Chemical Society (ACS) that many of the increasingly popular beverages included in their study, beverages that account for $1 billion in annual sales in the United States alone, contain fewer polyphenols than a single cup of home-brewed green or black tea. Some contain such small amounts that consumers would have to drink 20 bottles to get the polyphenols present in one cup of tea.

“Consumers understand very well the concept of the health benefits from drinking tea or consuming other tea products,” said Shiming Li, Ph.D., who reported on the new study with Professor Chi-Tang Ho and his colleagues. “However, there is a huge gap between the perception that tea consumption is healthy and the actual amount of the healthful nutrients — polyphenols — found in bottled tea beverages. Our analysis of tea beverages found that the polyphenol content is extremely low.”

Li pointed out that in addition to the low polyphenol content, bottled commercial tea contains other substances, including large amounts of sugar and the accompanying calories that health-conscious consumers may be trying to avoid. He is an analytical and natural product chemist at WellGen, Inc., a biotechnology company in North Brunswick, N.J., that discovers and develops medical foods for patients with diseases, including a proprietary black tea product that will be marketed for its anti-inflammatory benefits, which are due in part to a high polyphenol content.

Li and colleagues measured the level of polyphenols — a group of natural antioxidants linked to anti-cancer, anti-inflammatory, and anti-diabetic properties — of six brands of tea purchased from supermarkets. Half of them contained what Li characterized as “virtually no” antioxidants. The rest had small amounts of polyphenols that Li said probably would carry little health benefit, especially when considering the high sugar intake from tea beverages.

“Someone would have to drink bottle after bottle of these teas in some cases to receive health benefits,” he said. “I was surprised at the low polyphenol content. I didn’t expect it to be at such a low level.”

The six teas Li analyzed contained 81, 43, 40, 13, 4, and 3 milligrams (mg.) of polyphenols per 16-ounce bottle. One average cup of home-brewed green or black tea, which costs only a few cents, contains 50-150 mg. of polyphenols.

After water, tea is the world’s most widely consumed beverage. Tea sales in the United States have quadrupled since 1990 and now total about $7 billion annually. The major reason: Scientific evidence that the polyphenols and other antioxidants in tea may reduce the risk of cancer, heart disease, and other afflictions.

Li said that some manufacturers do list polyphenol content on the bottle label. But the amounts may be incorrect because there are no industry or government standards or guidelines for measuring and listing the polyphenolic compounds in a given product. A regular tea bag, for example, weighs about 2.2 grams and could contain as much as 175 mg. of polyphenols, Li said. But polyphenols degrade and disappear as the tea bag is steeped in hot water. The polyphenol content also may vary as manufacturers change their processes, including the quantity and quality of tea used to prepare a batch and the tea brewing time.

“Polyphenols are bitter and astringent, but to target as many consumers as they can, manufacturers want to keep the bitterness and astringency at a minimum,” Li explained. “The simplest way is to add less tea, which makes the tea polyphenol content low but tastes smoother and sweeter.”

Li used a standard laboratory technique, termed high-performance liquid chromatography (HPLC), to make what he described as the first measurements of polyphenols in bottled tea beverages. He hopes the research will encourage similar use of HPLC by manufacturers and others to provide consumers with better nutritional information.

Uomo e piante 6/dimoltialtri

Ritorno dopo un momentaneo ma necessario “stacco” alla mia soap su uomini e piante. Se siete ancora con me 🙂 siamo arrivato alla puntata numero 6, e le precedenti sono qui, qui, qui, qui, e qui

E’ arrivato il momento di esplicitare meglio l’ipotesi co-evolutiva della nascita della medicina, e per fare ciò è necessario fare un passo indietro per giustificare l’idea che esista una connessione significativa e preculturale tra uomo e piante.

La teoria unificata delle comunicazioni cellulari
Come ci ricorda Meinwald [1] il nostro è un modo di suoni e visioni, e tendiamo a non renderci conto degli eventi chimici che ci circondano, del fatto che tutti gli organismi emettono e rispondono a segnali di tipo chimico, formando una vasta rete di interazioni comunicative fondamentali, attrattive, difensive, associative, ecc.

Fin dalle origini della vita infatti, il problema che i primi organismi cellulari hanno dovuto risolvere è stato quello della comunicazione tra cellula ed ambiente circostante e tra cellula e cellula, ed il problema è stato risolto da tutti gli organismi nello stesso modo, attraverso il linguaggio di molecole che possono penetrare le membrane e interagire con il nucleo oppure che trovano recettori specifici sulla membrana cellulare che mediano poi dei cambiamenti interni.

Ragionando da una prospettiva abbastanza ampia è quindi ovvio che uomini e piante, anzi, animali e vegetali, debbono mostrare dei legami, non soltanto filogenetici ma di relazione, comunicativi: affinché la vita di organismi diversi, anche appartenenti a Regni differenti,  possa prosperare in uno stesso ambiente, vi sono state, e vi devono essere state, continue relazioni mediate da un linguaggio molecolare.

La “teoria unificata delle comunicazioni cellulari” vuole che queste relazioni, ed i percorsi biogenetici del metabolismo secondario che creano le molecole messaggere, siano nati molto presto nella storia dell’albero evolutivo e siano spesso comuni tra i Regni Animalia e Vegetalia. [2] Ciò significa che nonostante la distanza filogenetica tra organismi appartenenti ai due Regni, essi possano però riconoscere gli stessi messaggeri. [3] Questo dato di base spiega la possibilità delle interazioni tra piante ed animali ed il ruolo di intermediari che hanno i metaboliti secondari.

Come rispondere all’ambiente

La possibilità per una pianta di “leggere” i messaggi di altre piante le permette di rispondere a degli indizi ambientali modificando il proprio schema di risposta. Organismi animali possono usare questi indizi per riconoscere lo stato dell’ambiente esterno ed “decidere” come allocare le proprie risorse energetiche.

Un esempio di questo utilizzo dei messaggi molecolari negli animali superiori potrebbe essere legato al fenomeno della senescenza. Organismi che si siano evoluti in ambienti mutevoli possono trarre vantaggio dalla capacità di puntare su un successo riproduttivo immediato a scapito della longevità in caso di ambiente più favorevole, o di puntare sulla longevità e su una ritardata maturazione sessuale in caso di condizioni sfavorevoli. [4]

Esempi di questi percorsi di allarme comprenderebbero varie chinasi legate alla sopravvivenza delle cellule, i fattori di trascrizione NRF2 e CREB, e le deacetilasi istoniche della famiglia della sirtuina, una proteina nota come Sir2 nei lieviti e SIRT1 nell’uomo.

Le Sir2 (Silent information regulator 2), sono presenti in tutti gli organismi, dagli eubatteri agli eucarioti, compresi gli esseri umani. Svolgerebbero due funzioni primarie nei mammiferi: la prima è  coordinare gli schemi di espressione genica (ovvero decidere quali geni sono attivati e quali disattivati in ogni singola cellula, per evitare ad esempio che una cellula renale inizi ad esprimere tendenze epatiche) e mantenere la stabilità di certe regioni cromosomiche e sopprimere l’esagerata espressione di certi geni (silenziamento genico) aumentando la stabilità del genoma; la seconda è funzionare da agenti riparatori emergenziali in caso di danno al DNA. [5] Il problema sorge dal fatto che quando le sirtuine sono occupate a riparare il DNA non regolano più l’espressione dei geni. Fino a che i danni al DNA sono rari le sirtuine riescono a compiere entrambi i compiti con efficienza, ma quando questi danni aumentano (tipicamente con l’età) la de-regolazione dell’espressione genica diventa cronica, e questo sembra essere legato, nei modelli animali utilizzati, a fenotipi di senescenza. [6]

Negli ultimi decenni sono stati scoperti molti composti di origine vegetale (tre esempi sono resveratrolo, i sulforafani ed i curcuminoidi) sintetizzati in risposta a vari tipi di emergenza (siccità, radiazioni, attacchi di insetti, infezioni, ecc.) per stimolare diverse risposte adattive e la rigenerazione cellulare stimolando una maggior espressione di sirtuine ed allungando la vita media,  proteggendo le cellule da lesioni stimolando la produzione di antiossidanti, fattori neurotropici ed altre proteine correlate allo stress.

Il modello coevolutivo

Ma il legame che viene proposto va oltre al dato generalizzato della teoria unificata delle comunicazioni cellulari, anche se si fonda su di essa. Esso si basa sull’ipotesi che l’utilizzo delle piante come fonte privilegiata di nutrienti abbia plasmato la fisiologia dell’uomo.

I nostri antenati, secondo l’ipotesi antropologica attualmente più accreditata, erano onnivori-foliovori, nel senso che avevano una decisa preferenza, certamente ispirata dalla necessità, per le piante ed in particolare per le foglie. E’ molto probabile che l’uomo preferisse sempre cibo denso in energia e povero di composti tossici (carne, tuberi, frutta) piuttosto che foglie; d’altro canto tuberi e frutti non sono disponibili tutto l’anno e sono più difficili da scovare, mentre le foglie sono più facilmente sfruttabili perché sono sempre presenti su tutto il territorio antropizzato, ed è probabile che siano sempre stati parte della dieta, oltre ad essere un “salvavita” in caso d’emergenza.

Questa forzata “convivenza alimentare” con le piante ci ha costretti a confrontarsi con molteplici messaggi chimici (spesso difensivi e quindi tossici) ai quali è stato necessario fornire delle risposte, cioè adattarsi, in qualche modo co-evolversi con essi e con le piante che li contenevano.

La tesi sostenuta da un certo filone antropologico (vedi Johns [12]) è che l’adattamento abbia fatto sì che le proprietà che rendevano le piante tossiche o non commestibili (limitando le possibilità di alimentazione dell’uomo) siano le stesse che le hanno rese attive a livello farmacologico (rappresentando quindi un fattore di promozione della salute). La nostra specie, nell’adattarsi alle tossine delle piante, le ha portate ad essere una parte essenziale della nostra ecologia interna, le ha “introiettate” facendo sì che non ci danneggiassero (o almeno non ai livelli ai quali le ingeriamo) ma anzi che potessero esserci utili.

Ne consegue l’ipotesi che gli esseri umani selezionino le piante sulla base della loro composizione chimica e che l’ingestione dei composti chimici vegetali sia parte di una risposta adattiva integrata che possiede elementi biologici e culturali, e che la nostra eredità biologica, associata allo snodo essenziale costituito dalla rivoluzione neolitica (la domesticazione delle piante e la loro coltivazione), pongano le basi per la nascita dell’uso medicinale delle piante. [7]

Questa ipotesi è andata rafforzandosi nei decenni grazie ai molti studiosi che l’hanno corroborata con vari pezzi di puzzle.


Prove indirette: i nostri simili
Un supporto, seppur indiretto, alla tesi che l’utilizzo delle piante a scopo medicinale da parte dell’uomo abbia origini preculturali e coevolutive viene dagli studi sulla zoofarmacognosia, ovvero sull’automedicazione con le piante da parte degli animali non umani. [8]

Glander, Lozano, Huffman ed altri autori portano vari esempi di zoofarmacognosia, alcuni dei quali riporto di seguito. [9]

Gli elefanti malesi si cibano di una leguminosa [Entada schefferi Ridley – Fabaceae] prima di intraprendere un lungo cammino; in India i cinghiali selvatici dissotterrano e si nutrono in maniera selettiva delle radici di Boerhavia diffusa L. [Nyctaginaceae], usate anche dagli esseri umani come rimedio antelmintico, mentre i maiali si ciberebbero delle radici del melograno [Punica granatum L. — Punicaceae] per la sua tossicità sui nematodi. Gli scimpanzè maschi della Tanzania occidentale, nei periodi dell’anno nei quali aumentano le infestazioni di nematodi, utilizzano le foglie di Aspilia spp. (spesso A. mossambicensis) [Asteraceae] seguendo un rituale molto particolare e completamente diverso dalla ritualità normalmente associata all’alimentazione: arrotolano le foglie, le mettono tra lingua e guancia e poi le ingoiano senza masticarle.

Va notato che Aspilia contiene principi attivi antibatterici, antifungini e antelmintici (thiarubrina A), e che la modalità di assunzione potrebbe favorire l’assorbimento di tali composti attraverso le mucose della guancia. Gli scimpanzè mostrano altri comportamenti molto interessanti: le femmine ingeriscono foglie di Lippia plicata Bak. [Verbenaceae] (usata dagli indigeni come stomachico ed insetticida) quando sembrano avere dei disturbi gastrointestinali, e vari maschi malati sono stati notati mentre succhiavano il midollo del fusto di Vernonia amygdalina Del. [Asteraceae], una pianta molto amara (contiene lattoni sesquiterpenici amari, antelmintici e antischistosomiaci), raramente usata a scopo alimentare ma comune nella medicina tradizionale dell’Africa orientale in caso di febbri malariche, schistosomiasi, dissenteria amebica, elmintiasi, diarrea, mal di stomaco, inappetenza e scorbuto, e dagli agricoltori in caso di parassiti intestinali dei maiali.

Negli esseri umani la Vernonia è efficace contro Giardia lamblia, ossiuri e nematodi dei generi Ancylostoma, Uncinaria, Necator. E’ interessante notare come i primati utilizzino raramente le foglie e la corteccia della pianta, nonostante la maggior concentrazione in composti attivi. Il fatto che queste parti della pianta contengano anche composti tossici è una possibile spiegazione di questo comportamento. I primati utilizzano in maniera simile anche i fusti di Palisota hirsuta (Thunb.) K. Schum. [Commelinaceae] e Eremospatha macrocarpa (Mann and Wendl.) Wendl. [Palmae].

Alouatta palliata (una scimmia urlatrice) mostra una frequenza molto ridotta, rispetto agli scimpanzè, di carie o gengiviti, dato in parte spiegabile con la dieta povera in frutta zuccherina, ma forse anche con il consumo di anacardi [Anacardium occidentale L. — Anacardiaceae], frutti che contengono acido anacardico e cardolo, composti attivi contro i batteri gram-positivi tipici della carie; le stesse scimmie urlatrici sono soggette a parassitosi gastrointestinale, ma quelle di loro che si alimentano anche con frutti dei ficus [Ficus spp. — Moraceae] lo sono di meno. Dato che il latice di Ficus è antelmintico, è possibile che il consumo di foglie e frutti contribuisca ad abbassare il carico di parassiti. [10]

Uno dei primati meno comuni (Brachyteles arachnoides) è preda, come altri, di parassitosi intestinale, ma tra i gruppi che ne soffrono di meno si nota uno schema di alimentazione particolare.  All’inizio della stagione delle piogge questi individui fanno uno sforzo particolare per mangiare piante che prima non assaggiavano, in particolare le leguminose Apuleia leiocarpa (J. Vogel) J.F. Macbr. e Platypodium elegans Vogel. [Fabaceae] (ricche in composti antimicrobici e isoflavoni).

I Colobus rossi normalmente preferiscono foglie giovani, ricche in proteine e povere in tannini ed altri composti fenolici, ma di quando in quando mangiano foglie ad elevato contenuto in tannini, che potrebbero servire per detossificare gli alcaloidi e ridurre il gonfiore intestinale. [11]

I babbuini soffrono comunemente di schistomatosi, ed è stato notato, nei gruppi che vivono presso le cascate Awash (Etiopia), un comportamento particolare degli individui che ne sono affetti gravemente: essi si nutrono di foglie e frutti di Balanites aegyptiaca (L.) Del. [Zygophyllaceae], che contengono diosgenina, attiva contro Schistosoma cercariae.

Prove dirette: la fisiologia ed il comportamenti umani. [12]
Se l’ipotesi appena esposta è valida, ci deve essere rimasta qualche traccia del processo co-evolutivo nel nostro organismo, sia di tipo fisiologico che comportamentale. La difficoltà sta però nel riconoscere se e quali di queste caratteristiche siano tracce coevolutive, perché ci è dato interpretarle come tali solo a posteriori, senza il beneficio di una prova diretta, ma solo tramite inferenze.

Ad esempio, gli esseri umani hanno un intestino adatto a cibi densi di nutrienti ma mantengono una certa capacità di digerire fibre, e possono sopportare dosi relativamente elevate di composti allelopatici; l’uomo è inoltre capace di sopperire al proprio fabbisogno di acidi grassi essenziali tramite i loro precursori presenti nei vegetali.  Queste caratteristiche potrebbero indicare una consuetudine dell’uomo con le piante. Si è anche ipotizzato che la preferenza dell’uomo per il sale (di più di un ordine di magnitudo superiore al suo fabbisogno) potrebbe essere spiegato con la carenza di sodio nelle piante della savana dove Homo si è evoluto, e, come si è visto più sopra, l’incapacità di sintetizzare la vitamina C potrebbe essere spiegata con la sua ubiquità ed abbondanza nei vegetali.

La presenza nella saliva dell’uomo di proteine ricche in prolina (PRP) è un altro importante esempio: l’uomo è in grado di rispondere all’ingestione di tannini mantenendo le parotidi in uno stato di induzione, tanto che il 70% delle secrezioni salivari è del tipo PRP: queste PRP possono servire a legare i tannini presenti nel cibo e renderli meno irritanti per il tratto gastrointestinale e forse per renderli meno attivi sul cibo che ingeriamo (riducendone gli effetti antinutrizionali).

Esempi più generici del rapporto dell’uomo con sostanze velenose sono il vomito ed i sensi chimici.


Il vomito è un istintivo meccanismo di rigetto di una sostanza che si è immediatamente riconosciuta come tossica o in qualche modo non desiderata.

I sensi chimici, gusto ed olfatto mostrano di poter discriminare sostanze vegetali potenzialmente pericolose da altre potenzialmente utili (discriminando tra amaro e dolce ad esempio), e mostrano di poter attivate risposte condizionate molto potenti, in particolare quelle negative associate al cibo. Ciò significa che a seguito di un malessere gastrointestinale legato temporalmente (a prescindere dal legame causale) all’ingestione di cibo, il sapore e l’odore di quel cibo saranno legati al malessere rendendo molto difficile cibarsene ancora. Questo è un tipo di meccanismo di apprendimento, perché una sostanza che abbia provocato un malessere gastrointestinale probabilmente è tossica, o comunque dobbiamo considerarla come tale. [13]

C’è una differenza importante tra olfatto e gusto, perché il primo, essendo molto più plastico del gusto, è meno legato alla percezione negativa, mentre quest’ultimo, essendo limitato alla discriminazione di quattro o cinque sapori, è più fortemente e più meccanicamente legato alla risposta condizionata.


Altro indizio molto rilevante è la presenza di enzimi detossicanti a livello epatico (e in misura minore renale, intestinale e polmonare), enzimi che rendono meno tossiche e facilmente eliminabili varie sostanze di origine vegetale, e che non sono molto specializzati, non hanno cioè la capacità di detossificare sempre e con efficienza una sostanza particolare, ma hanno la capacità plastica di adattarsi a molti problemi diversi, e questo è un indizio che si situa bene nel quadro di una dieta umana prevalentemente onnivora-foliovora (da cui l’esistenza di enzimi che hanno come substrato delle sostanze vegetali), con fonti alimentari molto diversificate (da cui la necessità di plasticità nella risposta).

Possiamo considerare il ruolo degli enzimi detossificanti in congiunzione con la neofobia, cioè il fatto che l’uomo adulto mostri la tendenza ad esser circospetto rispetto alle sostanze che deve assumere. [14]

Dato che il meccanismo epatico esiste per detossificare una sostanza potenzialmente tossica, il fatto di assaggiare sempre piccole quantità di un cibo o di una sostanza nuova permette di non avvelenarsi accidentalmente, e di non sovraccaricare i meccanismi detossificanti. Quindi la combinazione dei due meccanismi ci può permettere di assaggiare un cibo nuovo che può essere pericoloso senza però morire dopo averlo assaggiato.

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Note al testo

[1] Eilser T, Meinwald J (1995) “Preface” in Thomas Eilser and Jerrold Meinwald (eds) Chemical ecology: The Chemistry of Biotic Interaction National Academy Press Washington, D.C. 1995

[2] Roth J., Leroith D. (1987) The Sciences, May-June:51

[3] Lamming D.W., Wood J.G., Sinclair D.A. (2004) “Small molecules that regulate lifespan: evidence for xenohormesis”. Mol Microbiol; 53(4):1003-9; Howitz, K.T., Bitterman, K.J., Cohen, H.Y., Lamming, D.W., Lavu, S., Wood, J.G., et al. (2003) “Small molecule activators of sirtuins extend Saccharomyces cerevisiae lifespan”. Nature 425: 191–196; Mattson MP, Cheng A. (2006) “Neurohormetic phytochemicals: Low-dose toxins that induce adaptive neuronal stress responses”. Trends Neurosci; 29:632–9

[4] Kuzawa C et al. (2008) “Evolution, developmental plasticity and metabolic disease” in SC Stearns and JC Koella (eds.) Evolution in health and disease 2nd edition Oxford UP; Austad SN, Finch CE (2008) “The evolutionary context of human aging and degenerative disease” in in SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.; Ackermann M e Pletchr SD (2008) “Evolutionary biology as a foundation for studying aging and origin-related disease”. In SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.

[5] Guarente, L. (2000) “Sir2 links chromatin silencing, metabolism and aging” Genes Dev 14:1021-1026

[6] Oberdoerffer et al (2008) “SIRT1 redistribution on chromatin promotes genome stability but alters gene expression during aging”; Cell 135,  6

[7] Con questo non si intende proporre l’appiattimento della cultura sulla natura, la riduzione della medicina a fatto biologico e della malattia a rapporto ecologico. Nè si suppone che l’utilità presente dei composti xenobiotici per l’organismo che li ingerisce siano in parte o del tutto riconducibili ad adattamenti passati. Una origine evolutiva, spiega bene Gould (Gould, S.J. “Darwin tra fondamentalismi e pluralismo”. In Pino Donghi (a cura di) La medicina di Darwin. Roma, Laterza, 1998) non si appiattisce su quella adattiva, perché la selezione naturale non esaurisce tutti i meccanismi evolutivi, e l’enorme chemiodiversità delle piante (che esprimono circa i 4/5 di tutti i i composti farmacologicamente attivi conosciuti) offrirebbe comunque materiale farmacologicamente attivo al di là dei rapporti ecologici animale-pianta.

[8] Nel lavoro seminale in questo campo (Rodriguez, E., R. Wrangham. H. Stafford e Downum K. eds., (1993) “Zoopharmacognosy: The use of medicinal plants by animals”. Recent advances in phytochemistry, 89-105) gli autori (responsabili anche del conio del termine zoofarmacognosi) scrivono che:

“The combination of natural products, trichomes and other leaf features are important in the fitness of wild animals,”…“the observation of animals using plants is not new since Amazonian Indians and many people of the African forests tell of how animals use plants and how they copy the animals”

[9] Glander K.E. “Nonhuman primat self-medication with wild plant foods”. In N.L., Etkin  (Ed.), 1994 op. cit. pp. 227-239; Lozano, G.A. (1998) “Parasitic stress and self-medication in wild animals” Advances in the study of behaviour. 27: 291-317; Huffman M.A. (2001) “Self-medicative behavior in the African Great Apes: An evolutionary perspective into the origins of human traditional medicine”. BioScience.; Vol. 51(8): pp. 651-661.

[10] Una ipotesi più difficile da sostanziare ma affascinante è quella che vuole che l’ingestione di piante da parte delle femmine di Alouatta serva a modificare il normale rapporto maschio/femmina della prole, Glander (1994 op. cit.) ipotizza che alcuni composti delle piante ingerite possano modificare la concentrazione ionica delle mucose vaginali delle femmine, e che questo a sua volta possa modificare selettivamente l’accesso degli spermatozoi che portano un cromosoma X rispetto a quelli a Y dato che X è elettropositivo mentre Y è elettronegativo.

[11] Lo stesso fanno altri primati ed è difficile spiegare questo comportamento senza chiamare in causa la zoofarmacognosi anche perché i tannini sono forse l’unico gruppo di composti che non sono detossificabili se non parzialmente. I tannini possono legarsi e precipitare, e quindi inattivare, le molecole azotate, come appunto gli alcaloidi. Interessante notare che i Colobus mangiano anche terre ricche in caolino (geofagia), che grazie alla loro elevata capacità di adsorbimento possono intrappolare e rendere indisponibili all’assorbimento varie tossine (e nutrienti).

[12] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press; Consiglio, C. e Siani V. (2003) Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri

[13] Le risposte condizionate positive, cioè quelle che potrebbero essere molto utili, sono invece molto meno forti, più labili, di quelle negative.

[14] Il bambino è molto meno neofobico, ed anche questo è un meccanismo evolutivo: esso deve infatti poter fare esperienza del mondo, deve poter “assaggiare” in vari modi la realtà che lo circonda. L’uomo adulto invece, raggiunto il suo bagaglio di esperienze, sta più attento.

La dose è tutto 3/3

Terzo (dopo il primo ed il secondo) problema: perché questi dosaggi?

Le posologie consigliate in molti testi di erboristeria e da molte aziende, e quindi usate da molti erboristi, sono spesso sotto il limite dell’efficacia, anche senza tenere in conto del sottodosaggio causato dall’utilizzo delle gocce come metodo di misurazione.

Per esemplificare la discrasia tra i dati tradizionali, sperimentali e clinici, e i dosaggi consigliati per le TM, vorrei brevemente mettere a confronto alcuni testi.

Per evitare da subito l’accusa di riduzionismo o di “farmacologismo”, userò come fonti attendibili sia i dati storici e etnobotanici, sia i dati clinici. Naturalmente non ambisco ad una analisi esaustiva e sistematica, e non mi nascondo i problemi relativi alla traduzione di dosaggi espressi in diverse forme galeniche. Purtuttavia, ritengo che alla fine della comparazione risalterà una differenza in dosaggi così evidente e di tale magnitudine che va ben oltre le variazioni dovute a questi problemi.

La comparazione

Per facilitare la comparazione, i vari dosaggi sono stati riportati in termini di grammi di droga secca: quindi un dosaggio giornaliero di 5-20 ml di tintura da pianta secca (1:5) è stato tradotto in un dosaggio giornaliero di 1-4 grammi di pianta secca. Questo tipo di calcolo non è naturalmente esatto né tiene conto delle differenti biodisponibilità delle diverse forme farmaceutiche, ma nonostante questa  limitazione, ritengo che il calcolo rimanga comunque valido a grandi linee, e mostra chiaramente la differenza tra i dosaggi ricavati dai testi classici e farmacologici e quelli riportati da testi più recenti della scuola delle TM.

Ho qui riportato i dati dai testi del Dott. Brigo (“L’uomo, la fitoterapia, la gemmoterapia”) e della Dott.ssa Campanini (“Dizionario di fitoterapia e piante medicinali. II ed.”) semplicemente come esempio, in effetti dosaggi molto simili si trovano nel testo di Rossi sulle TM ed in genere in certa letteratura francese. A mò di contrasto sono stati inseriti i dosaggi indicati da Pedretti in un testo chiaramente non influenzato dalla scuola delle TM (“Chimica e farmacologia delle piante medicinali”). Altri testi di riferimento sono la British Herbal Pharmacopea (BHP), il PDR for Herbal Medicines (PDR), Herbal Medicines del 2007 (HM), le monografie WHO e quelle ESCOP. Per i dosaggi in medicina cinese (MTC) mi sono affidato al testo enciclopedico di Ou Ming, al testo di Song sui liquori medicati e al classico di Bensky e Gamble
Per la medicina del 19o secolo nordamericano (USA) mi sono basato sulla Materia Medica di Felter.

Tutti i dosaggi sono espressi in grammi di pianta secca.

Pianta

TCM

USA

Pedretti

Monografie

Brigo

Campanini

Arctostaphylos uva ursi

1-4.

2-8.

PDR 12; HM 4.5-12; WHO 9-12

0.2-0.6

0,2-0,4 gr.

Crataegus spp

10-15

0,5-5

1-45

PDR 5; HM 0,64-6,3; WHO 3-6; ESCOP 2-5; BHP 1-3

0,2-0,3

Echinacea spp

1-5,5

2-4

PDR 3-4,5; HM 1-3; WHO 3; BHP 3

0,05-0,2

Ephedra sinica

3-9

3-5

HM (1,2-2,3); WHO 1999 (1-6); BHP 3-12

0,025-0,15

0,1-0,3

Ginkgo biloba

3-6

PDR, HM, OMS, ESCOP (120-240 mg ES equivalente a ca. 4-16 grammi)

0,05-0,15

Glycyrrhiza spp.

3-12

0,5-4,5

15-30

HM 3-12; WHO 5-15; BHP 2-3

0,1-0,2

0,17-0,42

Hydrastis canadesis

1-10

2-4,5

HM e WHO 1,5-3; BHP 1,5-3

0,15-0,45

Panax ginseng

5-10 decotto 1-2 polvere

0,1-4,5

0,5-2

PDR 1-2; HM 0,5-1; WHO 0,5-2; BHP 3-6

0,3

Passiflora incarnata

2-11

1

HM 1,5-8 polvere, 7,5-10 grammi in infuso; BHP 0,8-3

0,2-0,7

0,2-0,4

Rheum palmatum

3-6

0,3-2

1-4

PDR 2,3-4,5; WHO 0,5-1,5

0,1-0,4

Serenoa serrulata

2,7-10,8

PDR 1-2; HM 1,5-3; WHO 1-2; BHP 1,5-3

0,05-0,1

Silybum marianum

10-12

PDR,  HM, WHO 12-15; BHP 10-12

0,2-0,6

0,15-0,4

Taraxacum officinale

9-30

8

1-5

HM 6-24; WHO 9-12; BHP 1-5

0,1-0,6

0,2-0,5

Valeriana officinalis

2,1-6

1-4

PDR 15; HM 3-9; WHO 2-15; BHP 1-4

0,2-0,3

Zingiber officinale

3-9

0,5-1,5

PDR 2-4; HM 0,75-3; WHO 1-4

0.15-0,35

Valutazione

Nonostante questa analisi sia non sistematica e problematica a causa della traduzione imperfetta tra varie forme farmaceutiche, credo salti subito all’occhio come i dosaggi proposti dai due testi della Campanini e di Brigo siano sempre di molto inferiori ai dosaggi proposti negli altri testi, di fatto da 10 a 20 volte inferiori ai dosaggi considerati terapeutici.

Anche tendendo in considerazione le differenze dovute alle forme farmaceutiche e alle diverse biodisponibilità, i valori rimangono molto al di sotto del range efficace.

Questo dato è ancora più sorprendente se si valuta il fatto che il testo della Campanini presenta una buona analisi dei dati relativi alle piante ed ai dosaggi efficaci. Ovvero, l’utilizzo di dosi di TM così inferiori al minimo efficace non può essere fatto risalire ad una mancata o deficitaria analisi dei dati. Oltretutto questa discrasia risulta ancora più inspiegabile se si comparano i dosaggi dati in termini di altre forme galeniche (estratto fluidi, estratti secchi, ecc.) che sono di norma in linea con le valutazioni della stessa autrice nelle sezioni di farmacologia, e con i dosaggi presenti negli altri testi da me analizzati.

Come accennavo precedentemente, è come se gli autori considerassero la TM una forma galenica estremamente potente, molto di più degli estratti secchi, ad esempio, senza però portare alcuna giustificazione per questa sorprendente posizione. Ritengo che questo non sia che una rimanenza di un approccio omeopatico alla fitoterapia. Nulla ho da dire rispetto alla teoria e alla prassi dell’omeopatia, al fatto che vi sia totale consistenza interna nell’utilizzo di questi dosaggi di TM in ambito omeopatico, ma certamente questi non dovrebbero avere spazio nella fitoterapia.

Conclusioni

Da quanto visto è chiaro che per raggiungere una dose terapeutica sono necessari dosaggi ben più elevati di quelli generalmente consigliati, e che questi dosaggi sono difficilmente raggiungibili con tinture madri a titolo 1:10, sia per ragioni pratiche (sarebbe necessario consumare dai 20 ai 100 ml di tintura al giorno) che per ragioni economiche, e quindi per ragioni di compliance del paziente.

Come da molti anni vado ripetendo, ritengo che le TM siano delle preparazioni del tutto inadeguate per la fitoterapia, non necessarie, costose, sempre a rischio di sottodosaggio, e quindi sempre a rischio di svalutare agli occhi del pubblico la reale efficacia e razionalità della fitoterapia.

La dose è tutto 2/3

Analizzato nel post precedente il problema delle TM vs. altri estratti idroalcolici, veniamo al secondo problema: le gocce.

Secondo problema: perché le gocce?

L’utilizzo delle gocce come unità di misura delle forme liquide potrebbe sembrare solo un dettaglio tecnico ma non è meno importante della forma galenica scelta. Nonostante questo metodo di misura possa teoricamente avere ancora una giustificazione quando si trattasse di dispensare estratti liquidi di piante estremamente potenti (Phytolacca, Atropa, Datura, Convallaria, ecc.), quando si tratti di piante in libera circolazione e non tossiche, esso è da considerarsi arcaico e poco razionale, per il semplice fatto che non da garanzia di uniformità.

Questo fatto dovrebbe essere evidente se consideriamo che non esiste un rapporto preciso che correli le gocce al volume del liquido, poiché questo rapporto dipende dal tenore alcolico, e quindi dalla sua viscosità.

In un esperimento eseguito da Bone nel 2005 sono state messi a confronto 4 diversi tipi di estratti liquido misurati con due tipi di contagocce, a foro ampio e a foro ridotto, per vedere il numero di gocce necessario per raggiungere 1 mL.

Il risultato è sorprendete se lo compariamo alla vulgata che vuole che per ogni mL ci vogliano 20-25 gocce. Si osserva un aumento del numero di gocce necessario per arrivare al mL all’aumentare del tasso etanolico.

  • Un glicerinato 1:1 di cardo mariano al 5% di etanolo vuole dalle 28 alle 33 gocce (a seconda del diametro del’orifizio) per fare 1 mL.
  • Un estratto 1:2 di arpagofito al 25% di etanolo ne vuole 39-44
  • Un estratto 1:2 al 45% di etanolo di peonia bianca da 45 a 50 gocce
  • Un estratto di semi di sedano 1:2 al 60% di etanolo da 50 a 60
  • Un estratto 1:5 al 90% di etanolo di mirra ne vuole da 50 a 65.

Come si può notare, anche facendo una valutazione conservativa di 40 gocce per mL in media, siamo quasi al doppio del dosaggio “standard”, ovvero rischiamo di dosare sempre la metà della quantità efficace, con evidenti riflessi sull’efficacia della terapia! Anche una pianta medicinale di sicura efficacia non può essere sfruttata a dovere se usata al di sotto del dosaggio efficace.

La dose è tutto 1/3

Una discussione di lavoro di qualche giorno fa mi ha riportato alla mente un argomento che ho sempre ritenuto centrale per la traduzione dei dati scientifici, storici ed antropologici sulle piante medicinali in prassi clinica: il dosaggio efficace.
Questo non è un argomento nuovo o sorprendente, è abbastanza chiaro a tutti che perché un farmaco abbia effetto sarà necessario assumerlo alle dosi efficaci (e non superare le dosi tossiche).

Anche in erboristeria/fitoterapia questo è un argomento ovvio: se ad esempio andiamo a vedere le quantità di pianta secca utilizzate nelle tisane vediamo che esse spesso corrispondono a grandi linee ai dati tradizionali ed ai dati moderni.
Anche forme galeniche più moderne come gli estratti secchi vengono abbastanza spesso offerte in quantità che corrispondono come ordine di grandezza ai dati scientifici.
Esiste però una strana area grigia dove i normali ragionamenti ed i metodi di trasformazione dei dosaggi da una forma galenica ad un’altra sembrano essere dimenticati: le tinture idroalcoliche, ed in particolare le TM, o Tinture Madri.

In effetti il problema con l’utilizzo degli estratti idroalcolici è triplice:

  1. la preferenza data alle TM piuttosto che altre forme di estrazione idroalcolica.
  2. l’utilizzo di una forma di misurazione del dosaggio (le gocce) intrinsecamente impreciso e che porta sistematicamente a sottodosaggi.
  3. l’utilizzo di posologie spesso sganciate dai dati scientifici e storico-antropologici.

I termini della quaestio
Vale la pena fare un passo indietro ed intenderci sul significato dei termini.
  Per estratti idroalcolici (o alcoliti) si intendono molti preparati diversi che si ottengono per l’azione, a freddo, dell’alcol etilico di varia gradazione su materiale vegetale fresco o secco.
Tra gli alcoliti troviamo le tinture idroalcoliche classiche (ad esempio le tinture officinali da Farmacopea Ufficiale o FU), ovvero quei preparati che si ottengono (per macerazione e per percolazione) con l’azione solvente di una miscela di alcol etilico ed acqua (a volte con aggiunta di piccole quantità di altri cosolventi) su droghe vegetali essiccate.

Di norma, e ragionando spannometricamente, la tinturazione da secco viene eseguita con un rapporto di 1 a 5 tra materiale vegetale secco (grammi) e solvente (millilitri), con il solvente idroalcolico che varia tra 50% e 85% di alcol.
Nulla però impedisce di effettuare estrazioni con rapporti diversi, ad esempio per ottenere concentrazioni più elevate (senza l’uso di calore): si possono in alcuni casi con il metodo della percolazione ottenere estratti con rapporto 1:3, e eccezionalmente, con sistemi di percolatori posti in serie ed alcuni artifizi tecnologici, 1:2.

Gli alcolaturi (o alcolituri) sono degli alcoliti ottenuti facendo agire l’alcol sulle piante fresche (macerazione) o sul loro succo (espressione).

Le TM sono un caso particolare di alcolaturi, ovvero degli alcolaturi per i quali i rapporti ponderali (1 parte di pianta in peso secco per 10 parti di prodotto finale) e i tempi di estrazione sono definiti in maniera stringente dalle farmacopee tedesca (succo da spremitura della pianta fresca stabilizzato con etanolo in quantità tale da arrivare ad un rapporto tra pianta calcolata al secco e prodotto finale pari a 1:10) e francese (estrazione di pianta fresca con un solvente etanolico a gradazione adeguata in quantità tale da raggiungere un rapporto tra pianta calcolata al secco e prodotto finale pari a 1:10).

Primo problema: perché le TM?

Modificare il rapporto tra pianta e solvente (o più precisamente tra pianta e prodotto finale) significa modificare la quantità di estratto che deve essere assunto per assumere una quantità data di fitocomplesso.
Ipotizziamo che la dose efficace di pianta secca, desunto dai dati tradizionali e scientifici, sia di 1 grammo:

  • se io assumo 1 mL di un estratto 1:5, sto assumendo intorno a 0,2 grammi di pianta secca, quindi dovrò assumere 5 mL di estratto al giorno;
  • se assumo 1 mL di estratto 1:2 sto assumendo 0,5 grammi di pianta secca, quindi dovrò assumere 2 mL di estratto al giorno;
  • se assumo 1 mL di un estratto 1:10 (ad esempio una TM), sto assumendo intorno a 0,1 grammi di pianta secca, quindi dovrò assumere 10 mL di estratto al giorno!

E’ chiaro che, a parità di pianta e di qualità dell’estratto, è preferibile assumere 2 mL di estratto al giorno piuttosto che 10 mL, sia in termini economici sia in termini di salute. Da questo punto di vista è abbastanza ovvio che le TM sono una forma estrattiva poco efficiente, più costosa e quindi meno indicata, in presenza di alternative più concentrate (parliamo sempre di estrazioni idroalcoliche a freddo).

Uno degli argomenti più utilizzati da coloro che preferiscono l’uso delle TM è che esse siano di maggior qualità rispetto alle altre. Questa maggior qualità risiederebbe nel fatto che l’estrazione viene effettuata su pianta fresca, non sottoposta a processi di essicazione che possono ridurne la qualità, e sull’ipotesi che l’utilizzo dell’acqua proveniente dalla matrice vegetale piuttosto che aggiunta dall’esterno avvicini di più la tintura al vero fitocomplesso; qualche autore ha anche proposto che le tinture da pianta fresca siano maggiormente biodisponibili.

E’ sicuramente vero che l’essiccazione è un processo di trasformazione che, se effettuato senza adeguate cautele, può risultare nell’abbassamento, anche rilevante, della qualità del materiale vegetale, soprattutto quando si tratti di materiale aromatico. D’altro canto non sempre l’essiccazione (eseguita con le dovute cautele) è controindicata, è vero anzi che alcune piante devono essere essiccate. Molte piante ad alcaloidi hanno un comportamento più prevedibile e meno pericoloso se sono state essiccate e le piante ad antrachinoni devono essere essiccate e conservate per almeno un anno prima della trasformazione).

Mancano invece dati tratti che mostrino una maggior concentrazione di composti attivi nelle tinture da pianta fresca rispetto a quelle da pianta secca. Oltretutto, le tinture da pianta fresca vengono solitamente preparate in ambienti a minor tasso etanolico, il che significa che composti più lipofilici rischiano di non venire estratti o di venire estratti in minor misura. Inoltre, se il tasso alcolico è basso, potrebbe essere inefficace nell’inibire l’attività enzimatica, rischiando una decomposizione dei composti chiave.

Per comprendere meglio il problema della tinturazione da fresco facciamo un esempio: una tintura da pianta fresca con rapporto peso secco/solvente pari a 1:5.

  • 100 gr. di pianta fresca contenente 80% di acqua vengono macerati in 20 ml di alcol etilico
  • Il peso secco della pianta è di 20 gr
  • Il volume del liquido è di 80 ml (acqua della pianta) + 20 ml (etanolo aggiunto) = 100 ml
  • Il risultato è equivalente ad una tintura 1:5 da pianta secca (20 gr pianta secca:100 ml liquido)

Ma il risultato rischia di essere di cattiva qualità perché la concentrazione d’etanolo finale è molto bassa (25%), insufficiente ad estrarre composti lipofilici e al limite dell’inattivazione enzimatica e della conservabilità.
Se vogliamo che la percentuale alcolica sia ragionevole, dobbiamo accontentarci di tinture dell’ordine del 1:8-1:10, estremamente diluite e quindi poco adatte alla terapia (a parte droghe eroiche o tossiche).

La maggior biodisponibilità viene quindi spesso obliterata dall’elevata diluizione di queste preparazioni, obbligando il paziente a bere quantità rilevanti di tintura, cosa che solitamente incide pesantemente sulla compliance del paziente stesso.

Concludendo, non emergono in letteratura dati che indichino una generalizzata e significativa maggior qualità delle tinture da pianta fresca rispetto alle tinture da pianta secca (a parità di qualità del materiale vegetale e del processo di trasformazione).

Anche di fronte ad un teorico piccolo margine di qualità maggiore per le TM, esso a mio parere è del tutto obliterato dai punti negativi: usare TM significa aumentare in maniera non necessaria il costo del trattamento fitoterapico, assumere maggiori quantità di etanolo e rendere meno comoda la terapia.

Macrobiotica? No, microbioma…

Un bel post di Not Exactly Rocket Science sul ruolo della flora batterica intestinale (microbioma) nella digestione e nella salute umana, che analizza e condensa gli studi degli ultimi anni (qui, qui e qui tre lavori recenti) che hanno analizzato non solo come il microbioma possa agire sul cibo che ingeriamo, con conseguenze sulla salute, ma anche su come ciò che ingeriamo modifichi il microbioma, di nuovo con importanti riflessi sulla salute. L’applicazione di una ottica evoluzionista favorisce uno sguardo laterale al problema, lega il problema della sterilizzazione dell’ambiente in cui viviamo, della modificazione della dieta, dell’allattamento materno, con fenomeni di modificazione radicale o impoverimento della diversità genica del microbioma, che a sua volta potrebbe influenzare l’incidenza di vari stati patologici, come le allergie, i disturbi infiammatori intestinali, ecc.

Sudomagodo…

… di ottima salute.

Verrà pubblicato nell’edizione di agosto di Cell Metabolism uno studio su modelli animali, quindi preliminare, ma che si aggiunge a dati aneddotici e tradizionali sul ruolo che il peperoncino può avere nella riduzione della ipertensione arteriosa. Particolarmente interessante è il ruolo giocato dal recettore vanilloide vascolare nel rilascio di NO, il meccanismo proposto dagli autori per l’attività ipotensiva. Sia i recettori vanilloidi sia l’ossido nitrico sono stati studiati molto negli ultimi anni e sembrano giocare ruoli molto importanti (in particolare NO) in moltissimi scenari. Un altro piccolo tassello che lega i principi pungenti ad attività farmacologiche.

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For those with high blood pressure, chili peppers might be just what the doctor ordered, according to a study reported in the August issue of Cell Metabolism, a Cell Press publication. While the active ingredient that gives the peppers their heat—a compound known as capsaicin—might set your mouth on fire, it also leads blood vessels to relax, the research in hypertensive rats shows.

“We found that long-term dietary consumption of capsaicin, one of the most abundant components in chili peppers, could reduce blood pressure in genetically hypertensive rats,” said Zhiming Zhu of Third Military Medical University in Chongqing, China.

Those effects depend on the chronic activation of something called the transient receptor potential vanilloid 1 (TRPV1) channel found in the lining of blood vessels. Activation of the channel leads to an increase in production of nitric oxide, a gaseous molecule known to protect blood vessels against inflammation and dysfunction, Zhu explained.

The study isn’t the first to look for a molecular link between capsaicin and lower blood pressure. However, earlier studies were based on acute or short-term exposure to the chemical, with some conflicting results. Zhu says their study is the first to examine the effects of long-term treatment with capsaicin in rats with high blood pressure.

The findings in rats should be confirmed in humans through epidemiological analysis, the researchers said. In fact, there were already some clues: the prevalence of hypertension is over 20% in Northeastern China compared to 10-14% in Southwestern China, including Sichuan, Guozhuo, Yunnan, Hunan, and Chongqing, where Zhu is from.

“People in these regions like to eat hot and spicy foods with a lot of chili peppers,” Zhu says. “For example, a very famous local food in my hometown, Chongqing, is the spicy hot pot.”

It isn’t yet clear just how many capsaicin-containing chili peppers a day you’d have to eat to “keep the doctor away,” although that’s a question that should now be examined in greater detail, Zhu says.

For those who can’t tolerate spicy foods, there might still be hope. Zhu notes the existence of a mild Japanese pepper, which contains a compound called capsinoid that is closely related to capsaicin.

“Limited studies show that these capsinoids produce effects similar to capsaicin,” Zhu says. “I believe that some people can adopt this sweet pepper.”

Ancora sul resveratrolo

Molto di moda in questi anni, il resveratrolo è oggetto di vari studi che si concentrano sugli effetti antiageing, antiossidanti, antinfiammatori e promotori della longevità. Abbiamo avuto modo di parlarne in altri post legati alle sirtuine (qui e qui), ma oggi evidenzio uno studio (presto pubblicato su Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism) che pur non presentando novità teoriche mette un mattoncino importante nella traduzione dei dati sperimentali in applicazioni cliniche. Come spesso succede con gli estratti vegetali, molto di ciò che sappiamo sul resveratrolo deriva da studi su animali. Lo studio seguente suggerisce che il resveratrolo sia efficace nel ridurre lo stress ossidativo ed infiammatorio anche negli esseri umani sopprimendo la formazione di ROS e di TNF.

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Resveratrol, a popular plant extract shown to prolong life in yeast and lower animals due to its anti-inflammatory and antioxidant properties, appears also to suppress inflammation in humans, based on results from the first prospective human trial of the extract conducted by University at Buffalo endocrinologists.

Results of the study appear as a rapid electronic publication on the Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism website and will be published in an upcoming print issue of the journal.

The paper also has been selected for inclusion in Translational Research in Endocrinology & Metabolism, a new online anthology that highlights the latest clinical applications of cutting-edge research from the journals of the Endocrine Society.

Resveratrol is a compound produced naturally by several plants when under attack by pathogens such as bacteria or fungi, and is found in the skin of red grapes and red wine. It also is produced by chemical synthesis derived primarily from Japanese knotweed and is sold as a nutritional supplement.

Husam Ghanim, PhD, UB research assistant professor of medicine and first author on the study, notes that resveratrol has been shown to prolong life and to reduce the rate of aging in yeast, roundworms and fruit flies, actions thought to be affected by increased expression of a particular gene associated with longevity.

The compound also is thought to play a role in insulin resistance as well, a condition related to oxidative stress, which has a significant detrimental effect on overall health.

“Since there are no data demonstrating the effect of resveratrol on oxidative and inflammatory stress in humans,” says Paresh Dandona, MD, PhD, UB distinguished professor of medicine and senior author on the study, “we decided to determine if the compound reduces the level of oxidative and inflammatory stress in humans.

“Several of the key mediators of insulin resistance also are pro-inflammatory, so we investigated the effect of resveratrol on their expression as well.”

The study was conducted at Kaleida Health’s Diabetes-Endocrinology Center of Western New York, which Dandona directs.

A nutritional supplement containing 40 milligrams of resveratrol was used as the active product. Twenty participants were randomized into two groups of 10: one group received the supplement, while the other group received an identical pill containing no active ingredient. Participants took the pill once a day for six weeks. Fasting blood samples were collected as the start of the trial and at weeks one, three and six.

Results showed that resveratrol suppressed the generation of free radicals, or reactive oxygen species, unstable molecules known to cause oxidative stress and release proinflammatory factors into the blood stream, resulting in damage to the blood vessel lining.

Blood samples from persons taking resveratrol also showed suppression of the inflammatory protein tumor necrosis factor (TNF) and other similar compounds that increase inflammation in blood vessels and interfere with insulin action, causing insulin resistance and the risk of developing diabetes.

These inflammatory factors, in the long term, have an impact on the development of type 2 diabetes, aging, heart disease and stroke, noted Dandona.

Blood samples from the participants who received the placebo showed no change in these pro-inflammatory markers.

While these results are promising, Dandona added a caveat: The study didn’t eliminate the possibility that something in the extract other than resveratrol was responsible for the anti-inflammatory effects.

“The product we used has only 20 percent resveratrol, so it is possible that something else in the preparation is responsible for the positive effects. These agents could be even more potent than resveratrol. Purer preparations now are available and we intend to test those.”