Fitoalimurgia Chepang 2/2

Eccoci qui, quindi, alla seconda puntata.

Come argutamente notava Meristemi, non è che proprio che non abbia fatto capire la mia posizione relativamente al valore delle piante selvatiche .

Allora, nella seconda puntata mi sbilancio per dire che: si, credo che le piante appartenenti al continuum tra selvatico e non-ancora-coltivato-ma-quasi rappresentino un potenziale bacino sia di fattori nutrizionali sia di fattori non-nutrizionali ma funzionali che può fare la differenza per la sicurezza alimentare e per il mantenimento della salute.

Certamente queste piante sono un potenziale critico proprio in quelle situazioni di potenziale deficit nutrizionale che si presentano in molti paesi del sud del mondo, ma in maniera meno evidente possono giocare un ruolo simile anche nei nostri paesi di relativa opulenza alimentare [1].

Dato che il mio obiettivo al momento è molto limitato (vorrei parlare di quello che ho visto durante un viaggio) mi limito a fare alcune considerazioni ed a citare alcuni autori, certo che proprio in questo momento Meristemi sta cucinando qualcosa di succoso. Me la cavo quindi citando due volumi recenti che raccolgono molti dei dati più interessanti a questo riguardo: il volume edito da Pieroni e Price [2] ed il testo della recentemente scomparsa Nina Etkin. [3]

Proprio da quest’ultimo ricavo una citazione. Louis Grivetti [4] ricordando la sua prima esperienza sul campo, riporta che:

“(p)er più di cento anni i baTlokwa del deserto del Kalahari orientale, nel Botswana, non hanno sofferto di carestie o di ripercussioni a livello sociale a causa della siccità. Tale successo alimentare in quest’area è dovuto all’equilibrio tra offerta ambientale e decisioni culturali. Il Kalahari orientale offriva una elevata diversità di piante selvatiche eduli, ed i baTlokwa utilizzavano regolarmente tali risorse. Il messaggio più importante che emerse dopo due anni di lavoro sul campo fu che la siccità non aveva causato carestie, e che una spiegazione per il disastro del Sahel [ovvero la tremenda carestia che colpì la regione del Sahel a seguito di una lunga siccità, proprio negli anni della ricerca nel Kalahari. NdT] era l’incapacità culturale a riconoscere ed utilizzare le risorse alimentari selvatiche disponibili — cibi che in precedenza erano stati utilizzati come sostentamento durante le siccità.“

L’autore continua rimarcando il pericolo insito nella perdita di conoscenze riguardo alle piante selvatiche, perdita che si può tradurre in ridotte possibilità di sopravvivenza durante il periodo di crisi, perdita che in parte è secondaria ad un processo di trasformazione dell’agricoltura e della società più in generale, che porta al rifiuto delle pratiche tradizionali viste come primitive.

D’altro canto l’argomento è complesso, e sarebbe improvvido pensare ad un automatismo che leghi l’avanzare dell’agricoltura con la perdita in saperi o risorse. Come avverte nello stesso volume Lisa Leimar Price [5], l’allontanarsi dalla dipendenza totale dalla foresta come fonte di cibo comporta un aumento nella quantità di piante raccolte da ambienti agricoli, da ambienti disturbati dall’attività umana, dai campi, dai bordi, dai sentieri, ecc. Questo passaggio sembra portare con sè un aumento, e non una diminuzione, della diversità di piante consumate.

E spesso questa maggior diversità di piante utilizzate dipende fortemente alle donne, per il ruolo da esse svolto nelle società tradizionali, come coloro che si occupano della casa e del giardino, e quindi che sono in diretto contatto con tutte le aree transizionali tra foresta e coltivazioni. Una riduzione dei saperi sulle piante selvatiche, avverte la Price, può invece dipendere dallo stigma sociale ad esse associato, e fortemente legato al tema della povertà. [6]

Ecco allora che emergono alcuni temi che mi sono stati utili nel ripensare al mio viaggio:

  • l’importanza di riconoscere la parziale artificiosità della divisione cibo/medicina, fondamentale per valutare gli effetti sulla salute globale della popolazione dell’utilizzo delle piante selvatiche
  • evitare rigidità di pensiero rispetto alla supposta dicotomia tradizione/modernità, selvatico/agricolo
  • evitare l’associazione tra consumo di piante selvatiche ed idee di povertà, arretratezza, primitività, un tema come si vedrà centrale nel caso di studio del Nepal.

I problemi

Nel 2004 e poi nel 2009 sono stato a visitare i villaggi Chepang nella valle del Kandrang, nel VDC di Shaktikor, del Distretto del Chitwan.

La zona è caratterizzata da foresta mista dominata da Mallotus philippensis (Lamm.) Muell. Arg. (Euphorbiaceae), Schima wallichii (DC) Korth. (Theaceae), Shorea robusta Roxb. Ex Gaertner f. (Dipterocarpaceae), Bombax ceiba L. (Bombaceae), Betula alnoides Buch.-Ham. ex D.Don. (Betulaceae), e naturalmente Diploknema butyracea.

Nel 1993 un quinto delle terre di proprietà nella valle era ancora gestita a Khorya (debbio). A parte il terreno a Khorya, le comunità possiedono anche particelle minori di terra, detta bari, relativamente più fertile e produttiva del Khorya, e una parte di terreno intorno alla casa gestito come orto familiare.

Fino a 25 anni fa il periodo di maggese (Lhotse) era di 10-15 anni, e il Khorya forniva una parte minoritaria del sostentamento alimentare, ancora prevalentemente dipendente dalla foresta. Con l’aumentare della densità della popolazione il periodo di coltivazione venne allungato e quello di Lhotse accorciato fino a 1-6 anni, cosa cosa che rese il sistema sempre meno sostenibile, portò a raccolti sempre più poveri a causa della riduzione della fertilità del suolo e dei fenomeni erosivi.

A questo si sommava la riduzione della biodiversità forestale. A tutti gli effetti l’equilibrio tra raccolta di piante selvatiche nella foresta e cibo coltivato a Khorya era stato invertito, sempre più cibo proveniva dall’agricoltura e sempre meno dalla foresta, che però perdeva comunque in diversità a causa del ridotto Lhotse.

Dal punto di vista dei Chepang il sistema Khorya è una necessità, quindi insostituibile per il supporto della popolazione nel breve termine; dal punto di vista ambientale, il sistema, come è strutturato oggi, è una tragedia a lungo termine, che mette a rischio la stabilità e la fertilità del suolo, e la vera e propria esistenza della foresta, in cambio di un misero raccolto.

Il sapere tradizionale

La maggior parte dei nuclei familiari della zona (ca. Il 90%) usa le risorse forestali o non coltivate a scopo medicinale, per ricavarne dei soldi al mercato, o per sopperire ad una vera e propria mancanza di cibo (il 75% dei nuclei familiari).

Tutte le case stoccano al primo piano, oltre ai cereali coltivati, piante selvatiche, in particolare Githa (Dioscorea bulbifera L. — Dioscoreaceae) e Bhyakur (Dioscorea deltoidea Wall. ex Griseb.) e in minor misura dei germogli di bambù (Bambusa nepalensis Stapleton — Poaceae).

Quasi tutti gestiscono in qualche modo le piante selvatiche, sia attraverso una protezione in situ, sia attraverso processi preagricoli di domesticazione.

Secondo una ricerca recente relativa proprio a quest’area in generale le donne sono leggermente più competenti degli uomini rispetto alle piante selvatiche, ma la differenza non è significativa, e certamente minore rispetto a quello che mi sarei potuto aspettare sulla scorta degli studi citati precedentemente.

E’ possibile che le ridotte competenze agricole dei Chepang possano in parte spiegare questa uniformità tra uomini e donne. Non avendo sviluppato molto la coltivazione degli orti familiari, forse è venuta a mancare alle donne Chepang la possibilità di aumentare le loro competenze sulle piante degli ambienti di transizione [7].

Lo studio nota anche delle differenze genere-specifiche: gli uomini sono più competenti delle donne nel campo delle piante medicinali, probabilmente un riflesso del fatto che tradizionalmente gli sciamani Chepang (Pande) sono tutti uomini; anche la composizione etnica della popolazione si riflette sulla conoscenza delle piante: in aree abitate da soli Chepang il sapere sulle piante è maggiore che nelle aree a popolazione mista (Chepang e immigrati da altre aree), probabilmente (secondo gli autori) perché l’influenza dei non-Chepang  svalutata agli occhi dei Chepang le risorse raccolte dal selvatico, associandole ad idee di arretratezza culturale, primitività, ecc. che, come abbiamo visto, sono state (ed in parte sono ancora) associate alla comunità Chepang.

E’ anche possibile che questi contatti abbiano indirettamente ridotto le attività comunitarie, fondamentali per la trasmissione, verticale ed orizzontale, dei saperi tradizionali.

Questo trend è ravvisabile anche tra le differenti classi di età: gli individui sotto i 30 anni sono meno competenti dei più anziani, probabilmente per una riduzione del trasferimento di sapere in famiglie sempre meno multigenerazionali. [8]

Oltre al declino del sapere relativo alle piante selvatiche, la popolazione denuncia un declino nel numero e nella varietà delle piante stesse. Gli anziani tra i Chepang attribuiscono il declino a molti fattori: la deforestazione, il modificarsi del sistema di Khorya, la pressione demografica ed immigratoria, il cambiamento nei costumi alimentari (diretto verso cibi più cosmopoliti, o meno caratterizzati come Chepang), l’aumento delle monoculture, la mancanza di strategie di conservazione e di sostenibilità.

Le strategie

Vi è qui un nodo centrale: alcune pratiche tradizionali (Khorya e raccolta spontanea) sono inserite in un nuovo contesto demografico, sociale e culturale, e questo (mal)adattamento ha delle conseguenze sul germoplasma e sulla sostenibilità di tali pratiche; perché se è vero che le  piante selvatiche e non coltivate sono una risorsa culturale, alimentare e medicinale fondamentale, è necessario riconoscere che un sistema di sfruttamento tradizionale può risultare fortemente inadeguato alle nuove richieste ambientali, ed entrare in crisi.

Per fare solo alcuni esempi, al momento nell’area è del tutto impossibile anche solo pensare ad un periodo di maggese di 10-15 anni: la pressione demografica (interna ma anche esterna, se negli ultimi 45 anni l’immigrazione è aumentata molto mettendo in crisi anche I modelli culturali locali) [9] è troppo forte, ed aumenterà ancora nel futuro; le risorse forestali non possono stare al passo con questa pressione, e la riconversione del Khorya in terrazzamenti è possibile solo in minima parte a causa della natura estremamente ripida dei terreni.

Ciò che manca è una strategia per gestire questa crisi senza sacrificare i saperi tradizionali.

Considerate le condizioni del territorio in cui abitano i Chepang, le loro grandi competenze rispetto agli NTFP, la grande valenza culturale della raccolta nel selvatico e la possibilità che le specie non coltivate apportino un contributo importante alla dieta, non completamente riducibile ad apporto calorico o di macronutrienti, è razionale pensare ad un possibile spazio aperto per l’etnobotanica applicata, perché essa raccolga il sapere che sta scomparendo sulle proprietà nutrizionali e medicinali delle piante selvatiche, perché lo integri ai progetti di ricerca e sviluppo per offrire strategie percorribili ed accettabili dalle comunità locali (vedi rispetto a questo il lavoro svolto negli anni dall’International Centre for Underutilized Crops e dalla Global Facilitation Unit for Underutilized Species, recentemente accorpatesi per formare Crops for the Future)

Circa 15 anni fa gli stessi Chepang misero sul piatto diverse proposte per superare il problema della Khorya:

  1. Favorire la conoscenza di orti familiari, dove coltivare piante, ortaggi ed alberi da frutto e da foraggio: permettono raccolti maggiori e un maggior ritorno economico. Alberi “poliedrici” come il Chiuri sono particolarmente promettenti.
  2. Negli orti familiari potrebbero essere coltivati, lungo I limitari, specie ad elevato valore aggiunto come I bambù, le piante da saggina, utili per l’artigianato, in particolare per I manufatti intrecciati, attività nella quale I Chepang primeggiano.
  3. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda le piante medicinali
  4. Altrettanto importante sarebbe imparare nuove e migliori forme di gestione della foresta, per migliorare e rendere più efficiente la raccolta di piante selvatiche, e per ridurre il rischio di impoverimento del terreno.

Grazie allo sforzo di varie organizzazioni locali gli orti famigliari sono aumentati e sono di miglior qualità, ma rimangono ancora insufficienti per il sostentamento. Le piante più utilizzate sono:

Ma veniamo allora ai kandamools, ovvero alle piante selvatiche utilizzate. Non volendo allungare oltremodo il già lungo post, non elenco tutte le specie utilizzate (qui e qui potete trovare articoli che descrivono in dettaglio le specie più importanti) ma citerò solo quelle che ho visto nei viaggi, o delle quali ho parlato direttamente con un abitante della valle. Quello che presento non è che un suggerimento per ulteriori approfondimenti.

Le piante selvatiche (kandamools)

From Chepang Khilendra 2009
From Viaggio tra i Chepang di Musbang

1. Yoshi/Chiuri. Diploknema butyracea (Roxb.) H.J. Lam — Sapotaceae

Ban Yoshi: Chiuri selvatico; Rang Yoshi: Chiuri coltivato

Probabilmente la pianta più importante per I Chepang. E’ una pianta fondamentale per l’identità del gruppo: definisce la cultura Chepang, fornisce una fonte fondamentale di materiale per l’alimentazione, la cultura materiale, il sostentamento economico. Praticamente ogni parte della pianta viene sfruttata. I Chepang si tramandano una tassonomia popolare molto dettagliata sulla pianta, sulle sue varietà, sulla germinazione dei semi, sulle cure dell’albero, sulla raccolta dei frutti, del nettare, sull’estrazione del burro dei semi, ecc., e utilizzano più di 30 nomi per la pianta a seconda del periodo di fioritura; del colore dei frutti, delle foglie, sella corteccia, dei rami e dei semi; della forma del tronco; delle dimensioni, odore e sapore del frutto; della produttività.

Una racconto mitologico sull’origine dell’albero sottolinea la centralità della pianta:

“Molto tempo fa, di notte, una bufala scappò dalla stalla dove stava riposando, ed andò in un campo di miglio per mangiare fino a che non fu completamente sazia. Ma quando decise di tornare alle stalle, perse la via del ritorno a causa dell’oscurità, e cadde in un pericoloso burrone e lì rimase, incastrata a metà. Nessuno riuscì ad aiutarla a risalire, e ella morì lì. Si narra che nel medesimo luogo, fertilizzato dalla carcassa della bufala, nacque il primo albero di Chiuri”

Narra sempre il mito che è possibile leggere nel Chiuri questa lontana origine: I suoi frutti danno un succo lattiginoso (il latte della bufala) e il burro estratto dai semi è il burro di bufala. I piccoli grani neri nella polpa del frutto sono i grani di miglio che la bufala si era mangiata. Inoltre I Chepang usano ancora una frase tipica: il Chiuri è per noi come una bufala.

Usi

  • Semi: medicinali
  • Burro dei semi: cibo, olio da lampade, medicinale
  • Cake dei semi: agricoltura (come pesticida ed insetticida), pesca, foraggio (dopo la lisciviazione)
  • Frutti: cibo, medicina, Raksi
  • Fiori: nettare, apicoltura, medicina, bevande fermentate
  • Foglie: foraggio, piatti, cartine per tabacco
  • Corteccia: medicina, combustibile, pesca
  • Legno: costruzione, cultura materiale, combustibile
  • Latice: gomma da masticare, trappole per insetti ed uccelli

In particolare il burro ricavato dai semi viene utilizzato per cucinare, internamente per costipazione cronica e febbri. A livello topico per pelle infiammata, reumatismi, tenia pedis. Il burro viene usato nelle lampade dei templi perché non emette cattivi odori e brucia con fiamma luminosa, bianca e senza fumo.

Potenzialmente il burro potrebbe essere usato non solo per cucinare ma come margarina, come fonte di acido palmitico per l’industria farmaceutica, per fare delle candele, come sostituto dell’olio di cocco per fare saponi, pr fare unguenti e creme e come balsamo per i capelli mescolato a degli attar.

2. Ghitta (Dioscorea bulbifera L.), Bhyakur (D. deltoidea Wall. ex Griseb), Chunya (D. pentaphylla L.) e Bharlang (Dioscorea spp.) — Dioscoreaceae

Come in molte aree del mondo le Dioscoree rappresentano una risorsa insostituibile per il sostentamento alimentare. E come in molti casi le Dioscoree selvatiche non sono immediatamente fruibili, a causa della presenza di alcuni composti tossici. In particolare le specie utilizzate in Nepal sono caratterizzate da un contenuto in proteine e fibre più elevato delle varietà coltivate, e non sono particolarmente tossiche. Non contengono alcaloidi e quantità relativamente basse di nor-diterpeni furanoidi come la diosbulbina A ed in particolare la diosbulbina B, più composti cianogeni ben entro i limiti di sicurezza. I rari casi di infiammazione e tossicità riportati in letteratura sono più probabilmente dovuti alla presenza di cristalli di ossalato.

Per quanto poco tossiche, queste specie vengono comunque trattate in maniera complessa per eliminare la parte amara: dopo aver pelato i tuberi, questi vengono fatti a fette (eliminazione di metaboliti presenti nella corteccia) e messi a bollire con acqua e cenere (tecnica della cottura ed adsorbimento) per tre volte cambiando ogni volta l’acqua di bollitura (eliminazione dell’acqua e cenere saturate); il materiale così trattato viene poi posto per un giorno a bagno nell’acqua corrente di un torrente (lisciviazione), per poi essere trasformato in farina alimentare.

Le Dioscoree non sono importanti sono a livello alimentare: nel distretto del Gorkha vengono consumate come piante sacre durante il festival Hindu del Maghe Sankranti: il primo giorno del festival i tuberi vengono bolliti, poi fritti, e mangiati.

In altre regioni vengono anche usate come rimedi antelmintici.

3. Sisnu/Nelau (Urtica dioica L.) — Urticaceae

Certamente uno dei cibi selvatici più comuni ed utilizzati dalla gente delle colline. I germogli giovanili e le foglie primaverili vengono raccolte e cotte insieme ai germogli di bambù, usate nelle zuppe o mescolate alla polenta di mais, grano o Eleusine coracana (con aggiunta di sale e peperoncino).

La radice viene utilizzata come rimedio per tosse e raffreddore, miscelata insieme a Woodfordia fruticosa e Castanopsis indica (Roxburgh ex Lindley) A. de Candolle.

4. Rimsi & Gotsai

Rimsi/Koiralo (Bauhinia variegata L.) Fabaceae

Le giovani foglie, i fiori ed i frutti vengono fatti bollire e consumati come direttamente o conservati in salamoia e usati come achar.

Sono importanti piante medicinali: corteccia e fiori si usano per linfadenia, elmintiasi ed amebiasi, disturbi gastrici, e localmente in polvere per tagli e ferite (probabilmente grazie alla presenza importante di tannini).

5. Gotsai sag/Tanki (Bauhinia purpurea L.) — Fabaceae

I germogli floreali, le cime giovani ed i frutti acerbi vengono cotti e consumati direttamente o come achar, i semi vengono fritti e mangiati come snack, mentre le foglie adulte vengono usate come foraggio. La corteccia ricca in tannini viene usata come astringente in caso di diarrea e dissenteria, e come agente colorante.

From Dolakha 2009

6. Gaidung (Asparagus racemosus Willd.) — Asparagaceae/Liliaceae

I germogli giovanili e le foglie tenere si consumano come verdura cotta o come achar. Viene usato come rimedio insetticida e come tonico. Nel Dhading la frutta viene consumata per trattare problemi della pelle come foruncoli.

In Nepal le radici vengono arrostite sul fuoco e lasciate all’aperto per tutta la notte, quindi vengono polverizzate, mescolate con acqua e usate in caso di minzione dolorosa o urente.

In Ayurveda la radice viene considerata un rimedio Rasayana molto importante, usato in moltissime condizioni patologiche.

Nella valle del Khandrang alcuni nuclei abitativi hanno iniziato la domesticazione della pianta, in parte a causa dell’ottimo potenziale di mercato delle radici, in parte a causa del rischio di perdita di germoplasma nel selvatico (è una specie in pericolo).

7. Tama bans (Dendrocalamus hamiltonii Nees & Arnott ex Munro o Bambusa nepalensis Stapleton) — Poaceae

I germogli vengono fatti bollire o preparati per la conservazione come achar per il consumo personale; nella stagione secca (da febbraio ad aprile) vengono conservati come germogli fermentati (tama), un prodotto moto venduto nei mercati locali ed importante per il sostegno economico delle famiglie.

Il bambù adulto si usa come fonte di fibre per intrecciare cesti, stuoie e recinzioni.

8. Tore Nyuro (Thelypteris ciliata (Wallis ex Bentham) Ching e spp.) — Thelypteridaceae.

Le fronde tenere si consumano lesse o conservate come achar.

Il succo del rizoma si usa in caso di febbre, disturbi gastrici, diarrea ed indigestione.

9. Danthe Nyuro (Dryopteris cochleata (D. Don) C. Christensen) — Dryopteridaceae

Una delle felci più importanti nel distretto del Gorkha. Fronde e germogli giovanili si consumano lessi in famiglia (una volta fatti bollire si mantengono fino a 15 giorni) e vendute nei mercati locali.

Il succo delle radici si usa in caso di dissenteria e diarrea.

Sta diventando rara nel selvatico a causa dell’eccessiva raccolta (è una pianta considerata in pericolo)

10. Pani Nyuro & Chyan (Diplazium esculentum (Retzius) Swartz ex Sch. & Diplazium polypodioides Blume) — Woodsiaceae/ Dryopteridaceae

Le fronde tenere di Pani Nyuro vengono consumate lesse.

Il succo dei rizomi si usa in caso di febbri malariche, e una pasta ottenuta battendo le fronde si usa sulla pelle in caso di foruncoli o scabbia. Il succo della radice del Chyan Nyuro si applica su ferite ed abrasioni.

11. Thotne/Chaunle (Aconogonon molle (D. Don) H. Hara) – sin: Persicaria mollis; Polygonum molle) — Polygonaceae

I germogli giovanili consumati come verdura fresca o bollita, o come achar, particolarmente ricercato per il suo sapore acre.

Le foglie si usano in caso diarrea nel distretto del Manang.

Anche questa è una specie in pericolo, a causa della raccolta non sostenibile e della perdita di terreno forestale.

12. Porali/Ghiraula (Luffa cylindrica (L.) Roemer) Cucurbitaceae

Pianta già introdotta negli orti familiari. Il frutto tenero si consuma come verdura, mentre da secco viene venduto sul mercato come spugna vegetale.

I Tharu mescolano I semi macerati in acqua insieme ai semi di Zizyphus mauritiana Lam. e al succo della radice di Callicarpa macrophylla Vahl., quindi filtrano il tutto ed usano il liquido in caso di varicella, quando l’eruzione cutanea non “esce”.

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[1] The Local Food-Nutraceuticals Consortium (2005) “Understanding local Mediterranean diets: A multidisciplinary pharmacological and ethnobotanical approach” Local Food-Nutraceuticals Consortium Pharmacological Research 52 (2005) 353–366; Estruch R,et al. (2006) “PREDIMED Study Investigators Effects of a Mediterranean-style diet on cardiovascular risk factors: a randomized trial”. Ann Intern Med. 4;145(1):1-11; Salas-Salvadó J, et al. (2008) “Effect of a Mediterranean diet supplemented with nuts on metabolic syndromestatus: one-year results of the PREDIMED randomized trial” Arch Intern Med. 8;168(22):2449-58; Shai I, et al.  (2008) “Dietary Intervention Randomized Controlled Trial (DIRECT) Group. Weight loss with a low-carbohydrate, Mediterranean, or low-fat diet”. N Engl J Med. 17;359(3):229-41

[2] Pieroni A, Price LL (2006) Eating and healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[3] Etkin, N (2008) Edible medicines: an ethnopharmacology of food. University of Arizona Press

[4] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[5] Price LL (2006) “Wild food plants in farming environment”s. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[6] Price LL (2006) op cit.

[8] Rijal, Arun. (2008) “A Quantitative Assessment of Indigenous Plant Uses Among Two Chepang Communities in the Central Mid-hills of Nepal.” Methods 6: 395-404

[9] Rijal, Arun. (2008) op. cit.

[10] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu

Fitoalimurgia Chepang 1/2

In questi giorni di tribolazione per il Nepal (leggi qui e qui le cronache di Enrico Crespi), spintonato da un post di Meristemi (eccolo qui) sulla fitoalimurgia, prendo l’occasione per scrivere nuovamente di Chepang, un gruppo etnico di cui avevo già parlato in un’altra occasione, descrivendo un albero particolarmente importante nella loro cultura.

Come giustamente rimarca Meristemi, la fitoalimurgia, o più in generale lo studio del ruolo delle piante selvatiche o non coltivate nella storia dell’uomo, è particolarmente affascinante perché rappresenta una chiave di lettura poliedrica, che ci permette molteplici punti di entrata nel “discorso” piante e uomo. Inoltre è un esempio di ciò di cui parlava Andrea Pieroni in un post di qualche tempo fa, ovvero delle dimensioni pratiche ed etiche dell’etnobotanica, che diviene una attività non solo accademica ma applicata, uno strumento per modificare la realtà.

Il tema delle piante selvatiche tra cibo e medicina pone inoltre in primo piano il problema dell’articolazione tra tradizione e progresso scientifico. Mi ci hanno fatto pensare i post di Anna Meldolesi sul consumo etico, e di Bressanini sugli OGM, e non tanto per quello che hanno detto, quanto per le riflessioni che mi pareva scaturissero dai vari commenti.

Le strategie di gestione, di raccolta e di conservazione delle piante selvatiche sono pratiche tradizionali che meritano di essere studiate? O dovremmo invece pensare che siano fasi primitive, preagricole, del nostro rapporto con le piante, quindi ormai desuete e impari allo scopo? La fitoalimurgia è un campo dello scibile utile solo a survivalist che si allenano per la terza guerra mondiale, o per romantici innamorati del folklore, oppure ci possono dire qualcosa di rilevante sulle strategie di salute alimentare?

E ancora, se il dato scientifico si deve tradurre in politiche (in questo caso agricole ed alimentari) e se contesti differenti esigono risposte differenti anche a partire dagli stessi dati, le pratiche agricole tradizionali o le pratiche pre-agricole possono rappresentare parte delle politiche alimentari in determinati contesti?

Non intendo tentare di rispondere a nessuna di queste domande, almeno per il momento

I Chepang

Il caso di studio dei Chepang (che ho portato a Pollenzo, presso l’Università di Scienze Gastronomiche, su invito di Andrea Pieroni) credo possa servire proprio a vedere la complessità del problema, e di come la soluzione ai problemi di salute e sicurezza alimentare passi contemporaneamente dalla necessità:

1. di un approccio trickle-up, ovvero che parte dall’ascolto delle popolazioni locali, della loro percezione dei problemi e delle possibili soluzioni (che spesso sorprende chi parte da posizioni preconcette)

2. di un approccio scientifico allo studio dei sistemi tradizionali di gestione del territorio e della biodiversità

3. dell’inserimento della dimensione dell’identità culturale di un gruppo all’interno dell’equazione sulle possibili soluzioni.

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Rimando i lettori al post precedente per una introduzione ai Chepang. Ricordo brevemente che sono vissuti come cacciatori-raccoglitori fino a poco tempo fa, dipendendo interamente dalla foresta come fonte di radici e piante alimentari, e cacciagione,  fino a 100-150 anni fà.[1]

Più di recente sono diventati stanziali e si sono adattati ad una vita da agricoltori con la tecnica del debbio (in lingua Chepang Khorya, in inglese swidden, o slash-and-burn).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Rimangono però ancora pesantemente dipendenti dalla foresta (come d’altronde è vero, in minor misura, per molta della popolazione nepalese, che per il 90% vive in aree al limine tra foresta e campi coltivati) e dai suoi prodotti, o da piante non coltivate (ad esempio il Chiuri– Dyploknema butyracea (Roxb.) H. J. Lam — Sapotaceae, qui la monografia infoerbe) per la sussistenza alimentare, per le medicine, per la cultura materiale, per il foraggio, per il combustibile ed anche per un sostegno economico, dato che scambiano o vendono vari prodotti ai mercati locali.

Sono certamente una delle comunità più svantaggiate del Nepal dal punto di vista socio-economico, dell’accesso all’educazione e ai servizi di salute, in termini nutrizionali (soprattutto deficit proteico, mentre la dieta fortemente vegetale riduce i deficit vitaminici), in particolare tra donne e bambini (i bambini possono soffrire di malnutrizione e le donne incinte di deficienza di ferro e di proteine) (anche se negli ultimi 15 anni molte cose sono cambiate),[4] circa il 50% delle famiglie sono in situazione di debito, con un deficit di contanti molto acuto e con un surplus annuale molto basso; l’agricoltura (in particolare le coltivazioni di mais – Zea mays L. e panico indiano – Eleusine coracana (L.) Gaertner. – Poaceae) provvede sostentamento al 97% della popolazione solo per 5-6 mesi all’anno e per il resto dell’anno le famiglie devono fare ricorso alla foresta ed ai suoi prodotti. [5]

Anche se negli ultimi anni sono stati introdotti gli orti familiari, con cetrioli, pomodori, zucche e zucchine ed altri ortaggi, la maggior parte dei Chepang continua a fare affidamento più sulle piante selvatiche o non coltivate, o sulle piante coltivate con il metodo del debbio. [6]

Come è stato detto, gli alimenti principali dei Chepang sono il mais e la Eleusine coracana. Da quest’ultima si ricava il Dhindo, ovvero la polenta di miglio, e il Jand (bevanda fermentata a base di miglio e mais), la bevanda più tipica, bevuta da tutti in famiglia.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Di grande importanza, non solo alimentare ma anche culturale, sono i curry a base di larve e pupe di api e vespe, e a base di pipistrelli.

Centrale nella cosmogonia Chepang è, come si è detto, l’albero del Chiuri (Diploknema butyracea), o Yoshi in lingua Chepang, che provvede la famiglia di frutta, miele, nettare, ghee, foglie per piatti, fiori per bevande fermentate, ecc., per il consumo locale o per la vendita nei mercati a valle, vendita che fornisce fino al 60% del reddito familiare (vedi il mio precedente post per il dettaglio sull’albero).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Altri items venduti o scambiati al mercato sono i germogli fermentati di bambù, i doko (cesti di bambù), i naglo (i grandi piatti di fibre intrecciate per separare il loglio dal cereale) e le namlo (le cinghie da trasporto).

Vivono in villaggi, o meglio gruppi di case sparse sui pendii molto ripidi del gruppo del Mahabarat, nel Nepal centrale lungo i fiumi Trisuli, Narayani e Rapti e nei bacini degli affluenti (Manahari e Lothar al sud, Malekhi e Belkhu al nord) compresi nei Distretti del Dhading, Makwanpour, Chitwan e Gorkha.

Le loro case sono a tetto basso, piccole e quasi sempre ad una sola camera, con poca ventilazione. I componenti della famiglia vivono in questa unica stanza, mentre il secondo piano funge da solaio per I cereali ed altri alimenti conservati. Onnipresenti nella casa sono il ripiano di bambù sopra al fuoco per essiccare ed affumicare carne, pesce e cereali (e semi di Chiuri), e la mola (due pietre circolari per le farine di cereali), mentre subito fuori dalla porta troviamo l’attrezzo per decorticare il grano o rompere il guscio dei semi.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

A differenza di molto altri gruppi etnici nepalesi, i Chepang non danno molto rilievo alle gerarchie ed alle differenze di genere sessuale che, pur sussistendo, sono meno marcate rispetto al resto del paese. Le donne godono di maggior libertà, ed il cibo viene equamente diviso tra tutti i membri della famiglia, senza differenze di età o di genere (cosa non comune nel resto delle zone rurali del paese, dove spesso le donne devono nutrirsi dopo il resto della famiglia e con ciò che rimane, nutrendosi quindi poco e male, un dato rilevante per il problema del prolasso uterino).

Studi antropologici

Mentre i Chepang sono stati oggetto di molte ricerche ed analisi di tipo sociologico, minori e di minor qualità sono gli studi e gli interventi sullo sviluppo economico e sociale. Come lamentano gli stessi Chepang, c’è veramente poco sui Chepang che provenga dai Chepang stessi, e poco spazio è stato dato alla domanda “quale beneficio ha portato ai Chepang tutto il lavoro svolto sui Chepang?”. [7]

Fino a poco tempo fa i progetti governativi si sono poco interessati alle definizioni di sviluppo fornite dai locali, e spesso gli sforzi delle ONG sono stati trascurabili e politicamente non impegnati, evasivi, almeno fino alla metà degli anni ‘90.

Nel 1993 si è tenuto il primo “Gathering of the concerned” e nel testo che raccoglie le esperienze di questo incontro, emergono le istanze avvertite come più pressanti: [8]

1. Inferiorità, o mancanza di autostima, imposta ed istituzionalizzata. Quando CAED iniziò a lavorare con I Chepang, era comune riferirsi ad essi, anche nei documenti ufficiali, come Jungli (selvaggi/incivili) o Bankar/Banmanchhe (scimmie), ed in genere caratterizzarli come primitivi e stupidi. Questa istanza è stata infatti il primo punto di “attacco” del progetto SEACOW, la rivalutazione delle competenze e conoscenze del gruppo rispetto alle NTFP, competenze che potevano essere tradotte in riscatto sociale ed economico.

2. La cultura. Secondo Battharai le domande che è necessario porsi, prima della classica: “come facciamo a salvare la cultura dei Chepang?” sono le seguenti: “perché è necessario salvare o conservare questa cultura quando sono gli stessi Chepang a non voler essere chiamati così, a rifiutare la propria cultura? E come identifichiamo la cultura da salvare? Chi è che vuole conservarla e perché? Non si rischia un approccio tipo ‘zoo umano’?” E’ possibile raggiungere un maggior benessere senza rischiare la perdita di identità culturale?”. [9]

3. Autonomia tribale. Come si può gestire il miglioramento delle condizioni economiche vis-a-vis l’autonomia tribale e culturale, dove troviamo l’equilibrio? In particolare quale è la soluzione più desiderabile al problema della gestione della foresta? Nazionalizzazione, proprietà privata o diritti etnici collettivi?

4. Sostenibilità. L’opinione fortemente espressa dai Chepang e dalle ONG locali è che è insostenibile continuare a discutere del concetto di sostenibilità solo in termini economici. Questa tendenza ha eclissato importanti istanze, come ad esempio la necessità di rinforzare le risorse di base, la giustizia sociale e i bisogni specifici ed area-dipendenti.

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Note

[1] Bista DB (2004) People of Nepal. Ratna Pustak Bhandar

[2] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu; Marandhar NP (1989) “Medicinal plants used by Chepang tribes of Makwampur District, Nepal”. Fitoterapia Lx, Perish; Bhattrai TR (1995) “Chepangs: Status, efforts and issues; a Syo’s perspective”. In TR Bhattrai Chepang Resources and Development. SNV/SEACOW, Khatmandu; Gautam MK, Roberts EH, Singh BK (2003) “Community based leasehold approach and agroforestry technology for restoring degraded hill forest and improving rural livelihoods in Nepal”. Paper presented at the International Conference on rural livelihoods, Forest and Biodiversity, Bonn; Pandit BH (2001) “Non-timber forest products on shifting cultivation plots (Khorya): a means of improving livelihoods of Chepang Rural Hill Tribe of Nepal”. Asia-Pacific Journal of Rural Development; 11:1-14

[3] declino dovuto probabilmente ad una epidemia

[4] Kerkhoff, E. & E. Sharma. (2006) Debating Shifting Cultivation in the Eastern Himalayas: Farmers’ innovations as lessons for policy. International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD), Kathmandu

[5] Balla, M.K., K.D. Awasthi, P.K. Shrestha, D.P. Sherchan & D. Poudel. (2002) Degraded Lands in Mid-hills of Central Nepal: A GIS appraisal in quantifying and planning for sustainable rehabilitation. LI-BIRD, Pokhara, Nepal

[6] Aryal G.R. & G.S. Awasthi. (2004) “Agrarian Reform and Access to Land Resource in Nepal: Present status and future perspective/action“. ECARDS review paper (Unpublished). Environment, Culture, Agriculture, Research and Development Services (ECARDS), Kathmandu, Nepal

[7] Bhattarai, Teeka R. (1995) Chepangs, resources, and development : collection of expressions of the Gathering of the Concerned, 7-9 February 19. Kathmandu: SNV: 1995. 185 p.

[8] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

[9] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

L’albero dei Chepang

Un bell’articolo sull’etnobotanica dei Chepang (Arun Rijal (2008) “Living knowledge of the healing plants: Ethno-phytotherapy in the Chepang communities from the Mid-Hills of Nepal” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine, 4:23) mi da lo spunto per parlare della mia breve ma bella esperienza con questo gruppo etnico nepalese, uno dei gruppi più svantaggiati e più poveri del Nepal, che possiede una vasta conoscenza tradizionale del territorio e della sua gestione, e che grazie al lavoro di alcune ONG nepalesi sta riconquistando la propria autostima e la coscienza dell’importanza del sapere locale.

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I Chepang, ufficialmente conosciuti come Praja, fanno parte di uno dei 61 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dal governo nepalese (ce ne sono in realtà più di 80), uno dei più piccoli (rappresentano lo 0,25% della popolazione nepalese) e uno dei più poveri e marginalizzati.
Fisicamente si distinguono per avere delle caratteristiche tipicamente mongoloidi ed il loro linguaggio deriva da dialetti Tibeto-Burmani.

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Vivono in villaggi, o meglio gruppi di nuclei familiari, sparsi sulle colline delle montagne del Mahabharat, nel Nepal centrale, soprattutto nei distretti di Makwanpur, Dhading, Chitwan e Gorkha.   I loro antenati sono stati cacciatori-raccoglitori fino a 100-150 anni fa, e coltivatori con tecnica slash-and-burn.

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Dipendono ancora molto dalla foresta (in particolare dall’albero del Chiuri) per ricavare cibo, materiale ed introiti; la loro dipendenza da una agricoltura più complessa è molto recente.

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Riescono mediamente ad ottenere dalla coltivazione il necessario per sostenersi per 6-8 mesi, mentre per il resto dell’anno (da febbraio a giugno) devono arrangiarsi con la raccolta nel selvatico oppure indebitarsi.  Nel 1999 il 50% della popolazione risultava indebitato, e il reddito pro-capite annuo era al di sotto dei 130 dollari.

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La vendita di prodotti forestali non legnosi (Non Timber Forest Products – NTFPs) rappresenta una fonte di reddito importante che ha molti margini di aumento, che permette un recupero delle tradizioni popolari ed un aumento dell’autostima di questa popolazione che per secoli è stata vista (e si è vista) come retrograda, incapace, primitiva.

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In lavoro di molte ONG nepalesi, ed in particolare del progetto SEACOW (School for Ecology, Agriculture and Community Work) sulle pratiche agricole e produttive ecologiche, si è per l’appunto concentrato sulla capacità di utilizzare il sapere tradizionale e i secoli di rapporto con la foresta per modificare l’immagine di sé di questi gruppi e per demistificare i processi economico-produttivi, in modo che la popolazione stessa possa trarre vantaggio economico e sociale dalle proprie conoscenze.

Parte integrante di questo progetto è lo studio delle piante medicinali della zona.
Le principali piante medicinali tradizionalmente usate dalla comunità Chepag nella zona del Mahabharat sono:
•    Chebulic myrobalan (Terminalia chebula)
•    Belleric myrobalan (Terminalia bellirica)
•    Emblic myrobalan (Phyllanthus emblica)
•    Asparagus racemosus
•    Gurjo (Tinospora cordifolia)
•    Jasminum officinale
•    Castanopsis indica
•    Dioscorea alata
•    Cinnamomum tamala fol.
•    Chiuri (Diploknema butyracea)

L’albero del Chiuri

I Chepang hanno un rapporto particolarmente stretto con l’albero del Chiuri (da loro chiamato Yoshi).  Una famiglia è considerata più o meno ricca a seconda di quanti alberi possiede, e il sapere tradizionale sulle tecniche di semina, raccolta dei vari frutti e derivati e loro utilizzo è di grande interesse perché estremamente specializzato e caratterizzato culturalmente.  Si può senza dubbio dire che la cultura Chepang sia strettamente associata al Chiuri.

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Narra una leggenda Chepang che: “molto tempo fa, una bufala scappò dalla propria stalla di notte e andò a mangiare nel campo di miglio finché non fu completamente satolla.  Ma al momento di tornare, dato che era buio, la bufala non riuscì a ritrovare la strada e cadde in un pericoloso precipizio, e vi rimase incastrata a metà strada.  Nessuno riuscì ad estrarre la bufala, e quindi ella lì morì.  Nello stesso luogo, fertilizzato dalla carcassa, nacque il primo albero di Chiuri”.
Secondo questa leggenda, si possono leggere nel Chiuri le tracce della sua origine: il frutto del Chiuri dà un succo bianco, che è il latte della bufala, e l’olio ottenuto dai semi è il burro di bufala.  I piccoli granelli neri che si trovano nel frutto sono il miglio mangiato dalla bufala durante la notte.  Ancora oggi i Chepang dicono che il Chiuri è come una “bufala da latte per noi”.

Botanica sistematica

  • Nome scientifico: Diploknema butyracea (Roxb.) H. J. Lam
  • Famiglia: Sapotaceae  Juss.  Composta da 800 specie tropicali suddivise in 35-75 generi mal definiti.
  • Sinonimi: Bassia butyracea Roxburgh; Madhuca butyracea (Roxb.) J. F. Macbride; Aesandra butyracea (Roxb.) Baheni

Nomi locali

  • Uttar Pradesh – Chiura, Bhalel
  • Hindi – Phalwara, Phulvara, Phulwa
  • Chepang: Yoshi (Ban Yoshi se l’albero è selvatico e Rang Yoshi se è coltivato).

A dimostrazione della profonda conoscenza che i Chepang hanno del Chiuri, basti sottolineare come essi usino almeno 32 nomi diversi per descrivere l’albero a seconda del tempo di fioritura, del colore del frutto, delle foglie, del tronco, dei rami e dei semi, della forma del tronco e dei rami, della dimensione della consistenza, del sapore e dell’odore del frutto, della produttività ed infine della posizione dell’albero stesso nel territorio.

Descrizione botanica
L’albero del Chiuri è un sempreverde di media grandezza (da 3 a 10 metri in altezza) che necessità di una buona insolazione ed ha una certa tolleranza al freddo. (Jackson 1987, Campbell 1983).

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Ecologia e distribuzione

Nel subcontinente indiano si trova nel tratto sub-himalayano, da Dehra Dun al Buthan, tra i 400 e i 1400 m, ma alcuni esemplari sono stati identificati a 4500 m

In India si trova soprattutto nel Sikkim e nell’Uttar Pradesh (distretto di Pithoragarh) al confine con il Nepal (tra 600 e 1000 m), e nelle colline del Kumaon e del Gharnal.  E’ presente anche sull’oceano indiano, ad Andaman e Nicobar

In Nepal si trova nella zona sub-himalayana, su pendii scoscesi, terreni rovinosi e precipizi, soprattutto nelle foreste dei distretti di Chitwan, Gorkha, Dhading, Rolpa, Argha, Khanchi e Makwampur.  In particolare vi è una grande concentrazione nelle colline del Mahabharat, tra i 500 e i 1400 m.
Si pianta con successo su terreni poveri e sassosi e la germinazione dei semi è di meno di tre settimane.

Importanza del Chiuri
Quali sono i punti di interesse del Chiuri nell’ambito di un progetto di sviluppo?

•    Importanza economica per i contadini poveri.
•    Sostenibilità ecologica: è adattato a terreni non coltivabili e migliora la qualità del suolo.
•    Potenziale economico per l’industria nepalese.
•    Importanza socioculturale per i Chepang.

Il Chiuri rappresenta ancora una fonte di reddito non secondaria per i Chepang (ed altre popolazioni).  E’ normale per ogni famiglia possedere almeno alcuni alberi di Chiuri, da 5 a 10-20 per le famiglie più ricche.  Il possesso dell’albero è slegato dal possesso della terra; una famiglia può possedere degli alberi in terreni non propri; questo possesso le dà il diritto di sfruttare per prima gli alberi per la raccolta dei frutti e dei semi, ecc., fino al mese di Saun masanta (metà di luglio), dopo il quale l’albero diviene di proprietà comune e chiunque può sfruttarlo, anche se di solito vi sono accordi interfamigliari per regolare lo sfruttamento (questo tipo di gestione comune dei beni e di modificazione della proprietà è tipico dei Chepang che si distinguono dal resto delle popolazioni nepalesi anche per un ridotto divario tra uomo e donna rispetto ai diritti).  L’albero è trattato come un membro della famiglia, e gli alberi della famiglia sono ereditati e divisi in parti uguali tra i membri della famiglia stessa.  Il legame con questa pianta è così forte che, quando un albero è malato, viene curato dal guaritore locale proprio come curerebbe un essere umano.

Il ghee derivato dai semi rappresenta la principale fonte di sussistenza per molti Chepang; esso costituisce la principale fonte di grasso alimentare, ed i Chepang preferiscono famiglie numerose anche perché queste significano più mano d’opera per la raccolta dei frutti. La produzione varia da 15 a 60 kg di ghee all’anno, dei quali 3-10 vengono venduti al mercato.  La vendita del ghee rappresenta una fonte di sussistenza potenzialmente molto importante per i Chepang.  De la Court (1995) ha infatti calcolato che vendendo il ghee la popolazione riuscirebbe a comprare 4 volte la quantità di cereali coltivabili nello stesso tempo.  Il problema è che mentre offerta e richiesta di ghee sono sufficienti, i mediatori hanno per molti anni approfittato dell’ingenuità dei coltivatori per aumentare il loro profitto.  E’ necessario quindi creare nuove opportunità di incontro saltando i mediatori.  E’ inoltre necessario risolvere alcuni gravi problemi legati all’albero stesso.

Problemi
In alcune zone del Nepal la produzione di frutti è andata declinando fino ad essere al giorno d’oggi il 20-30% della produzione di dieci anni fa.  Questa riduzione è dovuta ad un aumento della caduta di frutti immaturi, per cause non chiare, ma probabilmente legate a cambiamenti climatici regionali o globali (riduzione delle precipitazioni invernali, erosione del suolo, attacchi di insetti).
Uno dei compiti futuri sarà quello di studiare a fondo le ragioni della caduta dei frutti immaturi, le migliori condizioni pedo-climatiche per l’albero ed eventualmente la selezione di genotipi più resistenti.

Il seme
Il seme costituisce l’11-15% del peso del frutto fresco.

From Nepal 2004
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Composizione
1. Proteine 5-8%

2. Saponine 12-15%
Dalle saponine, dopo l’idrolisi, si ottengono β-D-glucoside del β-sitosterolo e vari diterpenoidi, tra cui acido bassico, acido protobassico e acido idrossiprotobassico.

3. Grassi 41-48% (60-70% del seme decorticato)
Acidi grassi

  • Acido palmitico    50-65%
  • Acido stearico    3-5%
  • Acido oleico        25-36%
  • Acido linoleico    3-4%
  • Acido miristico    0,3%

Trigliceridi

  • Tripalmitina    7,7-10%
  • Oleodipalmitina    54-62%
  • Palmitooleostearina    7-8,6%
  • Palmitodioleina    14,4-23%
  • Oleodistearina    0-0,4%
  • Stereodioleina    0-1,2%
  • Altri    0-13%

4. Carboidrati totali 30%
Zuccheri tra i quali:

  • Glucosio
  • Arabinosio
  • Xilosio
  • Ramnosio

Il guscio del seme (19-30% del peso del seme fresco) contiene flavonoidi tra i quali lo 0,2% di quercetina e 1,75% di diidroquercetina, cosa quest’ultima piuttosto rara.

Grasso
Il grasso ricavato dal seme quando è puro è bianco, di odore e sapore buoni e non irrancidisce facilmente.

Processo di estrazione
•    Raccolta dei frutti maturi
•    Eliminazione polpa e lavaggio dei semi
•    Essiccazione dei semi al sole
•    Contusione e polverizzazione del seme in un piccolo mulino detto dhiki
•    Separazione della farina del seme dal guscio
•    “Cottura” a vapore della farina (contenente il 52% di grasso)
•    La farina viene posta in un cesto di bambù detto pyar , e viene estratta per compressione grazie alla chepuwa, un attrezzo composto di due assi di legno (dette kole) che comprimono il pyar.
•    Dalla prima compressione si ricava il 27% dell’olio; il residuo viene nuovamente estratto ottenendo il 10% di grasso.
•    Una volta estratto il grasso si raffredda e solidifica
•    Il cake (pina) residuo contiene ancora il 15% di grasso.

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Essicazione dei semi al sole e contusione dei semi

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Setacciatura e separazione dei gusci

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“Cottura” dei semi

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I semi “cotti” vengono inseriti in una pressa idraulica e pressati

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Il Ghee di Chiuri assume la sua forma solida dopo essersi raffreddato

Il metodo d’estrazione tradizionale, dal punto di vista occidentale, è poco efficiente, dato che lascia nel residuo dei semi circa il 14% del grasso estraibile.  Un’ovvia proposta è stata quella di utilizzare dei metodi di spremitura più potenti.  Ma la soluzione non è cosi semplice.  Una pressione più elevata estrae una maggior quantità di grassi, ma anche una elevata percentuale di saponine, rendendo il grasso non commestibile, di odore molto sgradevole e di colore dal verde al marrone.  E’ quindi necessario ripartire dai metodi tradizionali e trovare un compromesso.  La spremitura con pressa idraulica può andare bene per la produzione di grasso destinato a successive purificazioni per la fabbricazione di saponi o creme.

Dati fisico-chimici

  • Punto di fusione    47-49° C
  • Sp gr 15° C    0,856-0,870
  • nD 40° C    1,4552-1,4659
  • Acidità    0,5-14,5
  • Saponificazione    170-200
  • Valore dello iodio    40-51
  • Acetyl value    605
  • RM value    0,4-4,3
  • Hehuer value    96,2
  • Polenske value    0,65
  • Non saponificabili    1,4-5% (di solito 2-2,8%)

Cake

Composti           Grezzo*    Processato**
Saponine           15-27%     0%
Proteine            25-37%     18-34%
Grassi               29%           0,25%
Carboidrati       17%           40%
Fibre                4,5%          8,9%

* Dopo la normale estrazione del grasso mediante compressione
** Dopo l’estrazione completa di saponine e grassi

Utilizzo
Semi interi
I semi sono considerati galattogoghi

Grasso

Usi tradizionali
•    Alimentare: usato in cucina in svariati modi, è il grasso più economico sul mercato
•    Medicinale: internamente per costipazione cronica e febbre biliare. Rimedio topico per reumatismi, pelle infiammata e secca, lesionata, tenia pedis.
•    Combustibile per lampade a burro a scopo religioso: non crea fumo od odori cattivi, la sua luce è molto brillante e la fiamma è di lunga durata.

Usi possibili
•    Margarina
•    Buona fonte di acido palmitico per l’industria farmaceutica
•    Candele
•    Saponi, usato al posto dell’olio di cocco
•    Creme ed unguenti medicali
•    Unito all’Attar per ungere i capelli

Cake

Il cake grezzo è usato come:
•    Concime con proprietà pesticide (date dalle saponine), usato per i campi di riso e per le coltivazioni di banani.  E’  però molto povero in azoto (< 4%-5,5%).
•    Sostituto del sapone, soprattutto per il lavaggio del bucato.
•    Vermicida, nematocida, molluschicida, rodenticida ed insetticida
•    Veleno per la pesca, meno tossico dei normali pesticidi utilizzati
•    Veleno per lombrichi per prati e campi da golf
•    Come componente di mix insetticidi.
•    Lozione per capelli in combinazione con Acacia cananna
•    Dopo la rimozione delle saponine si utilizza come mangime per bestiame bovino e polli.

Altre parti del Chiuri utilizzate dai Chepang

Fiori

Composizione chimica

•    Molibdeno    0,95 ppm
•    Zinco    13,95 ppm
•    Zuccheri tra i quali:
•    Arabinosio
•    Ramnosio
•    Fruttosio
•    Glucosio
•    Saccarosio
•    Maltosio
•    Levulosio
•    Destrosio
•    Pentosi
•    Grassi        0,6%
•    Fibre        1,7%
•    Vitamine, tra le quali:
•    Vitamina A
•    Vitamina C
•    Tiamina
•    Acido nicotinico
•    Riboflavina
•    Acido folico
•    Biotina

Il Saccharomyces cervisia è presente naturalmente nei fiori e li rende un ottimo materiale grezzo pronto per la fermentazione alcolica.

I fiori sono inoltre ricchissimi di nettare, che è usato dalle popolazioni locali per fare uno sciroppo molto apprezzato.
E’ una pianta mellifera e le api producono da questi fiori un miele di ottima qualità, usato anche a scopo medicinale per il trattamento dei disturbi dell’occhio.

Usi medicinali
•    Sono considerati rinfrescanti, afrodisiaci, galattogoghi, espettoranti, carminativi.  Usati per disordini cardiaci, pirosi, biliosità, disordini dell’orecchio.
•    Secchi si usano sotto forma di fomente calde per l’orchite
•    Fritti nel ghee si usano per le emorroidi
•    Il liquore ricavato dai fiori viene descritto nell’Ayurveda come: caldo, astringente e tonico

Frutto

Composizione

Parte    % del peso fresco
Buccia    25,3
Seme    18,2
Polpa    5605

La polpa contiene:
•    Acqua    87,5%
•    Fibre    5,56%
•    Zuccheri    6,47%, di cui 3,8% zuccheri riducenti e 3,39% zuccheri non riducenti
•    Pectina    0,289%
•    Vitamina C    3,21 mg su 100 gr
•    Acetato di α-amirina
•    Acetato di β-amirina
•    Palmitato dell’acido oleanolico
•    Eritrodiol-3-caprilato
•    Eritrodiol-3-palmitato
•    D-glucosidi dell’α-spinaserolo e del β-spinasterolo
•    Olio essenziale contenente: etilcinnamato, α-terpineolo e vari sesquiterpeni

Usi
Alimentari: sciroppo per addolcire il tabacco; liquore fermentato; succo di frutta oppure frutto fresco
Medicinali: bronchite, disordini del sangue, consunzione

Foglia

Composizione chimica

•    Entriacontano
•    Esacosanolo
•    Acetato di β-amirina
•    α-spinasterone
•    α-spinasterolo
•    Miricetina-3-O-L-ramnoside
•    Saponine, tra le quali acido protobassico e acido epiprotobassico
•    Glucosio
•    Arabinosio
•    Xilosio
•    Ramnosio

Corteccia

Composizione chimica

•    Tannini (17%)
•    Glicosidi, tra le quali: bassianina a, b e c
•    Vari agliconi polimerici di leucocianidine associati a R-O-xilosio-O-arabinosio-O-ramnosio-O-ramnosio-O-glucosio
•    Acetato di α-amirina
•    Acetato di β-amirina
•    Eritrodiol-3-palmitato
•    Palmitato dell’acido betulinico
•    Friedlina
•    D-glucosidi dell’α-spinasterolo e dell’β-spinasterolo

Usi
Rimedio per reumatismi, ulcera, prurito, gengivite sanguinante, tonsillite, lebbra e diabete
Veleno per pesci

Utilizzo del Chiuri da parte dei Chepang.

  • Tronco: pali e travi, manici di attrezzi agricoli
  • Rami: legna da ardere, manici di attrezzi agricoli
  • Foglia verde: mangime, piatti
  • Foglia secca: ‘cartina’ per tabacco
  • Corteccia: legna da ardere, farmaco veterinario, rimedio medicinale, veleno per pesci
  • Frutto: alimento, sciroppo per tabacco, liquore fermentato, bronchite, disordini del sangue, consunzione
  • Fiore: nettare alimentare, uso medicinale interno ed esterno del fiore e del liquore di fiori.
  • ‘Burro’ dai semi: alimentare, medicinale, combustibile per lampade a burro, fonte di acido palmitico, candele, saponi, creme ed unguenti medicali
  • Cake dei semi: concime, pesticida, sostituto del sapone, veleno per pesci, lozione per capelli, mangime dopo la rimozione delle saponine
  • Lattice: per intrappolare insetti ed uccelli, gomma da masticare

Bibliografia