Dialoghi etnobotanici due

Riprendiamo il filo di una bella discussione che ha segnato il primo post di questo blog. Il dialogo riprende con Andrea Pieroni, che fino a poco tempo fà era Senior Lecturer presso la Division of Pharmacy Practice/Medical Biosciences Research Focus Group, dell’Università di Bradford, GB, mentre ora è professore onorario di Botanica presso l’Università delle Scienze Gastronomiche di Bra.

Rimane comunque membro della Linnean Society di Londra e della Royal Society of Medicine, Presidente della International Society for Ethnopharmacology, Editor-in-Chief del Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine (Editor-in-Chief) e membro del board di Journal of Ethnopharmacology, Journal of Ethnobiology e Food and Foodways.

Silphion: allora, caro Andrea, per riprendere le fila del discorso, dato che sono un tipo cocciuto ritornerei su di un argomento che a te pareva mal posto, cioè traditional knowledge (TK) vs. Evidence Based Medicine (EBM) [un argomento che fa parte di una più ampia discussione che presenterò in futuro intervistando Sue Evans, una erbalista che ha scritto un recente articolo proprio su questa contrapposizione], ma dato che sono anche un tipo educato te lo ripropongo in maniera diversa 🙂
Prima di tutto ti chiederei di chiarire, se vuoi, il significato della tua risposta di allora, cioè:

“si tratta di due concetti assai sghembi, sarebbe come relazionare banane e zibetti.  Perfino nella fitoterapia tradizionale ho problemi a intravvedervi folk knowledge, nel senso che la fitoterapia tradizionale è certo stata toccata dalla folk knowledge, ma come anche la medicina ufficiale, la chirurgia, il gioco degli scacchi, l’aranciata, la Coca-cola, ed i fast food.”

Pieroni: Il significato di quello che volevo dire è che le medicine tradizionali non hanno molto a che vedere con la folk knowledge, che è generalmente trasmessa oralmente. Infatti si parla sempre distintamente, in inglese almeno, di TMs e Folk Medicines, che sono le medicine che si basano sulla folk knowledge.
Le TMs (che hanno codificazioni consistenti) hanno poco di “folk”. Ciò non significa ovviamente che questo sia un male.

Si.: azzardo una riflessione. E’ un fatto che un settore delle cosiddette CAM, in particolare i fitoterapeuti di scuola tradizionale (tra i quali ci metto quelli appartenenti alla mia tradizione, britannica), dà per scontato il rapporto diretto tra folk knowledge e moderna fitoterapia tradizionale, una connessione originaria, più intima e vera, della fitoterapia con la tradizione. Mentre è ancora poco approfondita la riflessione su cosa significhi “rifarsi” alla tradizione, ed anche il riconoscimento del carattere “costruito” della tradizione.

Saltando di palo in frasca, riprendo un tuo commento nella discussione precedente, quando parlavi della rilevanza dell’etnobotanica e “di popoli che costruiscono il loro futuro”. Ti chiedo questo: nella natura composita dell’etnobotanica, c’è una tensione tra questa dimensione di cui tu parli, del fare parte di un processo dinamico, quindi di cambiamento, e la dimensione conservativa, sia nel senso biologico sia culturale?

P.: Sì c’è questa tensione, in coloro che ci riflettono. Ma l’etnobotanica dei migranti è un esempio molto bello di superamento del conflitto. Ovviamente sono ancora tanti gli etnobotanici che pensano che la “tradizione” sia statica e sia di per sé sempre bella e virtuosa. E quindi vedono in termine astorici le cose, perché “conservare” fino in fondo non è mai possibile (meno male!).

Si.: C’è il rischio dell’idealizzazione delle radici e delle tradizioni?  E d’altro canto non è in fondo questo un ruolo fondamentale, la difesa dall’erosione da parte della modernità? Anni fa ad un convegno IASTAM (International Association for the Study of Traditional Asian Medicine) si parlava appunto del destino della tradizione ayurvedica cannibalizzata dall’ayurveda americano “di ritorno”, new age. Naturalmente a prima vista era chiaro con chi stare, i predicatori americani dell’ayurveda “a la page” non erano simpatici. D’altro canto questo ritorno portava linfa, interessi e soldi alle università tradizionali ayurvediche che rischiavano di svanire.  Ma questo ritorno portava anche ad una grande semplificazione, le pratiche più “popolari” e meno esportabili sparivano a favore di quelle più “canoniche”.

P.: In qualsiasi “migrazione”, c’è da fare i conti con l’”adattamento culturale”, e soprattutto con negoziazioni culturali sempre dinamiche.
Direi che la virtù forse stia nel vedere con più curiosità ed empatia ciò che succede durante queste “migrazioni”, di capire cosa avviene, invece di dare giudizi.
Forse anche gli ayurvedici americani hanno aiutato gli ayurvedici “puristi” a “vedere” nuove cose. Non è il succo della vita quello di imparare sempre da un “incontro”?
Qualsiasi pratica medica – per lo parlare della ”scienza” – avrebbero molto da dare e ricevere se si facessero aperta alle osmosi con l’”altro da sé”.

Si.: Allora prendo questo spunto, perché mi pare molto interessante parlare di etnobotanica dei migranti. Mi pare un buon esempio dell’evoluzione dell’etnobotanica, e anche un esempio antiromantico, lontano dallo stereotipo tipico che vuole l’etnobotanica sempre esotica, avventurosa, legata alla scoperta di piante utili per la farmacologia moderna, legata all’antico o al “primitivo”, comunque legata al tradizionale.

Vuoi spendere due parole sull’etnobotanica dei migranti? Ritornando al testo di cui sei coeditor (con Ina Vandebroek: Traveling cultures and plants: the ethnobiology and ethnopharmacy of human migration) sbaglio se vedo in questi saggi da una parte un approccio cognitivista (comparazione di differenti tassonomie folk, di differenti saperi e classificazioni), e dall’altro un forte interesse per i risvolti di salute pubblica e di diritti alla salute delle comunità immigrate, l’uso dell’etnobotnica come chiave di lettura per gli studi sull’identità culturale? Mi pare un campo affascinante perché svela il carattere complesso delle relazioni piante-uomini, una complessità che forse rimane più nascosta, mascherata dall’immaginario romantico-avventuroso, negli studi o nelle divulgazioni sull”etnobotanica classica”.

P.: Gli studi sull’etnobotanica dei migranti ci permetterebbero di analizzare molto bene come la TK legata alle piante cambia nel tempo e nello spazio.
È questione non da poco in termini scientifici.
E‘ vero: il lato di public health c‘è sempre (e ci dovrebbe sempre essere) dietro una ricerca etnobotanica, ma certo nelle società occidentali urbane  risalta molto di più, perché l’agenda dei public health services mette al primo posto il discorso sulla salute dei migranti.
Penso che paradossalmente da questi studi possano arrivare di ritorno anche spunti ed idee per l’etnobotanica “classica”, spesso impantanata tra studio del folklore, romantica osservazione di un presupposto equilibrio società umane-natura, ed un pizzico di esotismo.
C’è il lato del public health, ma anche quello della public nutrition, dell’organizzazione e percezioni degli spazi verdi urbani in contesti multi-culturali, della sostenibilità ambientale e sociale di pratiche ed esperienze urbane.

Si.: Saltando ad un’altra frasca, ho pensato a te l’altro giorno quando un professore di farmacologia mi ha chiesto: “oltre alla medicina cinese e quella ayurvedica, non ce ne sono altre di medicine tradizionali che ci dicono ancora qualcosa, no?”. Pensavo a come è forte lo stereotipo che comunque reitera sempre la stessa cesura tra medicina alta, colta e medicina popolare, per cui anche un rappresentante della biomedicina si troverà a suo agio con le medicine alternative ma solo se sono canonizzate.

P.: Sì questa è la classica fata morgana per cui  un codice standardizzato di per sé significhi “poter dire qualcosa”… In realtà tutto ha da dirci qualcosa, e “ci parla”, anche le culture orali, non codificate, ed in fondo ogni esperienza umana.
Abbiamo ancora tantissimo da imparare (o ri-imparare) sulla dignità dei saperi tradizionali manuali ad esempio, che hanno “fatto” le medicine popolari e le TMs per molti secoli.
Ma per questo bisogna ripensare le cose su piccola scala, ed avere altri “modelli di sviluppo”, come li chiamavamo una volta.
Il collasso economico di oggi è un’opportunità straordinaria per cominciare a praticare sul serio la sostenibilità ambientale, sociale ed economica…

Si.: Finirei chiedendoti del panorama dell’etnobotanica in Italia, sia dal punto di vista delle aree di ricerca che a tuo parere meriterebbero attenzione, sia dal punto di vista formativo: se cioè un giovane studente desiderasse avvicinarsi a questo campo, cosa deve aspettarsi? Che percorsi può/deve fare (a parte andare in Germania o GB)?

P.: Non è possibile “studiare” etnobotanica in Italia, e nemmeno in Europa, né a livello di Laurea, né a livello di Master  vero e proprio (a parte un piccolo Master in Etnobotanica della durata di 12 mesi all’Università di
Kent a Canterbury, però molto focalizzato su aspetti antropologici).
Ma ci sono certo piccoli gruppi di ricerca nelle università italiane che hanno cominciato anche seriamente ad occuparsi anche un pochino di ricerca etnobotanica, ed a cui potenziali laureandi potrebbero afferire:

a Firenze i Proff. Signorini e Bruschi (Agraria) e la Prof.ssa Giusti (Lettere/Antropologia Culturale);

a Pisa il Prof. Tomei (Agraria);

a RomaTre la Prof.ssa Caneva (Biologia); a Roma/La Sapienza la Prof.ssa Leporatti (Farmacia);

a Milano la Prof.ssa Fico (Farmacia);

a Genova il Prof. Mariotti (Biologia);

a Cagliari i Proff. Maxia e Ballero (Farmacia);

a Sassari il Prof. Camarda (Agraria);

a Palermo la Prof.ssa Lentini (Farmacia);

a Catania la Prof.ssa Napoli (Biologia).

Ed infine il sottoscritto a Bra (Scienze Gastronomiche).

Per aspetti invece strettamente e fitoetnolinguistici:i Proff. Trumper e Maddalon (Univ. della Calabria a Cosenza) e il Prof. Sanga (Venezia/Ca’ Foscari), tutti a Lettere.

Si: bene, come sempre, grazie mille, e a presto

Contro la “clandestinità sanitaria”

Ricevo e rimando da Benio un appello della S.I.M.M. (Società Italiana di Medicina delle Migrazioni)

“Ritirare l’emendamento che modifica l’art. 35 del T.U.!”

Un atto inutile e dannoso anzi pericoloso

Un emendamento di 5 senatori della Lega, propone l’abolizione del divieto di segnalazione alle autorità degli immigrati senza permesso di soggiorno che richiedono assistenza sanitaria. Prevede anche la segnalazione per coloro che non possono pagare le prestazioni sanitarie. Gli effetti di tali modifiche possono essere devastanti sul piano del diritto individuale e della salute pubblica oltre che essere inaccettabili sul piano deontologico.

Leggi l’appello

Un Curry con Andrea Pieroni

Dr. Andrea Pieroni

Silphion: Allora, caro Andrea, inizierei con questa il nostro dialogo/intervista a distanza.

Mi piacerebbe iniziare da un commento che tu hai fatto durante una discussione. Se non sbaglio si stava parlando del ruolo e dello status dell’etnobotanica, e di come, a tuo parere, al giorno d’oggi essa dovesse essere pensata come una disciplina che deve accompagnarsi ad altre per avere significato, per non ridursi ad esercizio accademico e sterile: quindi etnobotanica e politiche della salute, e politiche ambientali, e conservazione e così via.

Andrea Pieroni:
Sì, secondo me la ricerca etnobotanica potrebbe (dovrebbe) avere questi possibili outputs:
1. Agro-bio diversità, prodotti tipici, sviluppo rurale
2. Ecoturismo ed ecomusealità, patrimonio culturale (tangibile e intangibile)
3. Fitoterapia, erboristeria, uso e gestione di TM (traditional medicines)
4. Etnofarmacologia
5. Public health (soprattutto per la etnobotanica dei migranti nelle società occidentali, ma non solo)

S: Questo commento mi ha fatto pensare ad alcuni argomenti, per esempio al ruolo nella comunicazione tra culture e all’esperienza dell’Albania e del Balkans Peace Park Project (BPPP). Ma adesso mi vorrei concentrare su un’altra riflessione.
Questa discussione mi aveva infatti interessato come fitoterapeuta e quindi “fruitore” di dati etnobotanici e storici. In genere aveva stimolato una riflessione sullo status dei saperi etnobotanici e storici, saperi “deboli” per i quali si parla di credenze piuttosto che di conoscenza. Insomma il problema della traducibilità/commensurabilità, della razionalità, ovvero in genere il problema del relativismo, che ha segnato in maniera importante anche la storia dell’etnobotanica.

Riporto qui un passaggio di Alsdair MacIntyre sulle filosofie del passato che mi pareva potesse estendersi alle culture “altre”: “E’ fin troppo facile rinchiudersi all’interno di questo dilemma: se si debbano leggere le filosofie del passato in modo da renderle rilevanti per i nostri problemi e progetti contemporanei, trasmutandole il più possibile in ciò che sarebbero state se fossero state parte della filosofia presente, e minimizzando o ignorando o addirittura a volte distorcendo ciò che resiste tale trasmutazione perché inestricabilmente legato a ciò che nel passato è radicalmente diverso dalla filosofia presente; oppure con grande cautela leggerle nei loro termini propri, preservando attentamente il loro carattere idiosincratico e specifico, così che esse non possano emergere nel presente se non come un set di pezzi da museo”.

AP: Il problema filosofico dei saperi popolari/indigeni più che di “culture altre” riguarda secondo me soprattutto il rapporto storico strettissimo della scienza e della medicina con la classi alte.
I saperi delle classi subalterne (mi piace usare questo termine, proprio nel senso demartiniano e della grande scuola dei fokloristi italiani di matrice marxista) non hanno mai avuto dignità, anche perché ciò avrebbe messo in crisi molti dogmi della scienza e l’avrebbe costretta forse a divenire autocritica e plurale.
Il problema della traducibilità dei saperi popolari nei saperi “alti”/scienza è tutto da fare. Cruciale è in questo a mio modesto avviso il trovare prima di tutto piattaforme comune di scambio, rispettose, paritetiche, ed intellettualmente oneste.

S: Per fare un esempio, quando ragiono dell’uso del termine “caldo” o “calore” in medicina galenica colta o anche nelle tradizioni popolari, da un lato riconosco in questo termine una generalizzabilità: è comune a moltissime tradizioni in tutto il mondo e di tutte le epoche, e si conforma in parte a descrizioni moderne, biomediche ed anche ad intuizioni comuni. Le piante calde sono spesso piante che effettivamente elicitano tale sensazione, sono degli stimolanti circolatori, ecc. Dall’altro sono cosciente del fatto che nel mondo medievale, il calore, in quanto principio cosmologico, non coincide nettamente con l’esperienza del senso comune e nemmeno con i concetti della scienza contemporanea. Il “riscaldamento” è un modello di trasformazione centrale nella teoria sulla digestione, nella trasformazione da “naturale” in “vitale” che è centrale nella teoria umorale.

AP: Sono un po’ freddino generalmente sul concetto di “caldo/freddo”, in quanto lo ritengo (dopo anni di esperienze e studi etnobotanici) una categoria molto “alta” e assai poco “popolare”, certo penetrata nei saperi
indigeni/popolari specie in Europa, nel Mediterraneo ed in Asia attraverso quelle osmosi – che specificamente nel campo medico, al contrario di molti altri campi del sapere – sono avvenute nel corso dei secoli.
Ma davvero credo che sia molto sopravvalutato.
I saperi popolari del Mediterraneo hanno ragionato anche su molte altre piste, che non sul “caldo/freddo”.

S: Questo non è un problema meramente accademico. Quando come fitoterapeuta mi accingo a ragionare sulle basi di conoscenza e sulla storia della mia pratica mi pongo il problema della gerarchia dei saperi, del loro status, mi pongo cioè il problema del significato della mia storia e delle tradizioni non occidentali a cui in qualche modo attingo. E nel fare questo devo capirne la rilevanza moderna, giostrarmi tra il rischio di ridurli a puri “pezzi da museo”, interessanti fin che si vuole ma esclusi da una definizione restrittiva di scienza e di razionalità (e quindi alla fine di rilevanza), e la tentazione (comune a mio parere in molti circoli delle c.d. medicine alternative e complementari) di decontestualizzarli per trovare in essi una fonte “originaria” (nel caso del passato) o “più vera” (nel caso di tradizioni non occidentali) di un significato perso dalla modernità, da ritrovarsi, come dice Galimberti “ripercorrendo la storia all’indietro per trovare laggiù, in scrigni ben serrati, di cui solo alcuni detengono le chiavi, quei tesori illuminanti il senso della nostra storia e della nostra vita”.

AP: In fitoterapia come in ogni altra pratica medica, penso che porsi il problema del sottofondo culturale/sociale e quindi storico sia essenziale, in questo rifuggendo dalla percezione di medicina come religione, che invece mi sembra di poter ragionevolmente dire sembri permeare al momento molti
esperienze di uso e management di CAMs nel mondo occidentale.
Le medicine popolari che ho studiato mi hanno per esempio sempre dato l’impressione di essere molto più pragmatiche di quanto spesso si creda.

S:Prendo al palla al balzo, riguardo a medicina “alta” vs medicina popolare, prima di tutto chiedendo se hai voglia di parlare di queste altre “piste” nel mediterraneo.

Certi meccanismi di inclusione/esclusione, per continuare il discorso delle classi subalterne e dell’egemonia, sono proprio trasversali. In qualche modo è quello che è successo con il processo di professionalizzazione dei fitoterapeuti britannici negli ultimi 15 anni. Come categoria siamo passati attraverso una trasformazione con corsi di laurea, ipotesi di albo statale, e “normalizzazione” dei saperi.
Questa trasformazione, e la trasformazione delle modalità di trasmissione del sapere tradizionale, la trasformazione dei luoghi di pratica, ecc. ha a poco a poco portato ad una canonizzazione, e cristallizzazione, della cosiddetta tradizione, che, per confrontarsi con l’ambito biomedico, ha scelto cosa portare con se e cosa lasciare. E guarda caso ciò che del passato è stato scelto è stato proprio il modello colto galenico umoralistico, o quelli cinese e ayurvedico, mentre ciò che non poteva entrare facilmente in questa “filosofia” è stato abbandonato oppure recuperato in senso folk. Al tempo mi venne in mente la radicale riorganizzazione del sapere della medicina cinese nel secondo dopoguerra, quando tutto ciò che non poteva essere facilmente descritto come razionale (la demonologia, la magia, le pratiche empiriche popolari) furono drasticamente eliminate dai libri di testo, che sono stati spesso riscritti per renderli più consoni ad un modello occidentale.

Mi piacerebbe anche prendere come spunti il tuo lavoro sulle piante al limine tra alimento e medicina, e quel bell’argomento delle piante medicinali come “oggetto naturale” / “oggetto culturale”, ma magari ci arriviamo dopo.

Mi parli invece un pò dell’Albania? Come è iniziato il tuo lavoro nell’area? E ritornando alla tua iniziale descrizione degli outputs etnobotanici, quali sono quelli che immagini per l’area?

AP: Nel Mediterraneo la medicina popolare ha seguito secondo me anche le percezioni sensoriali (sapore amaro, odori/aromi) e non (solo) astratti concetti di caldo/freddo. La teoria della segnatura ha poi cementato questi
muster cognitivi (cioè non è stata l’origine forse, ma ha permesso la trasmissione delle conoscenze etnobotaniche, come ha anche di recente postulato Brad Bennett) (scarica da qui).

Ben lo credo che il sistema anglosassone ha preso come modello il sistema colto galenico umoralistico, o quelli cinese e ayurvedico, in quanto in questo paese non è mai esistita una scuola (marxista o meno) che abbia dato scientemente dignità ai saperi popolari. Il folklore in Inghilterra è rimasto folklore ed il mondo contadino quello dei “peasants”.

Per questo anche oggi in Inghilterra quando si parla di etnologia europeo o demologia si studiano il De Martino, Cirese, Lombardi-Satriani (e qui…)…

L’Albania era tappa “obbligata” dopo lo studio sugli Arbereshe lucani. Ma era anche il mio sogno di bambino e di adolescente, mai realizzato (non so perché, immagino per quel non so che di “esotico” che l’Albania ha sempre ingenerato nell’immaginario dell’europeo occidentale…).

Ma è stata soprattutto la scommessa di vedere se l’etnobotanica al di là del dato di registrazione dei saperi in via di estinzione, potesse eventualmente avere qualcosa da dire – concretamente, stringentemente – per l’eco-sviluppo di una regione e della sua gente.
Al momento non vedo un punto di arrivo, ma certo l’affascinante cammino di un processo sociale ed umano innescatosi, ma non certo governabile dai “forestieri” (in questo il mio approccio è molto meno euro-centrico e “missionario” di Antonia, che infatti è inglese).
Gli Albanesi delle montagne dovranno costruire il loro futuro nelle loro montagne (o anche negarlo), e sono certo padroni della loro storia, ma io vorrei esserci in questo processo.
Nello specifico le conoscenze etnobotaniche potrebbero essere rivalutate là sotto forma di piccole trasformazioni (piante secche) da vendersi a turisti e small-scale a Scutari, e certo per rinvigorire un uso locale nella medicina che non ha mai smesso (e che anzi – ora che l’assistenza sanitaria nelle montagne non esiste più – si è ringalluzzito…)

Ora vado a mangiarmi un curry

A presto, Andrea