Oli essenziali ed aromaterapia: i nuovi corsi 2016-2017

Il blog viene nuovamente risvegliato, dopo mesi di letargo, per una nuova promozione. Come ho spiegato nell’ultimo post del 2015, questo intervallo di inattività è coinciso con la nuova attività nel progetto di sviluppo della Lessinia attraverso la coltivazione e la distillazione di piante aromatiche.  Il progetto è arrivato ad una nuova fase, che coincide da un lato con la nascita di una srl di produzione di oli essenziali ed acque aromatiche a filiera corta e controllata, a nome Gadoi, e dall’altra dalla programmazione di un nuovo corso di studi sugli oli essenziali. A differenza delle proposte degli altri anni, questa volta abbiamo deciso di concentrarci sulla parte degli oli essenziali e delle loro applicazioni pratiche, indirizzandoci quindi in maniera più specifica verso professionisti del settore che offrono o consigliano oli essenziali, quali erboristi, farmacisti e medici, o che li utilizzano direttamente, quali massaggiatori, fisioterapisti, personale di sauna, ecc.

Abbiamo anche deciso di scomporre il programma completo, che avrebbe avuto una durata di circa 10-12 fine-settimana, in una serie di seminari autonomi che possono essere fruiti indipendentemente dagli altri, ma che insieme formano un corso di studi organico e completo.

Subito qui sotto potete leggere o scaricare il depliant informativo generale su tutti i corsi

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mentre qui sotto potete scaricare calendario e prezzi

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Il primo seminario in programma: “Scienza degli oli essenziali: come ricercare e valutare i dati”  è propedeutico per tutti gli altri moduli, e si concentra su come fare, interpretare ed usare la ricerca in campo biomedico, storico ed etnobotanico, ed è stato pensando con gli erboristi ed altri professionisti in mente, anche se è aperto a chiunque sia interessata/o alla valutazione scientifica dei dati sulle piante medicinali. La prima parte del corso sarà incentrata sulla ricerca ed i suoi metodi, mentre la seconda parte si concentrerà sugli strumenti a nostra disposizione per fare ricerca o interpretare la ricerca fatta da altri, con particolare attenzione al mondo delle piante aromatiche e degli oli essenziali. Il seminario prevede varie ore di lezione frontale, ma alle studentesse e agli studenti sarà richiesto un certo lavoro a casa, letture ed applicazioni dei concetti studiati in classe.

La durata del corso sarà di 2 fine-settimana per un totale di 28 ore di lezione frontale, e il costo sarà di 489 euro IVA inclusa. Si terrà presso la Cooperativa Opificio dei Sensi di Verona e sarà così strutturato:

Presentazione
Introduzione alla interpretazione della letteratura scientifica come strumento di autoformazione permanente e di valutazione delle informazioni offerteci dal mercato.

Esso si compone di quattro sezioni principali che affrontano i temi più importanti per lo studio delle piante medicinali e degli oli essenziali:

  1. le origini delle trappole mentali, il ruolo della disciplina e del pensiero critico nella ricerca;
  2. la logica della medicina;
  3. lo studio dei dati folclorici e storici per la valutazione della tradizione erboristica, e l’analisi della ricerca biomedica, dell’epidemiologia e dei principali strumenti per la valutazione di efficacia e sicurezza dei rimedi
  4. una disamina delle fonti e degli strumenti più rilevanti in internet.

Programma
Le basi: il ruolo della scienza nella ricerca

  • “Trappole mentali”
  • Credere, dubitare e sospendere il giudizio
  • Dalla superstizione alla filosofia naturale, dai fiumi di Babilonia al Medioevo europeo, alla Scienza Moderna.
  • La scienza non è una vacca sacra e neppure un “discorso” tra tanti.
  • Cosa è il metodo scientifico? Ovvero, ne esiste uno?

Le basi: la logica della medicina

  • Cause.
  • Malattia e normalità.
  • Prove.
  • Bias.
  • Confounding.

Ricerca biomedica

  • Una introduzione all’epistemologia e alla biostatistica
  • Definire i tipi di studio
  • Studi in vitro ed in vivo.
  • Studi clinici.
  • Metastudi.
  • Limiti e punti di forza dei vari studi.
  • Descrivere i dati
  • Una comprensione intuitiva dell’analisi statistica
  • Il primo passo: testare le ipotesi e livelli di confidenza
  • L’interpretazione e la valutazione dell’accuratezza dei dati:
  • Come leggere gli studi e come attribuire valori di evidenza e di rilevanza agli
  • studi.
  • Come costruire una gerarchia delle evidenze.
  • Cenni ai problemi più generali della ricerca.
  • Discussione delle piante con maggior sostegno scientifico

Ricerca in etnobotanica ed etnofarmacologia

  • Introduzione ad etnobotanica ed etnofarmacologia: l’importanza delle piante per l’uomo, definizioni, storia, metodi, fonti
  • L’etnobotanica contemporanea: filoni di ricerca, problemi, relazione con la fitoterapia
  • Metodi in etnobotanica applicata: gli strumenti per fare da sole ricerca sul campo delle tradizioni locali
  • Discussione delle piante che hanno fatto la storia dell’etnofarmacologia

Il reperimento delle fonti nell’era di internet

  • Internet ed il paradosso dell’eccesso di informazione
  • Strumenti per selezionare i siti sicuri
  • Elenco ragionato di fonti sicure divise per argomento

Lo stato dell’arte nella ricerca sugli oli essenziali

  • Una panoramica sulla ricerca preclinica e clinica in aromaterapia.

Otto seminari otto

cattedra

Negli anni ho tenuto vari corsi sulle piante medicinali, primariamente indirizzati a studenti/esse di Tecniche Erboristiche, ad erboristi/e, a farmacisti/e e medici.

In fase di progettazione dei corsi ho sempre cercato di inserire una parte dedicata alla metodologia di ricerca e agli strumenti di analisi delle evidenze, ma questo approccio non ha mai incontrato un grande successo, e posso capirne il perché: a causa del tempo limitato che i professionisti riescono a dedicare all’aggiornamento, spesso la tentazione è di accumulare quante più informazioni possibili da poter spendere praticamente nel lavoro quotidiano.  Discorsi teorici sulla validità delle evidenze, sul loro reperimento, sulla loro valutazione possono sembrare solo ostacoli e ritardi inutili,  in fondo chi viene a seguire il corso implicitamente considera il docente come fonte attendibile.

Io penso invece che, in un’ottica che vada al di là dell’immediatamente utile, tale approccio vada ripensato.  Proprio perché il tempo (ed i soldi) sono limitati è utile sviluppare in proprio gli strumenti che ci permettono di formarci da soli una opinione sulle informazioni che riceviamo, senza dovere ogni volta iscriversi ad un altro corso che darà informazioni sparse che inevitabilmente saranno obsolete nel giro di relativamente poco tempo.  Se questo discorso vale per tutti i professionisti, vale a mio parere ancora di più per gli erboristi.

A differenza di medici e farmacisti, chi lavora con le piante medicinali ha un corpus di evidenza sul quale basare le proprie decisioni più limitato e di qualità più variegata. Inoltre le fonti di evidenza sono più diversificate, non essendo limitate a dati sperimentali e clinici, ma comprendendo anche dati storici ed etnobotanici. Gli erboristi non hanno quindi a disposizione facili ed esaustivi formulari, e devono spesso valutare da soli l’importanza di un dato, e devono inoltre  possedere diverse competenze per decifrare lo scenario.

Inoltre l’impressione che mi sono fatto in questi anni è che spesso chi lavora nel campo erboristico mantiene un atteggiamento diffidente e pregiudiziale nei confronti della “Scienza”.

Seppure possa capire da dove proviene questo sentimento, credo che esso sia ingiustificato, e che in realtà impedisca di mettere in campo critiche serie al modo in cui la ricerca viene fatta.  Come non mi stanco di ripetere, l’unico modo per pretendere che i dati storici sulle piante medicinali vengano presi seriamente in considerazione è di essere scientificamente stringenti e metodologicamente esigenti (ho coperto questi argomenti in una serie di post su questo blog, in particolare in Indici quantitativiIndicazioni tradizionali, e Uomo e piante)

Tutto questo per dire che sono molto contento che la S.I.S.T.E. abbia accettato la mia proposta di un corso di otto seminari sulle piante medicinali, i cui due primi appuntamenti saranno interamente dedicati alla problematica dei metodi di ricerca scientifica, e al problema di come valutare ed utilizzare i dati provenienti da storia della medicina ed etnobotanica.

I seminari si terranno a Milano, presso la sede della S.I.S.T.E., i lunedì, dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 17.30, con il seguente calendario: 15 Aprile; 13 Maggio; 27 Maggio; 10 Giugno; 16 Settembre; 14 Ottobre; 11 Novembre; 16 Dicembre.

E’ possibile scaricare il programma dei seminari e la domanda di iscrizione qui.

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Il corso sarà diviso in due parti, la prima dedicata, come già accennato, alle basi della ricerca, mentre la seconda cercherà di delineare lo stato dell’arte sulle piante medicinali che hanno una base di evidenza più solida, dividendo gli argomenti per apparato.

Di seguito il programma completo.

Seminario 1. (15/4) La ricerca in fitoterapia.
Le basi: la logica della ricerca. 
Scienza: non una vacca sacra e neppure un “discorso” tra tanti. Demistificare per valutare.

Breve introduzione alla scienza con il metodo del riepilogo storico.

Cosa è il metodo scientifico? Ovvero, esiste un metodo scientifico? Alcune ragioni per dubitare ma non per disperare. Tentativi di inquadramento dei termini chiave.

Il problema della demarcazione, ovvero, di chi mi devo fidare anche se fa male?

Le basi: la logica della medicina
– Cause
– Malattia e normalità
– Credere, dubitare e sospendere il giudizio
– Prove
– Bias
– Confounding

Seminario 2. (13/5) Gli strumenti a nostra disposizione
Le fonti di informazione a nostra disposizione e più rilevanti per la fitoterapia
– Ricerca storica ed etnobotanica
– Fitochimica ed evoluzione
– Studi in vitro ed in vivo
– Studi clinici
– Metastudi
– Limiti e punti di forza dei vari studi.
L’interpretazione dei dati
– Cenni di epidemiologia
– Come leggere gli studi e come attribuire valori di evidenza e di rilevanza agli studi
– Come costruire una gerarchia delle evidenze
– Cenni ai problemi più generali della ricerca.

Seminario 3. (27/5) Stato dell’arte della ricerca sulle piante. 
– Una visione sullo stato dell’arte: definizioni.
– Le piante con maggiori livelli di evidenza per l’efficacia
– I dati tossicologici
– Interazioni negative e positive

Gli utilizzi delle piante e gli apparati.
Ogni seminario presenterà brevi cenni di fisiopatologia dell’apparato/sistema in questione, ed esaminerà le piante rilevanti che abbiano un sufficiente supporto clinico e sperimentale, oltre a suggerire quali altre piante potrebbero essere utili seppure con un supporto minore.

Seminario 4. (10/6)
– Tonici ed adattogeni
– Antibiotici, immunomodulanti.

Seminario 5. (16/9)
– Apparato gastrointestinale: problemi funzionali (dispepsia, sindrome dell’intestino irritabile, reflusso), gastrite, stipsi, diarrea, disbiosi, problemi epatobiliari
– Apparato genito-urinario: le infezioni del tratto urinario, disturbi funzionali della minzione, iperplasia prostatica benigna, calcolosi

Seminario 6. (14/10)
– Apparato cardiocircolatorio: ipertensione, aritmie, palpitazioni, insufficienza venosa cronica.
Metabolismo: dislipidemie, disglicemie, prediabete, sindrome metabolica

Seminario 7. (11/11)
– Apparato muscoloscheletrico: dolori reumatici, traumi, dolori muscolari
– Apparato nervoso periferico e centrale: ansia, stati depressivi, insonnia,

Seminario 8. (16/12)
– Apparato tegumentario: acne, eczema, psoriasi, micosi cutanee.
– Apparato respiratorio: le malattie da raffreddamento, le bronchiti, la tosse, otite, sinusite, rinite allergica

 

 

 

Indicazioni tradizionali: come valutarle, e perché?

Ha senso interrogarsi sui dati tradizionali relativi all’uso delle piante medicinali, ai dati storici ed etnobotanici? Al di là di un mero interesse antiquario o accademico, che significato ha il sapere antico e tradizionale? Quale peso dobbiamo dare alle fonti tradizionali per le nostre decisioni rispetto all’oggetto piante medicinali?

Credo che proprio chi lavora con le piante medicinali, studiandole o usandole, dovrebbe porsi queste domande e tentare di dare loro risposte serie, credibili, aumentando la qualità della riflessione teorica senza usare scorciatoie.  Il fatto che le fonti storiche ed etnobotaniche siano abbondati è contemporaneamente un punto di forza ed un punto critico, perché può sembrare che la loro mera esistenza possa bastare a giustificare l’uso delle piante medicinali, la loro sicurezza, la loro efficacia, ecc.  Non è lo scopo di questo post approfondire le molteplici ragioni per cui questo assunto metodologico sia insostenibile.  Prenderò invece come assunto proprio il fatto che, appurata l’esistenza e la consistenza delle fonti, rimane da approfondire il problema della loro valutazione, della loro significatività, della loro interpretazione.

E allora, approfittando del traino di Erba Volant, tenterei di approfondire il ruolo dei metodi quantitativi in etnobotanica ed etnofarmacologia, e di mostrare come essi possano permettere una valutazione razionale dei dati, e di usare questi dati per intervenire nel mondo, per incidere sul reale, un argomento sul quale avevo discusso tempo fa con Andrea Pieroni.

Facciamo però un passo indietro per meglio definire i termini della questione. L’etnofarmacologia è stata definita come un campo di  studio interdisciplinare che si divide tra scienze mediche, naturali e sociali, e che ha a che vedere con l’osservazione, l’identificazione, la descrizione e la sperimentazione degli ingredienti e degli effetti delle droghe indigene.  Lo scopo di queste osservazioni è ampio, ed è cambiato nel tempo, come nel tempo sono cambiati gli scopi dell’etnobotanica, ma possiamo certamente dire che due possibili obiettivi sono la generazione di predizioni su piante non studiate, e la corroborazione dei dati sull’attività di piante poco studiate.  Il filtro etnobotanico è stato certamente il primo strumento che abbiamo utilizzato per individuare rimedi interessanti: l’osservazione del comportamento dell’uomo, e in qualche caso degli animali, ha portato alla scoperta delle piante che hanno fatto la storia della farmacologia classica, le piante cosiddette eroiche (Strophantus, Datura, Atropa, Ephedra, Physostigma venenosum, Papaver somniferum, ecc.).

Ma le piante eroiche, facilmente identificabili a causa dei loro effetti drastici, costituiscono una percentuale molto ridotta delle piante medicinali, ed identificare piante ad azione meno evidente si è fatto sempre più difficile. Il migliorare della tecnologia sembrava per un certo tempo avere scalzato il metodo della bioprospezione etnobotanica: i metodi di screening high throughput permettevano di testare migliaia di estratti in poco tempo, e la chimica combinatoria permetteva di creare decine di strutture da un unico modello naturale, e la tecnica di raccolta delle piante a random diveniva in questo modo competitiva prché permetteva la raccolta di moltissimi campioni in poco tempo e senza dover coinvolge le popolazioni locali.  Questo non ha impedito che, sotto la spinta di molti etnofarmacologi, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso l’uso del dato etnobotanico sia ritornato in auge.  Questo nonostante che lo screening etnobotanico soffra di alcuni problemi legati ad una sua non economicità (necessita infatti di operatori professionali, di molto tempo e sostegno economico), e a volte alla poca applicabilità dei dati ottenuti localmente a problematiche di salute tipiche dei paesi sviluppati.

Il problema metodologico che si presentava ai ricercatori era però importante: l’etnofarmacologia moderna doveva contemporaneamente evitare di ridursi ad una serie di rassegne meramente elencatorie senza consistenza teorica, slegate le une dalle altre, ed evitare approcci ingenui. C’era cioè la sentita necessità di produrre lavori veramente transdiciplinari, di dotarsi di strumenti analitici migliori, di metodi quantitativi in grado di generare ipotesi falsificabili, riproducibili e trattabili con strumenti statistici; solo in questo modo la disciplina poteva essere in grado di intervenire nel mondo, magari proprio in quelle comunità locali che erano state fino a quel momento solo una fonte informativa.

Un articolo determinante da questo punto di vista è certamente stato quello di Browner, De Montellano e Rubel del 1988, nel quale gli autori proponevano una piattaforma metodologica che comparasse la prospettiva “emica” (cioè determinata dagli elementi interni di una cultura e dal loro funzionamento piuttosto che da schemi esterni) dell’etnomedicina e quella “etica” (di tipo generale, non strutturale, oggettiva) delle bioscienze, per generare nuove interpretazioni dei dati provenienti dalla ricerca transculturale in antropologia medica.

Gli autori identificano come un obiettivo dell’antropologia medica quello di contribuire alla “riduzione del carico mondiale di malattie, disabilità e sofferenze” , oltre ad una nuova comprensione del significato di salute e malattia. Puntualmente essi riconoscono anche che questa proposta potrebbe sembrare a molti ricercatori qualitativi di matrice eccessivamente riduzionistica, incapace di catturare i fenomeni nel loro contesto, ma ribadiscono la loro convinzione che invece sia possibile effettuare analisi etnograficamente valide, capaci di produrre dati che siano allo stesso tempo rilevanti e significativi per gli informatori, e suscettibili di comparazione e valutazione oggettiva.

Gli autori propongono uno schema di lavoro che consiste:

A) nell’identificare i fenomeni da analizzate in termini “emici” (mal di testa, indigestione, ecc.) e le piante usate per trattarli

B) nel determinare in quale misura i fenomeni descritti possano essere compresi nei termini dei metodi e dei concetti biomedici

C) nell’identificare aree di convergenza e divergenza tra i fenomeni descritti e le spiegazioni biomediche.

Una volta effettuati i vari passaggi, sarebbe teoricamente possibile assegnare ad ogni pianta un livello di evidenza, che gli autori così definiscono:

L1: rapporti di utilizzo parallelo in popolazioni tra le quali la diffusione è improbabile.
L2: evidenza L1 supportata da analisi fitochimica che verifichi la presenza di composti chimici che possono produrre un effetto terapeutico, o che risultano positivi in saggi biologici legati all’attività terapeutica.
L3: evidenza L2 supportata da una modalità di azione plausibile che produrrebbe un effetto terapeutico in un paziente.
L4: evidenza L3 supportata da studi clinici

L’approccio di Browning e collaboratori è stato fondamentale ed ha influenzato moltissimi ricercatori nel cosiddetto paradigma biocomportamentale. Uno dei problemi riscontrati è però che, a parte il primo livello di evidenza (L1), tutti gli altri si basano su dati di tipo fitochimico, farmacologico o clinico. Ma come analizzare le moltissime piante per le quali questi dati non fossero disponibili, o lo fossero in minima parte?

Negli anni vari autori si sono cimentati nel tentativo di espandere il programma di Browner e colleghi, partendo da alcuni assunti, che riassumo in questo modo: 1. le piante importanti come medicinali secondo il sapere tradizionale di un popolo non sono campionature random delle Flore totali, 2. le piante producono una ampia gamma di sostanze interessanti per la salute umana, 3. la sperimentazione e la scelta di certe piante da parte dei gruppi umani viene aiutata da caratteristiche organolettiche delle piante legate al contenuto fitochimico, 4. esiste una correlazione tra filogenesi e fitochimica, 5. popolazioni culturalmente e geograficamente distanti hanno meno probabilità di aver condiviso sapere etnobotanico.

Come vedremo, ognuno di questi punti, se esaminato nel dettaglio, presenta delle criticità.

Iniziamo ad esempio dall’assunto della distribuzione non random delle piante medicinali e del significato di questa distribuzione.  Come si quantifica la segregazione delle piante medicinali nei taxa di una Flora specifica, e come si compara tra Flore differenti?  Inoltre, secondo quali criteri vengono selezionate le piante medicinali da parte delle popolazioni umane? E infine, parlando di sapere tradizionale, come si identifica, e come lo si compara tra culture diverse?

Uno degli studi che hanno iniziato ad analizzare il problema della segregazione tassonomica delle piante è certamente quello di Moerman e collaboratori (1999), che hanno effettuato una analisi di 5 Flore distanti fra loro, domandandosi se vi fossero famiglie botaniche dove il numero di piante medicinali fosse superiore a quello che ci si poteva aspettare da una scelta casuale.  Nello studio gli autori hanno usato il metodo della regressione lineare per identificare i valori più probabili data una distribuzione casuale, ed hanno analizzato i valori che differivano dal valore aspettato (i residui). Ad un residuo positivo elevato corrispondeva una famiglia botanica con una maggior concentrazione di piante medicinali.  Raccolti i dati sui residui per le cinque flore, gli autori le hanno poi comparate a coppie usando l’indice di correlazione di Pearson ed hanno identificato tre famiglie sovrapponibili dominanti in quattro flore su cinque: Asteraceae, Apiaceae e Lamiaceae (da notare che le quattro flore congruenti appartengono tutte all’ecozona Olartica, e l’unica non congruente alla regione Neotropicale).

Sull’onda di questa prima pubblicazione, vari autori hanno applicato la regressione lineare all’analisi comparativa di varie Flore, nel tentativo di duplicare e completare il lavoro di Moerman.

Allo stesso tempo sono state avanzate delle critiche e proposti dei miglioramenti alle tecniche statistiche.  La regressione lineare ad esempio soffre di alcune debolezze: non è adatta a generare ipotesi confutabili, tende a favorire i taxa più numerosi, perché pone un limite massimo ai residui: una famiglia con 10 specie non potrà mai avere uno scarto >10, mentre una famiglia con 100 specie potrebbe avere uno scarto di 100.  Inoltre la regressione lineare presuppone che il rapporto tra  numero di specie medicinali e numero di specie totali (SM/ST) sia lineare, ma questo presupposto non è necessariamente giustificato.  Per finire, la suddivisione in taxa usata da Moerman e colleghi permette una comparazione discreta (la spp. x appartiene/non appartiene alla famiglia y) e non continua tra le specie, e in questo modo non riflette bene la prossimità filogenetica, oltre ad essere legata alla parziale convenzionalità della classificazione tassonomica, in modo che la stessa analisi darebbe risultati differenti a seconda di un approccio tassonomico da lumpers o da splitters.

Bennett e Husby nel 2008 hanno testato la resi di Moerman nella Flora equadoriana usando il metodo binomiale, metodo che a loro parere avrebbe permesso di generare dati utili per testare ipotesi, anche se considera comunque il rapporto SM/ST come lineare.  Più di recente Weckerle e colleghi nel 2011 hanno studiato la Flora medicinale campana comparando i metodi della regressione lineare e quello binomiale ad un approccio Bayesiano, che considera il rapporto SM/ST come una variabile random, e tutte i taxa sopraspecifici come pari, prescindendo dalle suddivisioni tassonomiche, evitando quindi il problema del favorire taxa più numerosi.

Altro problema, discusso da Bletter e in altri articoli, come quello ben descritto da Meristemi, è quello dell’origine dei dati tassonomici: solo un lavoro di analisi filogenetica specifico e quindi lungo e costoso, permetterebbe una comparazione basata su un rapporto continuo di vicinanza filogenetica.
Nonostante le grandi difficoltà, mi pare assodato che i dati in letteratura indicano che il clustering tassonomico esiste, e si può quantificare. Per quanto questo dato sia importante ed intrigante, ci rimane da porci una domanda ancora più rilevante per le possibili implicazioni pratiche: quali sono le ragioni per cui i gruppi umani tendono ad usare più di frequente certe specie piuttosto che altre?  La risposta non è scontata, se alcuni autori hanno risposto che i raggruppamenti rispondono solo a criteri di tipo simbolico, mentre altri propongono approcci più o meno radicalmente adattazionisti.

Secondo Moerman la segregazione in gruppi è dovuta per lo meno a due ordini di ragioni legati tra loro: il primo ha a che vedere con la   correlazione tra filogenesi e fitochimica, per cui gli esseri umani riconoscerebbero, grazie alle loro proprietà organolettiche, piante contenenti gruppi chimici specifici (in particolare composti amari, aromatici e piccanti), e quindi, grazie al fatto che i percorsi metabolici si conservano nelle linee evolutive vicine, tenderebbero a riconoscere specie appartenenti a taxa correlati.  Il secondo ordine ha a che vedere con la trasmissione del sapere etnobotanico. La proposta di Moerman è che le flore medicinali analizzate si assomigliano perché i gruppi umani, nelle loro trasmigrazioni nel corso della storia dal paleolitico in poi, hanno portato con se un sapere tradizionale che hanno trasmesso alle generazioni successive, tramandando di fatto l’utilizzo di certe specie o taxa piuttosto che altri. Leonti e colleghi hanno poi parlato di trasmissione non di un sapere definito e specifico ma della trasmissione di un set di criteri di scelta di vario tipo: organolettici, morfologici, ecologici, simbolici.

Questo set di criteri avrebbe permesso l’adattamento del sapere tradizionale all’esplorazione di nuove regioni biogeografiche dove le specie medicinali o addirittura le famiglie più usate in precedenza non fossero presenti o importanti.  Alla base del clustering tassonomico esisterebbe quindi il legame tra le capacità percettive dell’uomo, la fitochimica delle piante, il parallelismo tra filogenesi e fitochimica, oltre a vari fattori culturali e sistemi cognitivi. Le Asteraceae verrebbero scelte perché conterrebbero principi attivi amari facilmente riconoscibili al gusto.  Tutto questo non ci porta ancora alla conclusione che la selezione sia significativa dal punto di vista dell’attività biologica delle piante.  Non va poi dimenticato che altri autori ritengono questo paradigma troppo ambizino, e ritengono che le ragioni per le quali le piante vengono preferite potrebbero essere di altro ordine, ad esempio la loro disponibilità nelle vicinanze delle abitazioni. In questo senso le Asteraceae verrebbero scelte perché si adattano bene a condizioni di crescita in ambiente ruderale e sono quindi facilmente disponibili all’uso.

Nella prossima puntata vorrei concentrarmi sul problema della definizione e quantificabilità del concetto di sapere tradizionale.

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Cosa non si impara dai virus…

Partiamo dai meccanismi di invasione e replicazione virale. I virus, per potersi replicare, hanno bisogno dell’apparato cellulare. Le nostre cellule, d’altro canto, si sacrificano per salvare l’organismo quando siano in stato di stress o pericolo. Un gene fondamentale nei processi di tumorigenesi, il gene di inattivazione tumorale TP53, si mette in movimento ed attiva la proteina p53 ed i programmi di apoptosi (suicidio programmato) quando la cellula diventi pericolosa, o perché tumorale o perché infetta.

Gli adenovirus (responsabili per il comune raffreddore) sono in grado di inattivare la p53 comprimendo e rendendo illeggibile i suoi geni, e la stessa p53 è inattivata nella maggior parte delle cellule tumorali. Come piegare a nostro vantaggio questi fenomeni?

Un team di ricerca presso il Salk Institute for Biological Studies (qui un video, e qui la press release) ha pensato che selezionando un adenovirus a cui manca una proteina fondamentale per l’inattivazione preventiva di p53 (E1B-55K), esso non sarebbe capace di replicarsi nelle cellule normodotate di p53, ma solo in quelle nelle quali p53 è inattiva, ovvero le cellule tumorali. Se questo approccio avesse successo, si tratterebbe di una terapia oncolitica molto promettente e mirata.

Quello che è successo poi è molto istruttivo. Nonostante l’esperimento non sia stato un successo, questo insuccesso ha permesso di comprendere meglio i meccanismi di inattivazione di p53. E’ quindi un caso di scuola nel quale l’insuccesso di ottenere l’effetto B agendo sul supposto agente causale semplice A permette di rendere visibile la complessità di A, di esplicitarne le articolazioni.

Gli adenovirus mancanti di E1B-55K non hanno impedito a p53 di attivarsi, ma la cellula non ha comunque attivato il processo di apoptosi. Le indagini per capire le ragioni dell’insuccesso hanno rivelato che gli adenovirus si difendono dall’apoptpsi  attraverso meccanismi multipli (almeno una seconda proteina, E4-ORF3, è implicata). Eliminare E1B-55K aveva eliminato solo la prima componente dell’agente causale. Quello che si spera è che una volta meglio compresa la complessità dei meccanismi causali sia possibile utilizzare queste conoscenze per una terapia oncolitica promettente.

A novel mechanism used by adenovirus to sidestep the cell’s suicide program, could go a long way to explain how tumor suppressor genes are silenced in tumor cells and pave the way for a new type of targeted cancer therapy, report researchers at the Salk Institute for Biological Studies in the Aug. 26, 2010 issue of Nature.

When a cell is under stress, the tumor suppressor p53 springs into action activating an army of foot soldiers that initiate a built-in “auto-destruct” mechanism that eliminates virus-infected or otherwise abnormal cells from the body. Just like tumor cells, adenoviruses, which cause upper-respiratory infections, need to get p53 out of the way to multiply successfully.

“Instead of inactivating p53 directly, adenovirus renders the ‘guardian of the genome’ powerless by targeting the genome itself,” explains Clodagh O’Shea, Ph.D., an assistant professor in the Molecular and Cell Biology Laboratory, who led the study. “It literally creates zip files of p53 target genes by compressing them till they can no longer be read.”

The p53 tumor suppressor pathway is inactivated in almost every human cancer, allowing cells to escape normal growth controls. Yet there is still no rationally designed targeted cancer therapy to treat patients based on the loss of p53.

“All of the targeted therapies we have are based on small molecules that inactivate oncogenes, but cancer is not solely caused by the gain of growth-promoting genes,” says O’Shea. “The loss of tumor suppressors is just as important. The big question is how do you target something that’s no longer there?”

Adenovirus seemed to provide the answer. It brings along a viral protein, E1B-55K, which binds and degrades p53 in infected cells. Without E1B-55K to inactivate p53, adenovirus should only be able to replicate in p53-deficient tumor cells. Then, each time it bursts open the host cell to release thousands of viral progenies, the next generation of viruses is ready to seek out remaining cancer cells while leaving normal cells unharmed.

“This makes adenovirus a perfect candidate for oncolytic cancer therapy,” says O’Shea. “Although these viruses did their job, to everybody’s surprise, the patients’ responses did not correlate with the p53 status of their tumors,” says O’Shea. Intrigued, she and her team followed up on this unexpected finding.

Conrado Soria, Ph.D., a research assistant and co-first author of the study, quickly realized that E1B-55K was only half of the story. “The inability of the E1B-55K-mutant virus to replicate in normal cells was not because the virus failed to degrade p53,” he explains.

In unstressed normal cells, p53 is only found at low levels due to rapid degradation. In response to DNA damage, the activation of oncogenes or infection by DNA viruses, p53 degradation is halted and as a result p53 protein levels accumulate. This increase activates p53 target genes, which arrest the cell cycle or induce apoptosis.

Just as predicted, p53 started to build up in normal cells that had been infected with adenovirus lacking E1B-55K but it was still unable to turn on its target genes and start the cell on the path to apoptosis. He eventually discovered why: Adenovirus brings along another protein, E4-ORF3, which neutralizes the p53 checkpoint through a completely different mechanism.

Instead of inactivating p53 directly, the tiny protein prevents the tumor suppressor from binding to its target genes in the genome by modifying chromatin, the dense histone/DNA complex that keeps everything neatly organized within the cells’ nucleus. “These modifications cause parts of chromosomes to condense into so-called heterochromatin, burying the regulatory regions of p53 target genes deep within,” says graduate student and co-first author Fanny E. Estermann. “With access denied, p53 is powerless to pull the trigger on apoptosis.”

O’Shea hopes to exploit these new insights to understand how high levels of wild type p53 might be inactivated in cancer as well as the mechanisms that induce aberrant silencing of tumor suppressor gene loci in cancer cells. “Our study really changes the longstanding definition of how p53 is inactivated in adenovirus-infected cells and will finally allow us to develop true p53 tumor selective oncolytic therapies.”

GSE, reloaded

“Tiro su” un vecchio post sull’estratto di semi di pompelmo (GSE) per segnalare un nuovo lavoro che conferma quanto scritto in quell’occasione. Ovvero, stringendo e tralasciando il dilemma metafisico sulla naturalità o meno del prodotto in questione, che la posizione più giustificata rispetto al GSE sarebbe questa: “se il prodotto non è adulterato, non funziona, se funziona, è adulterato”.

A conferma dei gravi dubbi sull’efficacia del prodotto, ricevo dal Prof. Rosato e con piacere riassumo una ricerca non pubblicata, parte della tesi di laurea in “Chimica e tecnologie farmaceutiche” presso l’Università di Bari, laureanda Gemma Sblendorio, relatori i Prof. Rosato e Vitali.

Nella tesi, dopo una sezione di ricerca bibliografica e di descrizione generale dell’ambito di discussione, l’autrice passa a descrivere i prodotti commerciali selezionati per essere testati, e le metodiche di testaggio stesse.

I prodotti commerciali testati sono stati i seguenti:

  1. Olio essenziale di Pompelmo (A)
  2. Capsule (B), polvere (E), compresse (L) e tavolette intime anticandida (H) contenenti estratto secco di GSE
  3. Sciroppo a base di GSE (F)
  4. Estratti glicerinati di GSE (C, D, G)

Le metodiche utilizzate sono state tre, per adattarsi alle diverse forme galeniche:

  1. Agar diluizione (A-G, H, L)
  2. Agar diffusione (A-D, F, G)
  3. Microdiluizione (A, B, F, G)

I microorganismi testati sono stati:

  • Gram positivi: Bacillus subctilis, B. cereus, Staphylococcus aureus, Enterococcus faecalis.
  • Gram negativi: E. coli, Acinetobacter baumanni, Pseudomonas aeruginosa,
    Serratia marcescens, Salmonella typhimurium, Klebsiella pneumoniae, Yersinia enterocolitica
  • Funghi: Candida albicans, C. glabrata, C. guillermondi, C. krusei, C. tropicalis

Dopo una discussione delle problematiche concernenti la solubilizzazione dei vari prodotti, e i problemi legati alla presenza di eccipienti o di altri estratti con attività antimicrobica non nulla, uno specchietto presenta i risultati in forma aggregata.

PRODOTTO

Metodo ADF

Metodo ADM

Metodo MICT

Olio Essenziale           A

ATTIVO

NON ATTIVO

ATTIVO

Capsule                        B

NON ATTIVO

ATTIVO

NON ATTIVO

Estratto Glicerolico   C

NON ATTIVO

NON ATTIVO

NON ESEGUIBILE

Estratto Glicerolico   D

NON ATTIVO

NON ATTIVO

NON ESEGUIBILE

Estratto Secco             E

NON ESEGUIBILE

NON ATTIVO

NON ESEGUIBILE

Sciroppo                       F

ATTIVO

NON ATTIVO

ATTIVO

Estratto Glicerolico   G

ATTIVO

NON ATTIVO

NON ATTIVO

Tavolette intime        H

NON ESEGUIBILE

ATTIVO

NON ESEGUIBILE

Compresse                   L

NON ESEGUIBILE

ATTIVO

NON ESEGUIBILE

Legenda

MICT (Minimum Inhibitory Concentration Test)

ADM (Agar Dilution Method)

ADF (Agar Diffusion Filtration)

E le conclusioni sono:

Al termine della mia ricerca (…) dai risultati ottenuti possiamo concludere che dei nove prodotti testati solo due di essi, l’olio essenziale (prodotto A) e lo sciroppo (prodotto F), presentano una inequivocabile attività antimicrobica, certa per il primo, presunta per il secondo.  Mentre per l’olio essenziale esiste una valida bibliografia scientifica che avvalora i dati ottenuti, per lo sciroppo, vista la sua considerevole efficacia sia contro Batteri Gram positivi sia contro Batteri Gram negativi, si può lecitamente dubitare sulla sua validità terapeutica. Tali perplessità trovano riscontro nella presenza del Potassio Sorbato, normalmente utilizzato come conservante, ma potenzialmente citotossico e quindi microbicida. I prodotti B,H,L, forme farmaceutiche solide, sono caratterizzati invece da una parziale attività antimicrobica, probabile conseguenza della varietà di estratti di piante officinali che contengono, come descritto da confezione. Attività ancora più marginale è stata rilevata per il prodotto G, estratto glicerinato contenente oltre al glicerolo (conservante, con potere battericida) anche lo xilitolo (potenzialmente microbicida). Totalmente inattivi risultano, invece, i prodotti E (polvere galenica), C, D (estratti glicerinati). (…) Risulta quanto mai evidente l’ambiguità della efficacia dei prodotti a base di Grapefruit seed extract, e la conseguente sopravvalutazione del loro potere antimicrobico. Doveroso e necessario è l’invito ai fruitori di tali prodotti a documentarsi, supportati dal consiglio del proprio medico, sull’utilizzo dei prodotti “NATURALI” pubblicizzati da un marketing di rete sempre più tenace e spregiudicato, che specula spesso sulla buona fede del consumatore, ed alle Autorità preposte affinché colmino quella carenza legislativa che caratterizza tali settori a tutela e garanzia della salute e sicurezza dei cittadini.

Ringrazio l’autrice della tesi ed i relatori per la segnalazione e per la possibilità di pubblicare stralci della tesi.

Cibo, piante medicinali e malato oncologico

Ecco l’ultima e definitiva versione del programma della due giorni milanese di cui ho già parlato qui.
Programma definitivo

Allergeni

Il problema della presenza di sostanze aromatiche sensibilizzanti nei cosmetici e nei profumi non è nuovo, ma è solo negli ultimi anni che la problematica dell’etichettatura dei prodotti e delle informazioni date ai clienti allergici o sensibilizzati è uscita dai circoli degli specialisti.

Il 7° emendamento alla Direttiva sui Cosmetici (Council Directive 2003/15/EC) comporta l’obbligatorietà dell’etichettatura di 26 sostanze (elencate nel Annex III) che, secondo l’opinione del SCCNFP (Scientific Committee on Cosmetics and Non Food Products intended for consumers), sono gli allergeni più comuni nelle fragranze e nei profumi, quando siano presenti a livello dello 0.01% o superiore per prodotti wash-off e dello 0.001% o superiore in prodotti leave-on.  Sedici di queste sostanze sono naturalmente presenti negli OE.

L’opinione del 1999, che ha portato alla modificazione della Direttiva, era articolata in quattro sezioni:
1. Gli ingredienti delle fragranze debbono essere considerati un’importante causa d’allergie da contatto.  In particolare il Comitato denuncia che nei soggetti affetti da eczema vi è stato un significativo aumento delle allergie da fragranze negli ultimi 10 anni, e che sempre in questo gruppo le allergie da fragranza sono una delle cause più comuni d’allergia da contatto (8%).  Gli studi sulle popolazioni non affette da eczema sono più difficili e più scarsi, ma i dati sembrano comunque mostrare l’importanza dell’allergia da fragranze nel contesto più generale delle allergie da contatto (1-2%).  Tutti questi studi sono stati effettuati utilizzando lo strumento del Fragrance Mix, un test diagnostico.  Gli studi epidemiologici mostrano che questi dati riflettono bene i dati sull’utilizzo di prodotti cosmetici.  Di tutti i pazienti eczematosi che ricorrono alle cliniche dermatologiche per allergie da cosmetici, il 30-45% mostra allergie da fragranze.
In particolare è stato mostrato che la reazione che vari soggetti eczematosi hanno nei confronti di profumazioni contenute in saponi, dopobarba, profumi, deodoranti profumati, colonie e lozioni è vicina a quella avuta nei confronti del Fragrance Mix.
I 10 profumi più venduti hanno causato una reazione positiva nel 6.9% dei soggetti, contro l’8.1% nel caso del Fragrance Mix. In ultimo il Comitato nota come la compresenza in molti cosmetici di due o più allergeni aumenti il rischio di eczema, vista l’effetto sinergico sull’infiammazione e sull’estensione della reazione eczematosa.
2. Sulla base di criteri ristretti ai dati dermatologici riflettenti l’esperienza clinica, è stato possibile identificare 26 ingredienti delle fragranze, che corrispondono agli allergeni più comunemente riconosciuti.

Esempi di allergerni presenti negli olii essenziali:

  • Alcol cinnamico
  • Cinnamale
  • Citrale
  • Eugenolo
  • Geraniolo
  • Idrossicitronellale
  • Isoeugenolo
  • Alcol anisico
  • Benzoato di benzile
  • Cinnamato di benzile
  • Citronellolo
  • d-Limonene
  • Cinnamaldeide
  • Farnesolo
  • Linalolo

3. Non vi sono al momento dati sufficienti che permettano di determinare una relazione dose-risposta e un valore soglia per questi allergeni.  Questo perché pochi allergeni sono stati testati per individuare il livello di non effetto.
4. E’ opinione del Comitato che il consumatore dovrebbe ricevere informazioni adeguate sulla presenza nei prodotti cosmetici di composti con un potenziale ben riconosciuto di causare allergie da contatto.  La mancanza di tale informazione limita  una adeguata diagnosi delle allergie da contatto con fragranze, impedisce ai consumatori con riconosciuta allergia a certi composti di tutelarsi, e riduce di molto il feedback verso l’industria di produzione, che non può quindi prendere delle misure in caso di necessità.

Considerazioni
Questi sviluppi hanno un potenziale dirompente anche al di fuori del mondo della cosmesi.  Non solo un alto numero di sostanze incluse in questi elenchi sono presenti negli OE, ma alcune sono quasi ubiquitarie, come il linalolo e il d-limonene, ed altre ancora (geraniolo, eugenolo, ecc.) sono comunque presenti in moltissimi OE.

Per dare un’idea di quanti OE sono stati implicati, basta dare un’occhiata all’elenco che segue, che comprende solo una minima parte degli OE potenzialmente interessati.

  • Aniba roseodora (Legno di rosa: citrale, citronellolo, linalolo)
  • Cananga odorata (Ylang ylang: alcol benzilico, geraniolo, isoeugenolo, benzoato di benzile, farnesolo)
  • Cinnamomum camphora fol (Foglia di Ho: d-limonene, linalolo)
  • Cinnamomum cassia (Cannella cinese: alcol cinnamico)
  • Cinnamomum zeylanicum (Cannella vera: alcol cinnamico, eugenolo, benzoato di benzile)
  • Citrus aurantium var amara (Arancio amaro: geraniolo, d-Limonene)
  • Citrus aurantium var amara flos (Neroli: geraniolo, farnesolo)
  • Citrus limonum (Limone: citrale, d-Limonene)
  • Citrus reticulata (Mandarino: citronellolo, d-Limonene)
  • Citrus sinensis (Arancio dolce: d-Limonene, linalolo)
  • Citrus spp. (d-limonene)
  • Citrus spp fol (Petitgrain:  citrale, geraniolo)
  • Coriandrum sativum (Coriandolo: geraniolo, linalolo)
  • Cuminum cyminum (Cumino: cinnamato di benzile, d-Limonene)
  • Cymbopogon citratus e flexuosus (Lemongrass: citrale, geraniolo, citronellolo, d-Limonene, farnesolo)
  • Cymbopogon martinii (Palmarosa: geraniolo, farnesolo)
  • Cymbopogon nardus e winterianus (Citronella: geraniolo, citronellolo, d-Limonene, farnesolo)
  • Eucalyptus citriodora (geraniolo, citronellolo)
  • Eucalyptus radiata (citrale, geraniolo)
  • Foeniculum vulgare (Finocchio: d-Limonene)
  • Gaultheria ssp (Wintergreen: benzoato di benzile)
  • Jasminum grandiflorum (Gelsomino assoluta: alcol benzilico, farnesolo)
  • Juniperus ssp (Ginepro: d-Limonene)
  • Laurus nobilis (Alloro: eugenolo, geraniolo)
  • Lavandula angustifolia (Lavanda: geraniolo, linalolo)
  • Lavandula x hybrida (Lavandino: linalolo)
  • Lippia citriodora (Verbena: citrale)
  • Melaleuca ssp (eugenolo)
  • Melissa officinalis (citrale)
  • Myristica fragrans (Noce moscata.  isoeugenolo, linalolo)
  • Myroxylon balsamum (Balsamo del Tolu) e Myroxylon pereirae (Balsamo del Peru) (alcol cinnamico, benzoato di benzile, cinnamato di benzile, farnesolo)
  • Ocimum basilicum (Basilico: linalolo)
  • Pelargonium spp (Geranio: geraniolo, citronellolo)
  • Pimpinella anisum (Anice:  alcol anisico)
  • Pinus spp (citrale, d-Limonene)
  • Pogostemon cablin (Patchouli: alcol cinnamico)
  • Rosa spp (eugenolo, geraniolo, citronellolo, farnesolo)
  • Salvia sclarea (citronellolo)
  • Satureja spp (Santoreggia: eugenolo)
  • Styrax benzoin (Benzoino: alcol benzilico, alcol cinnamico, cinnamato di benzile)
  • Syzygium aromaticum (Chiodi di garofano: eugenolo, isoeugenolo

Come visto al punto 3 del documento del 1999, il SCCNFP non ha definito dei livelli per i limiti imposti agli allergeni nei cosmetici.  La mancanza di questi limiti significa che moltissimi OE sono rimasti coinvolti in questa  legislazione.  La semplice presenza di un composto è bastata a far condannare l’uso di un OE, e a seguito dell’implementazione di questaregolamentazione l’industria degli olii essenziali ha sofferto un colpo molto duro, a fronte di una generalizzazione  automatica ma in realtà non giustificata in assenza di ulteriori studi sugli OE in toto.

Questa decisione non è mai stata formalmente giustificata dal SCCNFP , e vari autori, ed in particolare Cropwatch, hanno criticato la metodologia utilizzata, denunciando un eccesso di restrizione di fronte ad una mancanza di evidenza clinica o sperimentale.

Cropwatch/The Aromaconnection Blog riportano gli ultimi sviluppi su questo fronte. Anche se siamo ancora lontani da uno studio serio sulla solidità dei dati alla base della legislazione sugli allergeni, per lo meno viene riconosciuto che al momento della composizione della lista, non esistavano dati sufficienti per calcolare un rapporto dose/risposta o un livello soglia oltre il quale la sostanza sarebbe attiva:

“Scientific information of general and specific nature has been submitted to DG ENTR in order to ask the SCCP for a revision of the 26 fragrances with respect to further restrictions and possible even delisting.“

“At that time there were not sufficient scientific data to allow for determination of dose response relationships and/or thresholds for these allergens.”

Goethe ci parla del Kava

Sembrerebbe che le cose si stiano muovendo per il kava. Da mesi si parla della possibilità di superare il bando della vendita del Piper methysticum nella UE (in atto dal 2002), e sembrerebbe che le consultazioni tra l’International Kava Executive Council, gli ambasciatori delle Isole del Pacifico (i maggiori produttori di kava) e i rappresentanti della Commissione Europea.

Leggendo il poco a disposizione (la notizia non è confermata da siti autorevoli) sembrerebbe in realtà che ciò che è stato ottenuto dai coltivatori di kava sia il diritto di registrare il kava come farmaco tradizionale in Europa, e l’assicurazione che il WTO sarebbe intervenuto per difendere i diritti commerciali dei coltivatori a non vedersi esclusi dal mercato europeo.

Nulla sarebbe ancora cambiato però dal punto di vista della valutazione della tossicità della pianta, per cui il commercio dei prodotti a base di kava sarebbe comunque ancora vietato. Ma questo passaggio sembrerebbe una premessa ad passo ulteriore, ovvero al riconoscimento della sicurezza della pianta, anche alla luce (finalmente!) degli studi che si sono accumulati negli ultimi anni.

Per rinfrescarci la memoria sul kava, sfogliamo la recente review sulla epatotossicità del Piper methysticum pubblicata sullo European Journal of Gastroenterology & Hepatology da ricercatori della Università Goethe di Francoforte sul Meno, una review che, insieme ad una seconda pubblicata dal The New Zealand Medical Journal dà ragione a chi negli anni ha denunciato l’eccesso di sensazionalismo nella discussione sulla tossicità delle piante medicinali.

Riassumendo…

In tutto ci sono stati 83 casi riportati di reazioni avverse (ADR) al kava dal 1990 a metà 2002, a fronte di 295 milioni di dosi giornaliere vendute nello stesso arco di tempo.

Se assumiamo per vera la valutazione precedente, allora l’incidenza di ADR per Kava è di 0,01 per milione di dosi; se invece assumiamo una valutazione molto conservativa di 50 casi di epatotossicità probabile, l’incidenza di reazioni avverse per Kava è di 0,24 per milione di dosi.

A mò di confronto, l’incidenza di ADR per le benzodiazepine varia da 0,9 (bromazepam) a 2,12 (diazepam); in genere, per la maggior parte dei farmaci, il rischio di epatotossicità è di 1 a 10 ogni 100.000 soggetti esposti.

Tra i vari casi di epatotossicità grave, ci sono 4 casi di aumento degli enzimi epatici, 5 casi di epatite colestatica, 5 casi di disfunzione delle cellule epatiche, 5 casi di insufficienza epatica, 3 dei quali fulminanti con necrosi e trapianto:  una donna di 60 anni che ha assunto fino a  480 mg di kavalattoni al giorno per un anno; una donna di 22 anni che ha assunto 240 mg di kavalattoni al giorno per 4 mesi; una donna di 50 anni che ha assunto 60 mg di kavalattoni per 7 mesi.

Un caso di decesso: una donna di 81 anni che aveva assunto 120 mg al giorno di kavalattoni per 9 mesi.  Solo 3 soggetti non stavano assumendo altri farmaci.

Fino ad ora i casi di epatotossicità grave imputati all’utilizzo di “estratti” di vario tipo di Piper methysticum comprendevano 26 casi nei quali il legame causale è stato valutato come Poco probabile, 32 casi Non verificabili, 18 casi di legame Possibile,  3 casi di legame Probabile (2 dei quali con estratti acetonici, molto selettivi), 3 casi cinsiderati irrilevanti, e zero casi con legame causale certo. In tre casi i soggetti hanno assunto kavaina sintetica e in un caso kavaina sintetica con estratto.

Goethe

La review dei ricercatori dell’Università Goethe ha rianalizzato l’epatotossicità associata al kava in 26 pazienti, ed ha concluso che:

  • in 16 pazienti non è stato possibile legare l’assunzione di kava all’epatotossicità (i pazienti non hanno in realtà assunto kava, oppure l’anno assunto ma la cosomministrazione di altri farmaci non permette un quandro clinico e tossicologico chiaro)
  • in 2 casi la probabilità di un legame causale era così bassa da non suggerire alcun legame
  • Dei rimanenti 8 casi di legame causale confermato, in uno solo l’epatotossicità è stata collegata all’assunzione di kava alle dosi e per i periodi consigliati (non più di 120 mg di kavapironi al giorno per non più di tre mesi). Tre pazienti hanno sofferto di epatotossicità dopo aver assunto kava in dosi troppo elevate o per un periodo troppo prolungato ed i rimanenti hanno sofferto di lesioni epatiche per l’assunzione di kava in concomitanza con altri farmaci epatotossici.

Questa review non fa che confermare che il kava causa rare reazioni epatotossiche se assunto correttamente, e che la sua tossicità è legata ad overdose, periodi di assunzione troppo prolungati o cosomministrazione con certi farmaci

La Commissione E, l’ESCOP e il prof. Ernst condividono l’opinione che il ritiro del Kava sia ingiustificato alla luce dei dati sopraesposti, e che il rapporto rischio/beneficio della pianta sia buono, e sempre migliore dei farmaci di sintesi di riferimento.