“A proposito… non avresti un rimedio per le colichette?”

Una review sistematica di Perry e collaboratori sulle coliche infantili (qui l’articolo scaricabile) mi offre il destro per trattare un argomento sfuggente ma sempre presente quando si lavora con mamme e bambini: le colichette

I risultati della review sulle terapie alternative per le coliche sono abbastanza chiare: i dati non sono sufficienti a dare indicazioni certe, anche se l’estratto di finocchio e la preparazione Colimil (contenente finocchio, camomilla e melissa) possono vantare risultati clinici positivi.

Vale però la pena sottolineare che l’ambiguità dell’entità Coliche Infantili rende più difficile progettare una review sistematica o una metanalisi veramente significativa. E’ probabile infatti che a questa etichetta fenomenologica corrispondano una molteplicità di eziologie, quella gastrointestinale rappresentando solo una tra le tante. Una review sistematica dei rimedi erboristici (da sempre mirati a problemi di spasmi intestinali) dovrebbe poter analizzare solo il sottoset di disturbi di chiara origine gastrointestinali, per poter valutare chiaramente l’efficacia dei rimedi.

Ma vediamo più nel dettaglio cosa si intenda per coliche (qui un resoconto di una conferenza del 2000, datata ma ancora utile per inquadrare il problema).

Nonostante siano apparentemente una delle tante evenienze dei disturbi spastici intestinali, le “coliche” dell’infante (piuttosto comuni: 17-25% dei neonati secondo alcuni autori, 10-30% secondo altri) sfuggono ad una definizione precisa, e da qualche anno non sono più considerate necessariamente associate a disturbi gastrointestinali, ma definite come “parossismi di pianto e irritabilità inspiegabili che durano per più di 3 ore al giorno, per più di 3 giorni alla settimana, che continua da più di 3 settimane”.

Sappiamo da alcuni dati che le crisi tendono a ridursi e cessare intorno ai 4 mesi di età, ma il 30% dei bimbi piange fino ai 3 anni, ed il 10% fino ai 4-5 anni (qui una review).
Secondo una ricerca britannica a due settimane di vita ne soffrono il 43% degli infanti che allattano al biberon ed il 16% di quelli che allattano al seno. A 6-7 settimane la percentuale dei bambini allattati al biberon scende al 12% e quella degli allattanti al seno sale al 31%.

Alcuni autori hanno proposto che esse siano una normale distribuzione del pianto nell’infante, altri invece vedono nelle coliche una condizione patologica (qui, qui, e qui) ed identificano alcune cause probabili (in grassetto), ed altre meno corroborate:
1. Iperperistalsi/dismotilità gastrointestinale
2. Allergie alle proteine del latte vaccino
3. Intolleranza al lattosio
4. Disturbo della relazione infante-genitore
5. Anormale risposta neurofisiologica a normali input esogeni ed endogeni

6. Alterazioni ormonali
7. Fumo durante la gravidanza
8. Alterazioni nella microflora intestinale del neonato

E’ possibile che tra questi fattori si instaurino dei circoli viziosi, ad esempio le coliche possono far nascere il dubbio alla madre di non essere capace di allattare, questo la può mettere in crisi e mettere in crisi la sua relazione con l’infante, con peggioramento della situazione. Oppure il pianto causa una eccessiva ingestione di aria che causa gonfiore e dolore, e via dicendo.

Una proposta di eziopatogenesi che tenta di unire alcune delle cause proposte vorrebbe che certi neonati siano predisposti all’intolleranza verso le proteine del latte e ad una dismotilità intestinale con ipersensibilità/iperalgesia nelle prime settimane di vita. Questi processi porterebbero a stress ed alterazione delle percezioni, con una interpretazione anormale (dolore) di normali input (gonfiore addominale).

La realtà è che non si sà individuare una causa unica (dato questo che viene mimetizzato dal pomposo termine “disturbo idiopatico”), che probabilmente siamo di fronte ad un disturbo multifattoriale, o forse a diversi disturbi raggruppati in maniera artificiale. .

L’approccio migliore, secondo Lucassen e collaboratori è ricordare che: non si conosce la causa ma la condizione è benigna e non è associata a condizioni più gravi; che passerà dopo i tre mesi o poco dopo, e se non passa certamente scemerà; che non è legata ad errori nell’allattamento, e non ha senso passare dalla formula normale al latte di soia; e che in definitiva nessuno degli approcci farmacologici sembra utile più della semplice rassicurazione

Dieta
Nella review di Lucassen e collaboratori si propone di non parlare più di coliche dell’infante bensì di distinguere (secondo il modello di Carey) tra 1. pianto normale, 2. pianto eccessivo secondario (nell’ipotesi degli autori, secondario ad allergia a latte vaccino) e 3. pianto eccessivo primario (ovvero idiopatico, ovvero di cui non si conosce la causa).

Da questa review sistematica (criticata però in molto dei suoi punti, sia nel progetto che nella metodologia statistica utilizzata, vedi qui tre lettere al BMJ in risposta all’articolo pubblicato), si evidenzia che l’eliminazione delle proteine del latte vaccino è stata utile se al loro posto è stata usata una formula ipoallergenica, mentre la sostituzione con latte di soia e con formule a basso contenuto in lattosio sono dubbie; che il trattamento farmacologico con Diciclomina è stata efficace ma ha causato effetti collaterali severi, mentre quello con simeticone non ha mostrato di essere di beneficio.

Il suggerimento degli autori di tentare con una settimana di formula ipoallergenica non deve essere letto come universale: il latte ipoallergenico deve essere usato per i bimbi solo se sono allattati con il biberon, mentre in caso di allattamento al seno si avviserà la madre di non usare latticini. Inoltre la sostituzione non è vista come trattamento delle coliche infantili ma come diagnostica per discriminare tra pianto eccessivo primario e pianto eccessivo secondario all’allergia da latte vaccino.

In conclusione, è sensato modificare la dieta della madre in allattamento solo se fosse particolarmente ricca in cibi che causano flatulenza, come latticini, broccoli, cavoli e le altre brassicaceae, succo d’arancia; oppure se fosse ricca in caffeina.

E le piante?
Secondo la tradizione le piante possono dare una mano in alcuni casi di coliche, specialmente quando sia evidente un gonfiore addominale, o l’infante soffra di flatulenza. In questi casi le piante carminative sono l’approccio di elezione, in forma di infuso. Dato che molto spesso le piante carminative sono anche piante miorilassanti e rilassanti in genere, e dato che questi effetti sono tutti desiderabili, la classe delle piante aromatiche e ricche di olii essenziali è la più importante.
Ne menziono alcune delle più utilizzate con i bambini: Matricaria recutita, Melissa officinalis, Nepeta cataria, Lavandula vera. Più carminative le piante Mentha xpiperita, Foeniculum vulgare e Anethum graveolens. Se l’effetto tranquillizzante fosse particolarmente importante è possibile aggiungere Tilia spp.
Una combinazione in forma di infuso solubile contenente Matricaria recutita, Verbena officinalis, Glycyrrhiza glabra, Foeniculum vulgare e Melissa officinalis è stata testata in uno studio clinico prospettico in doppio cieco con placebo su bambini di tre settimane con coliche infantili; il dosaggio arrivava ad un massimo di 150 mL per dose, usata ad ogni episodio di colica, ma non più di tre volte al giorno. Dopo sette giorni di trattamento il punteggio sulla scala di miglioramento era migliore nel gruppo verum, e una maggior percentuale (57%) di bambini ha terminato lo studio senza coliche rispetto al placebo (26%).
Come detto all’inizio di questo post, la review sistematica di Perry, Hunt e Ernst (2010), che ha analizzato 15 studi clinici di qualità per un totale di 994 bambini, ha concluso che l’estratto di finocchio ed una formula contenente finocchio, melissa e camomilla mostrano efficacia in studi clinici controllati con placebo, di buona (ma non ottima) qualità.

Altre pratiche utili
Sempre in caso di chiara presenza di gas intestinali il massaggio sull’addome in senso orario con olio tiepido/caldo sembra utile, anche se non è chiaro se l’utilità derivi dall’azione specifica sul tratto gastrointestinale oppure su una azione tranquillizzante generale.

Tidbits: cannabis

Nonostante parlare dell’utilizzo della Cannabis e dei suoi derivati come strumento per il trattamento del dolore cronico non sia più una eresia, rimane ancora difficile farlo con chiarezza e serietà e senza pregiudizi o stimmate apposte all’argomento. E’ quindi una buona notizia la pubblicazione di una review sul trattamento del dolore cronico, eseguita presso l’Università di Toronto.

La review ha considerato 18 studi clinici, diversi tipi di assunzione (cannabis fumata, estratti somministrati per via transdermica orale, analoghi del THC) e diversi tipi di dolore non legato a neoplasie (dolore neuropatico, fibromialgia, artrite reumatoide, dolore cronico di origine mista).

I risultati sono stati molto interessanti: la qualità degli studi esaminati è risultata in media eccellente (una rarità nel campo della ricerca su derivati vegetali), e 15 studi su 18 (l’83%) hanno mostrato risultati positivi per l’effetto analgesico. Un numero minore di studi ha mostrato effetti positivi sulla qualità del sonno, e comunque nessuno degli studi ha mostrato effetti collaterali particolarmente preoccupanti. I risultati migliori si sono visti con il dolore neuropatico, mentre gli effetti sono meno eclatanti per la fibromialgia e l’artrite reumatoide. Nonostante gli autori sottolineino che gli effetti, nei casi migliori, sono comunque risultati modesti, vale la pena ricordare che l’importanza di questi effetti va considerata nel contesto delle altre opzioni disponibili. Quando, come nel caso delle neuropatie, le altre opzioni (oppiacei, anestetici locali, antidepressivi) sono spesso non o poco utilizzabili o efficaci, anche una efficacia modesta è un’ottima notizia.

Rimane il fatto però che molti di coloro che utilizzano la Cannabis sativa come strumento terapeutico lo fanno non utilizzando farmaci a penetrazione transdermica orale (Sativex e simili) o i sistemi di evaporazione a basse temperature, bensì attraverso la combustione della pianta e resina secche. Di contro sono molti scarsi gli studi sugli effetti e l’efficacia della Cannabis assunta con l’inalazione del fumo.

Per questo è  interessante lo studio clinico randomizzato (e qui) sull’effetto analgesico della cannabis in casi di neuropatia cronica  eseguito da un gruppo di ricerca del McGill University Health Centre (MUHC) e della  McGill University.

I ricercatori hanno testato fumo di cannabis a tre livelli di THC: 2.5%, 6%e  9.4%. più un placebo allo 0%. I risultati sono stati anche in questo caso chiari: la dose di 25 mg al 9,4% di THC per tre volte al giorno per cinque giorni consecutivi ha portato ad una riduzione significativa dell’intensità media del dolore, la qualità del sonno è migliorata in maniera dose dipendente, l’ansia e la depressione si sono ridotte alla dose di THC pari al 9.4%

Oltre all’utilizzo della Cannabis e dei suoi derivati, i ricercatori da tempo cercano di utilizzare i cannabinoidi endogeni (endocannabinoidi), scoperti per l’appunto grazie alla ricerca sulla Cannabis, come farmaci. Il razionale è questo: lavorando sugli enzimi che degradano gli endocannabinoidi si cerca di aumentare la loro emivita aumentando quindi la loro azione ansiolitica e analgesica. Questa strategia ha funzionato per uno dei due endocannabinoidi principali, l’anandamide. Quando il suo enzima degradante, l’idrolasi delle ammidi degli acidi grassi (fatty acid amide hydrolase – FAAH) viene inibito i livelli di anandamide si elevano riducendo dolore ed infioammazione, e senza segnali di abituazione.

Diverso invece il discorso per quanto riguarda un altro endocannabinoide, il 2-arachidonilglicerolo (2AG), che sembrerebbe più promettente dell’anandamide, dato che la sua concentrazione cerebrale è naturalmente più elevata.  Infatti l’utilizzo di un bloccante selettivo dell’enzima che degrada il 2AG (la monoacilglicerolo lipasi – MAGL) porta ad un aumento dell’effetto analgesico di un fattore otto, effetto che però si riduce dopo sei giorni, e poirta a vari segnali di abituazione anche ad altre sostanze (THC e composti di sintesi con attività di legame ai recettori cannabinoidi CB1). Questi risultati implicano che a differenza dell’anandamide, il 2AG porta ad abituazione (e forse a dipendenza), probabilmente attraverso un meccanismo di downregolazione dei recettori CB1 in alcune aree del cervello.