Uomo e piante 2/dimoltialtri

Continua questa serie di post sul rapporto uomo e piante nella storia. Ci eravamo lasciati qui con la promessa di dare un’occhiata più da vicino all’evoluzione delle piante e dei loro metaboliti secondari, e poi all’evoluzione dell’uomo, come preambolo prima di mescolare il tutto nel calderone :-).

Quindi eccoci qui a parlare de…

L’evoluzione delle piante – una breve descrizione
La vita ebbe inizio nelle acque. E fu vita autotrofa, pacifica, a bassa diversità. La nascita dei primi predatori fu la causa iniziale di una esplosione evolutiva che ci ha portato ai giorni nostri.

L’azione predatoria fece da stimolo ad una diversificazione degli autotrofi verso nuove nicchie ecologiche, nuovi modi di vivere negli oceani e nuove strategie per sfuggire ad una minaccia nuova. Questa diversificazione, accompagnata da una diversificazione parallela nei predatori, portò in tempi geologicamente brevi alla saturazione delle nicchie oceaniche, e quindi al tentativo di conquistare un habitat fino ad allora vergine, le terre emerse.

Ma questa conquista richiedeva modificazioni qualitativamente molto diverse rispetto a quelle precedenti: bisognava in qualche modo rendersi autonomi dall’acqua, e l’evoluzione successiva è tutta percorsa da questo tema, l’interiorizzazione dell’oceano. Ma perché questa storia potesse avere inizio erano necessarie certe condizioni di partenza, senza le quali la vita come la conosciamo non sarebbe stata in grado di conquistare i nuovi territori; esse erano: la presenza di stabili ambienti costieri, la formazione del suolo e lo sviluppo di condizioni climatiche ed atmosferiche adatte.

Colonizzazione
Le condizioni per la colonizzazione delle terre emerse da parte delle piante si presentarono nel tardo Ordoviciano, circa 458-443 milioni di anni fa. Ma le prime evidenze fossili del fatto che le piante acquatiche avessero effettivamente sviluppato delle caratteristiche compatibili con un ambiente non acquoso si situano nel primo Siluriano (ca. 470-430 milioni di anni fa). Nei fossili di questo periodo si riscontrano misure per la protezione dal disseccamento, le prime cellule specializzate per il trasporto di acqua e nutrienti, le prime strutture di supporto meccanico e modalità riproduttive che non dipendono principalmente da acqua esterna.

Le inferenze da dati scarsi sono sempre rischiose, ma sembra possibile dire che nel tardo Siluriano – primo Devoniano (ca. 430-400 Ma) dalle alghe verdi emersero le prime piante terrestri, che comprendevano piante non-vascolari (le Briofite), piante vascolari (Tracheofite) e piante con caratteristiche miste. Probabilmente le primissime piante terrestri a comparire furono quelle non vascolari, in particolare le Epatiche, seguite dai muschi, forse i più vicini, evolutivamente, alle piante vascolari.(1)

Ma torniamo alla nostra storia di colonizzazione.

Intorno al primo Devoniano (ca. 408 milioni di anni fa) avviene il primo passaggio evolutivo rivoluzionario: compaiono le prime piante vascolari, ed intorno ai 400 milioni di anni fa compaiono le Eutracheofite, il gruppo tassonomico che comprende quasi il 99% delle piante moderne. Quindi possiamo dire che molte delle caratteristiche della nostra flora si stabilirono 400 milioni di anni addietro.

Queste prime piante terrestri erano felci, licopodi e code cavalline, piccole erbacee alte al massimo un metro, che nel giro di circa 100 milioni di anni avrebbero formato completi ecosistemi forestali con alberi alti fino a 35 metri e simili alle nostre foreste attuali anche se, a vederle ora, queste foreste primordiali ci apparirebbero forse aliene.

Questa profonda e rapida trasformazione non fu dovuta soltanto a modificazioni adattive delle piante rispondenti a fattori biotici, ma anche a grandissimi cambiamenti climatici e tettonici, che compresero lo spostamento del polo Sud, tre glaciazioni e una forte riduzione dell’anidride carbonica dell’atmosfera.

Le piante svilupparono meccanismi sempre più complessi, “inventarono” radici, cortecce, foglie, legno e una vascolatura più efficiente: fino alla comparsa, circa 380 milioni di anni fa, delle prime forme arboree; e già intorno al primo Carbonifero, 350 milioni di anni fa, esistevano foreste di equiseti, licopodi, felci e pro-gimnosperme.

Ma la vera rivoluzione era ancora da venire. Tra i 290 e i 249 milioni di anni fa (Permiano), in corrispondenza di un cambiamento climatico caratterizzato da un graduale e continuo riscaldamento ed inaridimento, ed in seguito alla formazione del supercontinente Pangea (ca. 300 milioni di anni fa), emergono e si diffondono le prime piante a seme (Spermatofite), che sono piante a seme nudo (Gimnosperme). Il nuovo gruppo di piante comprende le Cycadi, le Ginkgoaceae, le Bennetite e le Pteridofite. Il seme fu una rivoluzione radicale rispetto al metodo a spore adottato da tutte le piante fino a quel momento.

Le spore, per potersi incontrare e fondersi fino a formare un nuovo individuo, avevano bisogno di essere rilasciate in un ambiente fortemente acquoso, dove potessero sopravvivere senza disidratarsi e nuotare l’una verso l’altra per potersi incontrare.

Il seme sciolse questa dipendenza. Infatti le “spore” (polline e ovuli) non vengono più rilasciate nell’ambiente: l’ovulo rimane fisso ed il polline, disperso dal vento, lo raggiunge e lo feconda. Dopo la fecondazione, inizia subito a svilupparsi il nuovo individuo, ma lo sviluppo si ferma subito e la protopiantina (l’embrione) rimane racchiusa in un ambiente ricco di acqua e nutrienti e protetta da una capsula a tempo, solida e e pronta ad aprirsi solo quando incontra le condizioni ambientali adatte: il seme.

E’ chiaro che la pianta a seme è avvantaggiata: può colonizzare ambienti nuovi, aridi, o sopravvivere nelle mutate condizioni ambientali che hanno ridotto l’ambiente tropicale (fino ad allora quasi universale sulla terra) a ridotte fasce. Inoltre arriva sul terreno in vantaggio sulle spore: la piantina è già formata, attende solo le condizioni giuste, e parte quindi in posizione di vantaggio.

Non sorprende, quindi, che, dopo la comparsa delle Conifere nel periodo subito successivo (Triassico ca. 248-206 milioni di anni fa), entro la prima parte del Giurassico (206-180 milioni di anni fa) la vegetazione globale sia ormai dominata da piante a seme ed inizi, almeno in parte, ad assomigliare alla copertura forestale attuale.

La terza grande rivoluzione (dopo le piante vascolari e le piante a seme) è quella delle piante a fiore (o piante a seme nascosto – Angiosperme), che avviene 140 milioni di anni fa, molto tardi dal punto di vista evolutivo (300 milioni di anni dopo le Tracheofite e 220 milioni di anni dopo le Spermatofite), probabilmente a partire dalle Bennettitales e/o Gnetales. La comparsa tardiva è però seguita da una rapida diversificazione a partire da 100 milioni di anni fa, diversificazione che in tempi relativamente brevi (nel Terziario tardo, ca. 65 milioni di anni fa) porta ad una dominanza globale delle Angiosperme.

Il gruppo si diversifica rapidamente sia dal punto di vista dei meccanismi riproduttivi che della morfologia: compaiono prima le dicotiledoni erbaceo-arbustive e di seguito le monocotiledoni e le strutture floreali passano da semplici fiori a simmetria radiale con molte componenti a fiori sempre più asimmetrici, con fusione di parti, fino al raggruppamento di singoli fiori in infiorescenze (come nelle Asteraceae).

L’esplosione dei metaboliti secondari – difesa e riproduzione
L’avvento delle Angiosperme porta ad un’altra rivoluzione che ci interessa molto da vicino. L’esplosione di diversità portata da questo nuovo gruppo non è limitata alle forme o alle modalità di riproduzione. Essa si esplicita anche nella produzione di una panoplia di composti chimici di difesa o di comunicazione. Le piante, come organismi sessili, non possono sfruttare le strategie di attacco e difesa dinamiche proprie degli animali: fuggire o attaccare il nemico. Esse hanno da subito dovuto utilizzare delle difese di tipo statico, per dissuadere i predatori dal mangiarle.

Le prime piante emerse usarono difese di tipo meccanico, sfruttando i meccanismi già esistenti per la costruzione delle strutture di supporto e di trasporto; usarono quindi lignina e altre sostanze per rendersi coriacee e difficili da digerire, spine, ecc.

Ma ben presto il fenomeno della coevoluzione, ovvero la rincorsa di risposte e controrisposte palleggiate tra piante e predatori le costrinse ad adottare difese più sofisticate, ovvero a sintetizzare delle tossine che in virtù della loro azione (dalla repellenza alla velenosità) dovevano in teoria servire per allontanare l’erbivoro, per ucciderlo o per fargli ricordare che era meglio non mangiare quella pianta!

Le prime briofite e gimnosperme iniziarono sviluppando tannini condensati, glicosidi cianogenici, ormoni giovanili ed ecdisoni, ma sono appunto le Angiosperme che arrivano alla più grande diversificazione produttiva, anche in risposta all’escalation messa in atto dai predatori che si adattavano alle nuove molecole (Tabella 1).

Circa 60 milioni di anni fa, con le prime angiosperme legnose, vediamo la proliferazione di metaboliti derivati da un percorso metabolico nato per la produzione di metaboliti primari come gli aminoacidi, il percorso dell’acido shikimico: quindi i primi alcaloidi (classe regina dei metaboliti bioattivi, che tanto ha segnato la storia della farmacia) e gli oli essenziali caratterizzati da fenoli e derivati; i derivati del percorso dell’acetato o misti, come isoflavoni, saponine, glicosidi cardiaci; e isotiocianati, glicosidi cianogenici. Il passaggio alle erbacee portò ad uno spostamento dal percorso dell’acido shichimico a quello dell’acido mevalonico, più duttile e con maggiori potenzialità di diversificazione. Gli oli essenziali si arricchirono in composti terpenici, meno tossici per la pianta, nacquero i lattoni mono e sesquiterpenici, gli alcaloidi steroidei, i flavonoli.

Tabella 1

Taxa

Metaboliti secondari

Gimnosperme/ Briofite Tannini condensati e glicosidi cianogenici, ormoni giovanili ed ecdisoni
Angiosperme

legnose

Alcaloidi isochinolinici ed ellagitannini
Amminoacidi non proteici, isoflavoni, glicosidi cianogenici
Saponine e isotiocianati
Glicosidi cardiaci
Angiosperme erbaceae Lattoni monoterpenici e alcaloidi steroidei
Lattoni sesquiterpenici, flavonoli e alcaloidi pirrolizidinici

Seguendo l’asse evolutivo felci-gimnosperme-angiosperme legnose-angiosperme erbacee si notano, in accordo con la teoria coevolutiva, l’aumento e la diversificazione dei deterrenti, la crescente complessità delle strutture chimiche e, di converso l’adattamento a queste strutture dei predatori più importanti: gli insetti. In effetti è avvenuto che tutte le molecole di difesa conosciute (ad esclusione dei tannini condensati) siano state utilizzate a proprio vantaggio da almeno una specie di insetto.

Uno schema molto importante per descrivere questo tipo di adattamento degli insetti alle tossine è quello dei “tre livelli trofici”. I tre livelli trofici sono quello della pianta che produce la tossina, quello dell’insetto che si adatta e gestisce la tossina (usandola a proprio beneficio), e quello dei parassiti dell’insetto sui quali agisce la tossina (uccidendoli o inibendoli) (Tabella 2).

Tabella 2

Specie vegetale Metabolita e tossicità Specie animale
Asclepiadaceae Glucosidi cardiottivi        (calotropina, pirazina) Farfalla monarca (Danaus plexippus)
Senecio spp.(S.      jacobea e S.     vulgaris) A. pirrolizidinici        (retronecina) Arctia caja e Tyria jacobea
Aristolochia sp. Acido aristolochico Battus archidanus
Cucurbita sp. Cucurbitacina D Diabrotoca balteata
Lotus cornicolatus Gl. cianogenici (linamarina) Zygaena trifolii
Brassica oleracea Glucosinolarti (sinigrina) Pieris brassicae
Plantago lanceolata Iridoidi (aucubina) Euphydryas cynthia
Zamia floridina Cicasina Eumaeus atala
Salix sp. Salicina Chrysomela aenicollis
Cytisus scoparius Alc. chinolizidinici Aphis cytisorum
Omphalea Alc. poliidrossilici Urania fulgens

Secondo questa logica, le specie vegetali evolutivamente più avanzate dovrebbero essere più facilitate delle altre nella lotta contro i predatori. In effetti, nelle ombrellifere (Apiaceae) troviamo che, ordinando le molecole di difesa secondo l’asse temporale-evolutivo, esse si distribuiscono anche secondo l’asse di tossicità e di complessità strutturale: prima le idrossicumarine, poi le furocumarine lineari, e quindi le furocumarine angolari. E in effetti le specie contenenti quest’ultimo tipo di molecola si possono difendere da un numero più elevato di predatori.

Possiamo schematizzare l’andamento dei rapporto tra pianta e predatore in questo modo:

Tabella 3: schema coevolutivo pianta-predatore

Sequenza Pianta Animale
1 Sintesi ed accumulo

tossina 1

Evitato da tutte le specie
2 Sintesi continuata Adattamento di poche specie.
3 Sopravvivenza con

predazione limitata

Tossina 1 diventa attraente per le specie adattate
4 Sopravvivenza con

predazione limitata

Aumentano le specie adattate, aumenta la pressione degli erbivori sulle piante
5 Sintesi ed accumulo

tossina 2

Evitato da tutte le specie
6 Sintesi contemporanea

tossina 1 e 2

Adattamento di poche specie, evitata da molte specie

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Note
1. Willis KJ, McElwain The evolution of plants. Oxford, Oxford University Press, 2000

Il suino in casa – 3

Oops, quasi mi ero dimenticato dei post suini, ecco quindi l’ultimo il penultimo della serie, per parlare di altre strategie (sempre vegetali) di gestione delle infezioni virali, a parte gli olii essenziali di cui si è già parlato qui e qui.

Se, come è stato detto, la strategia direttamente virucida è interessante dal punto di vista teorico ma poco praticabile in pratica, almeno per adesso, quali altre strategie abbiamo a nostra disposizione?

Per capirlo bisogna dare un’occhiata ai fattori facilitanti le infezioni per capire se possiamo modificarli. Schematizzando grandemente individuerei i seguenti punti:

  • Fattori ambientali come clima freddo, correnti d’aria improvvise ed ambienti eccessivamente riscaldati e non adeguatamente umidificati, che, attraverso un’azione riflessa del SNA (raffreddamento mani e piedi ad esempio), riducono il flusso ematico alle mucose, causano ischemia e una riduzione nella concentrazione di anticorpi e un raffreddamento delle mucose.  Questi  fattori  portano ad una temporanea riduzione dell’immunità e ad una facilitazione nella riproduzione di virus e batteri.
  • Condizioni generali del sistema respiratorio. Possibile danneggiamento e guarigione incompleta dei tessuti a causa di molteplici infezioni ed infiammazioni respiratorie
  • Trattamento antibiotico cronico e/o eccessivo, con danneggiamento della flora batterica intestinale e del sistema linfatico intestinale
  • Vita sedentaria e mancanza d’esercizio, particolarmente nei bambini iperprotetti dal freddo.

L’intervento su questi fattori é di primaria importanza in ogni approccio naturale alle infezioni, e contribuisce a limitarne la ricorrenza.  I questi casi una prescrizione automatica di un immunomodulante come l’Echinacea non e più intelligente della prescrizione di antibiotici, solo meno dannosa.  E’ inutile utilizzare immunostimolanti se prima non si e lavorato sulle condizioni più generali di salute.

Una volta presisi cura di questo aspetto, vi sono naturalmente molte piante che possono essere di grande aiuto.

Trattamento fitoterapico

Nello specifico, nel combattere un’infezione virale cercheremo le seguenti attività:

  • Immunomodulazione
  • Attività antivirale in senso lato
  • Azione troporestorativa sui tessuti interessati all’infezione
  • Miglioramento del metabolismo epatico e generale per sostenere l’organismo
  • Applicazioni topiche virucide, antinfiammatorie, analgesiche e antipruriginose.

Piante immunomodulanti

Piante che sono genericamente stimolanti per la risposta immunitaria, o usate tradizionalmente per la profilassi delle infezioni croniche.

  • Andrographis paniculata
  • Picrorrhiza kurroa
  • Echinacea spp
  • Allium sativum
  • Astragalus membranaceus
  • Eleutherococcus senticosus
  • Grifola frondosa
  • Ganoderma lucidum
  • Lentinus edodes
  • Andrographis paniculata

Piante che lavorano al livello dei recettori Toll-like (TLR)
E’ nozione generale che il sistema immunitario naturale non possa operare in maniera discriminativa ma affronti le infezioni in maniera generica o non specifica, attraverso la fagocitosi, l’espressione di citochine e la chemiotassi, e che per una risposta sistemica fosse necessario il coinvolgimento del dei leucociti B e T.  Ma le ricerche degli ultimi anni hanno mostrato che anche questo comparto possiede alcune proprietà discriminative.

La scoperta dei recettori Toll-Like (TLR) nelle membrane e nelle membrane cellulare di macrofagi e cellule dendritiche ha mostrato che essi possono mediare risposte sistemiche, riconoscendo caratteristiche specifiche di batteri, virus e funghi. Essi sembrano emergere come degli snodi importanti per l’attività immunomodulante e proinfiammatoria; dieci membri di questa classe di recettori sono stati riscontrati negli esseri umani.

Nei mammiferi questi recettori svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento di composti virali, micotici e batterici (Takeda et al. 2003; Seya et al 2006), che funziona come percorso per l’attivazione di risposte sistemiche, che prima si pensavano essere limitate al sistema immunitario specifico. E’ un sitema estremamente antico e conservato in molte linee evolutive, che una volta attivato, facilita il rilascio e la traslocazione nucleare del fattore nucleare NF-kB, che a sua volta causa una secrezione di citochine proinfiammatorie ed immunomodulanti (Oshiumi et al. 2003; Cooper 2006).

Sembra che alcune componenti delle piante medicinali (polisaccaridi) possano scatenare l’espressione di alcuni TLR ed iniziare una risposta di immunosorveglianza (Cooper 2006). Le piante a polisaccaridi che hanno mostrato attività sui TLR sono:  Astragalus membranaceus (Shao et al; 2004b), Ganoderma lucidum (Shao et al, 2004a), Panax ginseng (Nakaya; Pugh)  Panax quinquefolius (Pugh), Echinacea angustifolia e purpurea (Pugh), Eleutherococcus senticosus (Han), Platycodon grandiflorum (Yoon) e forse Spirulina (Balachandran et al. 2006).  Dato che i polisaccaridi sono insolubili in alcol, è necessario assumere queste piante in forma di polvere, infuso o decotto.

Piante che modificano l’equilibrio Th-1/Th-2
Molto si è sentito parlare negli ultimi anni dell’equilibrio tra linfociti T helper tipo 1 e tipo 2 nella genesi di problematiche autoimmuni, allergiche o in problemi di ridotta efficienza antivirale del sistema immunitario.
I linfociti Th (CD4+) sono responsabili dell’attivazione e facilitazione della risposta immunitaria cellulare ed umorale. In particolare sembra che il Th1 tenda a favorire la Immunità cellulo mediata, proinfiammatoria, mediante l’espressione di IL-2 e INF-gamma, mentre il Th2  stimola la Immunità umorale (linfociti B) tramite l’espressione di IL-4 e IL-5.

Uno sbilanciamento verso uno o l’altro polo d’attivazione potrebbe essere alla base di vari disturbi.  Ad esempio uno sbilanciamento a favore del comparto Th2, il sistema immunitario, in risposta ad una infezione virale, produce molti anticorpi ed è estremamente reattivo, ma al contempo produce poche risposte cellulomediate e quindi non riesce a gestire i virus verso cui si è allertato.

Questo può portare ad episodi d’allergia o reazione immunitaria esagerata, ed anche alla non completa risoluzione dell’infezione virale.
Sempre in via teorica, quindi, piante che fossero in grado di riportare l’equilibrio verso Th-1 potrebbero essere utili in caso di problemi virali.  Alcune di queste piante sono:

  • Allium sativum
  • Astragalus membranaceus
  • Ganoderma lucidum
  • Grifola frondosa
  • Panax ginseng

NB: Le Echinacea spp. potrebbero essere controindicate in caso di dominanza Th2, perchè aumentando rapidamente il numero di linfociti T circolanti potrebbe aggravare un preesistente disequilibrio verso Th2 (ma questa è una considerazione solo teorica).

Materia Medica Immunomodulante

1. Panax quinquefolium (Araliaceae)

Studi clinici: in alcuni studi clinici controllati il Panax quinquefolium ha ridotto l’incidenza, durata e severità di raffreddore e influenza in soggetti sani e malati. Uno studio di 4 mesi su 323 soggetti (età 18-65) ha testato 400 mg (in due dosi) di estratto di P. quinquefolium standardizzato all’80% di poli-furanosil-piranosil-saccaridi contro il placebo. Nel gruppo verum il numero di episodi di raffreddore riportati è calato del 9.2%, il rischio di contrarre un raffreddore si è ridotto del 12.8%, rispetto al gruppo placebo; inoltre la severità dei sintomi e la loro durata sono calati rispettivamente del 31% e del 34.5% rispetto al gruppo placebo (Predy et al. 2005).

In un secondo studio sono stati testati 43 anziani, con la stessa posologia (ma con estratto standardizzato differente), e per la stesso lasso di tempo. Dopo un mese tutti i soggetti hanno ricevuto il vaccino antinfluenzale. Per i primi due  mesi non sono state notate divergenze tra i due gruppi, mentre negli ultimi due mesi solo il 32% dei soggetti del gruppo verum (rispetto al 62% del gruppo placebo) ha riportato una infezione del tratto respiratorio, ed anche la durata dei sintomi è risultata più bassa (5.6 giorni contro 12.6 nel gruppo placebo) (McElhaney et al. 2006).

2. Andrographis paniculata (Burm. f.) Nees. (Acanthaceae)

Un tonico amaro con interessanti attività immunostimolanti, antipiretiche e antiinfiammatorie, con attività confermata su infezioni batteriche e virali respiratorie, enteriche e urinarie. Classificata come pianta fredda, quindi preferibile utilizzarla in caso di soggetti di costituzione calda o nelle fasi infiammatorie delle infezioni. Sconsigliata in condizioni ‘fredde’, come nel caso di una costituzione fredda oppure nel caso di ‘freddo’ di origine esterna come è spesso il caso nei primi stadi infettivi.

Farmacologia: stimola risposta immunitaria antigene specifica e non antigene specifica in modelli sperimentali, stimola la fagocitosi in vitro e in modelli animali (endovena) (Farnsworth, Bunyapraphatsara 1992; Kapoor, 1990).

Studi clinici
Immunostimolante in studi non controllati di infezioni respiratorie batteriche e virali.  In uno studio controllato in doppio cieco e randomizzato, un estratto somministrato a bambini sani per tre mesi nella stagione invernale ha diminuito in maniera significativa  l’incidenza e la severità dei sintomi del raffreddore (Bone e Mills 2000).

Una combinazione con Eleutherococcus senticosus (Andrographis (88.8 mg) + Eleutherococcus (10.0 mg) tre volte al giorno per 3-5 giorni) è risultata efficace in uno studio cinico contro antivirali classici, su 540 soggetti con influenza. Il 30.1% dei soggetti nel gruppo verum hanno sviluppato complicanze rispetto al 67.8% del gruppo placebo, e la durata dei sintomi è stata minore nel gruppo verum (Kulichenko et al. 2003).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1,5-3 gr. di pianta secca, in grado di apportare 20-40 mg di andrografolide. Ovvero 15-30 ml di TM, o 400-600 mg ES (5:1) standardizzato al 6-10% di andrografolide.

3. Echinacea angustifolia DC; E. purpurea (L.) Moench (Asteraceae)


Farmacologia: (Barret et al 1999; Bone & Mills 2000; Bergner 1997; Wagner 1997
L’estratto di E. angustifolia ha mostrato, in vitro: aumento fagocitosi degli eritrociti e dei granulociti; aumento della funzione immunitaria cellulare delle cellule mononucleate in soggetti normali e immunocompromessi.

Ciò che rende interessante la pianta è che sembrerebbe poter stimolare l’attività delle cellule NK e dei monociti, le cellule che costituiscono la prima linea di difesa dell’organismo. Questa potenzialità risulterebbe da una doppia azione: la pianta e le alchilamidi inibiscono COX e 5-LOX, riducendo i fenomeni infiammatori, ed in particolare riducendo (agendo su 5-LOX) i livelli della PGE2, una prostaglandina che sopprime l’attività delle cellule NK. Inoltre la pianta, i polisaccaridi (arabinogalattano) e le alchilamidi, stimolano in maniera non specifica i fagociti/monociti, con aumento della secrezione di beta interferone, TNF alfa e IL 1, tutte sostanze che stimolano le cellule NK, e l’attività antivirale.

Le ricerche recenti sul ruolo delle alchilamidi nell’attività immunomodulanti della pianta hanno rivelato una interessante interazione di alcune di esse con i recettori cannabinoidi. In particolare sembra che tramite l’interazione con il recettore CB2 le alchilammidi modulino l’espressione di TNF-alfa in monociti e macrofagi, e di IL-6. Ci sarebbe inoltre un effetto sulla espressione di IL-8 non mediato da CB2. Questa catena di azioni porterebbe ad un effetto analgesico, antitumorale ed antinfiammatorio.

Uno studio molto recente ed estremamente interessante è la review della Miller (2005) sugli studi del suo team su modelli murinici. Pur basato su ricerca su modelli animali, l’articolo è estremamente significativo: l’Echinacea è stata somministrata a dosaggi paragonabili a quelli umani (dosi pari a 1.3 gr di radice essiccata per un soggetto di 70 Kg) e per via orale. I risultati indicano che Echinacea sembra in grado di: stimolare la proliferazione delle cellule NK e dei monociti nel midollo di topi giovani e sani; stimolare la stessa proliferazione in caso di topi vecchi e sani, e soprattutto di riportare queste cellule  alla loro originaria funzionalità (persa nei topi a causa dell’età), attività questa non riscontrata in altri composti stimolanti le NK (indometacina e IL-2).

In nessun caso echinacea ha stimolato la proliferazione di altri comparti immunitari. Lo stesso studio mostra come questi effetti siano legati all’utilizzo della pianta in toto, piuttosto che a singole molecole isolate. Ancora più interessante il fatto che l’assunzione cronica della pianta non solo non ha mostrato di essere di detrimento, ma anzi ha mostrato un continuo effetto di profilassi. La stessa dose di echinacea orale, usata su topi leucemici ha mostrato un raddoppio del numero di cellule NK ed un aumento statisticamente significativo della sopravvivenza.

Una scoperta ancora più recente getta una luce del tutto nuova sull’echinacea ma anche su molte altre piante. Quattro studi molto recenti (Pugh et al. 2005; El-Obeid et al. 2006a; El-Obeid et al. 2006b; Sava, et al. 2001) si sono concentrati sulla melanina di origine vegetale, isolandola da Nigella sativa, Camellia sinensis, Echinacea spp., Medicago sativa ed altre piante. Secondo gli autori, la melanina sarebbe un composto particolarmente importante per l’attività immunomodulante ed antiossidante.

Questa, se confermata, sarebbe una scoperta sorprendente, dato che fino ad oggi la melanina non è mai stata considerata importante dal punto di vista farmacologica, è poco e male caratterizzata, non è un metabolita secondario, si sa poco su quali siano le migliori modalità di estrazione, e la possibilità che si creino degli artefatti sperimentali è elevata (Sava, et al. 2001).

Secondo (Pugh et al. 2005) la melanina da Echinacea e da Medicago sativa sarebbe differente dalle altre melanine vegetali, sarebbe più efficace come immunomodulante (con aumento di gamma-interferone dalla milza e di IgA ed IL-6 dalle placche di Peyer, e agirebbe tramite l’attivazione di NF-kB nei monociti attraverso un recettore Toll-like (TLR 2) (Pugh et al. 2005) o forse altri recettori. Anche gli altri studi hanno riscontrati ììo una azione a livello dei recettori Toll-Like, secondo (El-Obeid, et al. 2006a) il recettore influenzato dalla melanina da Nigella sativa sarebbe TLR4, ed essa indurrebbe l’espressione di TNF-alfa, IL-6 e VEGF dai monociti (El-Obeid, et al. 2006b).

Quale che sia la reale portata di questi studi, se la melanina vegetale è veramente importante per la immunomodulazione, è certo che essa non è presente nella maggior parte dei supplementi da estrazione, e che solo la polvere della pianta potrebbe essere usata a scopo terapeutico (la melanina sembra insolubile sotto un pH di 10).

Da questi due studi si possono estrapolare due interessanti indicazioni cliniche: la prima è che la supplementazione a lungo termine di echinacea è probabilmente di beneficio, non sopprime il sistema immunitario e migliora la funzionalità delle cellule del sistema immunitario non specifico, migliorando lo screening antitumorale. La seconda è che la pianta intera sia più efficace degli estratti o delle molecole isolate. I dosaggi di echinacea radice secca vanno da 1.5 a 3 gr per giorno, anche se il dosaggio utilizzato in Miller 2005 era vicino al termine inferiore.

Studi clinici
Una metanalisi ha valutato nove studi di trattamento e quattro studi di prevenzione, tutti controllati e randomizzati, in doppio cieco, delle malattie infettive dell’alto tratto respiratorio, e tutti, a parte uno degli studi di trattamento, hanno mostrato evidenza positiva e significativa, con  riduzione della durata della sindrome influenzale e della severità dei sintomi in pazienti già ammalati, e  riduzione della frequenza di ricorrenze di infezioni, specialmente in pazienti con particolare tendenza.

Dopo questa metanalisi, e fino al 2001, sono stati pubblicati altri 6 studi, 4 dei quali randomizzati controllati in doppio cieco. Tre dei quattro studi controllati hanno dato esito positivo, e l’unico a non avere mostrato differenze significative con il placebo ha usato estratti di bassa qualità.

Studio clinico randomizzato in doppio cieco su 48 donne per 4 settimane, con Echinacea e arabinogalattani da Larice (Kim et al. 2002); i livelli di properidina (una componente del sistema alternativo del complemento, un marker dell’arttivazione immunitaria) sono aumentati del 21% (Echinacea angustifolia ed E. purpurea) e del 18% (E. angustifolia, E. purpurea e arabinogalattani) rispetto al placebo.

Studio clinico randomizzato in doppio cieco su 282 adulti che hanno assunto  un estratto di Echinacea spp. (standardizzazione e posologia: 2.5 mg alcamidi, 25 mg acido cicorico e  250 mg polisaccaridi il primo giorno; 1 mg alcamidi, 10 mg ac. cicorico, 100 mg polisaccaridi al giorno per i seguenti 7 giorni). La severità dei sintomi è calata del 23.1% rispetto al placebo (Goel et al. 2004).

In uno studio clinico correlato al precedente su 150 pazienti con la stessa formulazione (posologia:  2 mg alcamidi, 20 mg ac. cicorico, 200 mg polisaccaridi il primo giorno; 0.75 mg alcamidi, 7.5 mg ac. cicorico e 75 mg polisaccaridi al giorno per i seguenti 7 giorni). Il gruppo verum ha mostrato una riduzione dei sintomi ed un aumento nel numero di leucociti totali, di monociti, neutrofili, e cellule NK (Goel et al 2005).

In uno studio clinico seguente, 80 soggetti hanno assunto un estratto di E. purpurea dall’inizio del raffreddore fino alla scomparsa dei sintomi. La mediana della durata del raffreddore è risultato di 6 giorni rispetto ai 9 giorni nel gruppo placebo (Schulten et al. 2001).

Altri studi hanno riportato l’assenza di miglioramenti statisticamente significativi in caso di raffreddore (Grimm, Muller 1999; Turner et al. 2005; Schwarz et al. 2005; Yale, Liu 2004).

In uno studio clinico randomizzato in doppio cieco, sono state somministrate a 148 studenti capsule da 1 gr contenenti polvere di E. purpurea herba (25%) e radix (25%) e E. angustifolia radix (50%) o placebo, sei volte al giorno il primo giorno di raffreddore e tre volte al giorno per un massimo di 10 giorni.  Nessuna differenza significativa tra gruppo verum e placebo (Barret et al. 2002).

In uno studio clinico seguente 128 adulti hanno ingerito 100 mg di E. purpurea o placebo tre volte al giorno fino alla scomparsa dei sintomi del raffreddore (max 14 giorni); nessuna differenza statistica osservata (Yale, Liu 2004).

L’echinacea stimola la fagocitosi, l’attività delle cellule NK, il numero di linfociti T, il complemento e l’espressione di qualche mediatore. La sua azione normalizzante sull’immunità cellulo-mediata è meno sicura.  Ha una chiara attività immunostimolante se assunto ai primi sintomi e per tutta la durata dell’infezione. Nonostante l’utilizzo come terapia di profilassi sia meno supportato dai dati clinici, è utilizzabile nella profilassi a breve termine (2-4 settimane).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1,5-3 gr. di pianta secca, in grado di apportare 10-15 mg di alchilammidi.  Ovvero 15-30 ml di TM, o 500 -1000 mg di ES (4:1) standardizzato rispetto alle alchilammidi. La standardizzazione ad echinacosidi è utile solo ai sensi della prevenzione delle adulterazioni, ma non ha alcun significato in termini di efficacia.  Per assicurare la non adulterazione dell’E. angustifolia bisognerebbe richiedere la garanzia di assenza di acido cicorico.

4. Astragalus membranaceus (Fisch. Ex Link) Bge. (Fabaceae)


Farmacologia: la pianta contiene polisaccaridi, flavonoidi, minerali ed amminoacidi. L’Astragalo in vitro aumenta la citotossicità delle natural killer cells e riduce la soppressione dei macrofagi, stimola l’attività fagocitica, la produzione di anticorpi ed  interleuchina 2.

Somministrato per via orale ad animali aumenta il numero e la funzionalità dei macrofagi e la loro attività fagocitaria, protegge contro le infezioni da virus (parainfluenza virus tipo I, Newcastle virus, coxsackie B2 e B3 virus, Hep B), aumentando la sopravvivenza del 30-40%, molto probabilmente non per una azione diretta ma per l’azione immunostimolante e di stimolazione di produzione di interferone (Brush et al. 2006). Aumenta la risposta dell’interferone alle infezioni virali (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987).

Studi clinici
Un decotto di Astragalo aumenta la concentrazione di IgM, IgE e cAMP e l’induzione di interferone (INF) da parte dei leucociti periferici. In soggetti predisposti al raffreddore aumenta la concentrazione di IgA e IgG dopo 60 giorni (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987)

In uno studio aperto su soggetti proni al raffreddore il trattamento è risultato profilattico per il raffreddore, con grande riduzione delle recidive. In uno studio clinico aperto randomizzato su pazienti con leucopenia si è dimostrato un aumento del numero dei leucociti (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987)

In un piccolo studio clinico controllato con placebo in doppio cieco sono stati comparati Echinacea purpurea, Astragalus membranaceus, Glycyrrhiza glabra, una combinazione delle tre piante e il placebo. L’Astragalus ha causato l’attivazione e la proliferazione più potente, in particolare dei CD8 e CD4 (Brush et al 2006)

L’Astragalo trova la sua applicazione ideale nella profilassi delle infezioni, nei primi giorni di infezione, nelle infezioni virali croniche con debilitazione e sudorazione spontanea, ma deve essere abbandonato durante gli episodi di infezione acuta.

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 2-4,5 gr di pianta secca. Ovvero 20-40 ml di TM, o 400-900 mg ES (5:1).

5. Eleutherococcus senticosus (Rupr. & Maxim.) Maxim. (Araliaceae)


Farmacologia: l’estratto ha aumentato del 30-45% la fagocitosi in vitro di Candida albicans da parte di granulociti e monociti di donatori sani. Il pre-trattamento con estratto di eleuterococco aumenta la resistenza di modelli animali alle infezioni batteriche e virali.
In uno studio in doppio cieco randomizzato l’eleuterococco ha stimolato la produzione di linfociti T helper e l’attività dei linfociti T, l’attività citostatica delle cellule NK ma non ha avuto effetti su granulociti e monociti (Boh et al 1987).

Uno studio in doppio cieco con 36 soggetti umani ha mostrato che l’estratto della pianta migliora la reattività immunitaria non specifica (Bone e Mills 2000; Bone, 1998). Vedi anche lo studio combinato con Andrographis paniculata (sopra).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1-4 gr di pianta secca. Ovvero 10-40 ml di TM, o 500-1000 mg ES (4:1) o 100-200 mg di ES (20:1), in grado di apportare 2-4 mg di eleuteroside E.

6. Baptisia tinctoria (L.) R. Br. (Fabaceae)


Farmacologia: la frazione polisaccaridica e l’estratto etanolico aumentano la produzione di anticorpi in vitro e stimolano la fagocitosi. L’estratto etanolico alza il conteggio leucocitario e migliora le reazioni di difesa endogene. Le glicoproteine hanno dimostrato di essere immunologicamente attive (Barret et al 1999; Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Henneicke-von Zepelin et al 1999).

Non esiste alcuno studio clinico effettuato su Baptisia da sola, ma esistono  studi clinici randomizzati, controllati, in doppio cieco, su tre combinazioni contenenti Baptisia. Due di questi studi sono di tipo omeopatico. L’unico ad utilizzare dosi ponderali, anche se molto ridotte, combinava Baptsia tinctoria, Echinacea spp. radice e Thuja spp. con posologia di 170 mg/die su 238 soggetti con raffreddore, con riduzione dell’intensità e della durata della sintomatologia (Henneicke-von Zepelin et al. 1999)

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1-3 gr gr di pianta secca. Ovvero 10-30 ml di TM.

7. Uncaria tomentosa (Willd. ex Schult.) (Rubiaceae)


Farmacologia
L’azione immunostimolante dell’Uncaria tomentosa è stata fino ad oggi dimostrata solo in test in vitro e su modelli animali. Stimola la secrezione di interleukina-1 e interleukina-6 in vitro, e la fagocitosi in vitro ed in modelli sperimentali.  Gli alcaloidi ossindolici pentaciclici inducono le cellule endoteliali a secernere un fattore di proliferazione dei linfociti (Bone e Mills 2000; Obregon Vilches 1995)

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 2-5 gr di pianta secca. Ovvero 20-40 ml di TM, o 450-1100 mg di ES (5:1),
Sono stati identificati due chemiotipi, quello da utilizzare è il chemiotipo ad alcaloidi ossindolici pentaciclici (POA), in particolare speciofillina, mitrafillina, pteropodina, isomitrafillina e isopteropodina; l’altro contiene, oltre ai POA, degli alcaloidi ossindolici tetraciclici (TOA) come rinchofillina e isorincofillina.  Quest’ultimo chemiotipo non deve essere usato.

8. Funghi

Il fungo Agaricus blazei Murr possiede spiccate proprietà immunostimolanti e antitumorali, comparabili a quelle dei più conosciuti Lentinus edodes, Grifola frondosa e Ganoderma spp.  Le frazioni indicate come responsabili dell’attività del fungo comprendevano vari glucani, complessi polissacaride-proteina (ATOM), complessi RNA-proteine, e glucomannano (Mizuno 2002; Mizuno et al. 1990; Wasser, Weis 1999; Ito et al. 1997; Fujimiya et al. 1998; Fujimiya et al. 2000; Cho et al. 1999), che vanno ad aggiungersi al lentinano, polisaccaride responsabile dell’attività immunostimolante del Lentinus edodes (Aoki 1984; Kanai, Kondo 1981).

In uno studio recente (Takeda e Okumura 2004) l’assunzione di estratti di Agaricus blazei e Lentinus edodes ha aumentato l’attività delle cellule NK, anche se è stato notato che la sensibilità all’estratto di Agaricus blazei era molto varia tra i soggetti, ed era correlata alla sensibilità all’estratto di Lentinus edodes.  Gli autori ipotizzando una sensibilità selettiva di alcuni individui ai composti presenti negli estratti.

Possibili meccanismi di attivazione delle cellule NK.

  1. Attivazione dei recettori Toll-like (TLR). Dieci membri di questa classe di recettori sono stati riscontrati negli esseri umani. Nei mammiferi questi recettori svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento di composti micotici e batterici (Takeda, Kaisho, Akira 2003). I TLR attivano percorsi di segnalazione come NK-κB, che risultano nella secrezione di varie citochine proinfiammatorie (Oshiumi et al. 2003). Sembra che il recettore TLR-2/6 riconosca alcune componenti dello zimosano ma non  dei β-glucani (Underhill et al. 1999; Gantner et al. 2003).
  2. Attivazione dei recettori per le lectine. Alcuni tipi di lectine possono funzionare come immunomodulanti (Hofer et al. 2001), ed è possible che l’interazione tra lectine presenti nei funghi e recettori lectinici di tipo C possa giocare un ruolo nella immunomodulazione.
  3. Attivazione dei recettori per β-glucano.  I β-glucani hanno mostrato interessanti proprietà in vivo di stimolazione delle risposte antinfettive ed antitumorali dei soggetti (Tzianabos 2000).  Sono un gruppo eterogeneo di polimeri del glucosio, costruiti da uno scheletro di unità β-D-glucopiranosil a legame β(1→3), con catene laterali  a legame β(1→6); sono una parte fondamentale della struttura delle pareti cellulari di funghi, macrofunghi, piante ed alcuni batteri, e vengono riconosciute dal sistema immunitario innato dei vertebrati (non sono presenti nei tessuti animali), esclusivamente attraverso vari recettori cellulari superficiali (Battle et al. 1998).  L’attività di questi recettori è stata individuata su leucociti di vario tipo (macrofagi, neutrofili, eosinofili e cellule NK) e cellule non immunitarie (endoteliali, epiteliali alveolari, fibroblasti).  Dei recettori individuati (Zimmerman et al. 1998; Rice et al. 2002; Brown, Gordon 2001; Taylor et al. 2002) solo uno, dectin-1 ha mostrato chiaramente di essere in grado di mediare le risposte biologiche al β-glucano  (Brown, Gordon 2003).

Uomo e piante 1/dimoltialtri

Uomo e piante

Devo soccombere alla realtà dei fatti, la sintesi non è nelle mie carte, e i post brevi ed illuminanti nemmeno :-).

Cerco di allora di illudermi con la sistematicità, ma  tendo a soccombere alla tendenza al dettaglio. Ecco quindi che mi ci è voluto un po’ per capire che dovevo pur iniziare a buttare fuori questi post dedicati al rapporto tra uomo e piante, anche se non tutti i link sono a posto ecc.

Spero nella benevolenza di chi leggerà, ed anche nelle loro indicazioni e suggerimenti per il miglioramento di quella che nelle intenzioni sarebbe una lunga serie di post.

Questo è anche un modo per trovare il tempo per rivedere le monografie di Infoerbe a poco a poco, con la scusa di linkarle qui.

Un dato incontrovertibile, ma velato dal tempo trascorso e dalla consuetudine, che serve ad inquadrare la discussione che seguirà, è l’esistenza di una relazione speciale che lega le piante all’uomo dagli albori della cultura umana e da prima ancora. Pochi sono gli aspetti della vita dell’uomo nei quali le piante non abbiano giocato in qualche epoca un ruolo importante, addirittura determinante. Allo stesso tempo le piante, in una sorta di viaggio coevolutivo, sono cambiate con l’uomo, sino a diventare in parte dei costrutti culturali.

Le piante forniscono materiale per costruire edifici, templi, vascelli; resine per impermeabilizzare i vascelli, da bruciare nei templi per onorare gli dei, da mescolare al cibo. Dalle piante si modellano strumenti, oggetti sacri ed artistici, fibre per costruire corde, tessuti da indossare e pigmenti per colorarli e per dipingere la storia dell’uomo. Le piante hanno fornito i primi inebrianti usati nei riti magico-religiosi ed i primi veleni usati nella caccia o nelle ordalie, ed entrano nei miti come “oggetti spirituali”, portatori di relazioni simboliche dell’uomo con il mondo naturale e supernaturale. Alcune piante hanno determinato il corso della storia economica e culturale fino a tempi molto recenti, come nel caso delle spezie e delle vie commerciali che furono aperte per assicurarsi il loro monopolio. (1)

Le piante, per finire, (come verrà ampiamente esposto più avanti) sono state per la maggior parte della storia umana la principale fonte di nutrimento, e la fonte più importante di farmaci in tutte le tradizioni mediche antiche ed in certa misura anche nella medicina moderna.

Per citare alcuni esempi a questo riguardo, nella più antica farmacopea occidentale che ci sia arrivata nella sua interezza, il Περὶ ὕληϛ ἰατρικῆϛ (De Materia Medica) di Pedanio Dioscoride (scritto ca. 50-68 d. C.), l’autore elenca circa 725 rimedi, dei quali più di 600 sono di origine vegetale (82-83%), 35 di origine animale (4.7-4.8%) e 90 sono minerali (12.2-12.4%);(2) nella Naturalis Historia (Storia Naturale) di Plinio il Vecchio, compilato nello stesso periodo o poco dopo, su 1693 sostanze medicamentose menzionate, 1391 (82%) sono sostanze di origine vegetale (delle quali 119 spezie o piante aromatiche), 218 (13%) sono sostanze animali e 84 (5%) sono dei minerali.(3)

Nella farmacopea cinese antica le percentuali sono simili: nello Shennong bencao jing (ca. 100 d. C.) su 365 droghe 246 (68%) sono di origine vegetale (i minerali costituiscono lo 11.5% e gli animali il 18.3%); nella raccolta del 659 d.C., il Hsin hsiu pent’sao, la percentuale di rimedi vegetali è del 64% e nel Takuan pent’sao (del 1108 d.C.) del 67.7%.

Nel Caraka Samhita, uno dei due testi più antichi della tradizione medica ayurvedica, si citano 582 rimedi, dei quali 341 (ca. 60%) di origine vegetale.(4)

Per quanto riguarda la farmacopea moderna, secondo Guerci e Lugli: “in un laboratorio farmaceutico medio oltre il 60% dei farmaci provengono, direttamente o indirettamente, dalle piante” e “un quarto delle prescrizioni rilasciate negli stati uniti d’America contiene principi attivi estratti da piante” (per una descrizione più dettagliata ed esaustiva del rapporto tra farmaci prodotti e farmaci legati in maniera più o meno diretta al mondo vegetale vedi il post di Meristemi).(5)

Alcuni di questi farmaci sono tra i più conosciuti ed utilizzati: morfina dal papavero da oppio [Papaver somniferum L. — Papaveraceae], chinino da Cinchona spp. [Rubiaceae], aspirina dalla corteccia di salice [Salix spp. — Salicaceae] e dalla regina dei prati [Filipendula ulmaria (L.) Maxim. — Rosaceae], digossina dalla digitale [Digitalis purpurea L. — Scrophulariaceae], taxolo dal tasso [Taxus brevifolia Nutt. — Taxaceae], vinblastina da Vinca [Catharanthus roseus (L.) G.Don f. — Apocinaceae].

Cibo, farmaco, uomo
Nelle società industrializzate la percezione comune individua i farmaci sia dalla loro forma (pillole o compresse, composti chimici assunti a dosi molto ridotte, nell’ordine dei micro/milligrammi), sia dalla loro funzione (hanno attività farmacologica spiccata, riducono o eliminano sintomi, curano malattie), mentre i cibi sono sostanze consumate solitamente in quantità molto maggiori e che normalmente non esercitano attività farmacologica ai dosaggi tipici dei farmaci, e neppure a quelli alimentari.

In pratica, però, nonostante l’apparenza, la distinzione tra ciò che è farmaco e ciò che è alimento non è così netta, anzi offre molti spazi di sovrapposizione, e le definizioni sono spesso normative e culturali oltre che oggettive. Le piante in particolare possono offrirci vari esempi

Le piante possono infatti essere usate sia come medicina sia come cibo, ed è difficile tracciare una separazione netta tra queste due aree: il cibo può essere medicina e viceversa. Le risorse vegetali nelle società tradizionali, in particolare le verdure selvatiche, sono spesso utilizzate contemporaneamente in diversi contesti come cibo e come medicina. La raccolta o la coltivazione, la preparazione ed il consumo di tali specie sono radicate nelle percezioni emiche (NdT: riferite al punto di vista, alle credenze, ai valori dell’attore sociale ottica) degli ambienti naturali associati alle risorse disponibili, alla cucina e alla pratica medica locale, all’apprezzamento del gusto e tradizioni culturali.(6)

Un esempio classico di questa ambiguità sono le spezie, che costituiscono un gruppo di piante anche oggi utilizzato a scopo alimentare, sempre in quantità molto ridotte; esse sono state tra le prime piante non strettamente alimentari ad essere coltivate (come ad esempio zenzero [Zingiber officinale Willd. Roscoe — Zingiberaceae] e canna da zucchero [Saccharum officinarum L. — Poaceae ], tra le prime cultivar conosciute) e tra le prime ad essere riconosciute dall’uomo come medicinali (dato suffragato dalle moderne ricerche farmacologiche – antisettica, digestiva, antispasmodica ed altre estremamente interessanti).

Tra le spezie meritano una menzione particolare due piante, l’aglio [Allium sativum L. — Alliaceae] e la curcuma [Curcuma longa L.– Zigiberaceae], perché sono due piante che nei loro rispettivi contesti geografici sono piante alimentari comunissime ed allo stesso tempo con una decisa attività di prevenzione e di trattamento delle malattie.(7)

Il caffè [Coffea arabica L.– Rubiaceae]ed il tè [Camellia sinensis (L.) Kuntze — Theaceae] sono due altri esempi tipici di piante con riconosciuta e potente attività farmacologica a dosi relativamente ridotte e che, nonostante ciò, sono, per ragioni di consuetudine e storiche, considerate degli alimenti. Questa difficoltà a distinguere tra i due campi è resa ancora maggiore (o forse è resa più esplicita (8)) dallo sviluppo della zona chiaroscurale che comprende i supplementi alimentari a scopo salutistico, i nutraceutici, gli alimenti funzionali, i cibi tossici o medicinali. (9)

Se passiamo dalle società industrializzate a realtà tribali o di comunità più ridotte e agricolo-pastorali, questa sovrapposizione tra cibo e farmaco non solo è presente, ma è comunemente accettata. Alcuni dei casi più studiati (in particolare da Timothy Johns e collaboratori) sono quelli dei Maasai, dei Batemi e di altre tribù dell’Africa Orientale, che mescolano radici e cortecce ad azione terapeutica alle zuppe a base di carne, ed dei Luo ed altre tribù di Kenya e Tanzania che usano nei pasti, in specifiche celebrazioni annuali, vegetali a foglia larga con attività farmacologia spiccata, molto amare e/o piccanti.

Questo comportamento è stato proposto come spiegazione del cosiddetto paradosso Maasai. Questo gruppo ottiene il 66% delle calorie da lipidi (pasti composti principalmente da latte e sangue), senza mostrare però la costellazione di disordini cardiovascolari che nei paesi europei e nordamericani è associata a diete ad alto tenore di grassi; nelle circa 25 piante usate nelle zuppe è stata riscontrata una elevata percentuale di  saponine, molecole in grado di legarsi al colesterolo ed ai grassi saturi alimentari e quindi potenzialmente in grado di ridurre il rischio (anche se è probabile che la differenza sia dovuta anche a fondamentali differenze di stili di vita tra società industrializzate e società pastorali). Le stesse piante usate come additivi alimentari mostrano attività antivirale contro il morbillo.(10)

In alcuni casi le piante sono un “cibo” ed una “medicina” con forte valenza simbolica: valga per tutti l’esempio del peyote [Lophophora williamsii (Salm-Dyck) J. Coulter — Cactaceae], dio, sacramento, cibo sacro, medicina.(11)

La differenza tra alimento e farmaco può risiedere non nella “natura” del materiale, ma nella modalità di scelta o nell’orizzonte culturale nel quale la scelta viene effettuata. Comunità che condividono caratteristiche simili dal punto di vista socio-economico e geografico, ma culturalmente e/o etnicamente distinte, possono utilizzare la biodiversità vegetale in maniera diversa, usando categorie diverse per determinare  l’interfaccia tra cibo e medicina.(12)

ll sapore, l’apparenza, la consistenza, l’odore, il nutrimento che possono apportare, sono tutti stimoli sensoriali e categorie che determinano la scelta di una pianta come alimento o come medicina, ma nell’equazione entrano anche altri fattori. Alcune piante medicinali, ad esempio, vengono selezionate a seconda della stagione a causa di problemi di disponibilità, quindi in certi periodi dell’anno si sovrapporranno alle piante mangerecce, soprattutto in corrispondenza di malattie stagionali come le malattie da raffreddamento, la malaria, i parassiti, i problemi digestivi. Altre volte, le piante spontanee usate come medicina diventano cibi d’emergenza in momenti di carestia, e sono sovente delle antiche cultivar (sempre più spesso dimenticate anche da quelle popolazioni che si avvantaggerebbero di più dal loro sfruttamento).(13)

Il fatto, poi, che la maggior parte delle piante usate a scopo medicinale non siano piante selvatiche che si incontrano nel profondo della foresta, bensì infestanti, ovvero quelle piante che si situano nel continuum tra selvatico e coltivato, sottolinea  la natura relazionale della polarità alimento-farmaco. La pianta è attiva farmacologicamente in virtù di sue proprietà biologiche, ma viene “costruita” come medicina nella sua relazione con l’attività e la cultura umana, visto che proprio le piante nate “intorno” all’attività agricola dell’uomo senza farne del tutto parte sono diventate il suo strumento medicinale principale. (14)

In sistemi medici colti come la medicina cinese o quella indiana, la sovrapposizione tra cibo e medicina è stata addirittura formalizzata all’interno del costrutto teorico medico. Nel Shennong pent’sao jing, quello che potrebbe essere vista come la prima raccolta sistematica della farmacopea cinese, risalente al primo secolo d.C., i farmaci vengono divisi in tre categorie, dette di grado superiore, medio ed inferiore. Tutte le droghe di livello superiore (chiamate anche rimedi imperatore) appartengono al campo dei cibi-farmaco, rimedi igienisti macrobiotici che “alleggeriscono il corpo”, “estendono gli anni di vita” ed “eliminano la vecchiaia”, dai quali non ci si aspetta una efficacia terapeutica diretta, e la cui somministrazione a lungo termine era considerata sicura, senza pericolo: ginseng [Panax ginseng C. Meyer. — Araliaceae], liquirizia [Glycyrrhiza glabra L. —  Fabaceae], Angelica sinensis [Apiaceae], piantaggine [Plantago spp. — Plantaginaceae] ecc.(15)

Simile classificazione è presente anche nella farmacopea ayurvedica, dove le piante considerate più importanti, i rimedi Rasayana, si usano per nutrire e rinforzare il “tessuto primordiale” o rasa , per ritardare l’invecchiamento, promuovere l’energia vitale e migliorare le capacità cognitive. Anche in questo caso si tratta di piante quasi alimentari, il cui consumo è possibile in grandi quantità e per lungo tempo, e la cui azione è simile ad un nutrimento terapeutico, mentre le piante più attive nel senso moderno e farmacologico del termine sono anche quelle meno importanti [Withania somnifera (L.) Dunal. — Solanaceae; Ocimum sanctum L. — Lamiaceae, Phyllanthus emblica L. — Euphorbiaceae, Asparagus racemosus Willd. — Asparagaceae (o Liliaceae)].(16)

Se poi analizziamo dal punto di vista chimico le piante usate come medicine e quelle di uso alimentare scopriamo che i medesimi composti chimici ad attività farmacologica (alcaloidi, composti amari, flavonoidi, glicosidi, in particolare cianogenici, saponine, acidi organici) sono presenti nelle due categorie, anche se in concentrazioni molto differenti.

Conclusioni
Da quanto detto discende che l’uomo ha sempre inserito nella sua dieta composti farmacologicamente attivi presenti nelle piante di cui si nutriva, anche se probabilmente con maggior frequenza nelle epoche antiche rispetto ad oggi.

Ma come è successo che le piante siano diventate un elemento così importante per gli esseri umani? Ed in particolare, perché esse sono così importanti per la medicina?
Una prima risposta generica a questi quesiti viene dalla considerazione della quantità e diversità di vita vegetale sul globo: grazie alla loro natura autotrofa, le piante superano di una magnitudo di fattore dieci tutta la biomassa di origine animale sul globo; possiedono una capacità ineguagliabile di sintetizzare ex novo composti chimici, poiché, a differenza degli animali, non possono muoversi, e per difendersi dai predatori devono sintetizzare ed utilizzare speciali composti di difesa.

L’approccio coevolutivo spiega la nascita della “pianta medicinale”, il momento aurorale della medicina, come una relazione tra uomo, pianta e patogeni, che nei milioni di anni avrebbe permesso all’uomo di adattarsi ai composti di difesa, di imparare a renderli meno tossici ed infine di utilizzarli a proprio beneficio.

Naturalmente il dato biologico adattivo può spiegare un inizio, può giustificare un ventaglio molto limitato di attività delle piante sull’uomo. Non è possibile farvi risalire direttamente le elaborazioni culturalmente mediate della medicina.(17)

Un corollario di questa tesi è che:

una delle chiavi per comprendere come questo processo sia iniziato sta nel riconoscere l’importanza del sapere tradizionale sulle piante presente in ogni cultura, e nell’identificazione degli elementi culturali e biologici del processo dinamico attraverso il quale questo sapere viene ottenuto e mantenuto in una comunità.(18)

Sarà quindi necessario valutare il ruolo giocato dalle piante all’interno delle diverse culture e dei diversi contesti storici e simbolici, e cercare uno schema che ci permetta di collegare tra di loro questi dati, per chiarire quanto essi siano generalizzabili; per chiarire cioè quanto i parallelismi di utilizzo in diverse aree geografiche dipendano dal passaggio di informazioni tra una area e l’altra  (e non siano quindi trattabili come indipendenti), e quanto invece siano indipendenti e quindi si rinforzino a vicenda.

A loro volta questo collegamenti potranno essere messi in relazione con ciò che sappiamo sulle relazioni evolutive tra uomo e piante, ed anche con ciò che sappiamo in termini di chimica delle piante, ad esempio che esistono dei cluster di attività intorno a determinati composti o gruppi chimici, e che determinati gruppi chimici mostrano la tendenza a segregarsi secondo divisioni tassonomiche.

Questi dati presi assieme e usati, per così dire, per effettuare una triangolazione, potrebbero gettare più luce sulle basi biologiche ed evolutive dell’uso delle piante come medicine da parte dell’uomo.

Prima di tentare questa analisi/descrizione è però necessario fare un passo indietro, esplorare i presupposti biologici di queste relazioni, andare a trovarne i semi nella preistoria della nostra specie o addirittura del nostro genere. Per fare questo esamineremo brevemente quali siano stati i passaggi più importanti nel mondo vegetale dalle sue prime esplorazioni delle terre emerse fino ai nostri tempi, per capire come l’evoluzione delle strategie di sopravvivenza delle piante abbia potuto poi intercalarsi con la nostra. A partire da questi dati sarà poi più semplice esaminare l’evoluzione dell’uomo, della sua dieta e della sua trasformazione nei millenni in pratica terapeutica.

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Note

1. Lewington A. Plants for People. London, The Natural History Museum, 1990. Heiser, C.B.m, Jr. Of plants and people. Norman OK, University of Oklahoma Press, 1985. Balick, M.J., Cox, PA Plants, people, and culture: The science of ethnobotany. Scientific American Library, 1996

2. Pedacii Dioscoridis de materia medica libri sex interpetre Petro Andrea Matthiolo cum eiusdem commentariis. Venezia, 1544. Collins M.  Medieval herbals: The illustrative tradition. The British Library and University of Toronto Press, 2000

3. Nei libri dal XX al XXXII. In Fabre,  La pharmacopée romaine dans l’oeuvre de Pline l’ancien. Tesi di dottorato presentata alla Sorbona (Paris IV), aprile 1998

4. Il secondo è il Susruta Samhita; di entrambi è incerto il periodo di composizione, anche se la loro presenza è certa nel primo secolo d.C., e è possibile risalgano al quarto secolo a.C. – Wujastyk, D. Indian Medicine in Bynum W.F. e Porter R. Companion encyclopedia of the history of medicine. 2 vols. London, Routledge, 1993, pp.755; cfr. Priyadaranjan Ray e Hirendra Nath Gupta Caraka Samhita (a Scientific synopsis), New Delhi, National Institute of Sciences of India, 1965, Tabelle 1-3

5. Guerci A., Lugli A. Piante medicinali del mondo, patrimonio dell’umanità: Una visione tra etnobotanica, tradizione e scienza. Planta Medica Edizioni, 2005, p. 2 e p.14; cfr. anche Foster, S. & Johnson, R. Desk Reference to Nature’s Medicine. National Geographic Society, Washington D.C, 2006.

6. Pieroni A., & Price L.L. “Introduction” in Eating and Healing: Traditional Food As Medicine, The Haworth Press, 2006

7. D’altro canto possono essere definiti farmaci i cibi assunti per curare o alleviare le malattie, e cibi i beni consumabili che tradizionalmente non sono stati considerati medicinali dai vari governi.

8. Nel senso che l’aumento delle ambiguità in questo campo non è altro, a mio parere, che  la rivelazione della artificialità della distinzione normativa, che ha voluto racchiudere la complessità in definizioni troppo stringenti. In società meno normative, questa sovrapposizione di campi non è vista come problematica.

9. Nel campo ancora giovane ed in grande sviluppo dello studio delle interrelazioni tra “alimenti” e “medicine” i termini usati per descrivere la zona di confine tra i due settori sono ancora relativamente vaghi: per “cibo funzionale” (functional food) si deve intendere, seguendo Preuss (Preuss A (1999) Zur Charakterisierung Funktioneller Lebens- mittel (Characterization of functional food) Deutsche. Lebensmittel-Rundschau 95 468-47),  un cibo che oltre agli utilizzi legati ad aspetti nutrizionali o di piacere sensoriale, mostra utilizzi legati ad effetti di altro tipo sulle funzioni dell’organismo, e che occuperebbe una posizione mediana ma in parte distinta (una terza opzione) tra cibo e medicina. Per “cibo medicinale” (medicinal food) o “medicine alimentari” (food medicines), seguendo Pieroni e Quave (Pieroni, A. e Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania” in A., Pieroni e L., Leimar Price (eds.)  (2006) Eating and Healing, Haworth Press,  p. 110) intendiamo invece quell’area di sovrapposizione tra cibo e medicina, quando una pianta viene ingerita in un “contesto alimentare” allo scopo di ottenere uno specifico effetto medicinale. Il termine “nutraceutico” (dall’inglese nutraceutic, composto di nutritional e pharmaceutic) identifica una pianta alimentare o derivato che, grazie al contenuto in metaboliti secondari (al di la quindi del puro effetto nutritivo), può modificare la fisiologia umana ed in alcuni casi i processi patologici.

10. cfr Johns, T. e Kokwaro, J.O. (1991) “Food plants of the Luo of Siaya District, Kenya”. Economic Botany 45: 103-113.; Uiso F.C.  Determination of toxicological and nutritional factors of Crotalaria species used as indigenous vegetables. M.Sc.Thesis, Mc Gill University, 1991; Johns, T.  “Plant constituents and the nutrition and health of indigenous peoples”. In V.D., Nazarea (Ed.), Ethnoecology-Situated knowledge, located lives. Tucson: University of Arizona Press, 1990;  Johns, T., Mahunnah, R.L.A., Sanaya, P.,  Chapman, L. e Ticktin, T. (1999) Saponins and phenolic content in plant dietary additives of a traditional subsistence community, the Bateni of Ngorongoro District, Tanzania. Journal of Ethnopharmacology 66: 1-10.; Johns, T., Mhoro, E.B. e Sanaya, P. (1996) Food plants and masticants of the Batemi of Ngorongoro District, Tanzania. Economic Botany 50: 115-121.; Johns, T., Mhoro, E.B. e Uiso, F.C. (1996) Edible plants of Mara Region, Tanzania. Ecology of Food and Nutrition 35: 71-80; Parker M., Chabot S., Ole Karbolo M. K., Ward B. J., Johns T. A. “Traditional dietary additives of the Maasai are antiviral against the measles virus.”  Poster alla 8th International Congress of Ethnopharmacology, 2004, Canterbury, UK.

11. cfr. Evans Schultes R., Hoffmann, A. e Ratsch, C. Plants of the Gods:  Their sacred, healing, and hallucinogenic powers. Revised and expandend edition. Healing Arts Press, Vermont, 1998, pp. 144-155

12. Quave C.L. & Pieroni A. “Traditional health care and food and medicinal plant use among historic Albanian migrants and Italians in Lucania, southern Italy”. In A. Pieroni e I. Vandebroek (eds.) Traveling cultures and plants: The ethnobiology and ethnopharmacy of human migrations. Berghahn Books, Oxford, 2007

13. Sull’area di sovrapposizione tra piante come farmaco e come alimento, sul continuum che lega le piante spontanee a quelle domesticate, e sull’importanza di queste analisi per la comprensione della transizione tra caccia e raccolta e agricoltura, vedi la bella raccolta di saggi coordinata da Lisa Etkin (Etkin, N.L. (Ed.), Eating on the wild side. Tucson: University of Arizona Press. Etkin, N.L. (1996)). Per un esempio di testo scritto allo scopo di conservare il sapere locale sulle piante selvatiche ad utilizzo alimentare cfr. Ruffo C. K., Birnie A., Tegnas B. Edible Wild Plants of Tanzania. Technical Handbook No. 27 Regional Land Management Unit, Nairobi, Kenya, 2002.

14. Traduco con infestanti il termine weed, che in inglese denota appunto le piante che si trovano nel continuum della relazione uomo-piante, tra piante spontanee e piante coltivate. In questo continuum abbiamo le piante spontanee, che crescono al di fuori dell’habitat disturbato dall’uomo e che non possono con successo invadere permanentemente habitat disturbati dall’uomo; le piante infestanti, la cui popolazione cresce completamente o in maggioranza in situazioni marcatamente disturbate dall’uomo, senza essere deliberatamente coltivate, quasi sempre erbacee e a crescita veloce; le piante coltivate, piantate intenzionalmente. Ma vi sono anche le piante domesticate accidentalmente a causa dell’attività dei cacciatori-raccoglitori, e le piante domesticate, che si sono evolute in una nuova forma a causa della continua manipolazione, tanto che possono aver perso la capacità di riprodursi da sole (cfr. Zimdahl, R.L., Fundamentals of Weed Science, 2nd ed. Academic Press, San Diego, CA., 1992, p. 172); Etkin, N.L. “The cull of the wild”. In N.L., Etkin (Ed.), 1994 op. cit.; Etkin, N.L. (1996) “Medicinal cuisines: Diet and ethnopharmacology”. International Journal of Pharmacognosy 34: 313-326. Etkin, N.L. e Ross, P.J. (1982) “Food as medicine and medicine as food: An adaptive framework for the interpretation of plant utilisation among the Hausa of northern Nigeria”. Social Science and Medicine 16: 1559-1573. Grivetti, L.E. e Ogle B.M. (2000) “Value of traditional foods in meeting macro- and micronutrients needs: The wild plant connection”. Nutrition Research Review 13: 31-46

15. Unschuld, P.U. Medicine in China: a history of pharmaceutics, Berkeley, University of California Press, 1986, p.24.  Se teniamo presente che il termine “efficacia terapeutica” (wu-tu) si traduce come “non-velenosa”, possiamo capire come questi rimedi possano ben essere esemplificati da piante alimentari con azione terapeutica (e difatti troviamo qui rimedi come il Panax ginseng o la piantaggine che mostrano attività farmacologica secondo gli standard moderni, ma che possono essere assunti anche a lungo termine senza rischi). Questo favore verso i farmaci macrobiotici è evidente anche nel primo documento esistente che parla di rimedi vegetali, nei manoscritti medici di Mawangdui, risalenti al 3 e 2 secolo a.C., dove, pur non comparendo la divisione teorica tra rimedi di grado diverso, già si parla di rimedi che allungano la vita ecc. Il manoscritto MSVI.A.9 contiene la prima descrizione di una droga effettuata da un medico, Wen Zhi, descrive il porro (jiu) come la “pianta dei mille anni” e “re delle centinaia di piante”, che concentra i vapori (qi) dei cieli e della terra (cfr. Harper, D. (trad. e comm.) Early chinese medical literature: The Mawangdui medical manuscripts. Kegan Paul International, New York, 1997, p. 106)

16. cfr. Puri, H.S. Rasayana: Ayurvedic herbs for longevity and rejuvenation. Taylor & Francis, New York, 2003

17. Per molte attività umane, “non ha senso fornire una spiegazione evolutivo-adattiva (a meno che non si parli di adattamento evolutivo in senso culturale). Non è che [le attività umane] non abbiano radici biologiche. Semplicemente ne sono troppo lontane” (Rozin P (2000) “Evolution and adaption in the understanding of behavior, culture, and mind”. American Behavioral Scientist. 6 (43):970-986). Al più possiamo proporre una feconda commistione tra presupposti biologici e sviluppi culturali, raccontare la storia di questa relazione, nella speranza che nel racconto, nel processo storico e non nelle origini, si nascondano le ragioni ultime della situazione attuale, soprattutto guardando agli enormi cambiamenti culturali avvenuti nel brevissimo periodo nel quale l’uomo ha subito una evoluzione culturale. Come scrive Rozin 2000 op. cit. : “There is no doubt that humans are primates and that human cultures have influenced humans for only a small part of their evolutionary history; there is every reason to believe that we will find the precultural primate in many human activities. But even a casual glance at human cultures today will suggest that these tens of thousands of years of human culture have vastly transformed humans and their institutions and that it would be folly to expect to trace most of what humans do now to specific primate predispositions, except in the most indirect way.”

18. cfr. Johns T. The origins of human diet and medicine. University of Arizona Press, 1999, p. 2

Mi vergogno…

…per un quotidiano italiano (?), La Padania,  che ieri dedicava alla tragedia di Haiti un trafiletto in prima pagina, mentre oggi, modificando la sua linea, non vi dedica neppure una riga… come non vi aveva dedicato una linea negli anni passati. Peccato che quasi nessun quotidiano si fosse interessato ad Haiti nel passato…

E mi vergogno anche per la reazione del sottosegretario Roccella alla sentenza del Giudice Antonio Scarpa del Tribunale di Salerno che autorizza, per la prima volta in Italia, la diagnosi genetica preimpianto ad una coppia fertile portatrice di una grave malattia ereditaria, l’Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1 (SMA1).

La Roccella, riportano le agenzie, avrebbe detto che: “L’autorizzazione del Tribunale di Salerno alla diagnosi genetica preimpianto per una coppia non sterile è una sentenza gravissima. Così si introduce il principio che la disabilità è un criterio di discriminazione rispetto al diritto di nascere”: secondo il sottosegretario si tratta di “eugenetica pura”.

Mi vergogno che ancora sia possibile far passare il messaggio che le vite delle singole persone, le loro sofferenze, reali e non teoriche, i loro dubbi, i loro progetti di vita, siano meno importanti, e siano quindi sacrificabili, alla Vita sub specie aeternitatis. E che questo venga fatto passare come un comportamenti cristiano, poi!

Tanto per mettere le cose in chiaro, la SMA1 non è una forma di disabilità, la SMA1 (o malattia di Werdnig-Hoffmann) è la forma più grave di atrofia muscolare spinale, con esordio precoce (terzo-sesto mese), in alcuni casi prima della nascita, con una diminuzione dei movimenti fetali nel terzo trimestre. I bambini risultano “deboli e flaccidi (ipotonia) e assumono una posizione molto caratteristica, a rana, con arti flessi e la faccia esterna delle ginocchia che tocca la superficie su cui sono sdraiati. Il pianto è flebile e, alla prova dei riflessi, questi risultano assenti. La debolezza dei muscoli intercostali si manifesta inizialmente durante il pianto e in seguito con gravi difficoltà respiratorie. In genere la malattia progredisce in modo piuttosto rapido e purtroppo in molti casi può portare a morte per insufficienza respiratoria o infezioni broncopolmonari”.

Aiutaci a difendere la libertà in internet: firma, personalizza e diffondi la petizione in Creative Commons promossa da Agorà Digitale

Allora, amici, la storia è questa: siccome dopo il lancio del duomo a Berlusconi se ne sono sentite di tutti i colori (chi vuole eliminare l’anonimato su internet, chi vuole mettere filtri alla navigazione, chi paragona Facebook alle Brigate Rosse e via discorrendo), è arrivata l’ora di mettere in piedi un dibattito costruttivo in cui venga spiegato quali sono i meccanismi di Internet, quali insidie nasconde e quali incredibili opportunità offre per lo sviluppo di una società aperta.
In questi giorni internet sta correndo un grande rischio: c’è infatti chi sta cercando di approfittare della situazione per introdurre norme illiberali e contrarie alla libera circolazione delle informazioni e delle idee.
A noi, che invece la libertà della rete vogliamo difenderla, spetta però il compito di costruire dei ponti con le istituzioni che la devono governare: introdurre nuove misure di intervento è un’operazione delicata, che può avere implicazioni enormi sullo sviluppo della rete e non può essere intrapresa senza una profonda riflessione; il dibattito di questi giorni, infatti, è troppo simile a quello che abbiamo visto altre volte dopo gli attentati terroristici negli Stati Uniti e in Europa, o dopo episodi di cronaca che hanno infiammato l’opinione pubblica, e dimostra che una parte dei vecchi media, della politica e dell’opinione pubblica ha una profonda ignoranza sul funzionamento della rete, e per questo la teme.
E’ necessario, una volta per tutte, aprire un grande dibattito e affidarlo al Parlamento, al quale ci appelliamo, insieme a Agorà Digitale, affinché metta in calendario una seduta straordinaria sulla Rete a cui possano partecipare numerosi esponenti della società civile che conoscano e sappiano spiegare Internet, sia al Parlamento stesso che al paese: allo stesso tempo ci appelliamo al Governo, e in particolare al Ministro Maroni, affinchè qualsiasi attività venga normativa venga sospesa subordinandola a tale dibattito.

AVVERTENZA: questa è la prima petizione in Creative Commons della storia. Cosa vuol dire? Che puoi non solo sottoscriverla su questo sito o uno degli altri che la pubblica. Ma puoi addirittura metterla sul tuo sito e raccogliere lì le firme. Anzi puoi addirittura modificarla e raccogliere sul tuo testo modificato le firme, a patto di mantenere inalterata questa avvertenza. Quando cercheremo di spiegare che non è più possibile pubblicare su un giornale un singolo testo con una lista di firme, ma esiste una pluralità di appelli tutti però con la richiesta di un grande dibattito parlamentare, beh, staremo già spiegando Internet.

Io ho trovato superfluo modificare il post di Metilparaben