oncovirokiller

Cosa non si impara dai virus…

Partiamo dai meccanismi di invasione e replicazione virale. I virus, per potersi replicare, hanno bisogno dell’apparato cellulare. Le nostre cellule, d’altro canto, si sacrificano per salvare l’organismo quando siano in stato di stress o pericolo. Un gene fondamentale nei processi di tumorigenesi, il gene di inattivazione tumorale TP53, si mette in movimento ed attiva la proteina p53 ed i programmi di apoptosi (suicidio programmato) quando la cellula diventi pericolosa, o perché tumorale o perché infetta.

Gli adenovirus (responsabili per il comune raffreddore) sono in grado di inattivare la p53 comprimendo e rendendo illeggibile i suoi geni, e la stessa p53 è inattivata nella maggior parte delle cellule tumorali. Come piegare a nostro vantaggio questi fenomeni?

Un team di ricerca presso il Salk Institute for Biological Studies (qui un video, e qui la press release) ha pensato che selezionando un adenovirus a cui manca una proteina fondamentale per l’inattivazione preventiva di p53 (E1B-55K), esso non sarebbe capace di replicarsi nelle cellule normodotate di p53, ma solo in quelle nelle quali p53 è inattiva, ovvero le cellule tumorali. Se questo approccio avesse successo, si tratterebbe di una terapia oncolitica molto promettente e mirata.

Quello che è successo poi è molto istruttivo. Nonostante l’esperimento non sia stato un successo, questo insuccesso ha permesso di comprendere meglio i meccanismi di inattivazione di p53. E’ quindi un caso di scuola nel quale l’insuccesso di ottenere l’effetto B agendo sul supposto agente causale semplice A permette di rendere visibile la complessità di A, di esplicitarne le articolazioni.

Gli adenovirus mancanti di E1B-55K non hanno impedito a p53 di attivarsi, ma la cellula non ha comunque attivato il processo di apoptosi. Le indagini per capire le ragioni dell’insuccesso hanno rivelato che gli adenovirus si difendono dall’apoptpsi  attraverso meccanismi multipli (almeno una seconda proteina, E4-ORF3, è implicata). Eliminare E1B-55K aveva eliminato solo la prima componente dell’agente causale. Quello che si spera è che una volta meglio compresa la complessità dei meccanismi causali sia possibile utilizzare queste conoscenze per una terapia oncolitica promettente.

A novel mechanism used by adenovirus to sidestep the cell’s suicide program, could go a long way to explain how tumor suppressor genes are silenced in tumor cells and pave the way for a new type of targeted cancer therapy, report researchers at the Salk Institute for Biological Studies in the Aug. 26, 2010 issue of Nature.

When a cell is under stress, the tumor suppressor p53 springs into action activating an army of foot soldiers that initiate a built-in “auto-destruct” mechanism that eliminates virus-infected or otherwise abnormal cells from the body. Just like tumor cells, adenoviruses, which cause upper-respiratory infections, need to get p53 out of the way to multiply successfully.

“Instead of inactivating p53 directly, adenovirus renders the ‘guardian of the genome’ powerless by targeting the genome itself,” explains Clodagh O’Shea, Ph.D., an assistant professor in the Molecular and Cell Biology Laboratory, who led the study. “It literally creates zip files of p53 target genes by compressing them till they can no longer be read.”

The p53 tumor suppressor pathway is inactivated in almost every human cancer, allowing cells to escape normal growth controls. Yet there is still no rationally designed targeted cancer therapy to treat patients based on the loss of p53.

“All of the targeted therapies we have are based on small molecules that inactivate oncogenes, but cancer is not solely caused by the gain of growth-promoting genes,” says O’Shea. “The loss of tumor suppressors is just as important. The big question is how do you target something that’s no longer there?”

Adenovirus seemed to provide the answer. It brings along a viral protein, E1B-55K, which binds and degrades p53 in infected cells. Without E1B-55K to inactivate p53, adenovirus should only be able to replicate in p53-deficient tumor cells. Then, each time it bursts open the host cell to release thousands of viral progenies, the next generation of viruses is ready to seek out remaining cancer cells while leaving normal cells unharmed.

“This makes adenovirus a perfect candidate for oncolytic cancer therapy,” says O’Shea. “Although these viruses did their job, to everybody’s surprise, the patients’ responses did not correlate with the p53 status of their tumors,” says O’Shea. Intrigued, she and her team followed up on this unexpected finding.

Conrado Soria, Ph.D., a research assistant and co-first author of the study, quickly realized that E1B-55K was only half of the story. “The inability of the E1B-55K-mutant virus to replicate in normal cells was not because the virus failed to degrade p53,” he explains.

In unstressed normal cells, p53 is only found at low levels due to rapid degradation. In response to DNA damage, the activation of oncogenes or infection by DNA viruses, p53 degradation is halted and as a result p53 protein levels accumulate. This increase activates p53 target genes, which arrest the cell cycle or induce apoptosis.

Just as predicted, p53 started to build up in normal cells that had been infected with adenovirus lacking E1B-55K but it was still unable to turn on its target genes and start the cell on the path to apoptosis. He eventually discovered why: Adenovirus brings along another protein, E4-ORF3, which neutralizes the p53 checkpoint through a completely different mechanism.

Instead of inactivating p53 directly, the tiny protein prevents the tumor suppressor from binding to its target genes in the genome by modifying chromatin, the dense histone/DNA complex that keeps everything neatly organized within the cells’ nucleus. “These modifications cause parts of chromosomes to condense into so-called heterochromatin, burying the regulatory regions of p53 target genes deep within,” says graduate student and co-first author Fanny E. Estermann. “With access denied, p53 is powerless to pull the trigger on apoptosis.”

O’Shea hopes to exploit these new insights to understand how high levels of wild type p53 might be inactivated in cancer as well as the mechanisms that induce aberrant silencing of tumor suppressor gene loci in cancer cells. “Our study really changes the longstanding definition of how p53 is inactivated in adenovirus-infected cells and will finally allow us to develop true p53 tumor selective oncolytic therapies.”

Uomo e piante 4/dimoltialtri

Il rapporto con i patogeni
Se l’Africa è il luogo di origine e della prima evoluzione del genere Homo, per comprendere i rapporti coevolutivi tra Homo e patogeni è necessario approfondire l’argomento della distribuzione dei patogeni nel mondo, per capire se le malattie infettive siano distribuite a random o se esistano delle differenze  caratterizzanti il continente africano.

Dato che l’indagine archeologica è impossibile per l’assenza di resti analizzabili, una conferma diretta sulla distribuzione dei patogeni nel periodo di interesse non è possibile, ma secondo Guegan e collaboratori (23)  le inferenze dalle attuali distribuzioni permettono di dire che:

  1. la diversità delle specie patogene per l’uomo era ed è massima nelle zone tropicali e subtropicali.
  2. le specie di patogeni endemiche nelle zone temperate del mondo sono molto poche, mentre nelle zone tropicali sono presenti sia i patogeni endemici (patogeni, spesso zoonosi,  con stadi esterni legati a vettori o a riserve, come gli elminti) sia quelli a distribuzione globale (di solito virus, batteri e funghi trasmessi direttamente, adattati alle popolazioni umane, con ciclo vitale interno all’uomo e quindi poco sensibili all’ambiente).

Ciò significa che le diverse popolazioni umane non sono state esposte allo stesso carico di malattie infettive, e che le popolazioni africane hanno avuto (e hanno) a che fare con una maggior diversità di patogeni.

I Cro Magnon erano probabilmente organizzati in piccoli gruppi egalitari di cacciatori e raccoglitori e, a differenza di H. neanderthalensis, avevano una dieta dominata dagli alimenti di origine vegetale. (24)

Come tutti gli ominidi, essi convivevano con parassiti con i quali si erano evoluti in Africa (dai macroparassiti come Enterobius, Ancylostoma, Uncinaria, Necator, ai microparassiti come Plasmodium responsabile della malaria e Flavivirus della febbre gialla) ed anche con parassiti di altri animali, ad esempio il Trypanosoma brucei rhodesiense della tripanosomiasi africana, il Leptospira della leptospirosi, la Brucella della brucellosi, la Salmonella della salmonellosi, lo Schistosoma della schistosomiasi, la Amoeba della dissenteria amebica, il Treponema pertenue, proveniente da animali o carne decomposta, che causa la framboesia, la Borrelia che porta la borreliosi, e la Yersinia pestis.

E’ probabile che, se non esenti da malattie, i primi Homo sapiens fossero comunque poco colpiti da malattie infettive, e soffrissero prevalentemente di ferite, traumi e di infezioni croniche a bassa intensità della pelle e del tratto gastrointestinale, le uniche che potevano mantenersi attive in popolazioni numericamente esigue, o perché duravano a lungo (dissenteria amebica) o perché potevano alternarsi tra ospiti diversi (schistosomiasi).(25)

Certamente non soffrivano di infezioni acute come morbillo o varicella, infezioni virali che o uccidono o rendono immuni e necessitano quindi di grandi numeri per mantenersi attive. Inoltre la maggior parte dei gruppi umani erano sempre in movimento, quindi non esistevano quelle riserve di focolai infettivi tipici degli insediamenti stabili che sono le latrine, la spazzatura e gli allevamenti.

Un caso di studio: la malaria
L’analisi delle frequenze di alcune malattie a base genetica ha dato indizi molto importanti proprio sul fondamentale ruolo selettivo/evolutivo delle malattie infettive. L’esempio più studiato è certamente quello del rapporto tra disordini dell’emoglobina e la malaria, che mostra come nonostante i fattori stocastici impliciti nella trasmissione della malaria, il rischio di infezione dipenda in buona parte da fattori predeterminati a livello genetico. (26)

L’anemia falciforme risulta da una modificazione della subunità di tipo beta dell’emoglobina con formazione della emoglobina S (HbS) invece che la forma normale A (HbA). Negli omozigoti HbSS la HbS, quando viene ossidata, tende a precipitare e ad alterare la forma degli eritrociti, che divengono rigidi e distorti a falce (drepanociti), fragili, proni ad emolisi. I soggetti soffrono una elevata morbosità e mortalità, hanno aspettative di vita basse e raramente si riproducono.

L’allele modificato dovrebbe quindi essere estremamente raro o già scomparso, mentre si osservano frequenze molto elevate (più del 20%) nella fascia dell’Africa tropicale e frequenze meno elevate ma ancora superiori a quanto ci si aspetterebbe in Grecia, Turchia, India, Sicilia, ecc., mentre l’allele è assente in Nord America, Nord Europa, Australia.

Questa persistenza si potrebbe spiegare con una frequenza molto elevata di mutazione ricorrente, ma è più probabile che l’eterozigote HbAS abbia un vantaggio selettivo sugli individui “sani” HbAA. Questo vantaggio selettivo risulta evidente sovrapponendo le aree di persistenza dell’allele con quelle della distribuzione della malaria, aree che combaciano molto bene. Ed infatti si è scoperto che gli eterozigoti hanno ridotta prevalenza ed intensità della malaria rispetto agli omozigoti HbAA.

I parassiti della malaria (Plasmodium spp.) hanno più difficoltà a sopravvivere all’interno degli eritrociti anemici, probabilmente perché la loro azione pro-ossidante danneggia più facilmente l’eritrocita, causa una sua morte precoce e un rilascio di forme parassitarie immature che non sopravvivono all’esterno della cellula.

La stessa ipotesi di un vantaggio selettivo è stata avanzata anche per altre modificazioni patologiche dell’emoglobina, come alfa- e beta-talassemie, o per disfunzioni eritrocitarie, come ad esempio per il favismo, ovvero la deficienza dell’enzima Glucosio-6-fosfato deidrogenasi (G6PD). La deficienza di questo enzima chiave causa una reazione avversa a farmaci pro-ossidanti (l’emoglobina si ossida molto più facilmente, precipita e causa lisi dell’eritrocita) che si manifesta come una eccessiva distruzione di eritrociti. La ridotta capacità della cellula nel resistere allo stress ossidativo starebbe però alla base dell’effetto protettivo dalla mortalità da Plasmodium falciparum.

Come ha ben esposto Nina Etkin in un suo recente articolo la coscienza di questi legami evolutivi non è interessante solo dal punto di vista accademico, ma può funzionare come sapere applicato.(27) Comparare questi adattamenti biologici alla malaria agli adattamenti culturali, ad esempio la scelta delle piante medicinali o i comportamenti alimentari, ci può aiutare a spiegare perché tali adattamenti si siano presentati, e ci può aiutare a usare il dato etnobotanico come filtro per la ricerca di nuove piante utili.

L’autrice usa la pianta al momento più interessante per il trattamento della malaria, la Artemisia annua e la molecola artemisinina, mostrando come l’azione antimalarica derivi dal potenziale proossidante della molecola, che agisce sull’eritrocita e sul plasmodio, mimando in questo l’effetto di sensibilizzazione all’ossidazione delle anemie emolitiche.

L’autrice indica anche altri  comportamenti come probabili adattamenti culturali di fronte alla malaria, come la tradizione est africana di fermentare la birra in recipienti ferrosi. La birra così ottenuta sarebbe carica di ferro, un fattore chiave nei processi ossidativi che faciliterebbe la lesione ossidativa agli eritrociti.

L’espansione

Con l’espandersi verso le nuove aree temperate, H. erectus e le altre specie di Homo si lasciarono indietro (in Africa) tutte le malattie con vettori o ospiti intermediari speciali e specifici del continente (tripanosoma, arborvirus, ecc.), mentre il clima più mite riduceva il carico di patogeni; se a queste differenze sommiamo il disgelo seguito all’ultima glaciazione (10.000 anni fa), si spiega forse la crescita demografica e la conseguente aumentata necessità di cibo che spinse verso la domesticazione degli animali e verso l’agricoltura. (28)

In questo quadro assume particolare rilevanza sanitaria il fatto che queste popolazioni assumessero sempre una grande varietà di cibi vegetali, ricchi di una grande diversità di nutrienti e di tossine vegetali, responsabili, come vedremo più avanti, della riduzione delle infezioni enteriche. (29)

Sempre questo quadro suggerisce che fosse ancora assente la figura dell’esperto guaritore, dell’esperto di piante medicinali e di riti, e che la gestione della salute ed il trattamento della malattia (vista ancora come un evento che si originava all’esterno del corpo, biologico e sociale) fosse collettivo e non segreto, folklorico e comunque comprendente un complesso di terapie razionali, sia chirurgiche sia erboristiche, usate per curare malattie semplici (diarrea, costipazione, ferite, ecc.) più un uso di tonici primaverili o altro che forse apportavano nutrienti. (30)

Come si vedrà più avanti, la “scoperta” dell’agricoltura, con la possibilità di discriminare tra piante spontanee e piante coltivate, piante alimentari e piante medicinali, permette la individuazione di soggetti esperti e di conoscenze segrete, limitate agli esperti, esoteriche.

La conquista del mondo
I movimenti migratori che hanno portato H. sapiens a conquistare il mondo sono conosciuti nelle loro linee più generali.

Nell’arco temporale del “grande balzo in avanti”, dopo la conquista dell’Eurasia meridionale, H. sapiens arriva in Australia e Nuova Guinea (unite al tempo a causa della glaciazione) tra i 30.000 e i 40.000 anni fa (iniziando l’estinzione della megafauna australasiana), con quello che è stato probabilmente il primo utilizzo di imbarcazioni per superare grandi distanze (intorno agli 80 km). Circa 20.000 anni fa l’uomo conquista le terre fredde della Siberia, probabilmente contribuendo all’estinzione del Mammut e del rinoceronte lanoso. E’ probabile che solo le maggiori capacità di H. sapiens rispetto ad H. erectus e H. neanderthalensis abbiano permesso questo passaggio.

L’ultima grande massa continentale ad essere conquistata è stata l’America. Approfittando di favorevoli condizioni climatiche, è probabile che intorno a 12-000 anni fa i primi coloni siano arrivati in Alaska, e che nel giro di mille anni queste popolazioni siano arrivate in Patagonia. La Groenlandia dovrà aspettare il 2000 a.C. (31)

Se la parte principale della dieta di Homo sapiens arcaico era costituita dai vegetali (lo indicherebbero le strie dei denti comparabili a quelle dei vegetariani contemporanei, i cestini per la raccolta di vegetali nel tardo Paleolitico, i fitoliti indicanti uso di cereali, il rapporto Stronzio/Calcio delle ossa che si innalza nel Mesolitico), con il passare del tempo egli diviene sempre più attivo nel procacciarsi la carne, passando da scavenger passivo a scavenger attivo e cacciatore, e gli strumenti, specie quelli utilizzati per la macellazione delle carcasse animali, si fanno più sofisticati a mano a mano che cresce la competizione con i grossi carnivori.

Certamente l’utilizzo più massiccio della carne come alimento energetico facilita l’apporto di principi nutritivi atti a sostenere l’encefalizzazione e quindi l’ominazione.

A questo periodo risalgono altri importanti ritrovamenti di indizi sull’uso delle piante da parte dell’uomo. I resti trovati nei siti Neolitici degli abitanti dei laghi dell’Europa centrale indicano coltivazione o raccolta di ca. 200 specie diverse di piante (ad es. papavero da oppio, Papaverum somniferum L. — Papaveraceae).

Il maggior consumo di cibi ad elevata densità e d’origine animale ha probabilmente migliorato lo status nutrizionale di Homo sapiens ma ha anche cambiato il suo rapporto con foglie e composti allelopatici, ed è probabile che questi cambiamenti abbiano avuto un effetto sull’equilibrio tra status nutritivo, organismi patogeni e proprietà positive e negative dei composti attivi. Il cambiamento di dieta, infatti, potrebbe aver reso da un lato meno necessario l’utilizzo di foglie (energeticamente povere) e dall’altro aver reso possibile un loro consumo più elevato in caso di necessità (perché un organismo ben nutrito detossifica più facilmente gli xenobiotici, ovvero i composti chimici farmacologicamente attivi esogeni introdotti con la dieta).

Forse è qui, con lo sganciamento parziale dell’uomo dalla necessità di ingerire piante tossiche, e con l’inizio del lungo processo che avrebbe portato alla domesticazione di alcune piante, che si ha per la prima volta la possibilità di parlare di medicina e non solo di comportamenti di automedicazione. Perché il disaccoppiamento della frazione nutritiva da quella tossica permette di individuare due soggetti fino a questo momento fortemente sovrapposti: le piante alimentari e le piante medicinali, ed è possibile ingerire, coscientemente, composti allelopatici a scopo curativo.

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Note

23. Guegan J-F, Prugnolle F, Thomas F (2008) “Global spatial patterns of infectuous diseases and human evolution”. In S.C. Stearns & J.C. Koella (eds.) Evolution in Health and Disease. Second Edition. Oxford University Press

24. Kiple K.F. “The ecology of disease”. in W.F. Bynum e R. Porter 1993 op. cit. pp. 357-381. Anche se la presenza di asce e coltelli di pietra e di segni da taglio sui denti indicano un utilizzo di carne, le strie sui denti e la loro qualità estremamente simile a quelle dei vegetariani odierni indica una dieta prevalentemente vegetariana (Consiglio e Siani 2003 op. cit. )

25. In mancanza di dati archeologici, la fonte più importante di inferenze sul passato sono le condizioni di vita odierne delle ultime popolazioni di cacciatori raccoglitori; essi sono ben nutriti rispetto ai vicini coltivatori, e di solito in salute (Vickers W.T. “The health significance of wild plants for the Siona and Secoya”. In Etkin, N.L. (Ed.), 1994 op. cit. pp. 143-165), ed i loro problemi parassitari ed infettivi sono probabilmente in equilibrio con la popolazione (Kiple 1993 op. cit. ).

26. Ma, come hanno mostrato Mackinnon MJ, Mwangi TW, Snow RW, Marsh K, Williams TN (2005) “Heritability of malaria in Africa”. PLoS Med 2(12): e340,  i fattori genetici dell’ospite sembrano contare per il 25-33% della variabilità totale nella suscettibilità, e solo una piccola percentuale di questa variazione sembra legata ai geni più conosciuti e studiati, rafforzando l’ipotesi che la suscettibilità alla malaria sia sotto il controllo di molti geni differenti, e di fattori non genetici sempre predeterminati, che si articolano in maniera complessa con i fattori genetici.

27. Etkin, N (2003) “The co-evolution of people, plants, and parasites: biological and cultural adaptations to malaria”. Proceedings of the Nutrition Society, 62:311-317

28. Diamond 1997 op. cit.

29.  Johns 1990 op. cit.;  Vickers 1994 op. cit. ; Kiple 1993 op. cit.

30. Anche in questo caso ci si rifa ai agli studi effettuati sulle ultime popolazioni di cacciatori raccoglitori, che utilizzano rimedi per molti problemi: ferite, fratture, slogature, dolore, problemi di pelle, febbre, raffreddore, tosse, diarrea, mal di testa, ecc. Le piante venivano e vengono consumate come infusi, forse ancora prima come pianta fresca o secca ingerita tal quale.

31. Diamond 1997 op. cit.

Il suino in casa – 1

Dato che ho passato una settimana a fare tisane per il bimbo, ho pensato utile ripassare i basic facts sull’influenza e sulle possibili armi non convenzionali da usare (oppure da non usare). Ed ora ve lo riverso :-).

Intanto iniziamo proprio dall’inizio…

Virus
Oggettini quasi-vivi composti da acido nucleico (DNA o RNA) inserito in un involucro proteico (capside) e in certi casi (virus rivestiti) in una membrana lipoproteica. Le dimensioni vanno da 20 nm a 250-300 nm.

Classificazione virale
I virus possono essere classificati secondo la presenza di DNA o RNA, a singola o doppia elica. Se ne conoscono più di 70 famiglie, 20 negli uomini. A differenza degli organismi superiori, non è possibile costruire un albero genealogico dei virus al di fuori della famiglia, unico raggruppamento naturale che mostri somiglianze di strutture genomiche e geni omologhi.

Influenza
I virus dell’influenza appartengono  (secondo la classificazione di Baltimora) al V gruppo virale, alla famiglia delle Orthomyxoviridae, con RNA a elica singola, senso negativo, con rivestimento lipoproteico.

I virus influenzali che colpiscono l’uomo appartengono a tre serotipi: A, B e C. I virus del tipo C sono relativamente innocui, quelli del tipo B sono abbastanza rischiosi da giustificare la comprensione nella vaccinazione, ma sono quelli di tipo A ad essere responsabili della maggior parte delle infezioni.

Il serotipo del virus è determinato da due proteine di superficie – emaglutinina (H) e neuramminidasi (N) – che permettono al virus di entrare nelle cellule e di passare da cellula a cellula. In particolare la  emmaglutinina è necessaria sia per l’aggancio alla parete cellulare sia per la fusione. La emmaglutinina ha bisogno di essere “spezzata” da un enzima per funzionare nella fusione, e nell’uomo normalmente l’unico luogo dove questo enzima è presente è il tessuto polmonare.
Ci sono 16 sottotipi H e 9 N, che possono dare 144 serotipi HN, dei quali solo tre (H1N1, H2N2 e H3N2) sono stati osservati essere perfettamente adattati all’uomo, mentre combinazioni quali quella responsabile per la “aviaria” (ovvero la H5N1), possono infettare l’uomo occasionalmente ma sono virus aviari (naturalmente H5N1 potrebbe evolversi in una nuova pandemia se divenisse trasmissibile perfettamente tra uomo e uomo).

Ogni anno i virus del tipo A modificano leggermente le proprie proprietà antigeniche, in quello che si chiama il drift antigenico. Ma per tre volte nel XX secolo è stato osservato il cosiddetto shift antigenico, ovvero una modificazione radicale delle proprietà antigeniche con cambiamento del serotipi e quindi insorgenza di nuove pandemie.

1918
Dalla preesistente riserva genetica naturale del virus, gli uccelli acquatici, nel 1918 emerse (si adattò al nuovo ospite) il ceppo H1N1 che causò all’inizio (in primavera) una crisi di problemi respiratori di lieve entità, chiamata la “febbre dei tre giorni”, nella milizia di Fort Funston, in Kansas (ed una concomitante epidemia nei maiali nordamericani), da dove raggiunse altre basi militari negli Stati Uniti e quindi l’Europa. Questa prima ondata causò pochi decessi e la maggior parte degli infetti recuperò in pochi giorni. Essa fu seguita da una seconda “ondata” nell’agosto dello stesso anno, sempre di lieve entità anche se maggiore delle normali influenze stagionali (mortalità del 2.5% rispetto al normale 0.1%), che raggiunse il picco in settembre e novembre.

Nella primavera del 1919 si ebbe la terza (seconda secondo alcuni) ondata, e la situazione mutò gravemente dal punto di vista epidemiologico. La famigerata “spagnola” sembrava avere caratteristiche molto diverse: alcune vittime morirono nel giro di poche ore, ed erano suscettibili tutti i gruppi di età, dai più giovani agli adulti agli anziani. Colpì sia aree rurali sia cittadine, interessando, secondo alcune stime, 1/5 della popolazione mondiale ed uccidendo 50 milioni di persone.  Il virus era mutato, diventando più virulento?   In assenza di dati da comparare per accertare variazioni geno- o fenotipiche (l’unico ceppo di virus della H1N1 del 1918, ottenuto da tessuto polmonare appartenente ad un cadavere riesumato che era rimasto congelato nell’artico, era dell’ondata autunnale) è difficile dirlo con  certezza; i dati sulla mortalità (5% nella ondata primaverile, 60% in quella di novembre) sembrano supportare l’idea dell’aumentata virulenza, ma ci sono altri possibili fattori, o cofattori: le condizioni ambientali invernali (aria fredda, maggior presenza di pneumococchi e staffilococchi), la situazione di guerra (maggioro promiscuità), la copresenza di altri agenti virali patogeni, e differenza delle popolazioni colpite.

Certo è che il virus H1N1 riesumato del 1918 è diverso da quello delle H1N1 stagionali odierne: ha l’abilità di replicarsi in assenza di tripsina (ovvero la sua emmaglutinina può essere spezzata da proteasi ubiquitarie e non solo da quelle presenti nel tessuto polmonare) e mostra un fenotipo molto aggressivo nella crescita nelle cellule dell’epitelio polmonare umano, ed è in grado di uccidere i ratti infettati.

1957
Nel 1957 avvenne il primo shift genetico conosciuto (teniamo presente che la prima caratterizzazione dei serotipi era avvenuta solo negli anni 30) che portò alla comparsa del serotipo H2N2 (derivante da una ricombinazione: 3 segmenti da virus aviario e 5 da H1N1) che causò la cosiddetta pandemia “Asiatica” che apparentemente eliminò H1N1.

1968
Nell’estate del 1968 avvenne il secondo shift genetico conosciuto che portò alla comparsa in Asia del sud di H3N2 (2 segmenti da virus aviari) e alla influenza di Hong Kong, che eliminò H2N2 e che fu responsabile di sporadici casi da settembre a dicembre negli Stati Uniti, in Inghilterra ed in Giappone. L’epidemia nell’emisfero settentrionale finì in aprile del 1969, mentre in Australia iniziò a gennaio dello stesso anno, scomparve in ottobre e ritornò nel giugno del 1970.

1976
Nel febbraio del 1976 si ha la riemergenza di un ceppo di H1N1 (che teoricamente doveva essere stato eliminato dalla comparsa di H2N2) simile a quello del 1918, nella milizia di Fort Dix, dove causò il decesso di un soldato.  Molto velocemente (forse troppo velocemente?) il governo americano organizzò una vaccinazione di massa che raggiunse 48 milioni di americani, nonostante che il virus rimanesse limitato all’area di Fort Dix e sparisse molto velocemente (solo un ceppo collegato e poco virulento rimase presente fino a marzo). La vaccinazione venne sospesa dopo 532 casi di paralisi da sindrome di Guillain-Barré e 25 decessi apparentemente legati alle vaccinazioni. La vaccinazione causò cioè quindi più morti del virus (ma il virus non era veramene presente nella popolazione, che ricevette una cura inutile).

Il virus era così simile al virus H1N1 pre-1950 da far pensare ad un vero e proprio “congelamento” del ceppo. La riemergenza di H1N1 non eliminò H3N2 perché non era una novità per i soggetti di età maggiore di 20 anni, che avevano avuto la possibilità di incontrarlo prima del 1957, e quindi dal 1977 (ma alcuni autori ritengono fino dal 1918) ci sono due serotipi di influenza A circolanti, H1N1 e H3N2.

L’influenza H1N1 2009
La comparsa della nuova H1N1 rinforza l’opinione di alcuni autori che dal 1918 in poi siamo vissuti in un era pandemica dominata da H1N1, che continua a ritornare come una dinastia virale. Infatti, nonostante le iniziali affermazioni che si trattasse di un virus suino passato all’uomo, sappiamo che la nuova pandemia deriva da un virus H1N1 che include geni aviari, umani e suini. In effetti, il dato osservato che la virulenza del virus sia decresciuta con l’espandersi dell’area infetta si spiegherebbe bene con il fatto che esistono nella popolazione (in particolare in un terzo dei soggetti over 60) anticorpi preesistenti contro il virus, derivanti dall’immunizzazione o l’incontro con l’influenza stagionale.
E’ interessante, notano vari autori, il fatto che gli anticorpi prodotti da precedenti virus H1N1 non hanno dato protezione crociata dal H1N1 2009, forse perché gli epitopi del H1N1 2009 invece di stimolare la prodizione di anticorpi producono una risposta immunitaria cellulo-mediata, tramite cellule T citotossiche e sostanze chimiche tossiche.

From schemi

Attività antivirale

La strategia è quella di interferire con l’abilità del virus di penetrare la cellula bersaglio. Il virus passa attraverso vari passaggi per penetrare: legame a recettori di superficie cellulare grazie all’antirecettore emagglutinina, che si lega alla glicoproteina con l’acido neuramminico; fusione dell’involucro lipoproteico; adsorbimento; penetrazione; denudamento; rilascio dei contenuti all’interno della cellula. La neuraminidasi (N) serve a sciogliere il legame tra H e glicoproteine della membrana cellulare, sia nel caso che la penetrazione non abbia successo, sia quando il virus replicato debba lasciare la cellula bersaglio.

Interferire con l’attacco alla cellula
Gli agenti usati al momento per interferire con queste fasi possono mimare la proteina associata al virus (VAP) e legarsi ai recettori virali; possono mimare il recettore cellulare e legarsi al VAP. Sono però strategie molto costose da sviluppare.
Altri agenti possono inibire la penetrazione e/o il denudamento (Amantadina e Rimantadina per l’influenza, Pleconaril per i rinovirus del raffreddore e vari enterovirus)

Intervento durante la sintesi virale.
Un secondo approccio è quello di mirare ai processi che sintetizzano le componenti virali dopo l’invasione del virus stesso. Un modo tipico per farlo è inibire la trascrittasi inversa, l’enzima che sintetizza la trascrizione da RNA a DNA (acyclovir per HSV, AZT per HIV, Lamivudina per HBV). Un altro modo è quello di bloccare la fase di trascrizione di mRNA (necessario per la sintesi proteica), oppure la fase di traduzione.

Approccio diverso è quello di inibire la proteasi, un enzima che taglia le catene proteiche virali perché possano poi assemblarsi nella configurazione finale, oppure di inibire del tutto l’assemblaggio (come la Rifampicina).

Rilascio
L’ultima fase del ciclo virale è il rilascio del virus completo dalla cellula. Alcuni farmaci antiinfluenzali (Zanamavir, Oseltamivir) impediscono il rilascio virale bloccando la neuraminidasi.

Virus e resistenza
Sia i farmaci antivirali (acyclovir) sia i vaccini possono causare insorgenza di resistenza nei virus. Questa seconda resistenza è la meno conosciuta. Vediamo qualche sempio di resistenza ai vaccini:

  • Virus dell’epatite B: la vaccinazione è iniziata nei primi anni 80. Il vaccino contiene un antigene ricombinante di superficie, ed il determinante a è il target primario degli anticorpi. Nel 1990 è emerso il primo caso di sostituzione nel gene S codificante per a, e negli anni si è evidenziato il fatto che la frequenza della resistenza aumenta la individui vaccinati.
  • Influenza aviaria (H5N2) nei polli. Continuano ad emergere nuove linee virali resistenti.
  • Malattia di Marek, causata dal virus dell’Herpes nei polli. Le prime vaccinazioni sono iniziate negli anni 60, e la prima campagna è stata di successo; già la seconda campagna (negli anni 70) non è risultata più sufficiente ad assicurare una copertura paragonabile alla prima. La seconda generazione di vaccini, negli anni 80, è risultata insufficiente dopo pochi anni. La terza generazione è uscita negli anni 90.
  • Infectuous Bursal Disease (IBD) nei polli, causato da un birnavirus. La vaccinazione è fallita.

Perchè falliscono?
Le “nuove” malattie virali sono molto differenti dalle prime (ad esempio le esantematiche), classici esempi del successo delle vaccinazioni. Nelle nuove malattie i ceppi virali sono capaci di operare anche in soggetti vaccinati, e la vaccinazione non è sterilizzante, non dura per tutta la vita e non è indipendente dai ceppi virali.
L’adattamento dei virus dipende certamente da meccanismi classici quali l’evoluzione degli epitopi e della virulenza, e in secondo grado da aumento della capacità immunosoppressiva, dall’aumento nella produzione di molecole smokescreen, dalla modificazione delle variazioni antigeniche, dalla modificazione del tropismo tessutale e dall’attivazione di vie di penetrazione alternative.
Il futuro è incerto e la scelta di usare target sempre più specifici nei virus può portare a conseguenze inaspettate e non prevedibili.

E ora passiamo alle strategie dello stregone. Iniziando dall’approccio a mio parere meno interessante da un punto di vista strettamente fitoterapico, ovvero l’azione direttamente virucida o virustatica degli olii essenziai.  Più avanti esamineremo altre opzioni


Attività antimicrobica

E’ indubbio che l’attività antimicrobica degli olii essenziali (OE) sia quella con più supporto sperimentale. Il fatto che gli OE possiedano proprietà antinfettive, in particolare antimicotiche, concorda inoltre con le nostre conoscenze riguardo le funzioni di queste sostanze nelle piante, come difesa da infezioni secondarie a lesioni dovute all’azione degli erbivori..
Se quest’attività è data ormai per scontata, bisogna sottolineare come la maggior parte degli studi sia stata effettuata in vitro, e di come esistano ancora pochi studi clinici di buona qualità.
Il volume di dati sull’attività antimicrobica resta, comunque, significativo; sono stati testati molti e diversi patogeni: virus animali e vegetali, funghi micotossigeni, lieviti patogeni, differenti ceppi batterici, amebe.

Olii essenziali antivirali
Se tra gli olii specificamente virucidi troviamo spesso olii genericamente antinfettivi, come per esempio quelli con alto tenore in fenoli o eteri fenoliche (Cinnamomum zeylanicum cortex, Origanum hirtum, Thymus vulgaris, Lippia origanoides, Syzygium aromaticum), o ad alcoli (Zingiber officinale, Melaleuca alternifolia, Mentha x piperita, Santalum album, Cymbopogon martinii), emergono anche olii diversi dal solito, come Salvia officinalis, Hyssopus spp., Artemisia vulgaris, Laurus nobilis. In particolare sembra che la presenza di citrali sia importante per la attività antivirale (come Cymbopogon spp., Melissa officinalis). Vi sono poi olii essenziali interessanti ma molto poco studiati, come Santolina insularis, Heracleum spp., Artemisia arborescens, Cynanchum stauntonii, Salvia fruticosa, Minthostachys verticillata.

Qualche dettaglio: OE attivi sui virus influenzali

L’olio essenziale di varie specie di Heracleum hanno mostrato attività virucida in vitro sul virus dell’influenza.
L’olio essenziale di Houttuynia cordata e le molecole metil n-nonil chetone, lauril aldeide, e capril aldeide sono risultati virucidi, in vitro, sui virus dell’herpes simplex 1, dell’influenza e dell’HIV-1, in maniera tempo dipendente.
L’olio essenziale di radice di Cynanchum stauntonii (Ascelpiadaceae), i cui composti principali sono (E,E)-2,4-decadienal, 3-etil-4-metilpentanolo, 5-pentll-3H-furan-2-one, (E,Z)-2,4-decadienale e 2(3H)-furanone, diidro-5-pentile, è attivo in vitro sul virus dell’influenza con IC50s = 64 μg/ml. In un esperimento in vivo su modelli animali ha ridotto i decessi da influenza in maniera dose dipendente.

La trans-cinnamaldeide, uno dei principali composti dell’olio essenziale da corteccia di Cinnamomum zeylanicum e C. cassia,  ha mostrato attività in vivo ed in vitro sul virus dell’influenza A/PR/8. Incubato a 40 μM con cellule di rene di cane preinfettate, ha ottenuto il massimo  del controllo dell’infezione (29.7%) se somministrato 3 ore dopo l’infezione, e  ha inibito la crescita del virus in maniera dose dipendente da 20 a 200 μM, quando il virus non è stato più individuabile.
Nei topi infettati con il virus PR-8 virus l’inalazione di 50 mg/gabbia/giorno ha aumentato la sopravvivenza in 8 giorni del 100% (rispetto al 20% dei controlli), ed ha grandemente ridotto la presenza virale nel fluido di lavaggio broncoalveolare dopo 6 giorni.
L’olio essenziale di Melaleuca alternifolia ed alcuni dei composti in esso contenuti (soprattutto terpinen-4-olo, ma anche α-terpinene, γ-terpinene, p-cimene, terpinolene e α-terpineolo) hanno mostrato attività inibitoria sulla replicazione del virus dell’influenza A/PR/8 virus H1N1 a dosi minori di quella citotossica (ID50 = 0·0006% e CD50 = 0·025%, indice di specificità 41,6). L’effetto su HSV-1 ed HSV-2 è stato molto minore (CD50 = 0·125%).
La propoli (non un olio essenziale ma rilevate comunque, potendo funzionare da resina veicolo) è risultata attiva sul virus dell’influenza aviaria.

Attività su altri virus
L’olio essenziale di Artemisia arborescens è risultato efficace su HSV-1 (del 50% a dosi di 2.4 microg/ml, dell’80% a dosid di 5.6 microg/ml) e -2 (del 50% a dosi di 4.1 microg/ml, dell’80% a dosi di 7.3 microg/ml) con azione direttamente virucida e inibente il passaggio da cellula a cellula e a dosi molto più basse di altri olii essenziali.

In uno studio recente gli olii essenziali di zenzero, sandalo, timo e issopo si sono dimostrati efficaci su herpes virus 1.
L’olio di Santolina insularis e di Melissa officinalis sono attivi su HSV-1 e -2. In particolare l’OE di melissa ha mostrato IC50 = 0.0004% ed inibizione del 98.8% per HSV-1, e IC50 = 0.00008% ed inibizione del 97.2% per HSV-2. L’OE di melissa agisce sul virus prima della penetrazione della cellula, ma non dopo.
L’olio essenziale di Salvia fruticosa ha mostrato una elevata attività virucida su HSV-1, e i diterpeni di Salvia officinalis mostrato attività antivirali.
L’olio essenziale di Myntostachys verticillata ha inibito sia HSV-1 sia il virus della pesudorabbia.
L’olio essenziale di eucalipto (non meglio specificato) ha ridotto del 57.9-75.4% i livelli di HSV.
L’olio essenziale di Laurus nobilis e i suoi composti beta-ocimene, 1,8-cineolo, alfa- e beta-pinene hanno mostrato attività antierpetica con IC50 = 120microg/ml e un indice di selettività pari a 4.16.
Altri olii attivi sono genericamente la Mentha xpiperita e l’Origanum vulgare.
Gli OE di Artemisia douglasiana e Eupatorium patens sono risultati attivi su HVS-1 e Dengue 2.
L’OE di Cymbopogon citratus è risultato attivo su HSV-1, con il 100% di inibizione a conc. di 0.1%, dell’80% a 0.05% e del 50% a 0.005%. Anche gli OE di Rosmarinus officinalis ed Eucalyptus globulus sono risultati interessanti, seppure non così attivi, causando inattivazione delle particelle virali.
Gli OE di Lippia alba, Lippia origanoides, Origanum vulgare e Artemisia vulgaris sono attivi sul virus della febbre gialla, con MIC di 3.7 microg/ml per i primi tre e di 11.1 microg/ml per l’ultimo.

Composti attivi e meccanismi d’azione.
Vari studi hanno identificato gli OE con molecole che portano un gruppo idrossilico, ovvero alcoli, fenoli ed eteri fenoliche, come quelli più attivi.  In ricerche effettuate sugli effetti antimicotici delle molecole degli OE, le più attive si sono dimostrate quelle con un gruppo idrossilico legato ad un sostituente alchilico (fenoli come carvacrolo, timolo, iso-eugenolo ed eugenolo e aldeidi aromatiche come cinnamaldeide).

Attualmente l’ipotesi principale sui meccanismi d’azione è che l’attività antimicrobica vada di pari passo con l’attività citotossica e che quindi condivida lo stesso meccanismo, in altre parole una reazione associata alla membrana. Anche il legame tra attività antisettica e gruppi idrossi fenolici supporta quest’ipotesi, vista la riconosciuta attività dei fenoli a livello cellulare, con denaturazione di proteine batteriche o alterazione della membrana citoplasmatica.

I fenoli e le eteri fenoliche agirebbero sulla struttura e funzionalità della membrana cellulare, strato polisaccaridico (in G-), e parete cellulare, causando lesione drammatica e morte. Altri composti (forse gli alcoli) indebolirebbero solo la membrana senza causare lisi, stimolano il rilascio di enzimi autolitici, con lesione subletale e perdita delle capacità regolatoria e forse una azione mitocondriale.

Nei virus gli OE sembrano nella quasi totalità agire nella fase subito precedente alla penetrazione, molto poco  nelle fasi di replicazione, e poco nella fase di replicazione e passaggio da cellula a cellula. Per queste ragioni si ipotizza che il meccanismo di azione sia quello della interferenza con l’involucro virale, con disturbo delle strutture del virione necessarie per la penetrazione della cellula, o forse la dissoluzione della capsula del virus (l’OE di origano ad esempio la distrugge). Il fatto che il meccanismo si adifferente da quello tipico degli antivirali di sintesi spiegherebbe il fatto che spesso questi OE sian attivi anche su ceppi resistenti ad acyclovir.

Ci sono però delle interessanti eccezioni, ad esempi il già citato OE di Santolina insularis agisce su HSV inibendo la trasmissione da cellula a cellula; gli OE di Melaleuca alternifolia e di Eucalyptus globulus sembrano agire sul virus dell’herpes sia prima sia durante la penetrazione; la cinnamaldeide sembra fare eccezione poiché inibisce la sintesi proteica virale a livello post trascrizionale.

From schemi

Molto interessante l’osservazione fatta da molti ricercatori che l’azione degli OE sui patogeni non varia molto tra ceppi da laboratorio e ceppi selvaggi.  Questo sembrerebbe supportare l’idea che i patogeni non abbiano sviluppato una resistenza agli OE come hanno invece fatto per quanto riguarda molti antibiotici.  E questo nonostante gli OE siano parte della biosfera da moltissimo tempo, e siano stati sicuramente coinvolti in processi d’adattamento di tipo evolutivo. E’ ipotizzabile che la ragione del mancato sviluppo della resistenza sia la complessità degli OE e del loro meccanismo d’azione con punti d’attacco a diversi livelli della membrana cellulare; questo renderebbe più difficile l’attivarsi di meccanismi di resistenza, o quantomeno di quelli di tipo one-step.

(continua)