Uomo e piante 8/dimoltialtri

Dopo un lungo periodo piuttosto congestionato che mi ha impedito di buttare giù alcunchè per il blog, provo a rintrecciare le fila del discorso sul rapporto uomo e piante. L’ultima e lontana puntata la potete ritrovare qui,  e da questa puntata potete rintracciare le altre sei già disseminate.  Mi ero fermato ad un punto cruciale, avendo tentato di dare una visione d’insieme della teoria chemioecologica dell’origine dell’uso delle piante (debitore per questo interesse ai testi di Johns e della Etkin), e essendomi lasciato da affrontare il capitolo più specifico sulla medicina “botanica” vera e propria.  Riprendo da qui, in parte riassumento quanto già detto ed in parte tentando di capire se questi ragionamenti possano illuminare la storia della medicina antica, e come.

Introduzione

Il filo che lega i primi post di questa serie alla seconda, che lega cioè i fenomeni chemioecologici adattivi tra uomo e piante allo sviluppo della medicina, è certamente sottile.  Indubbiamente l’ipotesi coevolutiva, con tutti i suoi limiti, fornisce una chiave interpretativa fertile – una buona euristica – per iniziare a rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti: “come si giustifica la predominanza delle piante nelle farmacopee umane?”.  Essa propone che i rapporti tra uomini e piante si sono inizialmente sviluppati seguendo percorsi biologici di adattamento, simili a quelli che caratterizzano i rapporti tra piante ed altri animali, o tra piante e piante.[1]

D’altro canto, se volessimo estendere questo ragionamento all’intreccio sempre più complesso di pratiche, saperi, mediazioni simboliche ed istituzioni che caratterizzano la medicina come pratica culturale elaborata,[2] ci troveremmo di fronte ad ostacoli evidenti.  L’ipotesi coevolutiva, infatti, può “spiegare” solo in maniera limitata il sapere dell’uomo sulle piante medicinali; ci suggerisce la presenza di un legame “intrinseco” o “biologico”, ma questo legame non riesce, da solo, a dar ragione delle molteplici attività ed indicazioni terapeutiche attribuite, nel corso della storia, ai rimedi vegetali; è anzi probabile che possa giustificare direttamente solo gli utilizzi delle piante per parassitosi ed infezioni intestinali, più strettamente legati alla teoria dei tre livelli trofici.[3]

E’ invece ipotizzabile che l’interiorizzazione dei rapporti con le tossine vegetali [4] abbia costituito, per i primi gruppi umani, solo una base  sulla quale aggregare successive ulteriori  acquisizioni culturali di sapere farmacologico, aprendo la strada verso un utilizzo vieppiù complesso della chimica vegetale
Seguendo questa linea di ragionamento, si può tracciare una ideale (ed idealizzata) successione di momenti evolutivi[5].

Breve storia dei nostri primi rapporti con le piante

Le prime sperimentazioni

I primi rapporti complessi tra esseri umani e piante potrebbero avere avuto luogo come semplice interazione senza mediazioni culturali e senza riflessioni consapevoli da parte degli individui.  Un esempio potrebbe essere l’associazione mnemonica che avviene quando al consumo di una pianta succede un cambiamento immediatamente percepibile nello stato dell’organismo. Questa sorta di apprendimento automatico potrebbe avere avuto luogo solo per piante con effetti molto marcati e subitanei, come nel caso di piante velenose e/o farmacologicamente molto attive. Queste sono in effetti le protagoniste della farmacologia classica, le piante anestetiche, analgesiche, psicoattive, stimolanti, e ancora le piante cardiotoniche e diuretiche; ma anche piante con evidenti ed immediati effetti sul tratto gastrointestinale, un apparato sul quale le sostanze ingerite hanno un effetto spesso immediato e precedente all’assorbimento nella circolazione sistemica, sia per la sua caratteristica di essere un diaframma con il mondo esterno, sia per I meccanismi fortemente reattivi ad esso associati, posti a difesa della salute dell’organismo)[6].

Nei piccoli gruppi egalitari di cacciatori e raccoglitori del paleolitico,[7] precedenti alla rivoluzione agricola, e di solito costituiti da individui ben nutriti e in salute, le minacce per la salute derivavano principalmente da infezioni a lunga latenza, malattie croniche infettive della pelle e problemi parassitari, ferite e traumi derivati da incidenti familiari, di caccia e di guerra, mentre è improbabile che le infezioni acute e virulente, le diarree infettive, le epidemie, ecc., giocassero un ruolo rilevante, viste le ridotte dimensioni dei gruppi.[8] Infanticidio ed abbandono degli anziani erano probabili metodi di controllo della salute e della stabilità del gruppo.

Secondo molti storici  é probabile che l’origine delle malattie fosse sempre immaginata come esterna al corpo e con effetti non limitati all’individuo malato ma riverberati su tutto il gruppo di appartenenza. Inoltre, vista la ridotta complessità formale di queste società e la poca o assente stratificazione e specializzazione di ruoli, le attività di cura erano quasi esclusivamente intraprese all’interno della famiglia o della medicina popolare collettiva, non gestite da esperti con conoscenze esoteriche, e le terapie erano solitamente empiriche e magiche (piante ed incantesimi) o comportamentali (digiuno, reclusione, riposo).

Rapporti causa-effetto

É stato proposto che in questo contesto sociale le osservazioni empiriche e le associazioni consapevoli di tipo causa-effetto avrebbero iniziato a sovrapposi e ad arricchire il sostrato sopra descritto di risposte automatiche e di comportamenti appresi attraverso l’uso non mediato delle piante.  Questo utilizzo più consapevole delle piante è ad esempio evidente nel modo più sofisticato con il quale gli esseri umani, rispetto ad altri animali, usano le piante antelmintiche ed amebicide: eseguono infatti l’esame delle feci prima e dopo l’utilizzo per riconoscere e verificare  l’attivitá delle piante.  Uno strumento cognitivo di questo tipo potrebbe spiegare, ci dice Johns, l’utilizzo delle piante per il trattamento delle malattie più semplici (pensate e trattate in maniera naturalistica) come fratture, slogature, e soprattutto ferite ed infezioni della pelle, nel qual caso l’utilizzo di piante astringenti e antisettiche é aperto ad una verifica fattuale semplice e diretta [magari usare degli esempi]. Altri casi nei quali questa spiegazione potrebbe funzionare comprendono i disturbi della funzione sessuale, o ancora febbre, raffreddore, tosse, diarrea, mal di testa, ecc.

Malattie molto più complesse ed episodi più drammatici, che ponevano a rischio la stabilità e coesione del gruppo, erano invece al di là delle possibilità di comprensione naturalistica, per la mancanza di concetti di fisiologia e patologia, di statistica, di microbiologia. Le risposte offerte erano spesso di tipo soprannaturale, magico-religioso. D’altro canto, seppure non in grado di comprendere I meccanismi eziopatologici, gli individui potevano riconoscere gli schemi secondo I quali si organizzavano I sintomi, le ricorrenze, e le risposte dei quadri sintomatologici ai rimedi, quindi una dimensione empirica era pur sempre possibile, e poteva guidare, almeno in linea di principio,le scelte terapeutiche.  Naturalmente poteva anche succedere che le attività di certe piante, empiricamente osservabili, venissero sfruttate all’interno di un quadro esplicativo di tipo naturalistico, ma non perché agissero sulle cause della malattia o sui sintomi, ma perché rispondevano alle aspettative degli individui. Johns porta l’esempio dell’uso da parte degli Zuni di un trattamento emetico per trattare le gastralgie in genere; l’opinione di Johns è che questo utilizzo derivi dall’esperienza comune raccolta nei secoli sui disturbi di stomaco causati da intossicazioni alimentari. In questi casi, ma solo in questi, l’uso dell’emetico ha senso perché elimina le sostanze tossiche e quindi il disagio di stomaco. In caso di gastralgie derivate da altri problemi il trattamento non ha senso, ma potrebbe avere un certo effetto psicosomatico per il fatto di rispondere alle aspettative.

É comunque un fatto che in queste società il guaritore agiva sia nel campo naturalistico sia nel campo spirituale, in maniera sacra ed olistica, trattando sia l’individuo sia il gruppo. In un setting soprannaturale avrebbe agito come sciamano,[9] chiaroveggente, incantatore, divinatore e/o prete; in un setting naturalistico come specialista empirico: esperto di piante, specialista in ossa e legamenti, ostetrica, specialista in denti.

Tentativi di spiegazione più complessi

Il salto di qualità vero e proprio, che necessita di un livello di spiegazione diverso, arriva però con la nascita dei primi agglomerati urbani della rivoluzione neolitica, e con la conseguente crescente complessità delle società.  Il neolitico portò agricoltura ed allevamento, maggior sedentarietà ed aumento del cibo disponibile, e un surplus che si rese disponibile per lo scambio commerciale.  In risposta a questi cambiamenti la società si stratificò e divenne più gerarchizzata, alcuni gruppi di individui concentrarono nelle proprie mani più potere, più ricchezza e maggior capacità decisionale. Alcuni di questi si specializzarono in medicina e religione, dando inizio ad un primo contrasto tra sapere medico popolare e pubblico e sapere medico colto, arcano ed esoterico. La stratificazione favori un maggior pluralismo di forme di cura ed un maggior scetticismo rispetto alle terapie.

Contemporaneamente la popolazione umana aumentò e gli sviluppi dovuti ad allevamento, urbanizzazione e commercio elevarono il carico di malattie e favorirono le epidemie. L’agricoltura migliora infatti la quantità di calorie disponibili ma spesso, riducendo il ventaglio di nutrienti disponibili, porta ad elevata suscettibilità agli agenti patogeni.  Lo sviluppo dell’irrigazione facilitò con tutta probabilità la trasmissione dei patogeni per via orofecale, con aumento della mortalità infantile, mentre la creazione delle grandi vie commerciali favorì il trasporto di agenti patogeni a grandi distanze.[10] L’urbanizzazione più spinta portò ad un carico parassitario ed infettivo e a nuove malattie da contaminazione come tifo, malaria, ecc., mentre malattie ancora più esiziali (le esantematiche, il vaiolo, il colera, la sifilide) sarebbero arrivate solo più tardi.

Questi cambiamenti nella struttura della società e nella prevalenza delle malattie ebbe sicuramente effetti anche per la medicina. E’ probabile che le nuove malattie scardinarono e screditarono vecchi modi di gestire la salute e  vecchi rimedi, aprendo la strada a nuove concettualizzazioni, più sofisticate ed elaborate. Il maggior carico di malattie (più prevalenti, più diverse e più pervasive) creò inoltre la necessità di possedere un lessico specifico maggiore [11],mentre nuove necessità legate a problemi di fertilità spinsero alla ricerca di nuovi rimedi prima non necessari, ad azione contraccettiva, parturiente, galattagoga, emmenangoga ed abortiva.[12] L’aumento del carico di lavoro spinse probabilmente alla ricerca/offerta di tonici (fisici, psicologici, sessuali, della sorte). L’aumento di traumi e ferite causati dal lavoro agricolo e di allevamento, oltre che dalle attività di commercio e dalla guerra fece crescere le conoscenze in campo di cura delle ferite e riduzione dei traumi articolari.

Se per certe malattie, semplici e lineari nel loro decorso, è facile immaginare che l’uomo sia riuscito a scoprire dei rimedi vegetali secondo le modalità sopradescritte, ci sono patologie per le quali è improbabile se non impossibile che questo sia accaduto. Patologie complesse, dal lungo decorso rendono difficile associare un rimedio ad una riduzione dei sintomi, oppure semplicemente non rispondono ad alcun rimedio semplice. Gli esempi più classici sono le malattie cronico-degenerative, le malattie metaboliche, le neoplasie, l’invecchiamento e le patologie ad esso legate.

La fondamentale inevitabilità dei processi di senescenza e la morbidità e mortalità che questi comportano, in società dove ancora I soggetti incapaci di contribuire attivamente allo sforzo comune di sopravvivenza erano a rischio di perdita di status e ruolo sociale, contribuirono all’emergere di forti istanze esistenziali che stimolarono nuove riflessioni sui significati da dare alla morte, alla vecchiaia, a sofferenza e dolore, e alla ricerca di rimedi per lenire tali sofferenze ed angosce.

In gruppi umani più numerosi, nelle prime civiltà urbane con evidenti stratificazioni e gerarchie sociali, queste istanze  si legarono e vennero comprese all’interno di un più ampio contesto culturale, religioso e magico, che articolava il rapporto tra individuo, salute e malattia, e le strategie messe in atto per modificare questo rapporto.

In definitiva le istanze esistenziali si inserirono, ed in parte contribuirono a formare, un nascente sistema teorico e simbolico medico, adatto a capire e ad agire nel mondo, ed anche a motivare la ricerca di soluzioni terapeutiche [13], soluzioni che rivelano quindi inevitabilmente un inestricabile commistione della dimensione empirica, simbolica, rituale e magica. Questa commissione si rivela nel significato profondo assegnato alla Dottrina delle Segnature, alle caratteristiche organolettiche, morfologiche ed ecologiche delle piante medicinali.

Esempi di relazione tra sapere empirico e simbolico sono ad esempio le terapie usate nella medicina tradizionale in risposta all’”intrusione” di sostanze pericolose, spiriti maligni o “inquinamento sociale”  Queste terapie sono spesso di tipo naturalistico, indirizzate al tratto gastrointestinale e consistenti in digiuno, uso di rimedi emetici e lassativi (“eliminativi”), o amari.  Anche le piante dal sapore o dall’odore particolarmente forti (salienti dal punto di vista percettivo), sono state ritenute utili perché in grado di eliminare gli spiriti maligni responsabili della malattia; ne è testimonianza la grande importanza che ha l’utilizzo dei sensi chimici per la scelta dei rimedi in molte delle tradizioni colte, come nella medicina tradizionale cinese, nella medicina galenica,[14] nella tradizione medica indiana (Ayurveda, Unani-Tibb) e tibetana, ecc.  Qualche autore ha suggerito che il ruolo centrale che il tratto gastrointestinale ricopre nella maggior parte dei sistemi medici tradizionali[15] dia supporto alla teoria che il trattamento di parassitosi, infezioni o altri problemi gastrointestinali siano un tratto fondamentale associato alla nascita della medicina, e che si sia inestricabilmente associato ad istanze simboliche, che avrebbero “rivestito” un nocciolo empirico preesistente.

Voler vedere in una ricetta di medicina popolare, che associa l’uso di una pianta ad un rituale, esclusivamente il lato razionale, considerando spurio o comunque non rilevante il momento rituale o, d’altro canto, considerare rilevante solo questo ultimo aspetto eliminando a priori la possibilità che la pianta abbia una qualche azione, sono errori dovuti alla forzata ricerca di universali che tralascia i dettagli, che dissocia empirico e simbolico a priori.

Uso  delle piante nelle società tradizionali contemporanee: un utile parallelo

Di come si sia sviluppato l’uso delle piante medicinali nelle prime civiltà umane ci sarà tempo di parlare nei prossimi capitoli. Piuttosto, dopo questa analisi teorica rimaniamo disarmati di fronte ad un problema cruciale: la mancanza di dati oggettivi (scritti o iconografici) che possano confermare l’ipotesi fin qui descritta sulla preistoria della medicina delle piante. Questo fatto ci costringe ad usare dei parallelismi con l’utilizzo delle piante nelle società tradizionali del recente passato e contemporanee, nella speranza (e nella convinzione) che le forme di organizzazione della vita, gli usi e costumi e le pratiche mediche siano abbastanza simili a quelle delle prime comunità umane da darci un indizio su come siano andate le cose allora.

I dati etnografici indicano che le popolazioni con stile di vita ancora in transizione tra caccia-raccolta ed agricoltura, o nei primi stadi dell’agricoltura incipiente, usano solo una porzione limitata delle risorse vegetali a loro disposizione come medicine[16]. Le piante utilizzate a scopo medicinale si dispongono secondo uno schema non casuale e abbastanza stabile, sia se osservato all’interno di una cultura[17], sia se comparato tra culture geograficamente molto distanti[18, 19].  Tale somiglianza si può spiegare (secondo gli autori [19]) ipotizzando una convergenza tra filogenesi e fitochimica, tale per cui gli esseri umani scelgono piante appartenenti a gruppi tassonomici vicini perché portatori di corredi fitochimici simili e quindi probabilmente attivi sullo stesso tipo di patologie, oltre a fattori culturali e di trasmissione del sapere. I gruppi umani originali, nelle loro migrazioni per la conquista di nuovi territori, avrebbero portato con sé il proprio bagaglio di sapere medicinale, e lo avrebbero trasmesso alle nuove generazioni nei nuovi territori. Questo sapere “migrante” non consisterebbe semplicemente in una collezione di dati empirici,  ma dovrebbe essere inteso come un set dinamico di criteri di selezione delle piante, che comprende categorie morfologiche, organolettiche, ecologiche, simboliche e culturali in senso più ampio[20].

Secondo questa ipotesi la sperimentazione, la scoperta e l’acquisizione di nuovo sapere sulle piante (ad esempio la scelta di una nuova pianta per trattare un disturbo) e la percezione dell’efficacia delle piante stesse, si sarebbe costruita nei gruppi umani attraverso processi di analogia con le piante già conosciute, analogie basate sulla salienza percettiva delle piante, cioè sul sapore e sull’odore, sulle caratteristiche morfologiche,  oltre che su forme più astratte, simboliche e sociali, di categorizzazione (come ad esempio l’umoralismo, o la dottrina delle segnature).

E’ indubbio che il sapore delle piante giochi un ruolo apparentemente molto importante nella loro selezione e nella scelta della categoria nella quale farle ricadere. In uno studio su alcune popolazioni messicane tutte le piante medicinali culturalmente importanti risultarono essere aromatiche, e tutte le piante fortemente medicinali o salutari erano anche amare [21];  di converso, in altri studi, le piante esplicitamente non medicinali sono più spesso senza odore o sapore rispetto alle piante medicinali[22]. Nelle parole di un ricercatore: “le piante medicinali che sono più importanti per la comunità hanno aromi e sapori che sono rilevanti nella determinazione del loro utilizzo[23, 24] . Secondo alcuni questa rilevanza del gusto rifletterebbe un dato biologico basilare del rapporto chemioecologico piante-uomo: i sensi chimici sarebbero il ponte che unisce il nostro passato di primati foliovori al nostro presente di utilizzatori di piante medicinali, nel senso che ci permetterebbe di selezionare piante particolarmente ricche in composti attivi; e il raggrupparsi delle piante medicinali in pochi taxa sarebbe un semplice riflesso dell’abbondanza dei composti amari (o piccanti, o aromatici) in queste famiglie[25].

I processi adattivi richiamati all’inizio del capitolo riuscirebbero, secondo questa ipotesi, a costituire il sapere medicinale attraverso processi cognitivi universali[26] di esplorazione e scoperta guidati dalla percezione di gruppi fitochimici specifici; il gusto sarebbe un criterio chiave di classificazione, e la classificazione popolare delle piante non sarebbe arbitraria, bensì determinata almeno in parte dalla realtà biologica.

Questo modello di indagine e scoperta viene però criticato da chi [27] obietta che presumere l’esistenza di ruoli universali delle percezioni organolettiche nella selezione delle piante medicinali è prematuro. Secondo questi autori è difficile immaginare che una indagine empirica sul campo (un soggetto alla ricerca di piante) parta direttamente dai sapori[28], mentre è più realistico immaginare che le persone inizino ad esplorare le piante guardandosi intorno, osservando per prime le caratteristiche morfologiche; famiglie come le Asteraceae o le Lamiaceae potrebbero essere state favorite non per il contenuto fitochimico, bensì per la presenza di fiori ed infiorescenze peculiari e cospicue. Casagrande,[29] in un suo lavoro sul campo, ha riscontrato inoltre che il sapore non era, da solo, un fattore predittivo sufficiente né dell’importanza medicinale (percepita, emica) di una pianta, né del tipo di utilizzo della pianta stessa, e che quindi il sapore non sembrava giocare un ruolo importante nella trasmissione del sapere. Questa posizione si accorda bene con il modello bioculturale delle percezioni di Shepard[30], secondo il quale  le sensazioni devono essere intese come fenomeni bioculturali radicati nella fisiologia umana, ma anche costruiti attraverso le esperienze personali e la cultura. Intese in questo modo le percezioni organolettiche possono cambiare nel tempo e passando da una cultura all’altra, e con esse il legame tra sapore e uso medicinale delle piante.   Sempre secondo Casagrande é possibile che la prevalenza delle piante amare tra quelle medicinali rifletta semplicemente una sovrabbondanza di composti amari in natura[31], e la bassa specificità dei recettori per l’amaro non permetterebbe loro di riconoscere specifiche caratteristiche delle molecole, chimiche o farmacologiche [32].

Secondo questa posizione I sapori avrebbero giocato più un ruolo mnemonico che chemioecologico, e la combinazione di attributi delle piante con esperienza della malattia potrebbe spiegare l’esistenza di gruppi prototipici di piante usati per trattare gruppi specifici di malattie[33].

Questo non significherebbe, secondo Casagrande, che le piante usate dalle popolazioni nel passato e nel presente non siano efficaci, bensì che gli schemi di distribuzione del sapere non rappresentano un corrispondenza ottimale tra i bisogni basati sulle malattie e tutti i composti fitochimici disponibili[34], una conclusione raggiunta anche da Johnson in uno studio sui nativi nordamericani[35].

La correlazione storica tra certe piante e certi disturbi (ad esempio tra piante con forte salienza organolettica e disturbi del tratto gastrointestinale, una correlazione presente in tutte le culture e periodi storici) sarebbe quindi conseguente ad una categorizzazione mnemonica post-hoc (simile alla Dottrina delle Segnature[36]) ed anche ad un legame biologico euristico (perché I composti organolettici potrebbero essere indicatori di attività biologica).

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Note
[1] Inoltre contribuisce a guardare alla storia da una prospettiva eccentrica, da una visuale aliena, che non metta sempre al centro della storia umana l’uomo, ma ne riconosca le determinanti ambientali e contingenti. Come dice Hobhouse, (Hobhouse, Henry (2005) Seeds of Change. Counterpoint, Berkeley, USA, p.xiv) le piante sono una fonte inaspettata di cambiamento nella storia, spesso oscurata perché gli uomini erano troppo concentrati a guardare ai propri simili per accorgersene.
[2] Secondo Kleinmann (Kleinman, Arthur (1993) “What is specific to Western medicine?” In W.F. Bynum e Roy Porter (eds.) Companion Encyclopedia of the History of Medicine, Vol. 1 Routledge, London, UK, p.15) la medicina (intesa in senso lato, antropologico) può essere descritta come una struttura coerente di credenze sulla salute e l’istituzionalizzazione di pratiche terapeutiche. Le caratteristiche comuni a tutte le tradizioni sarebbero: la presenza di categorie attraverso le quali diagnosticare le malattie; la disponibilità di strutture narrrative che sintetizzino in problemi dei singoli individui in sindromi culturalmente significative; la possibilità di utilizzare metafore, idiomi ed altre forme simboliche centrali che portano alla costruzione di interpretazioni eziologiche della patologia così da legittimare azioni terapeutiche pratiche; l’esistenza di ruoli e carriere da guaritori; l’utilizzo di strategie retoriche che il guaritore utilizza per portare pazienti e familiari a cimentarsi con le attività terapeutiche; la disponibilità di una enorme varietà di terapie che combinano operazioni simboliche e pratiche, con l’intento di controllare I sintomi o le cause.
[3] Vedi il secondo post della serie Uomo e piante
[4] Evidente nella fisiologia umana – Vedi il sesto post della serie Uomo e piante
[5] Che si basa sulla combinazione dei dati archeologici con dati etnobotanici ed antropologici (Last, Murray “Non-western concepts of disease”. In Bynum, W.F., e Porter, Roy (1993) Companion Encyclopedia of the History of Medicine. Vol. 1 Routledge, London, UK, p. 634 ff. e bibliografia; Rothschild, H. (ed.) (1981) Biocultural Aspects of Disease, New York, Academic Press.
Johns
[6] cfr. Johns T. The origins of human diet and medicine. University of Arizona Press, 1999
[7] In mancanza di dati archeologici, la fonte più importante di inferenze sul passato sono le condizioni di vita odierne delle ultime popolazioni di cacciatori raccoglitori
[8] Vedi il quarto post della serie Uomo e piante
[9] Il fenomeno mondiale dello sciamanesimo è un modello molto antico (presente fin dal paleolitico) e particolare della figura del guaritore popolare, uno specialista del soprannaturale, del mondo invisibile dei poteri e delle forze divine dalle cui azioni distruttive la società deve essere protetta.
[10] E’ probabile che al contempo si osservasse una riduzione della mortalità adulta a causa dello sviluppo dell’immunità nei grandi gruppi urbani
[11] Logan, Dixon, 1994 op. cit
[12] l’impossibilità o l’impraticabilità dei tipici sistemi di controllo della popolazione tipici dei gruppi di cacciatori-raccoglitori a causa del ritmo troppo elevato di riproduzione nelle società agricole, insieme alla aumentata morbilità femminile a causa dell’elevato numero di parti e dell’anticipo del menarca (Logan, Dixon, 1994 op. cit)
[13] Un problema che non intendo qui pormi esplicitamente è quello di chiarire il legame e la relativa dipendenza o indipendenza delle teorie mediche da altre strutture concettuali proprie della società che le esprime. Capire cioè se le idee sulla malattia debbano essere comprese come sottosistemi del complesso ideologico dominante o se abbiano una loro indipendenza;  Cfr. Bynum e Porter 1993 op. cit.
[14] Galeno, Claudio De simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus, ed. Kuhn, 11:379-892; 12:1-377
[15] Nella medicina Egiziana antica, centrale nella teoria patologica era la malattia denominata whdw, costituita da una “essenza putrefattiva” che dall’intestino passava al flusso sanguigno per arrivare ai tessuti, . Nei testi di medicina tibetana si racconta che la prima malattia sia stata l’indigestione, che venne curata con un rimedio offerto ai primi uomini da Brahma: acqua calda per indurre il vomito. L’utilizzo di emetici, purganti, espettoranti e sudorifici si ritrova nella medicina tradizionale in Africa, America, ed Europa, ed anche in contesti contemporanei (come la naturopatia).
[16] Heinrich, M, Ankli, A, Frei, B, Weimnn, C, Sticher, O (1998) “Medicinal plants in Mexico: Healers’ consensus and cultural importance”.  Soc. sci. Med. 47 (11):1859-1871; Saslis-Lagoudakis C.H., Klitgaard B.B., Forest F., Francis L., Savolainen V., Williamson E.M., Hawkins J.A. (2011) “The use of phylogeny to interpret cross-cultural patterns in plant use and guide medicinal plant discovery: An example from Pterocarpus (Leguminosae).” PLoSONE, 6(7): e22275
[17] Moerman D.E., Pemberton R.W., Kiefer D., Berlin B. (1999) “A comparative analysis of five medicinal floras.” J Ethnobiol 19(1):49-67; Pardo-de-Santayana M., Tardío J., Blanco E., Carvalho A.M., Lastra J.J., San Miguel E., et al. (2007) “Traditional knowledge of wild edible plants used in the northwest of the Iberian Peninsula (Spain and Portugal): a comparative study.” J Ethnobiol Ethnomed, 3, 27; Molares S., and Ladio A. (2009) “Chemosensory perception and medicinal plants for digestive ailments in a Mapuche community in NW Patagonia, Argentina.” J. Ethnopharmacol, 123(3), 397-406
[18] Leonti M., Ramirez F.R., Sticher O., Heinrich M. (2003) “Medicinal Flora of the Popoluca, Mexico: A botanical systematical perspective.” Econ Bot 57(2):218-230; Moerman D.E., Pemberton R.W., Kiefer D., Berlin B. (1999) “A comparative analysis of five medicinal floras.” J Ethnobiol 19(1):49-67; Treyvaud Amiguet V., Thor Arnason J., Maquin P., Cal V., Sanchez-Vindas P.,  Poveda Alvarez L (2006) “A regression analysis of Q’eqchi’ Maya medicinal plants from Souther Belize.” Econ Bot 60(1):24-38
[19] Le tre famiglie mediamente più utilizzate risultavano essere Asteraceae, Lamiaceae ed Apiaceae (Moerman D.E., Pemberton R.W., Kiefer D., Berlin B. (1999) “A comparative analysis of five medicinal floras.” J Ethnobiol 19(1):49-67;  Leonti M., Ramirez F.R., Sticher O., Heinrich M. (2003) “Medicinal Flora of the Popoluca, Mexico: A botanical systematical perspective.” Econ Bot 57(2):218-230; Treyvaud Amiguet V., Thor Arnason J., Maquin P., Cal V., Sanchez-Vindas P.,  Poveda Alvarez L (2006) “A regression analysis of Q’eqchi’ Maya medicinal plants from Souther Belize.” Econ Bot 60(1):24-38
[20] Leonti M., Ramirez F.R., Sticher O., Heinrich M. (2003) Op. cit.; Treyvaud Amiguet V., Thor Arnason J., Maquin P., Cal V., Sanchez-Vindas P.,  Poveda Alvarez L (2006) Op. cit.

[21] Heinrich, M, Ankli, A, Frei, B, Weimnn, C, Sticher, O (1998) “Medicinal plants in Mexico: Healers’ consensus and cultural importance”.  Soc. sci. Med. 47 (11):1859-1871; Leonti M., Ramirez F.R., Sticher O., Heinrich M. (2003) Op. cit.
[22] Reyes-Garcia V. (2010) “The relevance of traditional knowledge systems for ethnopharmcological research: theoretical and methodological contributions.” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 6:32
[23] “Medicinal plants which are most important to the community have odors and flavors which are relevant in the determination of their use”  (Molares S., & Ladio A. (2009) “Chemosensory perception and medicinal plants for digestive ailments in a Mapuche community in NW Patagonia, Argentina.” Journal of Ethnopharmacology, 123(3), 397-406)
[24] Molares S., and Ladio A. (2009) “Chemosensory perception and medicinal plants for digestive ailments in a Mapuche community in NW Patagonia, Argentina.” J. Ethnopharmacol, 123(3), 397-406
[25] Pieroni A., Houlihan L., Ansari N., Hussain B., Aslam S. (2007) “Medicinal perceptions of vegetables traditionally consumed by South-Asian migrants living in Bradford, Northen England” J. Ethnopharmacol, 113:100-110
[26] Reyes-Garcia V. (2010) “The relevance of traditional knowledge systems for ethnopharmcological research: theoretical and methodological contributions.” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 6:32
[27] Casagrande D.G. (2000) “Human taste and cognition in Tzeltal Maya medicinal plant use.” J Ecol Anthr. 4:57-69
[28] Brett propone che le persone alla ricerca di una nuova pianta medicinale inizierebbero la loro indagine selezionando piante che hanno un sapore simile a piante delle quali si sa che inducono effetti fisiologici simili a quelli che si intendono derivare dalla nuova pianta (Brett JA (1994) “Medicinal plant selection criteria among the Tzeltal Maya of Highland Chiapas, Mexico”. Ph.D diss., University of California).
[29] Casagrande D.G. (2000) Op. cit.
[30] Shepard G.H. (2004) “A sensory ecology of medicinal plant therapy in two Amazonian societies.” Am Anthr; 106:2, 252-266
[31] Akli, A, Sticher, O, and Heinrich M (1999) “Yucatec Maya medicinal plants versus nonmedicinal plants: Indigenous characterization and selection.” Human Ecology 27:557-580.  E in mancanza di studi sistematici non è ancora possibile supporre una sovrabbondanza di piante amare nelle Farmacopee rispetto alle Flore generali.
[32] D’altro canto recenti scoperte relative ai rcettori per l’amaro e per il pungente nel tratto gastrointestinale in aree extraorali sembrerebbe poter dare un razionale all’utilizzo di piante amare e pungenti in caso di disordini dell’alto tratto gastrointestinale (cfr Valussi 2011). Nonostante sia indubbio che i recettori per l’amaro non sono abbastanza selettivi per discriminare tra i differenti gruppi chimici in grado di stimolare una attivazione recettoriale, è probabile che alcune delle modificazioni fisiologiche dello stato gastrointestinale (motilità e secrezioni) secondarie all’ingestione di questi composti siano mediate dall’interazione con i recettori stessi. Vale a dire che la risposta fisiologica è al composto amaro in quanto composto che elicita una sensazione amara, a prescindere dalle sue caratteristiche chimiche. Da questo punto di vista uindi forse un ruolo per i composti organolettici può essere preservato.
[33] Casagrande D.G. (2000) Op. cit.; Pieroni A., Nebel S., Quave C., Munz H., Heinrich M. (2002) “Ethnopharmacology of liakra: traditional weedy vegetables of the Arbereshe of the Vulture area in southern Italy” J. Ethnopharmacol, 81:165-185
[34] Casagrande D.G. (2000) Op. cit.
[35] Johnson L.M. (2006) “Gitksan medicinal plants-cultural choice and efficacy.” J Ethnobiol Ethnomed 2:29
[36] Recentemente alcuni ricercatori hanno criticato l’opinione accettata che vede nella dottrina delle segnature una superstizione primitiva, proponendo che essa sia principalmente uno strumento usato per trasferire informazioni, in particolare nelle società preletterarie. Le segnature sarebbero quindi non uno strumento euristico per scoprire nuove attività in piante sconosciute, bensì attribuzioni post hoc utili a memorizzare le proprietà delle piante e quindi a disseminare l’informazione, e sono quindi utili anche al ricercatore moderno che si interroghi sulla conoscenza tradizionale. Cfr. Bennett, B.C., et al. 2007 op. cit

Uomo e piante 7/dimoltialtri

Dopo un imperdonabile iato concludo la prima tranche di elucubrazioni uomo-piantesche. Potete recuperare le puntate precedenti qui, qui, qui, qui, qui, e qui.

Per approfondimenti correlati ma tangenziali consiglio i sempre ottimi post di Meristemi (aka Erba Volant) qui, qui e qui.

Alcuni testi sono stati importanti per la scrittura di questo post, e più in generale per immaginare la serie stessa: questo, questo, questo, questo e questo.

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Riprendendo le fila del discorso, nella puntata incentrata sul rapporto chemioecologico e coevolutivo tra uomo e piante avevo citato vari autori (ma ho fatto e farò principalmente riferimento a Johns)[1] secondo i quali l’individuazione da parte dell’uomo di alcune piante “specificamente” medicinali fosse da far derivare dalla combinazione di vari fattori, quali:

  • lo sviluppo di meccanismi biologici, comportamentali e tecnologici di gestione del contatto con le piante e con i compostiin esse contenuti (fuoco, meccanismi di detossificazione);
  • la possibilità, resa concreta da tali meccanismi, di avvantaggiarsi delle proprietà tossiche delle piante in senso farmacologico;
  • l’avvento della tecnologia e dell’agricoltura che, modificando gradualmente ma drasticamente, la dieta umana, resero possibile l’assunzione di maggiori quantità di proteine (derivate da piante coltivate e carne di allevamento) e di minori quantità di piante tossiche nell’alimentazione;
  • il paradossale aumento della varietà di specie vegetali non coltivate (e del lessico ad esse associato) disponibili ed utilizzate dalle popolazioni di orticultori rispetto a quelle dei cacciatori-raccoglitori (il c.d. paradosso botanico-dietetico, vedi sotto).

Secondo Johns è grazie a questi fattori che l’uomo ha potuto nutrirsi con meno rischi (sviluppando meccanismi biologici e tecniche di detossificazione, e poi selezionando piante meno ricche in metaboliti secondari) ed ha potuto iniziare a isolare le piante più ricche in composti farmacologicamente attivi da quelle coltivate a scopo alimentare, quindi a distinguere il campo “terapeutico” da quello nutrizionale,[2] permettendo l’isolamento di una nuova categoria, addirittura di un nuovo oggetto: le piante “medicinali”.[3]

Quindi la medicina, intesa come pratica culturale che comprende l’utilizzo intenzionale di sostanze farmacologicamente attive, affonderebbe le sue radici in un dato biologico evoluzionistico (che fissa diciamo le condizioni di esistenza della medicina) ma nasce nel momento in cui diviene possibile isolare esplicitamente degli elementi (e quindi degli operatori) come terapeutici.

Sembra quindi che il passaggio all’agricoltura, a cui ho accennato in questa precedente puntata, oltre ad essere stato rivoluzionario dal punto di vista alimentare, sociale e culturale, abbia giocato un ruolo cardine anche nello sviluppo della medicina. Vorrei quindi soffermarmi in questa puntata proprio sui dettagli di questo passaggio, riprendendo ed approfondendo alcuni degli argomenti affrontati nei post sulla fitoalimurgia Chepang (qui e qui).

Le conseguenze del passaggio all’agricoltura: medicine alimentari e alimenti medicinali
Il graduale passaggio dalla caccia-raccolta all’agricoltura costituisce uno snodo cruciale che ha influenzato i successivi fenomeni di utilizzo delle piante. Ha influenzato sia le competenze dei gruppi umani rispetto alle piante medicinali, sia le loro competenze alimentari, e quindi la loro possibilità di curarsi e nutrirsi.

I dati etnobotanici si possono spesso analizzare secondo due assi; uno è quello che unisce piante alimentari e piante medicinali (l’asse piante alimentari-medicinali, o asse AM) e l’altro è quello che unisce piante selvatiche e piante coltivate (l’asse piante selvatiche-coltivate, o asse SC). I punti di contatto e di sovrapposizione tra questi assi, punti di contatto e relazioni spesso complesse e soggette a fenomeni di coevoluzione biologica e culturale, sono importanti per comprendere in che modo le competenze degli uomini siano state influenzate dal passaggio all’agricoltura.

Questo tipo di analisi è complesso. La distanza temporale che ci separa dall’oggetto di studio non permette di testare direttamente le ipotesi presentate, né di sapere direttamente quale fosse il rapporto tra le popolazioni preistoriche e il mondo vegetale. Inoltre, come è già stato sottolineato, il passaggio da un tipo di rapporto alimentare ad un altro non ha seguito una traiettoria inevitabile, lineare, unidirezionale, intenzionale: “e certamente non un allontanamento “naturale” e inevitabile” dalla caccia e raccolta.[4] Lungo l’asse raccolta-agricoltura sono state possibili tutte le permutazioni, alcune di esse ancora visibili al giorno d’oggi”: caccia e raccolta, orticoltura (coltivazioni estensive, a bassa tecnologia, con orti familiari a multicoltura), debbio, agricoltura (coltivazione intensiva, ad elevata tecnologia e a monocoltura) ed agricoltura industriale.[5]

La letteratura etnobotanica ci può aiutare offrendo all’analisi le conoscenze e le competenze che caratterizzano e distinguono il rapporto con le piante proprio dei cacciatori-raccoglitori da quello degli agricoltori[6]; ci offre quindi uno strumento essenziale per avanzare delle ipotesi su come sia cambiato il rapporto con il mondo vegetale durante il neolitico, su come le conoscenze e le competenze rispetto alle piante siano cresciute e cambiate, e su come tutto questo abbia a che fare con la nascita della medicina.

Per meglio valutare il significato dei dati etnobotanici è però necessario soffermarsi sulla terminologia che utilizzeremo, e sui problemi che derivano dalla necessità di semplificare la complessità. Negli studi quantitativi in antropologia è necessario, infatti, utilizzare categorie specifiche, appunto per permettere uno studio analitico. Questa necessità si scontra però con problemi definitori e di demarcazione, in particolare su due assi, quello del continuum tra piante alimentari e piante medicinali (asse AM), e quello del continuum tra piante selvatiche e piante coltivate (asse SC).[7]

L’asse AM

Anche se è sempre possibile identificare degli esemplari delle due categorie che non lasciano spazio all’ambiguità (ad esempio grano come alimento e Atropa belladonna come medicina), i confini tra piante alimentari e medicinali non sono sempre così netti. Alcuni autori sostengono, infatti, che questa distinzione è in realtà largamente assente nelle popolazioni indigene o è comunque fortemente dipendente dal contesto.

E’ necessario quindi introdurre nuove definizioni che descrivano senza semplificare eccessivamente il continuum alimentare-medicinale. Pieroni e Quave propongono tre categorie:[8]

  1. Piante usate sia come medicine sia come cibo, ma senza alcuna correlazione tra i due usi.
  2. Piante che a parte gli scopi alimentari o edonistici hanno anche altri effetti sul corpo (depurativi, alterativi, tonici del sangue, antiossidanti, ecc.): definiti come cibi funzionali.
  3. Piante che vengono consumate chiaramente come alimento ma per ottenere effetti specificamente terapeutici: definiti come cibi medicinali o medicine alimentari.

L’asse SC.

Altrettanto complessa è la categorizzazione delle piante in base al loro rapporto con l’uomo in termini di gestione. Anche in questo caso i poli estremi sono facilmente identificabili (piante selvatiche e piante addomesticate e coltivate) ma il territorio intermedio presenta molte sfumature e sovrapposizioni. Ad esempio, ci dice la Price, le piante eduli semi-selvatiche, o selvatiche ma gestite e non addomesticate, sono una caratteristica primaria dei sistemi agricoli. Allo stesso tempo sono differenti dalle piante selvatiche dei cacciatori-raccoglitori, perché provengono molto spesso da aree di successione, ruderali, bordi stradali, ecc., piuttosto che dalla foresta.

Vari autori propongono un elenco di categorie basato sulle differenti pratiche agricole e sulla selezione che operano sulle piante:[9]

  1. Piante addomesticate: geneticamente modificate e completamente dipendenti dall’uomo.
  2. Piante semiaddomesticate: parzialmente modificate e non compeltamente dipendenti dall’uomo.
  3. Piante coltivate: introdotte in sistemi agronomici e mantenute in letti di coltivazione.
  4. Piantegestite: protette grazie all’attività umana e aiutate nella competizione con le altre piante.
  5. Piante selvatiche in senso stretto: usate ma non coltivate né gestite.

Nota Bene: le piante di cui ai punti 2, 4 e 5 possono essere definite come piante selvatiche in senso lato.

Per portare un esempio calato nella realtà, Hanazaki e collaboratori, in uno studio sulle piante alimentari e medicinali in Amazzonia, distinguono 4 tipi di rapporto con le piante:[10]

  1. Piante con nessuna o ridotta gestione umana, tutte native, raccolte nella foresta, e che costituiscono il 26% delle piante totali utilizzate.
  2. Piante facilitate dalla gestione umana, native all’80%, raccolte in molti ambienti diversi, nella foresta, nelle coltivazioni a debbio, nelle zone ruderali e nelle vicinanze delle case. Costituiscono il 12% delle piante totali utilizzate.
  3. Piante coltivate ma raramente, native solo al 20%, raccolte in molti ambienti diversi ma non nella foresta: coltivazioni a debbio, nelle zone ruderali, nelle vicinanze delle case e negli orti. Costituiscono la maggior parte (56%) delle piante utilizzate.
  4. Piante coltivate. Native solo al 20%, raccolte nelle zone di coltivazione a debbio. Costituiscono solo il 6% delle piante totali utilizzate.[11]

La formazione del sapere relativo alle piante nel passaggio all’agricoltura

Logan e Dixon, cercando di dare risposta a questa domanda, propongono che le popolazioni indigene di cacciatori-agricoltori utilizzino una percentuale limitata dei taxa disponibili, scelta tramite un processo non casuale di selezione basato su caratteristiche poco usuali che permettono di distinguere facilmente alcune piante da altre. Operando questa forte selezione, tralasciando moltissime piante e concentrandosi solo su poche specie “interessanti”, da investigare, l’uomo “trasforma un problema intrattabile in un dominio di indagine gestibile”.[12]

Nancy Turner identifica alcune caratteristiche che definiscono la “salienza percettiva”, l’ ”ovvietà”, delle piante “interessanti”:[13]

  • Essere ubiquitarie
  • Morfologia, colori, aromi, sapori rari o facilmente individuabili
  • La capacità di causare forti reazioni (ad esempio dermatite da contatto)
  • L’essere libere da infestazioni
  • Il fatto che altri animali se ne cibino,
  • Il possedere caratteristiche antropomorfe

Una volta individuate, queste caratteristiche servono come strumenti euristici per categorizzare altre piante, all’interno di una tassonomia locale trasversale alla tassonomia scientifica. Ad esempio, le piante allucinogene del genere Datura [Solanaceae] sono amare, piccanti e nauseanti, e queste caratteristiche sono state utilizzate dalle popolazioni indigene per predire proprietà allucinogene in altre specie che possedevano le stesse caratteristiche.

Le conoscenze e le tassonomie popolari sono molto più sensibili al contesto e meno generalizzabili delle tassonomie scientifiche, per cui è del tutto probabile che questi processi di acquisizione del sapere e di generalizzazione abbiano portato ad incidenti (intossicazioni o avvelenamenti), ad esempio quando spostandosi da aree conosciute a nuovi territori, con nicchie ecologiche diverse, i raccoglitori utilizzano piante che paiono sovrapponibili a quelle conosciute ma ne differiscono, a volte con risvolti tossici.[14]

Un’occhiata ai dati

Louis Grivetti, uno degli autori che più hanno contribuito a definire il campo della ricerca tra cibo e medicina, riporta i risultati di uno studio effettuato nel 1973 in Botswana, nel deserto del Kalahari, tra i popoli Tswana, ed in particolare con i baTlokwa.[15]

I baTlokwa sono coltivatori con una vasta conoscenza delle piante selvatiche commestibili (Grivetti registra più di duecento specie conosciute),[16] che servono a sostenere l’alimentazione della popolazione in tempi di scarsità, quando le cultivar alimentari tipiche scompaiono per la siccità o per una stagione particolarmente povera.

Alcune di queste piante sono semplici cibi spontanei, altre sono dei cibi-medicina, altre ancora sono delle piante consumate come cibo solo in situazioni di emergenza alimentare, i cosiddetti cibi da carestia (ad esempio i frutti ed I semi di “magabalka” [Cucumis myriocarpus Naudin — Cucurbitaceae], solitamente usati come foraggio, o le foglie di “moologa” [Croton gratissimus Burch. — Euphorbiaceae], normalmente usata come pianta magica, o la radice di “motlopi” [Boscia albitrunca (Burch.) Gilg & Benedict Capparaceae o Brassicaceae], usata al posto del sorgo [Sorghum arundinaceum (Desv.) Stapf — Graminae].

Che le piante selvatiche svolgano un ruolo importante per il sostentamento della popolazione è sottolineato, secondo l’autore, dal diverso destino delle popolazioni del Kalahari orientale e del Sahel:

“(p)er più di cento anni i baTlokwa del deserto del Kalahari orientale, nel Botswana, non hanno sofferto di carestie o di ripercussioni a livello sociale a causa della siccità. Tale successo alimentare in quest’area è dovuto all’equilibrio tra offerta ambientale e decisioni culturali. Il Kalahari orientale offriva una elevata diversità di piante selvatiche eduli, ed i baTlokwa utilizzavano regolarmente tali risorse. Il messaggio più importante che emerse dopo due anni di lavoro sul campo fu che la siccità non aveva causato carestie, e che una spiegazione per il disastro del Sahel [ovvero la tremenda carestia che colpì la regione del Sahel a seguito di una lunga siccità, proprio negli anni della ricerca nel Kalahari. NdT] era l’incapacità culturale a riconoscere ed utilizzare le risorse alimentari selvatiche disponibili — cibi che in precedenza erano stati utilizzati come sostentamento durante le siccità“.[17]

In una ricerca basata nello Swaziland gli autori notano che il 40% degli informatori usa il 50% e più di piante selvatiche per l’alimentazione, raccolte nei campi coltivati o gestite negli orti casalinghi. Gli autori scoprono altresì che i bambini mostrano maggiori competenze rispetto agli anziani, al contrario di ciò che Grivetti aveva notato nel Kalahari, e propongono che ciò sia dovuto al fatto che I bambini devono attraversare varie zone ecologiche diverse per andare a scuola, e sono quindi esposti ad una maggior diversità vegetale.[18] In Nigeria, tra gli Hausa, il 93% della popolazione gestisce e protegge le piante infestanti, ed il 50% del cibo vegetale viene raccolto nel selvatico (nello specifico 39 specie raccolte negli orti familiari, 6 specie raccolte lungo i bordi dei campi e dei sentieri, e 16 specie raccolte nei terreni a gestione comunitaria).[19] Nel Burkina Faso Smith e collaboratori riportano che il 36% dei vegetali consumati nei villaggi (ed il 20% di tutti gli alimenti) sono selvatici.[20] Vainio-Mattila osserva che tra i Sambara in Tanzania i vegetali consumati includono 73 specie di piante selvatiche, ruderali o infestanti.[21]

In Kazakistan il 25% delle famiglie raccoglie piante selvatiche (bacche, bulbi, frutta, piante medicinali e funghi).[22]

Secondo la Price in Tailandia, nei terreni coltivati a riso (ed intorno ad essi), si riconoscono e raccolgono 77 specie di piante selvatiche.[23] Inoltre quasi il 90% delle famiglie gestisce piante non domesticate negli orti familiari.

La raccolta delle piante è demandata quasi totalmente alle donne, per le quali questa attività è secondaria ad altre. Dato infatti che le donne svolgono molte attività legate alla casa, alla famiglia, al gruppo sociale, e sono per questa ragione costrette a muoversi sul territorio e a trapassare molti confini ecologici, esse entrano in contatto con molte specie diverse di piante (in maniera simile a quanto visto per i bambini nello Swaziland) che vengono raccolte “sulla via per” fare qualcosa d’altro.[24]

Nel Nepal centrale, nella comunità Chepang della zona di Shaktikhor, sul massiccio del Mahabarath, la maggior parte dei nuclei familiari (ca. il 90%) usa le risorse forestali o non coltivate a scopo medicinale, per venderle al mercato, o per sopperire ad una vera e propria mancanza di cibo (il 75% dei nuclei familiari), e gestisce in qualche modo le piante selvatiche, sia attraverso una protezione in situ, sia attraverso processi preagricoli di domesticazione. Tutte le famiglie stoccano, oltre ai cereali coltivati, piante selvatiche, in particolare Githa (Dioscorea bulbifera L. — Dioscoreaceae) e Bhyakur (Dioscorea deltoidea Wall. ex Griseb.) e in minor misura dei germogli di bambù (Bambusa nepalensis Stapleton – Poaceae).

In generale le donne Chepang sono leggermente più competenti degli uomini rispetto alle piante selvatiche, ma la differenza non è molto significativa. E’ possibile che le ridotte competenze agricole dei Chepang possano in parte spiegare questa uniformità tra uomini e donne: non avendo sviluppato molto la coltivazione degli orti familiari, forse è venuta a mancare alle donne Chepang la possibilità di aumentare le loro competenze sulle piante degli ambienti di transizione.[25]

In uno studio sulla zona amazzonica Hanazaka e collaboratori sottolineano come la foresta contribuisca solo al 28% per le specie selvatiche consumate, mentre le zone ruderali e I terreni intorno alle case contribuiscono per il 52%, e gli orti e le coltivazioni a debbio per il 20%.[26] In maniera simile Dufour e Wilson notano che il 41% delle piante eduli amazzoniche sono alberi, di cui il 50% proviene dalla coltivazione a debbio.[27] Emerge quindi l’importanza delle zone a vegetazione successionale, a crescita secondaria.[28]

A Cuba su circa 260 specie di piante medicinali e alimentari, solo 25 sono delle cultigen. Tra le non-cultigen, 82 (di cui 39 cibi-medicina) provengono da raccolta in area agricola, 36 (di cui 6 cibi-medicina) dai bordi dei campi, e 56 (di cui 16 cibi-medicina) dalle terre a gestione comunitarie.[29] La ricerca di Vandebroek e Sanca sulle Ande boliviane ha riscontrato che il 58% delle specie medicinali-alimentari è selvatica, e che le famiglie con la miglior sovapposizione tra uso medicinale ed alimentare sono Lamiaceae, Fabaceae, Asteraceae, e Solanaceae.[30]

Nello studio di Ana Ladio sull’utilizzo delle piante selvatiche in una comunità Mapuche della Patagonia nordoccidentale si evidenzia che:

  • Le piante medicinali-alimentari sono raccolte più vicino agli insediamenti
  • Viene dedicato meno tempo alla raccolta delle piante medicinali-alimentari rispetto a quelle alimentari
  • Vengono raccolte quantità minori di piante medicinali-alimentari rispetto a quelle alimentari.[31]

La stessa autrice nota una buona sovrapposizione tra piante alimentari e piante medicinali, e delle chiare differenze chemiotassonomiche tra piante medicinali-alimentari (evolutivamente più recenti) e piante esclusivamente alimentari (evolutivamente più antiche).[32]

Proprio quest’ultimo dato pare particolarmente interessante. Ritornando a quanto accennato nel capitolo sull’evoluzione dei sistemi di difesa chimici delle piante, il rapporto tra la percentuale di piante medicinali presenti in una famiglia botanica ed il livello evolutivo della famiglia stessa sembra coerente con quanto sappiamo sull’evoluzione.

Prendendo per buona questa ipotesi, il riconoscimento da parte dell’uomo di questo trend dovrebbe avere un effetto sull’evoluzione antropogenica, nel senso che la selezione da parte delle popolazioni umane delle piante “utili” tenderebbe a far risaltare maggiormente questa distinzione.

Ad esempio: “nella discussione sull’addomesticamento è di fondamentale importanza includere (nell’analisi NdT) piante con potenziale farmacologico (e non solo quelle a contenuto calorico NdT) in modo da comprendere realmente il continuum delle relazioni uomo-pianta”.[33] Nel calcolo costi/benefici della raccolta piuttosto che della coltivazione è riduttivo quindi utilizzare nell’equazione solo importi calorici senza tenere presente fattori extranutrizionali. E’ probabile che le scelte effettuate dai raccoglitori dipenderenno dalla massimizzazione delle calorie e dalla minimizzazione delle spese energetiche, ma anche dalla necessità di minimizzare gli antinutrienti e di massimizzare gli xenobiotici vantaggiosi.

Questa riflessione dovrebbe ricordarci che i processi di addomesticazione sono di natura evolutiva e mostrano molti stadi e condizioni intermedie lungo un gradiente, lungo il quale “ gli esseri umani alterano la struttura genetica delle popolazioni di piante utili, modificano la loro distribuzione ed abbondanza attraverso la gestione non agricola.[34] Questo significa che le popolazioni non modificano solo il paesaggio tramite la coltivazione ma modificano anche l’ambiente dove vivono e vengono raccote le piante spontanee gestite con modalità ‘preagricole’. In ogni momento dato l’interazione uomo-pianta è il risultato di un graduale processo di aumento dell’intensità della gestione delle piante e dell’ambiente”.[35]

Il paradosso botanico-dietetico

Nonostante comunemente si ritenga che la foresta contenga un tesoro nascosto di piante medicinali, è probabile che la maggior parte di quelle usate dai cacciatori-raccoglitori venga (ora come un tempo) dalla prateria e dai bordi forestali, e che siano le piante infestanti o ruderali a giocare il ruolo più importante.

A questa conclusione arrivano molti autori sia dopo una analisi approfondita dei testi di etnobotanica che riportano la provenienza delle piante medicinali.[36] Sia a seguito di pubblicazioni specifiche sul rapporto tra piante medicinali e infestanti. Hanazaki e collaboratori hanno ad esempio evidenziato nel loro studio sull’utilizzo delle piante alimentari e medicinali in Amazzonia, come la foresta contribuisca al 28% delle specie utilizzate, le zone ruderali e i dintorni delle case al 52%, gli orti e le coltivazioni a debbio al 20%.[37] In un altro articolo sulle piante medicinali utilizzate dai nativi americani gli autori mostrano come esista una forte preferenza per le piante infestanti: in Nord America, le infestanti rappresentano solo il 9.6% della flora, ma il 26% della flora medicinale, e in Chiapas le infestanti sono il 13% della flora ed il 34% della flora medicinale.[38]
Sette delle dodici famiglie di invasive più importanti sono famiglie molto importanti come medicinali: Asteraceae, Fabaceae, Convolvulaceae, Euphorbiaceae, Chenopodiaceae, Malvacae, e Solanaceae.[39]

Una analisi del lessico relativo al mondo vegetale rivela inoltre che spesso le società orticulturali hanno una folk taxonomy e un ventaglio di termini (su piante medicinali e malattie) in media più ricco dei cacciatori raccoglitori puri.[40] Sembrerebbe quindi, dice la Price, che l’allontanarsi dalla dipendenza totale dalla foresta come fonte di cibo comporti un aumento, e non una diminuzione, della diversità di piante consumate, che l’avvento dell’agricoltura abbia comportato certamente una perdita in biodiversità selvatica (tanto maggiore quanto più intensa/iva l’agricoltura), ma che paradossalmente in certi casi abbia aumentato la biodiversità alimentare, delle piante da carestia e delle piante cibo-medicina.[41]

Le ragioni di questo paradosso sono varie, ed includono:

1. Gli ambienti agricoli ed orticulturali hanno biodiversità comparabile o più elevata a quella della foresta.[42] L’impatto degli insediamenti umani e dell’agricoltura sul territorio avrebbe creato zone periagricole, zone di confine tra foresta e coltivazioni, e ambienti disturbati dall’attività umana, come campi, bordi, sentieri, ecc. che offrono un habitat importante per molte specie colonizzatrici, infestanti e ruderali. Questo processo avrebbe aumentato il numero di specie presenti e facilmente osservabili. Alcune di queste piante vennero addomesticate o rimasero comunque all’interno del continuum tra piante alimentari e medicinali, rivestendo ora un ruolo ora l’altro a seconda delle condizioni contingenti, andando ad arricchire il lessico delle popolazioni locali. Come ha rilevato la Price spesso la maggior diversità di piante utilizzate dipende dal fatto che le donne, per il ruolo da esse svolto nelle società tradizionali, si occupano della casa e del giardino e quindi sono in diretto contatto con tutte le aree transizionali tra foresta e coltivazioni.[43]

2. Le infestanti sono nella maggior parte dei casi piante a rapida crescita, opportunistiche, colonizzano rapidamente un’area e rapidamente muoiono. Per questa ragione esse si basano per la loro difesa sulla produzione di composti chimici qualitativi (metaboliti molto attivi e tossici come alcaloidi, terpeni, glicosidi cardiaci, ecc.) piuttosto che composti quantitativi (tannini e lignine, antinutrizionali ma non tossici), più tipici nelle piante perenni non successionali (piante da climax).[44]

3. La dieta agricola si era fortemente semplificata, passando dalle decine di piante usate come alimento dai cacciatori-raccoglitori a solo due-tre piante (a volte addirittura solo una, come nel caso del mais [Zea mays L. — Graminae] in Mesoamerica) alla base dell’alimentazione degli agricoltori.[45] Questa semplificazione portò probabilmente al desiderio di usare le piante aromatiche e resinose nella preparazione degli alimenti, per diversificare I sapori, e questo a sua volta portò ad una maggior complessità del lessico legato a sapori ed odori.

4. La conoscenza delle piante spontanee, da carestia, ecc. Funzionava da meccanismo di sicurezza in caso le coltivazioni non riuscissero a sostenere la popolazione.[46]

Conclusioni

Che conclusioni si possono trarre dai dati appena esposti?
Il concetto che la nascita dell’agricoltura e la natura ambigua delle infestanti (al limine tra alimenti o medicine) abbiano influenzato il crescere della conoscenza sulle piante sembra supportato dai dati, e permette ad alcuni autori di formulare nuove ipotesi sulla nascita di questa conoscenza, differenti da quelle unilineari che fanno dipendere la “scoperta” delle piante medicinali dal loro utilizzo come cibo. Etkin e Ross propongono ad esempio, sulla base del loro studio sulla dieta degli Hausa in Nigeria, che le piante possano essere prima identificate come portatrici di “salienza percettiva”, vengano quindi manipolate ed entrino nel continuum tra spontaneo e coltivato, vengano usate come medicine e successivamente, sotto la pressione delle emergenze, diventino anche “cibi selvatici” o “da carestia”; successive manipolazioni possono poi spostare le specie più adatte verso la domesticazione ed il passaggio a pianta decisamene alimentare.[47]

Da questa prospettiva risulta allora più chiaro il perché, ad esempio, la maggior parte delle piante con azione sulla fertilità e riproduzione umane in varie parti del mondo siano delle piante invasive, coltivate o addomesticate, ed anche perché siano spesso usate come spezie: peperoncino, menta spicata, cipolla, aglio, chiodi di garofano, noce moscata, cumino, pepe, avocado, ananas, papaia, puleggio, sesamo, agrumi.[48]

Certamente che non è possibile tracciare dei percorsi lineari nel rapporto uomo-piante. Percorrendo lo spettro tra caccia e raccolta ed agricoltura spinta, ciò che colpisce è che seppure la dieta e le competenze naturali degli agricoltori intensivi siano certamente di inferiore qualità rispetto a quella dei cacciatori-raccoglitori, in alcuni degli stadi di passaggio tra i due poli le competenze sono aumentate, e non diminuite, e probabilmente anche la dieta, fino a quando le piante selvatiche ricche in composti farmacologicamente attivi sono rimaste parte integrante della dieta, seppure iniziando a distinguersi dalle piante esclusivamente alimentari.

L’ipotesi di Johns sulla nascita della medicina grazie alla possibilità di scindere le piante alimentari da quelle medicinali sembra plausibile, ma una divisione assoluta dei due campi, anche materialmente, si avvera solo con l’agricoltura intensiva dell’epoca contemporanea, e coincide con una perdita in qualità dell’alimentazione. Nella estremizzazione dello spettro (piante solo alimentari, solo caloriche, strippate di ogni contenuto allelochimico, e farmaci estremamente attivi, monomolecolari, estremamente potenti) si sono perse (si stanno perdendo) le competenze rispetto a quel mondo ambiguo e variegato nel quale possiamo ingerire alimentandosi sostanze farmacologicamente attive. Ma durante il processo che ci ha portato qui l’uomo ha imparato a distinguere I due campi pur continuando ad utilizzare piante-medicina nell’alimentazione.


Note

[1] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press

[2] Distinzione che però si esplicita solo nell’era moderna, se è vero che per tutta l’antichità classica ed il medioevo i due campi sono ancora molto sovrapposti

[3] Johns 1990 op. cit.

[4] Sarebbe ad esempio scorretto pensare ai cacciatori-raccoglitori come a dei meri sfruttatori del territorio nel quale raccolgono il cibo; anche essi, come gli agricoltori, lo gestiscono, seppure in maniera differente. (Logan M.H., Dixon A.R. “Agricolture and the acquisition of medicinal plants knowledge”. In N.L., Etkin (ed.) (1994) Eating on the wild side: The pharmacologica, ecological, and social implications of using noncultigens pp. 25-45; Moerman D.M. “North american food and drug plants”. In N.L., Etkin (Ed.), 1994 op. cit. pp. 166-184; Diamond, Jared (1997) Guns, Germs, and Steel: the fates of human societies. W.W. Norton & Co. Ed italiana Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Torino, Einaudi 2000).  I Siona-Secoya del bacino del Rio delle Amazzoni, ad esempio, derivano il loro cibo principalmente da piante coltivate (in giardini che ricavano nell’intorno della foresta e vicino ai villaggi), da caccia e pesca, ma consumano frequentemente anche i frutti di piante spontanee (in realtà meglio descritte come “antropofite” o invasive) come le palme Ita [Mauritia flexuosa L.f.] e Tucuma [Astrocaryum tucuma C. Martius], il Tacay [Caryodendron orinocense Karsten — Euphorbiaceae], le Inga spp. [Fabaceae], lo Zapote [Quararibea spp. — Bombacaceae], Pseudolmedia laevis [Moraceae], Physalis angulata [Solanaceae] e Phytolacca rivinoides [Phytolaccaceae]. (Vickers WT (1994) “The health significance of wild plants for the Siona and Secoya”. In NL Etkin (1994) pp. 143-165)

[5] Etkin, NL (2006) Edible medicines: An ethnopharmacology of food. Arizona University Press

[6] La separazione tra i due campi non è netta, sono cioè esistiti cacciatori-raccoglitori sedentari, agricoltori non sedentari. E’ probabile che la percentuale di cacciatori-raccoglitori sedentari fosse molto più elevata 15.000 anni fa (quando tutti erano cacciatori-raccoglitori.) che in tempi moderni, perché le risorse erano maggiori

[7] Hanazaki N, Peroni N, Begossi A (2006) “Edible and healing plants in the ethnobotany of native inhabitants of the Amazon and Atlantic forest area of Brazil”. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[8] Pieroni, A. e Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania” in A., Pieroni e L., Leimar Price (eds.)  (2006) Eating and Healing, Haworth Press,  p. 110

[9] Price LL (2006) “Wild food plants in farming environment”s. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York.; Johns T (1994) Ambivalence to the palatability factors in wild foods plants. In NL Etkin (ed.) Eating on the wild side: The pharmacological, ecological, and social implications of using noncultigens. Arizona University Press, pp. 46-61e Huss-Ashmore e Johnson 1994 “Wild plants as cultural adaptations to food stres” in NL Etkin (1994) op. cit. pp.

[10] Hanazaki et al. (2006) op. cit.

[11] Si nota quindi che le piante non gestite sono tutte native e coincidono quasi perfettamente con le piante della foresta, mentre le piante coltivate sono per la maggior parte introdotte e si trovano esclusivamente nelle zone ad addebbio

[12] Logan, Dixon, 1994 op. cit.

[13] Turner N.J., (1988) “The importance of a rose: Evaluating the cultural significance of plants” American Anthropology 90:272-290

[14] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[15] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[16] L’autore nota anche una perdita di competenze da parte dei giovani a causa di un ridotto trasferimento verticale delle conoscenze tradizionali, un dato riportato da moti altri autori

[17] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) (2006) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York. Questa indagine stimola in Grivetti alcune domande centrali rispetto al ruolo delle piante selvatiche in società in transizione tra caccia-raccolta e agricoltura: le piante selvatiche eduli erano centrali o secondarie rispetto al mantenimento della qualità dell’alimentazione? Esse duplicavano o complementavano l’energia ed i nutrienti derivanti dalle piante coltivate? E’ lo stesso autore a proporre che le competenze sulle piante selvatiche abbiano rappresentato per i baTlokwa una risorsa di duttilità ed adattabilità alimentare che ha aumentato la capacità di rispondere alle emergenze e la variabilità alimentare

[18] Ogle BM e Grivetti LE (1985) “Legacy of the chamaleon. Edible wild plants in the kingdom of Swaziland, southern Africa. A cultural, ecological, nutritional study. Part 1: Introduction, objectives, methods, Swazi culture, landscape, and diet”. Ecology of Food and Nutrition 17:1-30

[19] Etkin NL, e Ross PJ (1994) “Pharmacological implications of “wild” plants in Hausa diet”. In NL Etkin (ed.) 1994 op. cit. ; Humphry C, Clegg MS, Keen C, e Grivetti LE (1993) “Food diversity and drought survival. The Hausa example”. International Journal of Food Sciences and Nutrition 44:1-16

[20] Le piante più comuni sono il baobab [Adansonia digitata L. — Bombaceae], la marula [Sclerocarya birrea (A. Rich.) Hochst. — Anacardiaceae] e il tamarindo [Tamarindus indica L. — Leguminosae]. La raccolta viene effettuata soprattutto (81%) da donne e ragazze per uso familiare, mentre gli uomini raccolgono piante solo per uso personale. cfr. Smith GC, Clegg MS, Keen CL e Grivetti LE (1995) “Mineral values of selected plant foods common to southern Burkina faso and to Niamey, Niger, West Africa”. International Journal of Food Sciences and Nutrition 47:41-43; Smith GC, Duecker SR, Clifford AJ, e Grivetti LE (1996) “Carotenoid values of selected plant foods common to southern Burkina Faso, West Africa”. Ecology of Food and Nutrition 35:43-58

[21] Vainio-Mattila K (2000) “Wild vegetables used by the Sambara in the Usambara Mountains, NE Tanzania”. Annales Botanici Fennici 37:57-67

[22] Dalsin MF, Laca EA, Abuova G, e Grivetti LE (2006) “Livestock-owning households of Kazakstan. Part 1: Food systems”. Ecology of Food and Nutrition 41:301-343

[23] Price LL (2006) op. cit.

[24] Ogle BM e Grivetti LE (1985) op. cit.

[25] Rijal, Arun. (2008) “A Quantitative Assessment of Indigenous Plant Uses Among Two Chepang Communities in the Central Mid-hills of Nepal.” Methods 6: 395-404

[26] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[27] Dufour DL e Wilson WM (1994) “Characteristics of “wild” plant foods used by indigenous populations in Amazonia”. In NL Etkin (ed.) 1994 op. cit.

[28] Vickers 1994 op. cit.

[29] Volpato G, Godìnez D (2006) “Medicinal foods in Cuba: Promoting health in the household”, in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[30] Vandebroek I e Sanca S (2006) Food medicines in the Bolivian Andes (Apillapampa, Cochabamba Department) in A. Pieroni, LL Price (eds.) op. cit.

[31] Secondo l’autrice questa differenza è spiegata dalla teoria del rapporto tra contenuto calorico della pianta ed energia spesa per ottenerla, ma la teoria non tiene conto delle possibili variabili extranutrizionali

[32] L’autrice riporta che tra le piante alimentari e medicinali (che comprendono il 63% di tutte le specie selvatiche) le famiglie botaniche più rappresentate sono le Apiaceae (con 4 specie), le Asteraceae e le Oxalidaceae (2 specie), e le Lamiacese e Caryophylaceae. Lo schema è diverso per le piante eduli: le famiglie più rappresentate sono: Araucariaceae, Berberidaceae, Rosaceae, Celastraceae, Myrtaceae, e Saxifragaceae. cfr. Ladio AH (2006) “Gathering of wild plant foods with medicinal use in a Mapuche community of Northwest Patagonia” in A. Pieroni, LL Price (eds.) op. cit.

[33] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[34] Harlan JR (1995) The living fields. Our agricoltural heritage. Cambridge, Cambridge University Press

[35] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[36] Alcorn, J.B. Huastec Maya ethnobotany. University of Texas Press, Austin, Texas, 1984, pp. 311–312.; Arvigo, R., Balick, M. Rainforest Remedies: 100 Healing Herbs of Belize. Lotus Press, Twin Lakes, Wisconsin, 1993; Caniago, I. & Siebert, S.F. (1998) “Medicinal plant ecology, knowledge and conservation in Kalimantan, Indonesia”. Econ. Botany 52:229–250; Frei, B., Sticher, O. & Heinrich, M. (2000) “Zapotec and Mixe use of tropical habitats for securing medicinal plants in Mexico”. Econ. Botany 54:73–81; Posey, D.A. “A preliminary report on diversified management of tropical forest by the Kayapó Indians of the Brazilian Amazon”. In: Prance, G.T., Kallunki, J.A. (Ed.), Ethnobotany in the Neotropics. New York Botanical Garden, New York, 1984, pp. 112–126

[37] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[38] Stepp J. R., F.S. Wyndham e R.K. Zarger (eds.) Ethnobiology and biocultural diversity.  Proceedings of the Seventh International Congress of Ethnobiology, University of Georgia Press, 2002; Moerman, D.E. (2001) “The importance of weeds in ethnopharmacology” Journal of Ethnopharmacology, 1(75): 19-23

[39] Holm L. (1978) “Some characteristics of weed problems in two worlds”. Proc. West. Soc. Weed Sci. 31:3–12

[40] Meilleur BA (1994) “In search of ‘keystone societies’ ”. In NL Etkin (1994) op. cit.

[41] Price LL (2006) op. cit. A movement away from dependance on plants from forest as food and medicine appears to be accompanied by an increase in comnsumption of plant foods and medicines gathered from the farming environment, and that this occurs as a cross-cultural phenomenon. Thus as agricolture grows and old forest growth declines and is farther and farther away from the dwellings (and gatherers) there is growing reliance on plant foods fron environments disturbed by human activitiy, individual fields, border areas, footh paths etc. Undoubtedly, species composition changes with land use change and agronomic practices. New species are brought into the diet through a process of experimentation, but not without difficulty.

[42] Conklin H (1961) “The study of shifting cultivation”. Current Anthropology 1:27-61; Kunstader P (1978) “Ecological modification and adaptation: An ethnobotanical view of Lua’swiddeners in northwesterne Thailand”. In R. Ford (Ed.) The nature and status of ethnobotany. Ann Arbor: University of Michigan Museum of Anthropology

[43] Price LL (2006) op. cit.

[44] Stepp (2002) op. cit.; Moerman (2001) op. cit.

[45] Per inciso, questa semplificazione ha in certi casi portato ad un peggioramento dello stato di salute, se è vero che, come indicano i dati sulle popolazioni di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti, gli agricoltori lavoravano di più ed erano peggio nutriti, con un minor tasso di sviluppo neonatale, un maggior tasso di malattie (di solito con maggiori infestazioni parassitarie), e minor longevità rispetto ai cacciatori-raccoglitori (probabilmente per un impoverimento della varietà di nutrienti e composti secondari ingeriti). Diamond 1997 op. cit.; Johns 1990 op. cit.; Kiple 1993 op. cit.; Vickers 1994 op. cit.

[46] Logan, Dixon, 1994 op. cit.

[47] Etkin N.L. (Ed.) 1996 op. cit.

[48] Va sottolineato che l’identificazione delle piante come medicinalmente attive da parte delle popolazioni non coincide necessariamente con una loro effettiva efficacia. L’effetto placebo e le influenze culturali sono sempre presenti.

Uomo e piante 6/dimoltialtri

Ritorno dopo un momentaneo ma necessario “stacco” alla mia soap su uomini e piante. Se siete ancora con me 🙂 siamo arrivato alla puntata numero 6, e le precedenti sono qui, qui, qui, qui, e qui

E’ arrivato il momento di esplicitare meglio l’ipotesi co-evolutiva della nascita della medicina, e per fare ciò è necessario fare un passo indietro per giustificare l’idea che esista una connessione significativa e preculturale tra uomo e piante.

La teoria unificata delle comunicazioni cellulari
Come ci ricorda Meinwald [1] il nostro è un modo di suoni e visioni, e tendiamo a non renderci conto degli eventi chimici che ci circondano, del fatto che tutti gli organismi emettono e rispondono a segnali di tipo chimico, formando una vasta rete di interazioni comunicative fondamentali, attrattive, difensive, associative, ecc.

Fin dalle origini della vita infatti, il problema che i primi organismi cellulari hanno dovuto risolvere è stato quello della comunicazione tra cellula ed ambiente circostante e tra cellula e cellula, ed il problema è stato risolto da tutti gli organismi nello stesso modo, attraverso il linguaggio di molecole che possono penetrare le membrane e interagire con il nucleo oppure che trovano recettori specifici sulla membrana cellulare che mediano poi dei cambiamenti interni.

Ragionando da una prospettiva abbastanza ampia è quindi ovvio che uomini e piante, anzi, animali e vegetali, debbono mostrare dei legami, non soltanto filogenetici ma di relazione, comunicativi: affinché la vita di organismi diversi, anche appartenenti a Regni differenti,  possa prosperare in uno stesso ambiente, vi sono state, e vi devono essere state, continue relazioni mediate da un linguaggio molecolare.

La “teoria unificata delle comunicazioni cellulari” vuole che queste relazioni, ed i percorsi biogenetici del metabolismo secondario che creano le molecole messaggere, siano nati molto presto nella storia dell’albero evolutivo e siano spesso comuni tra i Regni Animalia e Vegetalia. [2] Ciò significa che nonostante la distanza filogenetica tra organismi appartenenti ai due Regni, essi possano però riconoscere gli stessi messaggeri. [3] Questo dato di base spiega la possibilità delle interazioni tra piante ed animali ed il ruolo di intermediari che hanno i metaboliti secondari.

Come rispondere all’ambiente

La possibilità per una pianta di “leggere” i messaggi di altre piante le permette di rispondere a degli indizi ambientali modificando il proprio schema di risposta. Organismi animali possono usare questi indizi per riconoscere lo stato dell’ambiente esterno ed “decidere” come allocare le proprie risorse energetiche.

Un esempio di questo utilizzo dei messaggi molecolari negli animali superiori potrebbe essere legato al fenomeno della senescenza. Organismi che si siano evoluti in ambienti mutevoli possono trarre vantaggio dalla capacità di puntare su un successo riproduttivo immediato a scapito della longevità in caso di ambiente più favorevole, o di puntare sulla longevità e su una ritardata maturazione sessuale in caso di condizioni sfavorevoli. [4]

Esempi di questi percorsi di allarme comprenderebbero varie chinasi legate alla sopravvivenza delle cellule, i fattori di trascrizione NRF2 e CREB, e le deacetilasi istoniche della famiglia della sirtuina, una proteina nota come Sir2 nei lieviti e SIRT1 nell’uomo.

Le Sir2 (Silent information regulator 2), sono presenti in tutti gli organismi, dagli eubatteri agli eucarioti, compresi gli esseri umani. Svolgerebbero due funzioni primarie nei mammiferi: la prima è  coordinare gli schemi di espressione genica (ovvero decidere quali geni sono attivati e quali disattivati in ogni singola cellula, per evitare ad esempio che una cellula renale inizi ad esprimere tendenze epatiche) e mantenere la stabilità di certe regioni cromosomiche e sopprimere l’esagerata espressione di certi geni (silenziamento genico) aumentando la stabilità del genoma; la seconda è funzionare da agenti riparatori emergenziali in caso di danno al DNA. [5] Il problema sorge dal fatto che quando le sirtuine sono occupate a riparare il DNA non regolano più l’espressione dei geni. Fino a che i danni al DNA sono rari le sirtuine riescono a compiere entrambi i compiti con efficienza, ma quando questi danni aumentano (tipicamente con l’età) la de-regolazione dell’espressione genica diventa cronica, e questo sembra essere legato, nei modelli animali utilizzati, a fenotipi di senescenza. [6]

Negli ultimi decenni sono stati scoperti molti composti di origine vegetale (tre esempi sono resveratrolo, i sulforafani ed i curcuminoidi) sintetizzati in risposta a vari tipi di emergenza (siccità, radiazioni, attacchi di insetti, infezioni, ecc.) per stimolare diverse risposte adattive e la rigenerazione cellulare stimolando una maggior espressione di sirtuine ed allungando la vita media,  proteggendo le cellule da lesioni stimolando la produzione di antiossidanti, fattori neurotropici ed altre proteine correlate allo stress.

Il modello coevolutivo

Ma il legame che viene proposto va oltre al dato generalizzato della teoria unificata delle comunicazioni cellulari, anche se si fonda su di essa. Esso si basa sull’ipotesi che l’utilizzo delle piante come fonte privilegiata di nutrienti abbia plasmato la fisiologia dell’uomo.

I nostri antenati, secondo l’ipotesi antropologica attualmente più accreditata, erano onnivori-foliovori, nel senso che avevano una decisa preferenza, certamente ispirata dalla necessità, per le piante ed in particolare per le foglie. E’ molto probabile che l’uomo preferisse sempre cibo denso in energia e povero di composti tossici (carne, tuberi, frutta) piuttosto che foglie; d’altro canto tuberi e frutti non sono disponibili tutto l’anno e sono più difficili da scovare, mentre le foglie sono più facilmente sfruttabili perché sono sempre presenti su tutto il territorio antropizzato, ed è probabile che siano sempre stati parte della dieta, oltre ad essere un “salvavita” in caso d’emergenza.

Questa forzata “convivenza alimentare” con le piante ci ha costretti a confrontarsi con molteplici messaggi chimici (spesso difensivi e quindi tossici) ai quali è stato necessario fornire delle risposte, cioè adattarsi, in qualche modo co-evolversi con essi e con le piante che li contenevano.

La tesi sostenuta da un certo filone antropologico (vedi Johns [12]) è che l’adattamento abbia fatto sì che le proprietà che rendevano le piante tossiche o non commestibili (limitando le possibilità di alimentazione dell’uomo) siano le stesse che le hanno rese attive a livello farmacologico (rappresentando quindi un fattore di promozione della salute). La nostra specie, nell’adattarsi alle tossine delle piante, le ha portate ad essere una parte essenziale della nostra ecologia interna, le ha “introiettate” facendo sì che non ci danneggiassero (o almeno non ai livelli ai quali le ingeriamo) ma anzi che potessero esserci utili.

Ne consegue l’ipotesi che gli esseri umani selezionino le piante sulla base della loro composizione chimica e che l’ingestione dei composti chimici vegetali sia parte di una risposta adattiva integrata che possiede elementi biologici e culturali, e che la nostra eredità biologica, associata allo snodo essenziale costituito dalla rivoluzione neolitica (la domesticazione delle piante e la loro coltivazione), pongano le basi per la nascita dell’uso medicinale delle piante. [7]

Questa ipotesi è andata rafforzandosi nei decenni grazie ai molti studiosi che l’hanno corroborata con vari pezzi di puzzle.


Prove indirette: i nostri simili
Un supporto, seppur indiretto, alla tesi che l’utilizzo delle piante a scopo medicinale da parte dell’uomo abbia origini preculturali e coevolutive viene dagli studi sulla zoofarmacognosia, ovvero sull’automedicazione con le piante da parte degli animali non umani. [8]

Glander, Lozano, Huffman ed altri autori portano vari esempi di zoofarmacognosia, alcuni dei quali riporto di seguito. [9]

Gli elefanti malesi si cibano di una leguminosa [Entada schefferi Ridley – Fabaceae] prima di intraprendere un lungo cammino; in India i cinghiali selvatici dissotterrano e si nutrono in maniera selettiva delle radici di Boerhavia diffusa L. [Nyctaginaceae], usate anche dagli esseri umani come rimedio antelmintico, mentre i maiali si ciberebbero delle radici del melograno [Punica granatum L. — Punicaceae] per la sua tossicità sui nematodi. Gli scimpanzè maschi della Tanzania occidentale, nei periodi dell’anno nei quali aumentano le infestazioni di nematodi, utilizzano le foglie di Aspilia spp. (spesso A. mossambicensis) [Asteraceae] seguendo un rituale molto particolare e completamente diverso dalla ritualità normalmente associata all’alimentazione: arrotolano le foglie, le mettono tra lingua e guancia e poi le ingoiano senza masticarle.

Va notato che Aspilia contiene principi attivi antibatterici, antifungini e antelmintici (thiarubrina A), e che la modalità di assunzione potrebbe favorire l’assorbimento di tali composti attraverso le mucose della guancia. Gli scimpanzè mostrano altri comportamenti molto interessanti: le femmine ingeriscono foglie di Lippia plicata Bak. [Verbenaceae] (usata dagli indigeni come stomachico ed insetticida) quando sembrano avere dei disturbi gastrointestinali, e vari maschi malati sono stati notati mentre succhiavano il midollo del fusto di Vernonia amygdalina Del. [Asteraceae], una pianta molto amara (contiene lattoni sesquiterpenici amari, antelmintici e antischistosomiaci), raramente usata a scopo alimentare ma comune nella medicina tradizionale dell’Africa orientale in caso di febbri malariche, schistosomiasi, dissenteria amebica, elmintiasi, diarrea, mal di stomaco, inappetenza e scorbuto, e dagli agricoltori in caso di parassiti intestinali dei maiali.

Negli esseri umani la Vernonia è efficace contro Giardia lamblia, ossiuri e nematodi dei generi Ancylostoma, Uncinaria, Necator. E’ interessante notare come i primati utilizzino raramente le foglie e la corteccia della pianta, nonostante la maggior concentrazione in composti attivi. Il fatto che queste parti della pianta contengano anche composti tossici è una possibile spiegazione di questo comportamento. I primati utilizzano in maniera simile anche i fusti di Palisota hirsuta (Thunb.) K. Schum. [Commelinaceae] e Eremospatha macrocarpa (Mann and Wendl.) Wendl. [Palmae].

Alouatta palliata (una scimmia urlatrice) mostra una frequenza molto ridotta, rispetto agli scimpanzè, di carie o gengiviti, dato in parte spiegabile con la dieta povera in frutta zuccherina, ma forse anche con il consumo di anacardi [Anacardium occidentale L. — Anacardiaceae], frutti che contengono acido anacardico e cardolo, composti attivi contro i batteri gram-positivi tipici della carie; le stesse scimmie urlatrici sono soggette a parassitosi gastrointestinale, ma quelle di loro che si alimentano anche con frutti dei ficus [Ficus spp. — Moraceae] lo sono di meno. Dato che il latice di Ficus è antelmintico, è possibile che il consumo di foglie e frutti contribuisca ad abbassare il carico di parassiti. [10]

Uno dei primati meno comuni (Brachyteles arachnoides) è preda, come altri, di parassitosi intestinale, ma tra i gruppi che ne soffrono di meno si nota uno schema di alimentazione particolare.  All’inizio della stagione delle piogge questi individui fanno uno sforzo particolare per mangiare piante che prima non assaggiavano, in particolare le leguminose Apuleia leiocarpa (J. Vogel) J.F. Macbr. e Platypodium elegans Vogel. [Fabaceae] (ricche in composti antimicrobici e isoflavoni).

I Colobus rossi normalmente preferiscono foglie giovani, ricche in proteine e povere in tannini ed altri composti fenolici, ma di quando in quando mangiano foglie ad elevato contenuto in tannini, che potrebbero servire per detossificare gli alcaloidi e ridurre il gonfiore intestinale. [11]

I babbuini soffrono comunemente di schistomatosi, ed è stato notato, nei gruppi che vivono presso le cascate Awash (Etiopia), un comportamento particolare degli individui che ne sono affetti gravemente: essi si nutrono di foglie e frutti di Balanites aegyptiaca (L.) Del. [Zygophyllaceae], che contengono diosgenina, attiva contro Schistosoma cercariae.

Prove dirette: la fisiologia ed il comportamenti umani. [12]
Se l’ipotesi appena esposta è valida, ci deve essere rimasta qualche traccia del processo co-evolutivo nel nostro organismo, sia di tipo fisiologico che comportamentale. La difficoltà sta però nel riconoscere se e quali di queste caratteristiche siano tracce coevolutive, perché ci è dato interpretarle come tali solo a posteriori, senza il beneficio di una prova diretta, ma solo tramite inferenze.

Ad esempio, gli esseri umani hanno un intestino adatto a cibi densi di nutrienti ma mantengono una certa capacità di digerire fibre, e possono sopportare dosi relativamente elevate di composti allelopatici; l’uomo è inoltre capace di sopperire al proprio fabbisogno di acidi grassi essenziali tramite i loro precursori presenti nei vegetali.  Queste caratteristiche potrebbero indicare una consuetudine dell’uomo con le piante. Si è anche ipotizzato che la preferenza dell’uomo per il sale (di più di un ordine di magnitudo superiore al suo fabbisogno) potrebbe essere spiegato con la carenza di sodio nelle piante della savana dove Homo si è evoluto, e, come si è visto più sopra, l’incapacità di sintetizzare la vitamina C potrebbe essere spiegata con la sua ubiquità ed abbondanza nei vegetali.

La presenza nella saliva dell’uomo di proteine ricche in prolina (PRP) è un altro importante esempio: l’uomo è in grado di rispondere all’ingestione di tannini mantenendo le parotidi in uno stato di induzione, tanto che il 70% delle secrezioni salivari è del tipo PRP: queste PRP possono servire a legare i tannini presenti nel cibo e renderli meno irritanti per il tratto gastrointestinale e forse per renderli meno attivi sul cibo che ingeriamo (riducendone gli effetti antinutrizionali).

Esempi più generici del rapporto dell’uomo con sostanze velenose sono il vomito ed i sensi chimici.


Il vomito è un istintivo meccanismo di rigetto di una sostanza che si è immediatamente riconosciuta come tossica o in qualche modo non desiderata.

I sensi chimici, gusto ed olfatto mostrano di poter discriminare sostanze vegetali potenzialmente pericolose da altre potenzialmente utili (discriminando tra amaro e dolce ad esempio), e mostrano di poter attivate risposte condizionate molto potenti, in particolare quelle negative associate al cibo. Ciò significa che a seguito di un malessere gastrointestinale legato temporalmente (a prescindere dal legame causale) all’ingestione di cibo, il sapore e l’odore di quel cibo saranno legati al malessere rendendo molto difficile cibarsene ancora. Questo è un tipo di meccanismo di apprendimento, perché una sostanza che abbia provocato un malessere gastrointestinale probabilmente è tossica, o comunque dobbiamo considerarla come tale. [13]

C’è una differenza importante tra olfatto e gusto, perché il primo, essendo molto più plastico del gusto, è meno legato alla percezione negativa, mentre quest’ultimo, essendo limitato alla discriminazione di quattro o cinque sapori, è più fortemente e più meccanicamente legato alla risposta condizionata.


Altro indizio molto rilevante è la presenza di enzimi detossicanti a livello epatico (e in misura minore renale, intestinale e polmonare), enzimi che rendono meno tossiche e facilmente eliminabili varie sostanze di origine vegetale, e che non sono molto specializzati, non hanno cioè la capacità di detossificare sempre e con efficienza una sostanza particolare, ma hanno la capacità plastica di adattarsi a molti problemi diversi, e questo è un indizio che si situa bene nel quadro di una dieta umana prevalentemente onnivora-foliovora (da cui l’esistenza di enzimi che hanno come substrato delle sostanze vegetali), con fonti alimentari molto diversificate (da cui la necessità di plasticità nella risposta).

Possiamo considerare il ruolo degli enzimi detossificanti in congiunzione con la neofobia, cioè il fatto che l’uomo adulto mostri la tendenza ad esser circospetto rispetto alle sostanze che deve assumere. [14]

Dato che il meccanismo epatico esiste per detossificare una sostanza potenzialmente tossica, il fatto di assaggiare sempre piccole quantità di un cibo o di una sostanza nuova permette di non avvelenarsi accidentalmente, e di non sovraccaricare i meccanismi detossificanti. Quindi la combinazione dei due meccanismi ci può permettere di assaggiare un cibo nuovo che può essere pericoloso senza però morire dopo averlo assaggiato.

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Note al testo

[1] Eilser T, Meinwald J (1995) “Preface” in Thomas Eilser and Jerrold Meinwald (eds) Chemical ecology: The Chemistry of Biotic Interaction National Academy Press Washington, D.C. 1995

[2] Roth J., Leroith D. (1987) The Sciences, May-June:51

[3] Lamming D.W., Wood J.G., Sinclair D.A. (2004) “Small molecules that regulate lifespan: evidence for xenohormesis”. Mol Microbiol; 53(4):1003-9; Howitz, K.T., Bitterman, K.J., Cohen, H.Y., Lamming, D.W., Lavu, S., Wood, J.G., et al. (2003) “Small molecule activators of sirtuins extend Saccharomyces cerevisiae lifespan”. Nature 425: 191–196; Mattson MP, Cheng A. (2006) “Neurohormetic phytochemicals: Low-dose toxins that induce adaptive neuronal stress responses”. Trends Neurosci; 29:632–9

[4] Kuzawa C et al. (2008) “Evolution, developmental plasticity and metabolic disease” in SC Stearns and JC Koella (eds.) Evolution in health and disease 2nd edition Oxford UP; Austad SN, Finch CE (2008) “The evolutionary context of human aging and degenerative disease” in in SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.; Ackermann M e Pletchr SD (2008) “Evolutionary biology as a foundation for studying aging and origin-related disease”. In SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.

[5] Guarente, L. (2000) “Sir2 links chromatin silencing, metabolism and aging” Genes Dev 14:1021-1026

[6] Oberdoerffer et al (2008) “SIRT1 redistribution on chromatin promotes genome stability but alters gene expression during aging”; Cell 135,  6

[7] Con questo non si intende proporre l’appiattimento della cultura sulla natura, la riduzione della medicina a fatto biologico e della malattia a rapporto ecologico. Nè si suppone che l’utilità presente dei composti xenobiotici per l’organismo che li ingerisce siano in parte o del tutto riconducibili ad adattamenti passati. Una origine evolutiva, spiega bene Gould (Gould, S.J. “Darwin tra fondamentalismi e pluralismo”. In Pino Donghi (a cura di) La medicina di Darwin. Roma, Laterza, 1998) non si appiattisce su quella adattiva, perché la selezione naturale non esaurisce tutti i meccanismi evolutivi, e l’enorme chemiodiversità delle piante (che esprimono circa i 4/5 di tutti i i composti farmacologicamente attivi conosciuti) offrirebbe comunque materiale farmacologicamente attivo al di là dei rapporti ecologici animale-pianta.

[8] Nel lavoro seminale in questo campo (Rodriguez, E., R. Wrangham. H. Stafford e Downum K. eds., (1993) “Zoopharmacognosy: The use of medicinal plants by animals”. Recent advances in phytochemistry, 89-105) gli autori (responsabili anche del conio del termine zoofarmacognosi) scrivono che:

“The combination of natural products, trichomes and other leaf features are important in the fitness of wild animals,”…“the observation of animals using plants is not new since Amazonian Indians and many people of the African forests tell of how animals use plants and how they copy the animals”

[9] Glander K.E. “Nonhuman primat self-medication with wild plant foods”. In N.L., Etkin  (Ed.), 1994 op. cit. pp. 227-239; Lozano, G.A. (1998) “Parasitic stress and self-medication in wild animals” Advances in the study of behaviour. 27: 291-317; Huffman M.A. (2001) “Self-medicative behavior in the African Great Apes: An evolutionary perspective into the origins of human traditional medicine”. BioScience.; Vol. 51(8): pp. 651-661.

[10] Una ipotesi più difficile da sostanziare ma affascinante è quella che vuole che l’ingestione di piante da parte delle femmine di Alouatta serva a modificare il normale rapporto maschio/femmina della prole, Glander (1994 op. cit.) ipotizza che alcuni composti delle piante ingerite possano modificare la concentrazione ionica delle mucose vaginali delle femmine, e che questo a sua volta possa modificare selettivamente l’accesso degli spermatozoi che portano un cromosoma X rispetto a quelli a Y dato che X è elettropositivo mentre Y è elettronegativo.

[11] Lo stesso fanno altri primati ed è difficile spiegare questo comportamento senza chiamare in causa la zoofarmacognosi anche perché i tannini sono forse l’unico gruppo di composti che non sono detossificabili se non parzialmente. I tannini possono legarsi e precipitare, e quindi inattivare, le molecole azotate, come appunto gli alcaloidi. Interessante notare che i Colobus mangiano anche terre ricche in caolino (geofagia), che grazie alla loro elevata capacità di adsorbimento possono intrappolare e rendere indisponibili all’assorbimento varie tossine (e nutrienti).

[12] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press; Consiglio, C. e Siani V. (2003) Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri

[13] Le risposte condizionate positive, cioè quelle che potrebbero essere molto utili, sono invece molto meno forti, più labili, di quelle negative.

[14] Il bambino è molto meno neofobico, ed anche questo è un meccanismo evolutivo: esso deve infatti poter fare esperienza del mondo, deve poter “assaggiare” in vari modi la realtà che lo circonda. L’uomo adulto invece, raggiunto il suo bagaglio di esperienze, sta più attento.

Uomo e piante 2/dimoltialtri

Continua questa serie di post sul rapporto uomo e piante nella storia. Ci eravamo lasciati qui con la promessa di dare un’occhiata più da vicino all’evoluzione delle piante e dei loro metaboliti secondari, e poi all’evoluzione dell’uomo, come preambolo prima di mescolare il tutto nel calderone :-).

Quindi eccoci qui a parlare de…

L’evoluzione delle piante – una breve descrizione
La vita ebbe inizio nelle acque. E fu vita autotrofa, pacifica, a bassa diversità. La nascita dei primi predatori fu la causa iniziale di una esplosione evolutiva che ci ha portato ai giorni nostri.

L’azione predatoria fece da stimolo ad una diversificazione degli autotrofi verso nuove nicchie ecologiche, nuovi modi di vivere negli oceani e nuove strategie per sfuggire ad una minaccia nuova. Questa diversificazione, accompagnata da una diversificazione parallela nei predatori, portò in tempi geologicamente brevi alla saturazione delle nicchie oceaniche, e quindi al tentativo di conquistare un habitat fino ad allora vergine, le terre emerse.

Ma questa conquista richiedeva modificazioni qualitativamente molto diverse rispetto a quelle precedenti: bisognava in qualche modo rendersi autonomi dall’acqua, e l’evoluzione successiva è tutta percorsa da questo tema, l’interiorizzazione dell’oceano. Ma perché questa storia potesse avere inizio erano necessarie certe condizioni di partenza, senza le quali la vita come la conosciamo non sarebbe stata in grado di conquistare i nuovi territori; esse erano: la presenza di stabili ambienti costieri, la formazione del suolo e lo sviluppo di condizioni climatiche ed atmosferiche adatte.

Colonizzazione
Le condizioni per la colonizzazione delle terre emerse da parte delle piante si presentarono nel tardo Ordoviciano, circa 458-443 milioni di anni fa. Ma le prime evidenze fossili del fatto che le piante acquatiche avessero effettivamente sviluppato delle caratteristiche compatibili con un ambiente non acquoso si situano nel primo Siluriano (ca. 470-430 milioni di anni fa). Nei fossili di questo periodo si riscontrano misure per la protezione dal disseccamento, le prime cellule specializzate per il trasporto di acqua e nutrienti, le prime strutture di supporto meccanico e modalità riproduttive che non dipendono principalmente da acqua esterna.

Le inferenze da dati scarsi sono sempre rischiose, ma sembra possibile dire che nel tardo Siluriano – primo Devoniano (ca. 430-400 Ma) dalle alghe verdi emersero le prime piante terrestri, che comprendevano piante non-vascolari (le Briofite), piante vascolari (Tracheofite) e piante con caratteristiche miste. Probabilmente le primissime piante terrestri a comparire furono quelle non vascolari, in particolare le Epatiche, seguite dai muschi, forse i più vicini, evolutivamente, alle piante vascolari.(1)

Ma torniamo alla nostra storia di colonizzazione.

Intorno al primo Devoniano (ca. 408 milioni di anni fa) avviene il primo passaggio evolutivo rivoluzionario: compaiono le prime piante vascolari, ed intorno ai 400 milioni di anni fa compaiono le Eutracheofite, il gruppo tassonomico che comprende quasi il 99% delle piante moderne. Quindi possiamo dire che molte delle caratteristiche della nostra flora si stabilirono 400 milioni di anni addietro.

Queste prime piante terrestri erano felci, licopodi e code cavalline, piccole erbacee alte al massimo un metro, che nel giro di circa 100 milioni di anni avrebbero formato completi ecosistemi forestali con alberi alti fino a 35 metri e simili alle nostre foreste attuali anche se, a vederle ora, queste foreste primordiali ci apparirebbero forse aliene.

Questa profonda e rapida trasformazione non fu dovuta soltanto a modificazioni adattive delle piante rispondenti a fattori biotici, ma anche a grandissimi cambiamenti climatici e tettonici, che compresero lo spostamento del polo Sud, tre glaciazioni e una forte riduzione dell’anidride carbonica dell’atmosfera.

Le piante svilupparono meccanismi sempre più complessi, “inventarono” radici, cortecce, foglie, legno e una vascolatura più efficiente: fino alla comparsa, circa 380 milioni di anni fa, delle prime forme arboree; e già intorno al primo Carbonifero, 350 milioni di anni fa, esistevano foreste di equiseti, licopodi, felci e pro-gimnosperme.

Ma la vera rivoluzione era ancora da venire. Tra i 290 e i 249 milioni di anni fa (Permiano), in corrispondenza di un cambiamento climatico caratterizzato da un graduale e continuo riscaldamento ed inaridimento, ed in seguito alla formazione del supercontinente Pangea (ca. 300 milioni di anni fa), emergono e si diffondono le prime piante a seme (Spermatofite), che sono piante a seme nudo (Gimnosperme). Il nuovo gruppo di piante comprende le Cycadi, le Ginkgoaceae, le Bennetite e le Pteridofite. Il seme fu una rivoluzione radicale rispetto al metodo a spore adottato da tutte le piante fino a quel momento.

Le spore, per potersi incontrare e fondersi fino a formare un nuovo individuo, avevano bisogno di essere rilasciate in un ambiente fortemente acquoso, dove potessero sopravvivere senza disidratarsi e nuotare l’una verso l’altra per potersi incontrare.

Il seme sciolse questa dipendenza. Infatti le “spore” (polline e ovuli) non vengono più rilasciate nell’ambiente: l’ovulo rimane fisso ed il polline, disperso dal vento, lo raggiunge e lo feconda. Dopo la fecondazione, inizia subito a svilupparsi il nuovo individuo, ma lo sviluppo si ferma subito e la protopiantina (l’embrione) rimane racchiusa in un ambiente ricco di acqua e nutrienti e protetta da una capsula a tempo, solida e e pronta ad aprirsi solo quando incontra le condizioni ambientali adatte: il seme.

E’ chiaro che la pianta a seme è avvantaggiata: può colonizzare ambienti nuovi, aridi, o sopravvivere nelle mutate condizioni ambientali che hanno ridotto l’ambiente tropicale (fino ad allora quasi universale sulla terra) a ridotte fasce. Inoltre arriva sul terreno in vantaggio sulle spore: la piantina è già formata, attende solo le condizioni giuste, e parte quindi in posizione di vantaggio.

Non sorprende, quindi, che, dopo la comparsa delle Conifere nel periodo subito successivo (Triassico ca. 248-206 milioni di anni fa), entro la prima parte del Giurassico (206-180 milioni di anni fa) la vegetazione globale sia ormai dominata da piante a seme ed inizi, almeno in parte, ad assomigliare alla copertura forestale attuale.

La terza grande rivoluzione (dopo le piante vascolari e le piante a seme) è quella delle piante a fiore (o piante a seme nascosto – Angiosperme), che avviene 140 milioni di anni fa, molto tardi dal punto di vista evolutivo (300 milioni di anni dopo le Tracheofite e 220 milioni di anni dopo le Spermatofite), probabilmente a partire dalle Bennettitales e/o Gnetales. La comparsa tardiva è però seguita da una rapida diversificazione a partire da 100 milioni di anni fa, diversificazione che in tempi relativamente brevi (nel Terziario tardo, ca. 65 milioni di anni fa) porta ad una dominanza globale delle Angiosperme.

Il gruppo si diversifica rapidamente sia dal punto di vista dei meccanismi riproduttivi che della morfologia: compaiono prima le dicotiledoni erbaceo-arbustive e di seguito le monocotiledoni e le strutture floreali passano da semplici fiori a simmetria radiale con molte componenti a fiori sempre più asimmetrici, con fusione di parti, fino al raggruppamento di singoli fiori in infiorescenze (come nelle Asteraceae).

L’esplosione dei metaboliti secondari – difesa e riproduzione
L’avvento delle Angiosperme porta ad un’altra rivoluzione che ci interessa molto da vicino. L’esplosione di diversità portata da questo nuovo gruppo non è limitata alle forme o alle modalità di riproduzione. Essa si esplicita anche nella produzione di una panoplia di composti chimici di difesa o di comunicazione. Le piante, come organismi sessili, non possono sfruttare le strategie di attacco e difesa dinamiche proprie degli animali: fuggire o attaccare il nemico. Esse hanno da subito dovuto utilizzare delle difese di tipo statico, per dissuadere i predatori dal mangiarle.

Le prime piante emerse usarono difese di tipo meccanico, sfruttando i meccanismi già esistenti per la costruzione delle strutture di supporto e di trasporto; usarono quindi lignina e altre sostanze per rendersi coriacee e difficili da digerire, spine, ecc.

Ma ben presto il fenomeno della coevoluzione, ovvero la rincorsa di risposte e controrisposte palleggiate tra piante e predatori le costrinse ad adottare difese più sofisticate, ovvero a sintetizzare delle tossine che in virtù della loro azione (dalla repellenza alla velenosità) dovevano in teoria servire per allontanare l’erbivoro, per ucciderlo o per fargli ricordare che era meglio non mangiare quella pianta!

Le prime briofite e gimnosperme iniziarono sviluppando tannini condensati, glicosidi cianogenici, ormoni giovanili ed ecdisoni, ma sono appunto le Angiosperme che arrivano alla più grande diversificazione produttiva, anche in risposta all’escalation messa in atto dai predatori che si adattavano alle nuove molecole (Tabella 1).

Circa 60 milioni di anni fa, con le prime angiosperme legnose, vediamo la proliferazione di metaboliti derivati da un percorso metabolico nato per la produzione di metaboliti primari come gli aminoacidi, il percorso dell’acido shikimico: quindi i primi alcaloidi (classe regina dei metaboliti bioattivi, che tanto ha segnato la storia della farmacia) e gli oli essenziali caratterizzati da fenoli e derivati; i derivati del percorso dell’acetato o misti, come isoflavoni, saponine, glicosidi cardiaci; e isotiocianati, glicosidi cianogenici. Il passaggio alle erbacee portò ad uno spostamento dal percorso dell’acido shichimico a quello dell’acido mevalonico, più duttile e con maggiori potenzialità di diversificazione. Gli oli essenziali si arricchirono in composti terpenici, meno tossici per la pianta, nacquero i lattoni mono e sesquiterpenici, gli alcaloidi steroidei, i flavonoli.

Tabella 1

Taxa

Metaboliti secondari

Gimnosperme/ Briofite Tannini condensati e glicosidi cianogenici, ormoni giovanili ed ecdisoni
Angiosperme

legnose

Alcaloidi isochinolinici ed ellagitannini
Amminoacidi non proteici, isoflavoni, glicosidi cianogenici
Saponine e isotiocianati
Glicosidi cardiaci
Angiosperme erbaceae Lattoni monoterpenici e alcaloidi steroidei
Lattoni sesquiterpenici, flavonoli e alcaloidi pirrolizidinici

Seguendo l’asse evolutivo felci-gimnosperme-angiosperme legnose-angiosperme erbacee si notano, in accordo con la teoria coevolutiva, l’aumento e la diversificazione dei deterrenti, la crescente complessità delle strutture chimiche e, di converso l’adattamento a queste strutture dei predatori più importanti: gli insetti. In effetti è avvenuto che tutte le molecole di difesa conosciute (ad esclusione dei tannini condensati) siano state utilizzate a proprio vantaggio da almeno una specie di insetto.

Uno schema molto importante per descrivere questo tipo di adattamento degli insetti alle tossine è quello dei “tre livelli trofici”. I tre livelli trofici sono quello della pianta che produce la tossina, quello dell’insetto che si adatta e gestisce la tossina (usandola a proprio beneficio), e quello dei parassiti dell’insetto sui quali agisce la tossina (uccidendoli o inibendoli) (Tabella 2).

Tabella 2

Specie vegetale Metabolita e tossicità Specie animale
Asclepiadaceae Glucosidi cardiottivi        (calotropina, pirazina) Farfalla monarca (Danaus plexippus)
Senecio spp.(S.      jacobea e S.     vulgaris) A. pirrolizidinici        (retronecina) Arctia caja e Tyria jacobea
Aristolochia sp. Acido aristolochico Battus archidanus
Cucurbita sp. Cucurbitacina D Diabrotoca balteata
Lotus cornicolatus Gl. cianogenici (linamarina) Zygaena trifolii
Brassica oleracea Glucosinolarti (sinigrina) Pieris brassicae
Plantago lanceolata Iridoidi (aucubina) Euphydryas cynthia
Zamia floridina Cicasina Eumaeus atala
Salix sp. Salicina Chrysomela aenicollis
Cytisus scoparius Alc. chinolizidinici Aphis cytisorum
Omphalea Alc. poliidrossilici Urania fulgens

Secondo questa logica, le specie vegetali evolutivamente più avanzate dovrebbero essere più facilitate delle altre nella lotta contro i predatori. In effetti, nelle ombrellifere (Apiaceae) troviamo che, ordinando le molecole di difesa secondo l’asse temporale-evolutivo, esse si distribuiscono anche secondo l’asse di tossicità e di complessità strutturale: prima le idrossicumarine, poi le furocumarine lineari, e quindi le furocumarine angolari. E in effetti le specie contenenti quest’ultimo tipo di molecola si possono difendere da un numero più elevato di predatori.

Possiamo schematizzare l’andamento dei rapporto tra pianta e predatore in questo modo:

Tabella 3: schema coevolutivo pianta-predatore

Sequenza Pianta Animale
1 Sintesi ed accumulo

tossina 1

Evitato da tutte le specie
2 Sintesi continuata Adattamento di poche specie.
3 Sopravvivenza con

predazione limitata

Tossina 1 diventa attraente per le specie adattate
4 Sopravvivenza con

predazione limitata

Aumentano le specie adattate, aumenta la pressione degli erbivori sulle piante
5 Sintesi ed accumulo

tossina 2

Evitato da tutte le specie
6 Sintesi contemporanea

tossina 1 e 2

Adattamento di poche specie, evitata da molte specie

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Note
1. Willis KJ, McElwain The evolution of plants. Oxford, Oxford University Press, 2000

Coevoluzione, ormesi, resveratrolo e sirtuine

La nostra lunghissima coevoluzione con i vegetali ha fatto si che il nostro organismo si sia dovuto adattare alla presenza di complesse miscele di metaboliti secondari di difesa delle piante, metaboliti che, originatisi come elementi di pericolo, sono stati trasformati, biologicamente prima e culturalmente più tardi, in agenti terapeutici. Ci troviamo quindi in una situazione dove cibo e medicina sono fortemente legati, nel senso che l’effetto di queste sostanze sulla nostra salute dipende molto dal nostro agire su di loro, piuttosto che dal loro agire su di noi, come è il caso dei veleni. Si parla in questo senso di ormesi (o xenormesi, per sottolineare il contatto con un composto estraneo all’organismo), ovvero di quelle azioni benefiche che risultano dalla risposta dell’organismo ad uno stressore a bassa intensità (in questo caso il metabolita secondario che a dosi elevate può essere dannoso).

Quindi il metabolita, a dosi subtossiche, attiverebbe i percorsi di risposta stressoria adattivi proprio in virtù del suo essere una tossina alla quale l’organismo si è “adattato”. Gli effetti salutari delle diete ricche in vegetali e frutta freschi non sarebbero salutari quindi solo per la presenza di antiossidanti, ma per una azione più profonda e regolatoria. Ci sono anche casi di metaboliti secondari che sembrano stimolare le risposte stressorie pur non essendo tossici neppure a dosi elevate, come ad esempio per i curcuminoidi.

Un composto xenormetico è spesso un composto polifenolico sintetizzato da specie primordiali per stimolare diverse risposte adattive in risposta a vari tipi di emergenza (siccità, radiazioni, attacchi di insetti, infezioni, ecc.). Le piante superiori avrebbero mantenuto questa abilità, e altri organismi (in questo caso l’uomo) potrebbero sfruttare questi composti come componente del loro proprio sistema di trasmissione dei segnali, in virtù del fatto che i meccanismi di base della risposta stressoria utilizzano le stesse molecole sia in piante sia in animali. Esempi di questi percorsi di allarme comprenderebbero varie chinasi legate alla sopravvivenza delle cellule, i fattori di trascrizione NRF2 e CREB, e le deacetilasi istoniche della famiglia della sirtuina, una proteina nota come Sir2 nei lieviti e SIRT1 nell’uomo. Le Sir2 (Silent information regulator 2), sono proteine presenti in tutti gli organismi dagli eubatteri agli eucarioti, compresi gli esseri umani (scarica qui un articolo esaustivo).

Quindi composti come il resveratrolo, i sulforafani ed i curcuminoidi possono proteggere le cellule da lesioni stimolando la produzione di atiossidanti, fattori neurotropici ed altre proteine correlate allo stress.

Un articolo nell’ultimo numero di Cell Metabolism contribuisce a chiarire il ruolo che il resveratrolo (e più in generale altri composti che interagiscono con le sirtuine)  possono avere sui processi metabolici nei mammiferi, interagendo con la SIRT1 e “ingannando” il nosro organismo facendogli credere di essere di fronte ad un periodo di bassa disponibilità alimentare. Lo studio è stato fatto con un composto sintetico (SRT1720) su topi geneticamente selezionati, ed ha quindi una generalizzabilità non particolarmente elevata, soprattutto se intendiamo applicarlo all’utilizzo di estratti vegetali, ma se preso nel contesto degli altri studi sperimentali e sugli studi sul resveratrolo, aggiunge una tessera importante al mosaico.

Il composto aumenta la resistenza durante la corsa protegge dall’obesità e dalla resistenza insulinica indotte con la dieta artificiale nei topi, aumentando il metabolismo ossidativo nel muscolo scheletrico, nel fegato e nel tessuto adiposo marrone. Questo risultato supporta la nozione che basse dosi di composti xenormetici possano influenzare il metabolismo umano, ridurre il rischio di prediabete, diabete tipo 2, aterosclerosi, obesità addominale e forse anche processi di tumorigenesi.

Se il nostro organismo ha “interiorizzato” i nostri rapporti ecologici con le piante ed i loro veleni, ciò significa anche che ci siamo evoluti in modo da affrontare complessi di molecole associati a dosaggi moderati e per lungo tempo, e non molecole isolate a concentrazioni molto elevate per brevi periodi. La ricerca sperimentale mostra che le piante medicinali (come miscele molecolari complesse ad azione multitasking) esercitano simultaneamente la loro influenza su diversi livelli e diversi meccanismi tumorali, e le ricerche epidemiologiche supportano questo dato mostrando, ad esempio, che le popolazione del sud est asiatico hanno percentuali minori di rischio tumorale rispetto alla loro controparte statunitense, e si ritiene che il consumo alimentare di piante quali l’aglio, la curcuma, zenzero, peperoncino, soia e Brassicaceae sia alla base di questo fenomeno di “chemioprevenzione”.

Un Curry con Andrea Pieroni

Dr. Andrea Pieroni

Silphion: Allora, caro Andrea, inizierei con questa il nostro dialogo/intervista a distanza.

Mi piacerebbe iniziare da un commento che tu hai fatto durante una discussione. Se non sbaglio si stava parlando del ruolo e dello status dell’etnobotanica, e di come, a tuo parere, al giorno d’oggi essa dovesse essere pensata come una disciplina che deve accompagnarsi ad altre per avere significato, per non ridursi ad esercizio accademico e sterile: quindi etnobotanica e politiche della salute, e politiche ambientali, e conservazione e così via.

Andrea Pieroni:
Sì, secondo me la ricerca etnobotanica potrebbe (dovrebbe) avere questi possibili outputs:
1. Agro-bio diversità, prodotti tipici, sviluppo rurale
2. Ecoturismo ed ecomusealità, patrimonio culturale (tangibile e intangibile)
3. Fitoterapia, erboristeria, uso e gestione di TM (traditional medicines)
4. Etnofarmacologia
5. Public health (soprattutto per la etnobotanica dei migranti nelle società occidentali, ma non solo)

S: Questo commento mi ha fatto pensare ad alcuni argomenti, per esempio al ruolo nella comunicazione tra culture e all’esperienza dell’Albania e del Balkans Peace Park Project (BPPP). Ma adesso mi vorrei concentrare su un’altra riflessione.
Questa discussione mi aveva infatti interessato come fitoterapeuta e quindi “fruitore” di dati etnobotanici e storici. In genere aveva stimolato una riflessione sullo status dei saperi etnobotanici e storici, saperi “deboli” per i quali si parla di credenze piuttosto che di conoscenza. Insomma il problema della traducibilità/commensurabilità, della razionalità, ovvero in genere il problema del relativismo, che ha segnato in maniera importante anche la storia dell’etnobotanica.

Riporto qui un passaggio di Alsdair MacIntyre sulle filosofie del passato che mi pareva potesse estendersi alle culture “altre”: “E’ fin troppo facile rinchiudersi all’interno di questo dilemma: se si debbano leggere le filosofie del passato in modo da renderle rilevanti per i nostri problemi e progetti contemporanei, trasmutandole il più possibile in ciò che sarebbero state se fossero state parte della filosofia presente, e minimizzando o ignorando o addirittura a volte distorcendo ciò che resiste tale trasmutazione perché inestricabilmente legato a ciò che nel passato è radicalmente diverso dalla filosofia presente; oppure con grande cautela leggerle nei loro termini propri, preservando attentamente il loro carattere idiosincratico e specifico, così che esse non possano emergere nel presente se non come un set di pezzi da museo”.

AP: Il problema filosofico dei saperi popolari/indigeni più che di “culture altre” riguarda secondo me soprattutto il rapporto storico strettissimo della scienza e della medicina con la classi alte.
I saperi delle classi subalterne (mi piace usare questo termine, proprio nel senso demartiniano e della grande scuola dei fokloristi italiani di matrice marxista) non hanno mai avuto dignità, anche perché ciò avrebbe messo in crisi molti dogmi della scienza e l’avrebbe costretta forse a divenire autocritica e plurale.
Il problema della traducibilità dei saperi popolari nei saperi “alti”/scienza è tutto da fare. Cruciale è in questo a mio modesto avviso il trovare prima di tutto piattaforme comune di scambio, rispettose, paritetiche, ed intellettualmente oneste.

S: Per fare un esempio, quando ragiono dell’uso del termine “caldo” o “calore” in medicina galenica colta o anche nelle tradizioni popolari, da un lato riconosco in questo termine una generalizzabilità: è comune a moltissime tradizioni in tutto il mondo e di tutte le epoche, e si conforma in parte a descrizioni moderne, biomediche ed anche ad intuizioni comuni. Le piante calde sono spesso piante che effettivamente elicitano tale sensazione, sono degli stimolanti circolatori, ecc. Dall’altro sono cosciente del fatto che nel mondo medievale, il calore, in quanto principio cosmologico, non coincide nettamente con l’esperienza del senso comune e nemmeno con i concetti della scienza contemporanea. Il “riscaldamento” è un modello di trasformazione centrale nella teoria sulla digestione, nella trasformazione da “naturale” in “vitale” che è centrale nella teoria umorale.

AP: Sono un po’ freddino generalmente sul concetto di “caldo/freddo”, in quanto lo ritengo (dopo anni di esperienze e studi etnobotanici) una categoria molto “alta” e assai poco “popolare”, certo penetrata nei saperi
indigeni/popolari specie in Europa, nel Mediterraneo ed in Asia attraverso quelle osmosi – che specificamente nel campo medico, al contrario di molti altri campi del sapere – sono avvenute nel corso dei secoli.
Ma davvero credo che sia molto sopravvalutato.
I saperi popolari del Mediterraneo hanno ragionato anche su molte altre piste, che non sul “caldo/freddo”.

S: Questo non è un problema meramente accademico. Quando come fitoterapeuta mi accingo a ragionare sulle basi di conoscenza e sulla storia della mia pratica mi pongo il problema della gerarchia dei saperi, del loro status, mi pongo cioè il problema del significato della mia storia e delle tradizioni non occidentali a cui in qualche modo attingo. E nel fare questo devo capirne la rilevanza moderna, giostrarmi tra il rischio di ridurli a puri “pezzi da museo”, interessanti fin che si vuole ma esclusi da una definizione restrittiva di scienza e di razionalità (e quindi alla fine di rilevanza), e la tentazione (comune a mio parere in molti circoli delle c.d. medicine alternative e complementari) di decontestualizzarli per trovare in essi una fonte “originaria” (nel caso del passato) o “più vera” (nel caso di tradizioni non occidentali) di un significato perso dalla modernità, da ritrovarsi, come dice Galimberti “ripercorrendo la storia all’indietro per trovare laggiù, in scrigni ben serrati, di cui solo alcuni detengono le chiavi, quei tesori illuminanti il senso della nostra storia e della nostra vita”.

AP: In fitoterapia come in ogni altra pratica medica, penso che porsi il problema del sottofondo culturale/sociale e quindi storico sia essenziale, in questo rifuggendo dalla percezione di medicina come religione, che invece mi sembra di poter ragionevolmente dire sembri permeare al momento molti
esperienze di uso e management di CAMs nel mondo occidentale.
Le medicine popolari che ho studiato mi hanno per esempio sempre dato l’impressione di essere molto più pragmatiche di quanto spesso si creda.

S:Prendo al palla al balzo, riguardo a medicina “alta” vs medicina popolare, prima di tutto chiedendo se hai voglia di parlare di queste altre “piste” nel mediterraneo.

Certi meccanismi di inclusione/esclusione, per continuare il discorso delle classi subalterne e dell’egemonia, sono proprio trasversali. In qualche modo è quello che è successo con il processo di professionalizzazione dei fitoterapeuti britannici negli ultimi 15 anni. Come categoria siamo passati attraverso una trasformazione con corsi di laurea, ipotesi di albo statale, e “normalizzazione” dei saperi.
Questa trasformazione, e la trasformazione delle modalità di trasmissione del sapere tradizionale, la trasformazione dei luoghi di pratica, ecc. ha a poco a poco portato ad una canonizzazione, e cristallizzazione, della cosiddetta tradizione, che, per confrontarsi con l’ambito biomedico, ha scelto cosa portare con se e cosa lasciare. E guarda caso ciò che del passato è stato scelto è stato proprio il modello colto galenico umoralistico, o quelli cinese e ayurvedico, mentre ciò che non poteva entrare facilmente in questa “filosofia” è stato abbandonato oppure recuperato in senso folk. Al tempo mi venne in mente la radicale riorganizzazione del sapere della medicina cinese nel secondo dopoguerra, quando tutto ciò che non poteva essere facilmente descritto come razionale (la demonologia, la magia, le pratiche empiriche popolari) furono drasticamente eliminate dai libri di testo, che sono stati spesso riscritti per renderli più consoni ad un modello occidentale.

Mi piacerebbe anche prendere come spunti il tuo lavoro sulle piante al limine tra alimento e medicina, e quel bell’argomento delle piante medicinali come “oggetto naturale” / “oggetto culturale”, ma magari ci arriviamo dopo.

Mi parli invece un pò dell’Albania? Come è iniziato il tuo lavoro nell’area? E ritornando alla tua iniziale descrizione degli outputs etnobotanici, quali sono quelli che immagini per l’area?

AP: Nel Mediterraneo la medicina popolare ha seguito secondo me anche le percezioni sensoriali (sapore amaro, odori/aromi) e non (solo) astratti concetti di caldo/freddo. La teoria della segnatura ha poi cementato questi
muster cognitivi (cioè non è stata l’origine forse, ma ha permesso la trasmissione delle conoscenze etnobotaniche, come ha anche di recente postulato Brad Bennett) (scarica da qui).

Ben lo credo che il sistema anglosassone ha preso come modello il sistema colto galenico umoralistico, o quelli cinese e ayurvedico, in quanto in questo paese non è mai esistita una scuola (marxista o meno) che abbia dato scientemente dignità ai saperi popolari. Il folklore in Inghilterra è rimasto folklore ed il mondo contadino quello dei “peasants”.

Per questo anche oggi in Inghilterra quando si parla di etnologia europeo o demologia si studiano il De Martino, Cirese, Lombardi-Satriani (e qui…)…

L’Albania era tappa “obbligata” dopo lo studio sugli Arbereshe lucani. Ma era anche il mio sogno di bambino e di adolescente, mai realizzato (non so perché, immagino per quel non so che di “esotico” che l’Albania ha sempre ingenerato nell’immaginario dell’europeo occidentale…).

Ma è stata soprattutto la scommessa di vedere se l’etnobotanica al di là del dato di registrazione dei saperi in via di estinzione, potesse eventualmente avere qualcosa da dire – concretamente, stringentemente – per l’eco-sviluppo di una regione e della sua gente.
Al momento non vedo un punto di arrivo, ma certo l’affascinante cammino di un processo sociale ed umano innescatosi, ma non certo governabile dai “forestieri” (in questo il mio approccio è molto meno euro-centrico e “missionario” di Antonia, che infatti è inglese).
Gli Albanesi delle montagne dovranno costruire il loro futuro nelle loro montagne (o anche negarlo), e sono certo padroni della loro storia, ma io vorrei esserci in questo processo.
Nello specifico le conoscenze etnobotaniche potrebbero essere rivalutate là sotto forma di piccole trasformazioni (piante secche) da vendersi a turisti e small-scale a Scutari, e certo per rinvigorire un uso locale nella medicina che non ha mai smesso (e che anzi – ora che l’assistenza sanitaria nelle montagne non esiste più – si è ringalluzzito…)

Ora vado a mangiarmi un curry

A presto, Andrea