Fitoalimurgia Chepang 2/2

Eccoci qui, quindi, alla seconda puntata.

Come argutamente notava Meristemi, non è che proprio che non abbia fatto capire la mia posizione relativamente al valore delle piante selvatiche .

Allora, nella seconda puntata mi sbilancio per dire che: si, credo che le piante appartenenti al continuum tra selvatico e non-ancora-coltivato-ma-quasi rappresentino un potenziale bacino sia di fattori nutrizionali sia di fattori non-nutrizionali ma funzionali che può fare la differenza per la sicurezza alimentare e per il mantenimento della salute.

Certamente queste piante sono un potenziale critico proprio in quelle situazioni di potenziale deficit nutrizionale che si presentano in molti paesi del sud del mondo, ma in maniera meno evidente possono giocare un ruolo simile anche nei nostri paesi di relativa opulenza alimentare [1].

Dato che il mio obiettivo al momento è molto limitato (vorrei parlare di quello che ho visto durante un viaggio) mi limito a fare alcune considerazioni ed a citare alcuni autori, certo che proprio in questo momento Meristemi sta cucinando qualcosa di succoso. Me la cavo quindi citando due volumi recenti che raccolgono molti dei dati più interessanti a questo riguardo: il volume edito da Pieroni e Price [2] ed il testo della recentemente scomparsa Nina Etkin. [3]

Proprio da quest’ultimo ricavo una citazione. Louis Grivetti [4] ricordando la sua prima esperienza sul campo, riporta che:

“(p)er più di cento anni i baTlokwa del deserto del Kalahari orientale, nel Botswana, non hanno sofferto di carestie o di ripercussioni a livello sociale a causa della siccità. Tale successo alimentare in quest’area è dovuto all’equilibrio tra offerta ambientale e decisioni culturali. Il Kalahari orientale offriva una elevata diversità di piante selvatiche eduli, ed i baTlokwa utilizzavano regolarmente tali risorse. Il messaggio più importante che emerse dopo due anni di lavoro sul campo fu che la siccità non aveva causato carestie, e che una spiegazione per il disastro del Sahel [ovvero la tremenda carestia che colpì la regione del Sahel a seguito di una lunga siccità, proprio negli anni della ricerca nel Kalahari. NdT] era l’incapacità culturale a riconoscere ed utilizzare le risorse alimentari selvatiche disponibili — cibi che in precedenza erano stati utilizzati come sostentamento durante le siccità.“

L’autore continua rimarcando il pericolo insito nella perdita di conoscenze riguardo alle piante selvatiche, perdita che si può tradurre in ridotte possibilità di sopravvivenza durante il periodo di crisi, perdita che in parte è secondaria ad un processo di trasformazione dell’agricoltura e della società più in generale, che porta al rifiuto delle pratiche tradizionali viste come primitive.

D’altro canto l’argomento è complesso, e sarebbe improvvido pensare ad un automatismo che leghi l’avanzare dell’agricoltura con la perdita in saperi o risorse. Come avverte nello stesso volume Lisa Leimar Price [5], l’allontanarsi dalla dipendenza totale dalla foresta come fonte di cibo comporta un aumento nella quantità di piante raccolte da ambienti agricoli, da ambienti disturbati dall’attività umana, dai campi, dai bordi, dai sentieri, ecc. Questo passaggio sembra portare con sè un aumento, e non una diminuzione, della diversità di piante consumate.

E spesso questa maggior diversità di piante utilizzate dipende fortemente alle donne, per il ruolo da esse svolto nelle società tradizionali, come coloro che si occupano della casa e del giardino, e quindi che sono in diretto contatto con tutte le aree transizionali tra foresta e coltivazioni. Una riduzione dei saperi sulle piante selvatiche, avverte la Price, può invece dipendere dallo stigma sociale ad esse associato, e fortemente legato al tema della povertà. [6]

Ecco allora che emergono alcuni temi che mi sono stati utili nel ripensare al mio viaggio:

  • l’importanza di riconoscere la parziale artificiosità della divisione cibo/medicina, fondamentale per valutare gli effetti sulla salute globale della popolazione dell’utilizzo delle piante selvatiche
  • evitare rigidità di pensiero rispetto alla supposta dicotomia tradizione/modernità, selvatico/agricolo
  • evitare l’associazione tra consumo di piante selvatiche ed idee di povertà, arretratezza, primitività, un tema come si vedrà centrale nel caso di studio del Nepal.

I problemi

Nel 2004 e poi nel 2009 sono stato a visitare i villaggi Chepang nella valle del Kandrang, nel VDC di Shaktikor, del Distretto del Chitwan.

La zona è caratterizzata da foresta mista dominata da Mallotus philippensis (Lamm.) Muell. Arg. (Euphorbiaceae), Schima wallichii (DC) Korth. (Theaceae), Shorea robusta Roxb. Ex Gaertner f. (Dipterocarpaceae), Bombax ceiba L. (Bombaceae), Betula alnoides Buch.-Ham. ex D.Don. (Betulaceae), e naturalmente Diploknema butyracea.

Nel 1993 un quinto delle terre di proprietà nella valle era ancora gestita a Khorya (debbio). A parte il terreno a Khorya, le comunità possiedono anche particelle minori di terra, detta bari, relativamente più fertile e produttiva del Khorya, e una parte di terreno intorno alla casa gestito come orto familiare.

Fino a 25 anni fa il periodo di maggese (Lhotse) era di 10-15 anni, e il Khorya forniva una parte minoritaria del sostentamento alimentare, ancora prevalentemente dipendente dalla foresta. Con l’aumentare della densità della popolazione il periodo di coltivazione venne allungato e quello di Lhotse accorciato fino a 1-6 anni, cosa cosa che rese il sistema sempre meno sostenibile, portò a raccolti sempre più poveri a causa della riduzione della fertilità del suolo e dei fenomeni erosivi.

A questo si sommava la riduzione della biodiversità forestale. A tutti gli effetti l’equilibrio tra raccolta di piante selvatiche nella foresta e cibo coltivato a Khorya era stato invertito, sempre più cibo proveniva dall’agricoltura e sempre meno dalla foresta, che però perdeva comunque in diversità a causa del ridotto Lhotse.

Dal punto di vista dei Chepang il sistema Khorya è una necessità, quindi insostituibile per il supporto della popolazione nel breve termine; dal punto di vista ambientale, il sistema, come è strutturato oggi, è una tragedia a lungo termine, che mette a rischio la stabilità e la fertilità del suolo, e la vera e propria esistenza della foresta, in cambio di un misero raccolto.

Il sapere tradizionale

La maggior parte dei nuclei familiari della zona (ca. Il 90%) usa le risorse forestali o non coltivate a scopo medicinale, per ricavarne dei soldi al mercato, o per sopperire ad una vera e propria mancanza di cibo (il 75% dei nuclei familiari).

Tutte le case stoccano al primo piano, oltre ai cereali coltivati, piante selvatiche, in particolare Githa (Dioscorea bulbifera L. — Dioscoreaceae) e Bhyakur (Dioscorea deltoidea Wall. ex Griseb.) e in minor misura dei germogli di bambù (Bambusa nepalensis Stapleton — Poaceae).

Quasi tutti gestiscono in qualche modo le piante selvatiche, sia attraverso una protezione in situ, sia attraverso processi preagricoli di domesticazione.

Secondo una ricerca recente relativa proprio a quest’area in generale le donne sono leggermente più competenti degli uomini rispetto alle piante selvatiche, ma la differenza non è significativa, e certamente minore rispetto a quello che mi sarei potuto aspettare sulla scorta degli studi citati precedentemente.

E’ possibile che le ridotte competenze agricole dei Chepang possano in parte spiegare questa uniformità tra uomini e donne. Non avendo sviluppato molto la coltivazione degli orti familiari, forse è venuta a mancare alle donne Chepang la possibilità di aumentare le loro competenze sulle piante degli ambienti di transizione [7].

Lo studio nota anche delle differenze genere-specifiche: gli uomini sono più competenti delle donne nel campo delle piante medicinali, probabilmente un riflesso del fatto che tradizionalmente gli sciamani Chepang (Pande) sono tutti uomini; anche la composizione etnica della popolazione si riflette sulla conoscenza delle piante: in aree abitate da soli Chepang il sapere sulle piante è maggiore che nelle aree a popolazione mista (Chepang e immigrati da altre aree), probabilmente (secondo gli autori) perché l’influenza dei non-Chepang  svalutata agli occhi dei Chepang le risorse raccolte dal selvatico, associandole ad idee di arretratezza culturale, primitività, ecc. che, come abbiamo visto, sono state (ed in parte sono ancora) associate alla comunità Chepang.

E’ anche possibile che questi contatti abbiano indirettamente ridotto le attività comunitarie, fondamentali per la trasmissione, verticale ed orizzontale, dei saperi tradizionali.

Questo trend è ravvisabile anche tra le differenti classi di età: gli individui sotto i 30 anni sono meno competenti dei più anziani, probabilmente per una riduzione del trasferimento di sapere in famiglie sempre meno multigenerazionali. [8]

Oltre al declino del sapere relativo alle piante selvatiche, la popolazione denuncia un declino nel numero e nella varietà delle piante stesse. Gli anziani tra i Chepang attribuiscono il declino a molti fattori: la deforestazione, il modificarsi del sistema di Khorya, la pressione demografica ed immigratoria, il cambiamento nei costumi alimentari (diretto verso cibi più cosmopoliti, o meno caratterizzati come Chepang), l’aumento delle monoculture, la mancanza di strategie di conservazione e di sostenibilità.

Le strategie

Vi è qui un nodo centrale: alcune pratiche tradizionali (Khorya e raccolta spontanea) sono inserite in un nuovo contesto demografico, sociale e culturale, e questo (mal)adattamento ha delle conseguenze sul germoplasma e sulla sostenibilità di tali pratiche; perché se è vero che le  piante selvatiche e non coltivate sono una risorsa culturale, alimentare e medicinale fondamentale, è necessario riconoscere che un sistema di sfruttamento tradizionale può risultare fortemente inadeguato alle nuove richieste ambientali, ed entrare in crisi.

Per fare solo alcuni esempi, al momento nell’area è del tutto impossibile anche solo pensare ad un periodo di maggese di 10-15 anni: la pressione demografica (interna ma anche esterna, se negli ultimi 45 anni l’immigrazione è aumentata molto mettendo in crisi anche I modelli culturali locali) [9] è troppo forte, ed aumenterà ancora nel futuro; le risorse forestali non possono stare al passo con questa pressione, e la riconversione del Khorya in terrazzamenti è possibile solo in minima parte a causa della natura estremamente ripida dei terreni.

Ciò che manca è una strategia per gestire questa crisi senza sacrificare i saperi tradizionali.

Considerate le condizioni del territorio in cui abitano i Chepang, le loro grandi competenze rispetto agli NTFP, la grande valenza culturale della raccolta nel selvatico e la possibilità che le specie non coltivate apportino un contributo importante alla dieta, non completamente riducibile ad apporto calorico o di macronutrienti, è razionale pensare ad un possibile spazio aperto per l’etnobotanica applicata, perché essa raccolga il sapere che sta scomparendo sulle proprietà nutrizionali e medicinali delle piante selvatiche, perché lo integri ai progetti di ricerca e sviluppo per offrire strategie percorribili ed accettabili dalle comunità locali (vedi rispetto a questo il lavoro svolto negli anni dall’International Centre for Underutilized Crops e dalla Global Facilitation Unit for Underutilized Species, recentemente accorpatesi per formare Crops for the Future)

Circa 15 anni fa gli stessi Chepang misero sul piatto diverse proposte per superare il problema della Khorya:

  1. Favorire la conoscenza di orti familiari, dove coltivare piante, ortaggi ed alberi da frutto e da foraggio: permettono raccolti maggiori e un maggior ritorno economico. Alberi “poliedrici” come il Chiuri sono particolarmente promettenti.
  2. Negli orti familiari potrebbero essere coltivati, lungo I limitari, specie ad elevato valore aggiunto come I bambù, le piante da saggina, utili per l’artigianato, in particolare per I manufatti intrecciati, attività nella quale I Chepang primeggiano.
  3. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda le piante medicinali
  4. Altrettanto importante sarebbe imparare nuove e migliori forme di gestione della foresta, per migliorare e rendere più efficiente la raccolta di piante selvatiche, e per ridurre il rischio di impoverimento del terreno.

Grazie allo sforzo di varie organizzazioni locali gli orti famigliari sono aumentati e sono di miglior qualità, ma rimangono ancora insufficienti per il sostentamento. Le piante più utilizzate sono:

Ma veniamo allora ai kandamools, ovvero alle piante selvatiche utilizzate. Non volendo allungare oltremodo il già lungo post, non elenco tutte le specie utilizzate (qui e qui potete trovare articoli che descrivono in dettaglio le specie più importanti) ma citerò solo quelle che ho visto nei viaggi, o delle quali ho parlato direttamente con un abitante della valle. Quello che presento non è che un suggerimento per ulteriori approfondimenti.

Le piante selvatiche (kandamools)

From Chepang Khilendra 2009
From Viaggio tra i Chepang di Musbang

1. Yoshi/Chiuri. Diploknema butyracea (Roxb.) H.J. Lam — Sapotaceae

Ban Yoshi: Chiuri selvatico; Rang Yoshi: Chiuri coltivato

Probabilmente la pianta più importante per I Chepang. E’ una pianta fondamentale per l’identità del gruppo: definisce la cultura Chepang, fornisce una fonte fondamentale di materiale per l’alimentazione, la cultura materiale, il sostentamento economico. Praticamente ogni parte della pianta viene sfruttata. I Chepang si tramandano una tassonomia popolare molto dettagliata sulla pianta, sulle sue varietà, sulla germinazione dei semi, sulle cure dell’albero, sulla raccolta dei frutti, del nettare, sull’estrazione del burro dei semi, ecc., e utilizzano più di 30 nomi per la pianta a seconda del periodo di fioritura; del colore dei frutti, delle foglie, sella corteccia, dei rami e dei semi; della forma del tronco; delle dimensioni, odore e sapore del frutto; della produttività.

Una racconto mitologico sull’origine dell’albero sottolinea la centralità della pianta:

“Molto tempo fa, di notte, una bufala scappò dalla stalla dove stava riposando, ed andò in un campo di miglio per mangiare fino a che non fu completamente sazia. Ma quando decise di tornare alle stalle, perse la via del ritorno a causa dell’oscurità, e cadde in un pericoloso burrone e lì rimase, incastrata a metà. Nessuno riuscì ad aiutarla a risalire, e ella morì lì. Si narra che nel medesimo luogo, fertilizzato dalla carcassa della bufala, nacque il primo albero di Chiuri”

Narra sempre il mito che è possibile leggere nel Chiuri questa lontana origine: I suoi frutti danno un succo lattiginoso (il latte della bufala) e il burro estratto dai semi è il burro di bufala. I piccoli grani neri nella polpa del frutto sono i grani di miglio che la bufala si era mangiata. Inoltre I Chepang usano ancora una frase tipica: il Chiuri è per noi come una bufala.

Usi

  • Semi: medicinali
  • Burro dei semi: cibo, olio da lampade, medicinale
  • Cake dei semi: agricoltura (come pesticida ed insetticida), pesca, foraggio (dopo la lisciviazione)
  • Frutti: cibo, medicina, Raksi
  • Fiori: nettare, apicoltura, medicina, bevande fermentate
  • Foglie: foraggio, piatti, cartine per tabacco
  • Corteccia: medicina, combustibile, pesca
  • Legno: costruzione, cultura materiale, combustibile
  • Latice: gomma da masticare, trappole per insetti ed uccelli

In particolare il burro ricavato dai semi viene utilizzato per cucinare, internamente per costipazione cronica e febbri. A livello topico per pelle infiammata, reumatismi, tenia pedis. Il burro viene usato nelle lampade dei templi perché non emette cattivi odori e brucia con fiamma luminosa, bianca e senza fumo.

Potenzialmente il burro potrebbe essere usato non solo per cucinare ma come margarina, come fonte di acido palmitico per l’industria farmaceutica, per fare delle candele, come sostituto dell’olio di cocco per fare saponi, pr fare unguenti e creme e come balsamo per i capelli mescolato a degli attar.

2. Ghitta (Dioscorea bulbifera L.), Bhyakur (D. deltoidea Wall. ex Griseb), Chunya (D. pentaphylla L.) e Bharlang (Dioscorea spp.) — Dioscoreaceae

Come in molte aree del mondo le Dioscoree rappresentano una risorsa insostituibile per il sostentamento alimentare. E come in molti casi le Dioscoree selvatiche non sono immediatamente fruibili, a causa della presenza di alcuni composti tossici. In particolare le specie utilizzate in Nepal sono caratterizzate da un contenuto in proteine e fibre più elevato delle varietà coltivate, e non sono particolarmente tossiche. Non contengono alcaloidi e quantità relativamente basse di nor-diterpeni furanoidi come la diosbulbina A ed in particolare la diosbulbina B, più composti cianogeni ben entro i limiti di sicurezza. I rari casi di infiammazione e tossicità riportati in letteratura sono più probabilmente dovuti alla presenza di cristalli di ossalato.

Per quanto poco tossiche, queste specie vengono comunque trattate in maniera complessa per eliminare la parte amara: dopo aver pelato i tuberi, questi vengono fatti a fette (eliminazione di metaboliti presenti nella corteccia) e messi a bollire con acqua e cenere (tecnica della cottura ed adsorbimento) per tre volte cambiando ogni volta l’acqua di bollitura (eliminazione dell’acqua e cenere saturate); il materiale così trattato viene poi posto per un giorno a bagno nell’acqua corrente di un torrente (lisciviazione), per poi essere trasformato in farina alimentare.

Le Dioscoree non sono importanti sono a livello alimentare: nel distretto del Gorkha vengono consumate come piante sacre durante il festival Hindu del Maghe Sankranti: il primo giorno del festival i tuberi vengono bolliti, poi fritti, e mangiati.

In altre regioni vengono anche usate come rimedi antelmintici.

3. Sisnu/Nelau (Urtica dioica L.) — Urticaceae

Certamente uno dei cibi selvatici più comuni ed utilizzati dalla gente delle colline. I germogli giovanili e le foglie primaverili vengono raccolte e cotte insieme ai germogli di bambù, usate nelle zuppe o mescolate alla polenta di mais, grano o Eleusine coracana (con aggiunta di sale e peperoncino).

La radice viene utilizzata come rimedio per tosse e raffreddore, miscelata insieme a Woodfordia fruticosa e Castanopsis indica (Roxburgh ex Lindley) A. de Candolle.

4. Rimsi & Gotsai

Rimsi/Koiralo (Bauhinia variegata L.) Fabaceae

Le giovani foglie, i fiori ed i frutti vengono fatti bollire e consumati come direttamente o conservati in salamoia e usati come achar.

Sono importanti piante medicinali: corteccia e fiori si usano per linfadenia, elmintiasi ed amebiasi, disturbi gastrici, e localmente in polvere per tagli e ferite (probabilmente grazie alla presenza importante di tannini).

5. Gotsai sag/Tanki (Bauhinia purpurea L.) — Fabaceae

I germogli floreali, le cime giovani ed i frutti acerbi vengono cotti e consumati direttamente o come achar, i semi vengono fritti e mangiati come snack, mentre le foglie adulte vengono usate come foraggio. La corteccia ricca in tannini viene usata come astringente in caso di diarrea e dissenteria, e come agente colorante.

From Dolakha 2009

6. Gaidung (Asparagus racemosus Willd.) — Asparagaceae/Liliaceae

I germogli giovanili e le foglie tenere si consumano come verdura cotta o come achar. Viene usato come rimedio insetticida e come tonico. Nel Dhading la frutta viene consumata per trattare problemi della pelle come foruncoli.

In Nepal le radici vengono arrostite sul fuoco e lasciate all’aperto per tutta la notte, quindi vengono polverizzate, mescolate con acqua e usate in caso di minzione dolorosa o urente.

In Ayurveda la radice viene considerata un rimedio Rasayana molto importante, usato in moltissime condizioni patologiche.

Nella valle del Khandrang alcuni nuclei abitativi hanno iniziato la domesticazione della pianta, in parte a causa dell’ottimo potenziale di mercato delle radici, in parte a causa del rischio di perdita di germoplasma nel selvatico (è una specie in pericolo).

7. Tama bans (Dendrocalamus hamiltonii Nees & Arnott ex Munro o Bambusa nepalensis Stapleton) — Poaceae

I germogli vengono fatti bollire o preparati per la conservazione come achar per il consumo personale; nella stagione secca (da febbraio ad aprile) vengono conservati come germogli fermentati (tama), un prodotto moto venduto nei mercati locali ed importante per il sostegno economico delle famiglie.

Il bambù adulto si usa come fonte di fibre per intrecciare cesti, stuoie e recinzioni.

8. Tore Nyuro (Thelypteris ciliata (Wallis ex Bentham) Ching e spp.) — Thelypteridaceae.

Le fronde tenere si consumano lesse o conservate come achar.

Il succo del rizoma si usa in caso di febbre, disturbi gastrici, diarrea ed indigestione.

9. Danthe Nyuro (Dryopteris cochleata (D. Don) C. Christensen) — Dryopteridaceae

Una delle felci più importanti nel distretto del Gorkha. Fronde e germogli giovanili si consumano lessi in famiglia (una volta fatti bollire si mantengono fino a 15 giorni) e vendute nei mercati locali.

Il succo delle radici si usa in caso di dissenteria e diarrea.

Sta diventando rara nel selvatico a causa dell’eccessiva raccolta (è una pianta considerata in pericolo)

10. Pani Nyuro & Chyan (Diplazium esculentum (Retzius) Swartz ex Sch. & Diplazium polypodioides Blume) — Woodsiaceae/ Dryopteridaceae

Le fronde tenere di Pani Nyuro vengono consumate lesse.

Il succo dei rizomi si usa in caso di febbri malariche, e una pasta ottenuta battendo le fronde si usa sulla pelle in caso di foruncoli o scabbia. Il succo della radice del Chyan Nyuro si applica su ferite ed abrasioni.

11. Thotne/Chaunle (Aconogonon molle (D. Don) H. Hara) – sin: Persicaria mollis; Polygonum molle) — Polygonaceae

I germogli giovanili consumati come verdura fresca o bollita, o come achar, particolarmente ricercato per il suo sapore acre.

Le foglie si usano in caso diarrea nel distretto del Manang.

Anche questa è una specie in pericolo, a causa della raccolta non sostenibile e della perdita di terreno forestale.

12. Porali/Ghiraula (Luffa cylindrica (L.) Roemer) Cucurbitaceae

Pianta già introdotta negli orti familiari. Il frutto tenero si consuma come verdura, mentre da secco viene venduto sul mercato come spugna vegetale.

I Tharu mescolano I semi macerati in acqua insieme ai semi di Zizyphus mauritiana Lam. e al succo della radice di Callicarpa macrophylla Vahl., quindi filtrano il tutto ed usano il liquido in caso di varicella, quando l’eruzione cutanea non “esce”.

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[1] The Local Food-Nutraceuticals Consortium (2005) “Understanding local Mediterranean diets: A multidisciplinary pharmacological and ethnobotanical approach” Local Food-Nutraceuticals Consortium Pharmacological Research 52 (2005) 353–366; Estruch R,et al. (2006) “PREDIMED Study Investigators Effects of a Mediterranean-style diet on cardiovascular risk factors: a randomized trial”. Ann Intern Med. 4;145(1):1-11; Salas-Salvadó J, et al. (2008) “Effect of a Mediterranean diet supplemented with nuts on metabolic syndromestatus: one-year results of the PREDIMED randomized trial” Arch Intern Med. 8;168(22):2449-58; Shai I, et al.  (2008) “Dietary Intervention Randomized Controlled Trial (DIRECT) Group. Weight loss with a low-carbohydrate, Mediterranean, or low-fat diet”. N Engl J Med. 17;359(3):229-41

[2] Pieroni A, Price LL (2006) Eating and healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[3] Etkin, N (2008) Edible medicines: an ethnopharmacology of food. University of Arizona Press

[4] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[5] Price LL (2006) “Wild food plants in farming environment”s. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[6] Price LL (2006) op cit.

[8] Rijal, Arun. (2008) “A Quantitative Assessment of Indigenous Plant Uses Among Two Chepang Communities in the Central Mid-hills of Nepal.” Methods 6: 395-404

[9] Rijal, Arun. (2008) op. cit.

[10] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu

Fitoalimurgia Chepang 1/2

In questi giorni di tribolazione per il Nepal (leggi qui e qui le cronache di Enrico Crespi), spintonato da un post di Meristemi (eccolo qui) sulla fitoalimurgia, prendo l’occasione per scrivere nuovamente di Chepang, un gruppo etnico di cui avevo già parlato in un’altra occasione, descrivendo un albero particolarmente importante nella loro cultura.

Come giustamente rimarca Meristemi, la fitoalimurgia, o più in generale lo studio del ruolo delle piante selvatiche o non coltivate nella storia dell’uomo, è particolarmente affascinante perché rappresenta una chiave di lettura poliedrica, che ci permette molteplici punti di entrata nel “discorso” piante e uomo. Inoltre è un esempio di ciò di cui parlava Andrea Pieroni in un post di qualche tempo fa, ovvero delle dimensioni pratiche ed etiche dell’etnobotanica, che diviene una attività non solo accademica ma applicata, uno strumento per modificare la realtà.

Il tema delle piante selvatiche tra cibo e medicina pone inoltre in primo piano il problema dell’articolazione tra tradizione e progresso scientifico. Mi ci hanno fatto pensare i post di Anna Meldolesi sul consumo etico, e di Bressanini sugli OGM, e non tanto per quello che hanno detto, quanto per le riflessioni che mi pareva scaturissero dai vari commenti.

Le strategie di gestione, di raccolta e di conservazione delle piante selvatiche sono pratiche tradizionali che meritano di essere studiate? O dovremmo invece pensare che siano fasi primitive, preagricole, del nostro rapporto con le piante, quindi ormai desuete e impari allo scopo? La fitoalimurgia è un campo dello scibile utile solo a survivalist che si allenano per la terza guerra mondiale, o per romantici innamorati del folklore, oppure ci possono dire qualcosa di rilevante sulle strategie di salute alimentare?

E ancora, se il dato scientifico si deve tradurre in politiche (in questo caso agricole ed alimentari) e se contesti differenti esigono risposte differenti anche a partire dagli stessi dati, le pratiche agricole tradizionali o le pratiche pre-agricole possono rappresentare parte delle politiche alimentari in determinati contesti?

Non intendo tentare di rispondere a nessuna di queste domande, almeno per il momento

I Chepang

Il caso di studio dei Chepang (che ho portato a Pollenzo, presso l’Università di Scienze Gastronomiche, su invito di Andrea Pieroni) credo possa servire proprio a vedere la complessità del problema, e di come la soluzione ai problemi di salute e sicurezza alimentare passi contemporaneamente dalla necessità:

1. di un approccio trickle-up, ovvero che parte dall’ascolto delle popolazioni locali, della loro percezione dei problemi e delle possibili soluzioni (che spesso sorprende chi parte da posizioni preconcette)

2. di un approccio scientifico allo studio dei sistemi tradizionali di gestione del territorio e della biodiversità

3. dell’inserimento della dimensione dell’identità culturale di un gruppo all’interno dell’equazione sulle possibili soluzioni.

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Rimando i lettori al post precedente per una introduzione ai Chepang. Ricordo brevemente che sono vissuti come cacciatori-raccoglitori fino a poco tempo fa, dipendendo interamente dalla foresta come fonte di radici e piante alimentari, e cacciagione,  fino a 100-150 anni fà.[1]

Più di recente sono diventati stanziali e si sono adattati ad una vita da agricoltori con la tecnica del debbio (in lingua Chepang Khorya, in inglese swidden, o slash-and-burn).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Rimangono però ancora pesantemente dipendenti dalla foresta (come d’altronde è vero, in minor misura, per molta della popolazione nepalese, che per il 90% vive in aree al limine tra foresta e campi coltivati) e dai suoi prodotti, o da piante non coltivate (ad esempio il Chiuri– Dyploknema butyracea (Roxb.) H. J. Lam — Sapotaceae, qui la monografia infoerbe) per la sussistenza alimentare, per le medicine, per la cultura materiale, per il foraggio, per il combustibile ed anche per un sostegno economico, dato che scambiano o vendono vari prodotti ai mercati locali.

Sono certamente una delle comunità più svantaggiate del Nepal dal punto di vista socio-economico, dell’accesso all’educazione e ai servizi di salute, in termini nutrizionali (soprattutto deficit proteico, mentre la dieta fortemente vegetale riduce i deficit vitaminici), in particolare tra donne e bambini (i bambini possono soffrire di malnutrizione e le donne incinte di deficienza di ferro e di proteine) (anche se negli ultimi 15 anni molte cose sono cambiate),[4] circa il 50% delle famiglie sono in situazione di debito, con un deficit di contanti molto acuto e con un surplus annuale molto basso; l’agricoltura (in particolare le coltivazioni di mais – Zea mays L. e panico indiano – Eleusine coracana (L.) Gaertner. – Poaceae) provvede sostentamento al 97% della popolazione solo per 5-6 mesi all’anno e per il resto dell’anno le famiglie devono fare ricorso alla foresta ed ai suoi prodotti. [5]

Anche se negli ultimi anni sono stati introdotti gli orti familiari, con cetrioli, pomodori, zucche e zucchine ed altri ortaggi, la maggior parte dei Chepang continua a fare affidamento più sulle piante selvatiche o non coltivate, o sulle piante coltivate con il metodo del debbio. [6]

Come è stato detto, gli alimenti principali dei Chepang sono il mais e la Eleusine coracana. Da quest’ultima si ricava il Dhindo, ovvero la polenta di miglio, e il Jand (bevanda fermentata a base di miglio e mais), la bevanda più tipica, bevuta da tutti in famiglia.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Di grande importanza, non solo alimentare ma anche culturale, sono i curry a base di larve e pupe di api e vespe, e a base di pipistrelli.

Centrale nella cosmogonia Chepang è, come si è detto, l’albero del Chiuri (Diploknema butyracea), o Yoshi in lingua Chepang, che provvede la famiglia di frutta, miele, nettare, ghee, foglie per piatti, fiori per bevande fermentate, ecc., per il consumo locale o per la vendita nei mercati a valle, vendita che fornisce fino al 60% del reddito familiare (vedi il mio precedente post per il dettaglio sull’albero).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Altri items venduti o scambiati al mercato sono i germogli fermentati di bambù, i doko (cesti di bambù), i naglo (i grandi piatti di fibre intrecciate per separare il loglio dal cereale) e le namlo (le cinghie da trasporto).

Vivono in villaggi, o meglio gruppi di case sparse sui pendii molto ripidi del gruppo del Mahabarat, nel Nepal centrale lungo i fiumi Trisuli, Narayani e Rapti e nei bacini degli affluenti (Manahari e Lothar al sud, Malekhi e Belkhu al nord) compresi nei Distretti del Dhading, Makwanpour, Chitwan e Gorkha.

Le loro case sono a tetto basso, piccole e quasi sempre ad una sola camera, con poca ventilazione. I componenti della famiglia vivono in questa unica stanza, mentre il secondo piano funge da solaio per I cereali ed altri alimenti conservati. Onnipresenti nella casa sono il ripiano di bambù sopra al fuoco per essiccare ed affumicare carne, pesce e cereali (e semi di Chiuri), e la mola (due pietre circolari per le farine di cereali), mentre subito fuori dalla porta troviamo l’attrezzo per decorticare il grano o rompere il guscio dei semi.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

A differenza di molto altri gruppi etnici nepalesi, i Chepang non danno molto rilievo alle gerarchie ed alle differenze di genere sessuale che, pur sussistendo, sono meno marcate rispetto al resto del paese. Le donne godono di maggior libertà, ed il cibo viene equamente diviso tra tutti i membri della famiglia, senza differenze di età o di genere (cosa non comune nel resto delle zone rurali del paese, dove spesso le donne devono nutrirsi dopo il resto della famiglia e con ciò che rimane, nutrendosi quindi poco e male, un dato rilevante per il problema del prolasso uterino).

Studi antropologici

Mentre i Chepang sono stati oggetto di molte ricerche ed analisi di tipo sociologico, minori e di minor qualità sono gli studi e gli interventi sullo sviluppo economico e sociale. Come lamentano gli stessi Chepang, c’è veramente poco sui Chepang che provenga dai Chepang stessi, e poco spazio è stato dato alla domanda “quale beneficio ha portato ai Chepang tutto il lavoro svolto sui Chepang?”. [7]

Fino a poco tempo fa i progetti governativi si sono poco interessati alle definizioni di sviluppo fornite dai locali, e spesso gli sforzi delle ONG sono stati trascurabili e politicamente non impegnati, evasivi, almeno fino alla metà degli anni ‘90.

Nel 1993 si è tenuto il primo “Gathering of the concerned” e nel testo che raccoglie le esperienze di questo incontro, emergono le istanze avvertite come più pressanti: [8]

1. Inferiorità, o mancanza di autostima, imposta ed istituzionalizzata. Quando CAED iniziò a lavorare con I Chepang, era comune riferirsi ad essi, anche nei documenti ufficiali, come Jungli (selvaggi/incivili) o Bankar/Banmanchhe (scimmie), ed in genere caratterizzarli come primitivi e stupidi. Questa istanza è stata infatti il primo punto di “attacco” del progetto SEACOW, la rivalutazione delle competenze e conoscenze del gruppo rispetto alle NTFP, competenze che potevano essere tradotte in riscatto sociale ed economico.

2. La cultura. Secondo Battharai le domande che è necessario porsi, prima della classica: “come facciamo a salvare la cultura dei Chepang?” sono le seguenti: “perché è necessario salvare o conservare questa cultura quando sono gli stessi Chepang a non voler essere chiamati così, a rifiutare la propria cultura? E come identifichiamo la cultura da salvare? Chi è che vuole conservarla e perché? Non si rischia un approccio tipo ‘zoo umano’?” E’ possibile raggiungere un maggior benessere senza rischiare la perdita di identità culturale?”. [9]

3. Autonomia tribale. Come si può gestire il miglioramento delle condizioni economiche vis-a-vis l’autonomia tribale e culturale, dove troviamo l’equilibrio? In particolare quale è la soluzione più desiderabile al problema della gestione della foresta? Nazionalizzazione, proprietà privata o diritti etnici collettivi?

4. Sostenibilità. L’opinione fortemente espressa dai Chepang e dalle ONG locali è che è insostenibile continuare a discutere del concetto di sostenibilità solo in termini economici. Questa tendenza ha eclissato importanti istanze, come ad esempio la necessità di rinforzare le risorse di base, la giustizia sociale e i bisogni specifici ed area-dipendenti.

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Note

[1] Bista DB (2004) People of Nepal. Ratna Pustak Bhandar

[2] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu; Marandhar NP (1989) “Medicinal plants used by Chepang tribes of Makwampur District, Nepal”. Fitoterapia Lx, Perish; Bhattrai TR (1995) “Chepangs: Status, efforts and issues; a Syo’s perspective”. In TR Bhattrai Chepang Resources and Development. SNV/SEACOW, Khatmandu; Gautam MK, Roberts EH, Singh BK (2003) “Community based leasehold approach and agroforestry technology for restoring degraded hill forest and improving rural livelihoods in Nepal”. Paper presented at the International Conference on rural livelihoods, Forest and Biodiversity, Bonn; Pandit BH (2001) “Non-timber forest products on shifting cultivation plots (Khorya): a means of improving livelihoods of Chepang Rural Hill Tribe of Nepal”. Asia-Pacific Journal of Rural Development; 11:1-14

[3] declino dovuto probabilmente ad una epidemia

[4] Kerkhoff, E. & E. Sharma. (2006) Debating Shifting Cultivation in the Eastern Himalayas: Farmers’ innovations as lessons for policy. International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD), Kathmandu

[5] Balla, M.K., K.D. Awasthi, P.K. Shrestha, D.P. Sherchan & D. Poudel. (2002) Degraded Lands in Mid-hills of Central Nepal: A GIS appraisal in quantifying and planning for sustainable rehabilitation. LI-BIRD, Pokhara, Nepal

[6] Aryal G.R. & G.S. Awasthi. (2004) “Agrarian Reform and Access to Land Resource in Nepal: Present status and future perspective/action“. ECARDS review paper (Unpublished). Environment, Culture, Agriculture, Research and Development Services (ECARDS), Kathmandu, Nepal

[7] Bhattarai, Teeka R. (1995) Chepangs, resources, and development : collection of expressions of the Gathering of the Concerned, 7-9 February 19. Kathmandu: SNV: 1995. 185 p.

[8] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

[9] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

Uomo e piante 5/dimoltialtri

Ed eccoci all’ultima puntata della sezione introduttiva della serie uomo/piante, dove cercherò di sintetizzare i dati principali relativi alla nascita dell’agricoltura, in quanto evento importante nell’articolazione del rapporto tra piante e uomo. Le puntate precedenti si trovano qui, qui, qui, e qui.

L’agricoltura
Gli antecedenti
Il passaggio da caccia-raccolta ad agricoltura, (la cosiddetta “rivoluzione neolitica“), non fu netto e puntuale, nè avvenne ovunque, nè si presentò con le stesse modalità. Fu lento, graduale, non lineare, avvenne indipendentemente in molti luoghi. Come nota Diamond, l’agricoltura non fu una scoperta o una invenzione, bensì una “evoluzione che prese il via come sottoprodotto di scelte spesso inconsce”. (30)

E’ ipotizzabile che le prime esperienze di coltivazione avvennero all’interno delle foreste pluviali, dove a causa della forte competizione per la luce la copertura forestale non permette la crescita del sottobosco. Solo la casuale caduta di alcuni alberi, creando delle radure naturali dove penetra il sole, permette la germinazione dei semi rimasti dormienti e la crescita di varie specie diverse.

I gruppi umani che abitavano la foresta, insediandosi nelle vicinanze di tali radure, ebbero l’opportunità di osservare la crescita di questi “giardini” spontanei.  In più, le deiezioni del gruppo arricchivano il terreno di composti azotati e di semi delle piante alimentari favorite dal gruppo stesso. In questo modo il gruppo avrebbe potuto osservare le fasi di crescita proprio delle piante alimentari a lui utili, e con il tempo avrebbe portato al costume di facilitare la crescita di tali piante  migliorando le condizioni, eliminando la competizione di altre piante, fino alla creazioni di radure artificiali mediante l’abbattimento di alberi di piccola taglia, ovvero avviandosi verso la coltivazione e la addomesticazione con la tecnica del debbio (anche addebbiatura, o taglia-e-brucia, dal termine inglese slash-and-burn: il taglio della vegetazione, il suo essiccamento e combustione per creare piccoli appezzamenti da coltivare a maggese).

Il passaggio dalla coltivazione pre-agricola (intesa come il complesso delle operazioni di semina o impianto, di cura e di raccolta delle piante selvatiche o addomesticate, con o senza aratura del terreno) all’agricoltura (intesa come la coltivazione di piante addomesticate con aratura sistematica del terreno), (31) avviene in maniera indipendente in vari siti, nell’arco di tempo che va da ca. 10.000 anni fa a 3.500 anni fa.

La nascita dell’agricoltura
Medio Oriente
In Medio Oriente l’evidenza archeobotanica sulla nascita dell’agricoltura si concentra nell’area intorno alle pianure fertili della Mesopotamia dal levante meridionale alle colline meridionali ai piedi dei Monti Zagros.

Secondo l’ipotesi ricevuta sulla nascita dell’agricoltura in Medio Oriente, basata soprattutto sui lavori di Hillman (incentrati sui ritrovamenti presso il sito di Tell Abu Hureyra, sulle rive dell’Eufrate in Siria), la coltivazione dei cereali iniziò in risposta ad un improvviso cambiamento climatico avvenuto tra 11.000 e 10.000 anni C14 fa (nel cosiddetto stadiale del Dryas recente). Il passaggio, sempre secondo questa ipotesi, avvenne in tempi relativamente brevi ed in maniera puntuale, e le cultivar sviluppate in questo periodo di tempo viaggiarono dalla loro zona di origine in tutta Europa insieme agli agricoltori migranti, ed insieme ai loro idiomi di tipo Indo-Europeo (secondo la cosiddetta Ipotesi Anatolica o Teoria della Discontinuità Neolitica di Renfrew). (32)

Secondo la teoria corrente, questo passaggio climatico, che portò a condizioni più fredde e secche, spinse verso il declino varie specie selvatiche meno adattate al clima arido, in primis le lenticchie [Lens spp. — Fabaceae] ed altri legumi, in seguito le forme selvatiche del Triticum (il farro selvatico – Triticum dicoccoides (Korn. ex Asch. & Graebn.) Schweinf. e il piccolo farro selvatico – Triticum boeoticum Boiss., (33) di Secale spp., poi Stipa spp., Stipagrostis spp., Scirpus spp., e per ultime le specie più resistenti alla siccità, le Chenopodiaceae.

Lenticchie

Segale

Questo declino spinse probabilmente le popolazioni umane a coltivare alcune specie più produttive per sopravvivere al periodo di carestia. I frutti del farro selvatico erano abbastanza grossi da essere sfruttati per sopperire alla riduzione della vegetazione. Una successiva ibridazione del farro aumentò l’eterozigosi, causando la scompare in alcuni individui del rachide fragile che aiuta la disseminazione anemofila ma rende difficile la raccolta.

Un recente studio (34) mette però in dubbio sia la data di inizio dei primi “esperimenti” agricoli, che verrebbe anticipata di molto, sia i tempi brevi per la stabilizzazione delle cultivar (che avrebbero invece avuto bisogno di millenni per diventare stabili). La scoperta di più di 90.000 frammenti vegetali presso il sito archeologico di Ohalo II in Siria, risalenti a 23.000 anni fà, indicherebbe la raccolta di cereali selvatici 10.000 anni prima del periodo previsto dalla teoria corrente, e certamente prima del Dryas.

Inoltre, lo studio delle frequenze di individui con mutazione del rachide (la forma rigida che riduce la dispersione dei frutti) mostra che tra il momento della sua prima apparizione (9.250 anni fà) e la sua fissazione (ovvero con la stabilizzazione della mutazione nella popolazione, che diventa monofiletica) passarono ben 3.000 anni, quando già la dispersione dell’agricoltura era iniziata, in tempi quindi molto più lunghi di quelli previsti dalla teoria ricevuta. Per finire, il modello matematico proposto supporta una origine delle piante coltivate attraverso processi più complessi, di inter-ibridazione tra varie specie, e in vari tentativi di addomesticazione.

Quale che sia stato l’esatto momento e l’esatto meccanismo che permise la selezione di piante con caratteristiche genetiche particolari, la selezione di questa caratteristica favorevole per l’uomo rese possibile raccolti più ricchi in meno tempo e con meno perdite, capaci di sostenere popolazioni umane più dense. L’ibrido venne coltivato insieme al piccolo farro selvatico e all’orzo spontaneo [Hordeum spontaneum K. Koch o H. vulgare subsp. spontaneum (K.Koch) Thell.].

Orzo selvatico

A partire dal Neolitico preceramico A (PPNA – ca. 10.300 anni fa) il clima tornò più caldo e umido facilitando così l’espansione delle coltivazioni. Le tre specie di cereali summenzionate passarono, in un lungo processo di interazione con l’uomo, dallo stadio selvatico a quello di “coltivazione incipiente” e di “addomesticazione”, passano cioè attraverso la trasformazione genetica verso forme addomesticate grazie all’azione di popolazioni sempre più sedentarie, fino ad arrivare ad una vera e propria fase di agricoltura a livello di villaggio. Questo stadio viene anche definito come stadio della coltivazione incipiente e della addomesticazione, durante il quale iniziano quei processi di modificazione genetica delle piante che portano verso la addomesticazione, e dove le popolazioni passano da sostentamento grazie a raccolta semisedentaria all’agricoltura.

L’evidenza più ampia di uno stile di vita schiettamente agropastorale si ha però solo per il periodo PPNB (da 9 500 a 7 500 anni fa), detto anche stadio dell’agricoltura piena.
E’ a questo periodo che fanno riferimento le evidenze archeobotaniche sulla presenza di tutte le principali specie agricole: orzo [Hordeum vulgare tetrastico e distico], piccolo farro [T. monococcum, forma coltivata di T. boeoticum] e farro [T. dicoccum forma coltivata di T. dicoccoides], lenticchie [Lens culinaris Medik — Fabaceae], piselli [Pisum sativum L.– Fabaceae], ceci [Cicer arietinum L.– Fabaceae], lino [Linum usitatissimum — Linaceae] e Vicia ervilia (L.) Willd. [Fabaceae].

Alla fine del PPNB l’agricoltura viene praticata in tutto il Sud Est asiatico e si sposta ad Ovest verso Cipro, attraverso l’Anatolia verso l’Europa, a Sud Est verso l’Egitto e ad Est verso l’Asia Centrale e Meridionale.
Tra 7000 e 5000 anni fa le coltivazioni vengono portate nelle pianure aride tra il Tigri e l’Eufrate, dove inizia la coltivazione intensiva supportata dall’irrigazione, e la parallela nascita delle prime città e dei primi piccoli templi Sumeri. (35)

Asia
Non esistono dati archeobotanici di questo tipo, a questo livello di dettaglio, per l’Asia.

I dati permettono solo di dire che in Cina centro orientale, nell’area dello Huang-ho (Fiume Giallo) tra 8.000 e 6.000 anni fa, nel Primo Paleolitico, esistevano degli insediamenti umani che praticavano la coltivazione del riso e di due specie di miglio [Panicum miliaceum L. — Poaceae; Setaria italica (L.) P. Beauv — Poaceae] (più dubbia è invece la presenza di coltivazioni di soia [Glycine max (L.) Merr. — Fabaceae]).

Riso

Miglio

Da quest’area il riso viaggiò con l’uomo verso Nord in Corea, dove era certamente coltivato 3200 anni fa, e forse verso ovest, in India settentrionale, anche se la presenza del cereale nel subcontinente 4500 anni fa potrebbe anche essere dovuta ad una addomesticazione indipendente.

Il viaggio del riso fu fermato dal clima equatoriale in Indonesia, da dove l’agricoltura si espande (verso ad esempio la Nuova Guinea) con un modello alternativo di agricoltura incipiente, basato su radici e tuberi come l’igname [Dioscorea alata L. e D. esculenta (Lour.) Burkill. — Dioscoreaceae], e il taro [Colocasia esculenta (L.) Schott — Araceae], piuttosto che su cereali (secondo alcuni autori le prime coltivazioni sono proprio state quelle di radici e tuberi nelle foreste tropicali).

Africa
Contrariamente a quanto solitamente ritenuto, è probabile che l’agricoltura si sia sviluppata in maniera indipendente anche nell’Africa tropicale nord, a sud del Sahara, seguendo in questo caso un modello “misto”: nei climi più secchi del Nord utilizzo e addomesticazione di cereali come il sorgo [Sorghum bicolor (L.) Moench.] e il miglio perla [Pennisetum glaucum — (L.) R. Br.] insieme a legumi quali Vigna unguiculata (L.) Walp. (fagiolo dell’occhio), V. subterranea (L.) Verdc. (pisello di terra) e Macrotyloma geocarpum (Harms) Maréchal & Baudet, e all’albero del Karitè [Vitellaria paradoxa C. F. Gaertn. — Sapotaceae]; nel Sud più umido radici e tuberi [Dioscorea spp.], riso africano [Oryza glaberrima Steud.] e olio da palma [Elaeis guineensis Jacq. — Arecaceae].

Sorgo

Fagiolo dell’occhio

Comunque sia, in tutti questi siti si può parlare di modello agropastorale perché la coltivazione di cereali e legumi va sempre di pari passo all’allevamento di animali da carne e latte, come capre, pecore, ecc.

Le Americhe
Molto diversa è la situazione del continente Americano.
Anche qui abbiamo evidenza, per quanto scarsa e poco organica, della addomesticazione e coltivazione di piante, ma i dati archeologici indicano che non si arrivò se non molto tardi all’allevamento degli animali, per cui la dieta si basò per molto tempo quasi totalmente sulle specie vegetali coltivate o raccolte spontanee, con risultante deficit di proteine e grassi animali.

Vengono solitamente identificate tre aree principali di sviluppo: Mesoamerica (odierno Messico e Centro America), le Ande, e l’Amazzonia.

Mesoamerica
Le principali specie addomesticate in Mesoamerica furono il mais [Zea mays L. — Poaceae], i fagioli [Phaseolus vulgaris L.; P. coccineus L.; P. acutifolius A. Gray– Fabaceae], e le zucchine [Cucurbita pepo L.; C. mixta Pangalo– Cucurbitaceae], ma vengono raccolti e consumati molti frutti, come l’avocado [Persea americana Mill. — Lauraceae], la papaya [Carica papaya L. — Caricaceae], la guava [Psidium guajava L. — Myrtaceae], il sapote blanco [Casimiroa edulis La Llave & Lex. — Rutaceae] e negro [Diospyros digyna Jacq. — Ebenaceae], il peperoncino piccante [Capsicum spp. — Solanaceae] e la ciruela [Spondias mombin L. — Anacardiaceae].

Riguardo all’origine dell’agricoltura, i dati sono molto scarsi. Le evidenze archeologiche indicano che le foreste tropicali a stagione secca dei neotropici furono centri importanti di insediamento umano e coltivazione, coinvolgenti piccoli gruppi di coltivatori che si spostavano al cambiare delle stagioni

Con tutta probabilità la zucchina fu addomesticata ca. 10000 anni fa, ed uno studio recentissimo indicherebbe che il mais fu addomesticato ca. 8700 anni fà, a partire da una pianta selvatica denominata teosinte, nelle foreste tropicali dell’odierno Messico sudorientale, nella valle del Rìo Balsas, e che viaggiò con l’uomo fino a Panama ca. 7600 anni fà, fino ad essere coltivato nell’area settentrionale dell’America del Sud ca. 6000 anni fà. (36)

L’evidenza però suggerisce che le tre specie principali iniziarono ad essere coltivate insieme come sistema agronomico solo 3-4000 anni fa.

Teosinte

Ande
Le specie addomesticate sugli altopiani Andini erano due Chenopodiaceae [Chenopodium quinoa Willd. e Chenopodium pallidicaule Aellen.], i fagioli Lima [Phaseolus lunatus L.], la patata [Solanum tuberosum L. — Solanaceae], delle zucchine locali [Cucurbita moschata Duchesne, e C. ficifolia Bouche] e due camelidi, lama [Lama glama] ed alpaca [Vicugna pacos], almeno 5000 anni fa. Ma le popolazioni non svilupparono mai il sistema agropastorale tipico della mezzaluna fertile.

Amazzonia
In Amazzonia le specie addomesticate furono, come nei tropici asiatici, radici e tuberi, in particolare la manioca o cassava [Manihot esculenta Crantz. — Euphorbiaceae] e le arachidi [Arachis hypogaea L. — Fabaceae]-

Il passaggio all’agricoltura non avvenne invece mai in molte altre aree a clima comparabile come la California, l’Australia sud-ovest, l’Africa meridionale). (37)

Le conseguenze
In quasi tutte le aree di passaggio all’agricoltura la fonte primaria di cibo si ritrova nella combinazione tra uno o più cereali e uno o più legumi, che supplementavano la dieta con olii e amminoacidi assenti nei cereali, come la lisina.

Il passaggio ha probabilmente risposto a pressioni ed esigenze di equilibri energetici, di convenienza e di previsione del futuro, è stata una risposta al declino delle risorse (ad esempio la riduzione nel numero dei grandi mammiferi), alla maggior disponibilità di specie addomesticabili rispetto a quelle spontanee a causa dei cambi climatici della fine del pleistocene in Medio Oriente, ed inoltre ai progressi delle tecniche di stoccaggio del cibo. (38)

Lo spostamento di sempre maggiori settori della popolazione verso l’agricoltura e l’allevamento, porta ad un aumento della sedentarietà ed anche ad un aumento della disponibilità di cibo dal punto di vista quantitativo, mentre dal punto di vista della scelta porta forse ad una riduzione della diversità alimentare. Certamente rende possibile la vita ordinata secondo  stratificazioni sociali in comunità stabili. (39)

L’aumento delle calorie consumate può aver portato ad una iniziale minor morbilità, ma anche ad un aumento della fertilità e della densità abitativa, con conseguente aumento dei rifiuti, concentrati in zone specifiche, delle latrine, e degli allevamenti, tre fattori favorevoli all’insorgere di nuove malattie e di nuovi vettori di malattie: ratti, mosche, zanzare, topi, zecche. (40)

Gli stessi animali allevati divennero con tempo nuovi vettori di malattie, i maiali portarono ad esempio all’infezione da Ascaris, ed i bovini alla tubercolosi. Le feci accumulate favorirono il propagarsi degli elminti, le acqua sporche alla febbre tifoide.
Inoltre le modificazioni dell’ambiente richieste dall’agricoltura facilitarono il diffondersi di altre malattie per via oro-fecale; le opere di irrigazione e l’utilizzo di tecniche tipiche dell’agricoltura mobile come il debbio nelle foreste favorirono malaria, schistosomiasi e febbre gialla in Egitto, Mesopotamia ed India.

Se il peggioramento della qualità dell’alimentazione (e quindi delle capacità di resistenza dell’organismo) è andata parallela all’aumento delle fonti di infezione, è probabile che in tempi non troppo lunghi si sarà osservata una selezione degli individui più deboli o sotto stress maggiore (quindi un aumento della mortalità infantile), e la costruzione dell’immunità nei soggetti sopravvissuti. Quindi, col tempo, si sarà giunti al punto di equilibrio tra ospite e patogeno, punto al quale la maggior parte degli ospiti sopravvive e passa l’infezione, rendendo possibile la sopravvivenza del patogeno.

Dal punto di vista della struttura sociale e della gestione della salute e della malattia, una società agricola, che prevede un modello produttivo molto più spinto per sostenere la crescita demografica, prevede anche una stratificazione ed una gerarchizzazione, dove alcuni membri del gruppo avranno più potere, più ricchezza e maggior capacità decisionale di altri; la divisione del lavoro avrà portato individui e famiglie a specializzarsi in alcuni campi del sapere, tra i quali per l’appunto la medicina.

E’ probabile che le nuove malattie derivanti dall’aumento della densità e dalla sedentarizzazione abbiano messo in crisi e screditato i vecchi modi di gestire le malattie, i vecchi rimedi, aprendo la possibilità di nuove concettualizzazioni, più sofisticate ed elaborate. Tutto ciò crea un contrasto tra sapere medico popolare (il sapere precedente, che permane come “prima linea” di soccorso per il malato) e il “nuovo” sapere medico, colto ed arcano. La cura è più concentrata sul paziente, gestita agli inizi dal gruppo dei pari o dalla famiglia, passando poi per figure intermedie fino al trattamento da parte degli specialisti. (41)

La stratificazione favorisce quindi un maggior pluralismo di forme di cura ed un maggior scetticismo.
L’aumento del carico di lavoro spinge probabilmente alla ricerca/offerta di rimedi tonici (fisici, psicologici, sessuali). I gruppi che avevano maggiori conoscenze di zone ad elevata biodiversità vegetale avevano probabilmente maggior conoscenza delle piante medicinali, ma questa non era una conoscenza fortemente iniziatica, visto che per tutti era possibile avere esperienza delle piante. E’ probabile che alcune conoscenze fossero più iniziatiche, in particolare quelle legate agli uomini, che, non dovendo lavorare i campi e rimanendo sempre nello stesso luogo, visitavano di più la foresta e passavano ai figli i segreti delle piante, mentre le donne conoscevano molto bene le piante della zona di passaggio dalla foresta al coltivato, e si passavano le conoscenze quando (come succede in molte società) passavano dal loro villaggio a quello dell’uomo che sposavano.

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Note

30. Diamond, op.cit. p.78

31. Le due definizioni sono prese da: Harris DR (2005) “Origins and spread of Agricolture” in G. Price (ed.) The Cultural History of Plants. Routledge, New York pp.13-26

32. cfr. Hillman, G.C. (1996) “Late Pleistocene changes in wild plant-foods available to hunter-gatherers of the northern Fertile Crescent: Possible preludes to cereal cultivation”. In D.R. Harris (ed.) The Origins and Spread of Agriculture and Pastoralism in Eurasia, London: UCL Press and Washington, DC: Smithsonian Institution Press, ma cfr. anche il recente lavoro di Abbo S et al (2010) “Yield stability: an agronomic perspective on the origin of Near Eastern Agriculture”. Vegetation History and Archaeobotany; DOI 10.1007/ s00334-009-0233-7, dove si mette in dubbio l’importanza dei cambiamenti climatici per lo sviluppo dell’agricoltura. In effetti gli autori sostengono che, al contrario, è la stabilità climatica il fattore necessario per una agricoltura sostenibile e per l’introduzione di nuove coltivazioni. Recenti studi sul DNA mitocondriale sembrano dare un colpo molto serio alla teoria Anatolica, dato che sembra da questi dati che i primi contadini europei non siano legati strettamente ai cacciatori-raccoglitori, nè ai primi agricoltori medio orientali (Renfrew C. (2010) Archaeogenetics — towards a ‘New Synthesis’? Curr Biol 20: R162-R165)

33. Alcuni autori riclassificano i due farri in maniera differente, rispettivamente come Triticum turgidum subsp. dicoccoides (Korn. ex Asch. & Graebn.) Thell. e Triticum monococcum L. subsp. aegilopoides (Link) Thell.

34. Robin G. Allaby, Dorian Q. Fuller, Terence A. Brown (2008) “The genetic expectations of a protracted model for the origins of domesticated crops” PNAS, 105 (37): 13982–13986

35. Nel tardo periodo di Ubaid e di Uruk (IV millennio a.C.) i sumeri avevano quasi il monopolio del grano ma a causa di eccessi e di errori di irrigazione e della progressiva salinizzazione del terreno il grano crebbe sempre meno facilmente e la specie più tollerante del sale, l’orzo, arrivò a predominare.
Per queste ragioni nel 3000 a.C. si avviano vie di scambio tra le zone dell’altipiano iraniano e la Mesopotamia, e poi tra la Mesopotamia del Sud e Valle dell’Indo.

36. Piperno RD, Ranere AJ, Holst I, Iriarte J, and Dickau R (2009) “Starch grain and phytolith evidence for early ninth millennium B.P. maize from the Cenral Balsas River Valley, Mexico” PNAS 106 (13): 5019-5024

37. Johns 1990 op. cit.; Diamond 1997 op. cit.; Harris DR (2005) “Origins and spread of Agricolture” in G. Price (ed.) The Cultural History of Plants. Routledge, New York

38. Hillman, G.C. (2000) “The plant food economy of Abu Hureyra 1: the Epipalaeolithic”. In A.M.T. Moore, G.C. Hillman, and A.J. Legge (eds.) Village on the Euphrates: From Foraging to Farming at Abu Hureyra, New York: Oxford University Press, 327-399.  Hillman, G.C., Hedges, R., Moore, A., Colledge S., and Pettitt, P. (2001) “New evidence for late glacial cereal cultivation at Abu Hureyra on the Euphrates”. The Holocene 11, 383-393.

39. Diamond 1997 op. cit. Emboden WA Jr. (1995) “Art and artifact as ethnobotanical tools in the ancient near east with emphasis on psychoactive plants”. In R. E. Schultes, Siri Von Reis (ed.) Ethnobotany: Evolution of a discipline, New York: Chapman & Hall: pp. 93-107

40. cfr. Kiple 1993 op. cit. L’aumento delle calorie disponibili potrebbe aver portato ad un aumento della percentuale di adipe, che nelle donne, potrebbe avere portato ad un aumento della fertilità.

41. Kleinmann, A. Patients and healers in the context of culture.  Berkeley; University of California Press, 1980