Prolasso uterino in Nepal, un progetto da sostenere!

(English version here)

Finalmente riesco a pubblicare una intervista a cui tengo molto. Nel 2004, la prima volta che sono andato a lavorare in Nepal, la ONG con la quale collaboravo era il CAED (Centre for Agro-Ecology and Development), una ONG nata nel 1992 per interventi nel campo agroforestale, conosciuta soprattutto per il suo progetto leader del 1993, SEACOW (School of Ecology, Agriculture and Community Works), e che ha una forte sensibilità per l’approccio sociale e di genere, e la convinzione che sia possibile lavorare nel campo dell’ecologia, dell’agricoltura sostenibile, della protezione ambientale e dei diritti umani usando uno stile di intervento distante da quello di stile fortemente occidentale tipico di molte altre ONG.
Avevo già parlato di questo gruppo in un post precedente, riguardo al loro lavoro con l’etnia Chepang. Già allora mi aveva colpito il lavoro multidisciplinare della ONG, che spingeva molto sui temi della mobilizzazione delle risorse locali da parte dei locali, sui processi di trasformazione piuttosto che su target predefiniti, ed in particolare su processi di autotrasformazione e di educazione degli adulti (REFLECT), sulla necessaria interconnessione tra temi ambientali e temi sociali, di genere, culturali ed identitari, e politici. Nel 2004 il CAED stava già lavorando al progetto sulla crisi del prolasso uterino, denominato Sustainable Livelihood Programme (SLP), e stavano in quei giorni filmando un documentario di educazione sanitaria indirizzato alle famiglie delle zone rurali.

Tra pochi mesi tornerò in Nepal cercando di documentare i progressi nel lavoro sull’etnia Chepang e nella campagna sul prolasso uterino, ed ho pensato che era ora che rendessi più disponibile ad un pubblico italiani questo progetto, che personalmente sostengo e che invito tutti a sostenere.
L’intervista è con Samita Pradhan, direttrice del programma sul prolasso uterino e cofondatrice di CAED.
Chi, dopo questa lettura, fosse interessato alla possibilità di sostenere il programma SLP, può contatarmi o contattare direttamente il Maya Fund presso il CAED (Maya Fund, CAED, P Box 4555, Kathmandu, seacow@healthnet.org.np)

La versione originale dell’intervista, in inglese, è qui

Silphion: ciao Samita, mi piacerebbe iniziare con una rassegna generale della situazione in Nepal in questi giorni, dopo le elezioni. Quanto facile, o difficile, è per te e per CAED continuare con le vostre attività? Come è cambiata la situazione dall’ultima volta che sono stato in Nepal (estate del 2006)?

Samita: in Nepal c’è al momento una crisi energetica,  ci sono solo 16 ore di elettricità  al giorno, solitamente concentrate alla sera, e praticamente non abbiamo acqua corrente, almeno nelle principali città e villaggi. C’è insufficiente scorta di prodotti petroliferi, le code per la benzina e per il gas da cucina sono lunghe, e rimaniamo con appena 10 ore di elettricità alla settimana nelle ore lavorative. E questi sono solo alcuni esempi

Si.: cosa c’è all’origine di questi problemi?

Sa.: le centrali elettriche lavorano solo parzialmente, a causa dei danni alla diga del Terai orientale causati dalle ultime inondazioni. Il governo non ce la fa a rispondere alle richieste di elettricità, le risorse sono insufficienti.
Dal punto di vista politico la situazione non è nè molto stabile nè molto sicura, gli episodi di violenza sono aumentati, come anche le proteste, le manifestazioni ed anche le uccisioni.

Si.: secondo te cosa quali sono le cause scatenanti di questa situazione?

Sa.: il cambio di regime dalla monarchia alla democrazia ha innalzato le aspettative del popolo, ed ora la gente vuole poter richiedere ciò che è loro di diritto.
Nel passato abbiamo pazientato troppo con il governo, ma ora dobbiamo imparare anche a non essere eccessivamente impazienti. E forse questo è un normale processo in momenti critici come questi.
D’altro canto, l’insoddisfazione è comprensibile, la vita non è facile senza elettricità e senza acqua, cosa che per molti significa senza lavoro e senza paga.  Le persone hanno normali esigenze di base, ed ora sono arrabbiate, ed anche se tutto questo non è responsabilità esclusiva dei maoisti, sono loro ad essere al comando ora. Non si tratta semplicemente della richiesta di una minima qualità di vita, la gente ha iniziato a reclamare i propri diritti da molte angolazioni, ad esempio si parla di diritti delle popolazioni indigene, di stato federale, delle popolazioni del Terai, dei dalit (gli intoccabili), della discriminazione e della violenza verso le donne, ecc.
Ci sono proteste in ogni dove, anche nei villaggi più piccoli. Qui a Kathmandu sono molto comuni le manifestazioni degli studenti e gli scioperi dei tassisti.

Si.: quindi i problemi e le violenze sono aumentate anche nella valle di Kathmandu?

Sa.: si, la valle di Kathmandu è meno sicura di una volta, e non sappiamo quanto tempo ci vorrà, una volta usciti di casa, per andare a lavoro o per visitare i luoghi che dobbiamo visitare.
Le regioni del Terai, che comprendono così tanti gruppi etnici diversi (Terai madhesis, tharus, dalits ecc.) con aspettative differenti, sono anch’esse molto instabili, mentre le regioni collinari (l’area del Mahabharat Lekh) sono più sicure.

Si.: e tutto questo ha un impatto sul progetto?

Sa.: tutti questi scioperi ritardano il procedere del progetto, molte volte siamo costretti a cambiare il programma della giornata, ed è molto difficile pianificare le cose in anticipo. La situazione ci fa sentire insicuri dato che le uccisioni sono diventate abbastanza comuni in Nepal

Si: Dopo questa rapida descrizione della situazione generale in Nepal, mi piacerebbe che introducessi il soggetto del prolasso uterino e del lavoro che state facendo in questo campo.

Sa.: Il problema del prolasso uterino era conosciuto da molto anni ma non ha ricevuto alcuna attenzione, anche da parte delle ONG che lavoravano con le donne, o dal governo. CAED ha iniziato a lavorare  in questo campo perché era riportato come un problema scottante per le donne del distretto di Achham, nell’ovest. Negli anni sempre più ONG e persone si sono interessate al problema ed hanno comunicato con le gente e i politici, dicendo che qualcosa era possibile fare. Il CAED ha nominato il programma sul PU Women’s Reproductive Rights Program (WRRP e qui, e qui una esperienza sul campo di una volontaria). Lavora sia a livello di base sia a livello politico. Si concentra principalmente su educazione alla prevenzione, azione pubblica e lobbying, per sensibilizzare uomini e donne sulle cause sociali e mediche, sulla prevenzione ed il trattamento del PU.  E’ stata riconosciuta come una delle organizzazioni leader in questo campo nel paese. Ha avuto successo nell’influenzare almeno in parte la classe politica ed i donatori internazionali.  WRRP supporta e fa lobby sui diritti riproduttivi delle donne, incluso lo spingere perché il problema del PU sia incluso nella National Health Policy and Reproductive Health Strategy.  E’ stata fondata una alleanza di organizzazioni coinvolte con il PU, il cui ruolo sarà di coordinare e fare lobby.
Non posso dire che questo sia derivato dal cambio di regime politico, ma si è sviluppato gradualmente, nel parlare con i politici, ed anche grazie alla pressione dei finanziatori internazionali.

Si.: ci puoi dare dei dettagli sulle dimensioni del problema?

Sa.:  in media il 10% delle donne in Nepal soffre di PU, ma se prendiamo in considerazione la regione del Terai orientale e le regioni collinose del Mahabharat Lekh), questa percentuale sale drammaticamente fino a 42%.  In un lavoro sul campo nel Terai abbiamo intervistati 400 donne, delle quali circa 249 soffrivano di PU (il 62.25%).

Nel 2006 uno studio coordinato dallo United Nations Population Fund ha osservato che vi sono 600.000 donne che soffrono di PU, ed ha stimato un numero di 200.000 donne che necessitavano di interventi chirurgici. Il numero è in aumento perché non molte ONG ne il governo lavorano sulla prevenzione, ed inoltre sempre più donne iniziano a parlarne. Il problema non è più una stigmate, per lo meno nelle zone dove il programma è stato implemenato. D’altro canto, nelle aree che non sono state sede di interventi, è ancora un tabù ed una stigmate.
Durante le sommosse nel Terai orientale 700 donne si fecero avanti richiedendo una cura per la condizione, cosa questa piuttosto rara perché le donne del Terai di solito non vengono fuori dalle case a parlare apertamente con altre persone.  Si fecero avanti perché avevano saputo che esisteva una cura ed anche delle strutture adatte allo scopo.

In Nepal, generalmente, le donne si sposano a 13-15 anni. Questo significa che partoriscono molto giovani. Nello studio effettuato nel Terai orienale, il 38% delle donne soffre di PU dopo il loro primo parto. Questo mostra che i matrimoni precoci (prima dei 20 anni) sono una delle ragioni della prevalenza del PU, mentre altri fattori importanti sono la cattiva nutrizione, utero immaturo, carico di lavoro eccessivo sia prima sia dopo il parto (a volte le donne iniziano a lavorare solo 3 giorni dopo il parto). Importante anche la mancanza di riposo post-partum, il fatto che molte donne partoriscano da sole, nella propria casa, senza l’aiuto di una ostetrica o di una vicina/parente (il 91% nelle aree rurali),  a volte ponendo eccessiva pressione sull’addome durante il parto. Altre ragioni sono la elevata frequenza dei parti e la riduzione del periodo tra i parti.

E c’è da sottolineare il fatto che il PU è più di un problema meramente medico; il problema si radica profondamente nelle discriminazioni di genere. Per esempio, quando nasce una bambina, la famiglia non è felice ed e sa non riceve tutte le cure che sono riservate ai fratelli, la sua dieta non è corretta e sufficiente, sono discriminate sotto tutti gli aspetti. Questo significa che la tradizione impedisce alle ragazze di avere una crescita normale nell’età della pubertà.

Si.: diresti quindi che le cause di questa epidemia sono principalmente di tipo sociale?

Sa.: tieni in mente che la povertà è un fenomeno molto diffuso in Nepal, ma che la malnutrizione deriva principalmente da discriminazione di genere, perché anche donne che provengono da famiglie benestanti si presentano con PU. In una tipica famiglia nepalese la nuora mangia sempre dopo per ultima, e se non c’è cibo rimasto, non mangia.
Per di più, queste donne non hanno accesso all’educazione, lavorano molto duramente in casa, dall’età di 5 anni non si fermano mai, continuano a lavorare anche se hanno un prolasso. Gli uomini non sono nemmeno coscienti che questo sia un problema; sia gli uomini sia le donne pensano che sia normale soffrire di PU dopo il primo parto.

Si.: Quindi quali sono a tuo parere le strategie sulle quali concentrarsi?

Sa.: senza dubbio dobbiamo concentrarci sull’educazione alla prevenzione alle donne e alla famiglia in genere. I matrimoni tra bambini devono essere vietati, si devono insegnare strategie di pianificazione familiare per ridurre la multiparità e per aumentare il tempo tra i parti, si deve intervenire sull’igiene, sulla nutrizione, sui parti seguiti da ostetriche o operatori sanitari, sui periodi di riposo in gravidanza e post-partum. Soprattutto, le donne devono ottenere il controllo sul proprio corpo e sui propri organi riproduttivi, dovrebbero avere accesso a strutture sanitarie e dovrebbero poter esprimersi sui propri diritti.

La soluzione risiede nella prevenzione e non nella chirurgia. Quest’anno  (2009) il governo ha pianificato 12.000 interventi chirurgici; indubbiamente questo è uno sforzo molto importante ma non risolverà il problema a meno che allo stesso tempo non siamo in grado di offrire una educazione alla prevenzione. Questo è un problema che è stato brevemente affrontato ma l’intervento si è limitato a 2-3.000 soggetti.

Si.: Samita, potresti spiegarci come è successo che CAED (che ricordo, è una ONG agroforestale) è arrivata ad interessarsi di questo problema?

Sa.: CAED è nato nel 1991 come ONG agroforestale e sugli NTFP, lavorando inizialmente con la comunità minoritaria dei Chepang.
Avevamo avuto una buona esperienza con questa comunità ed abbiamo adatato questa esperienza nella regione dell’ovest del distretto di Achham, lavorando con i Dalit, i Paria o intoccabili.
Mentre stavamo lavorando in campo fummo avvicinati da delle coppie che volevano discutere problemi di genere, ed alcune donne  parlarono del PU ai membri del nostro staff, spiegando che stavano soffrendo molto. Pensammo che se intendevamo lavorare con le istanze femminili dovevamo affrontare questo problema, presente ormai da decenni. Abbiamo iniziato ufficialmente a lavorare con il PU nel 1998.

Si.: e cosa avete fatto a livello pratico?

Sa.: abbiamo iniziato a discutere con gli ufficiali distrettuali, abbiamo portato le donne perché discutessero di queste istanze a vari livelli, anche a livello ministeriale.  Stavamo tentando di far includere questo problema nel Public Health Scheme/Program (schema sanitario nazionale). Abbiamo anche iniziato a parlare ai giornalisti, perché portassero allo scoperto il problema, per il pubblico generale, per il governo e per i donatori internazionali. Eravamo pienamente consapevoli del fatto che una ONG non può risolvere il problema da sola, e del fatto che è un diritto basilare delle donne quello di ricevere tutti i trattamenti necessari.
Comunque, abbiamo iniziato ad insegnare alle donne e agli operatori sanitari governativi delle strategie preventive di base, metodi per l’inserzione dei pessari (anelli di gomma, di plastica o di silicone collocati nella vagina per sostenere l’utero) ed esercizi per il pavimento pelvico, ed anche l’utilizzo di piante medicinali.

Pessari di gomma
Pessari di gomma

In particolare abbiamo osservato che i rimedi vegetali più comunemente utilizzati erano dei semicupi di acqua tiepida e foglia polverizzata di Neem (Azadiractha indica –  Meliaceae),  o decotti di corteccia di Mango (Mangifera indica –   Anacardiaceae); queste operazioni erano però difficili per molte donne, perché in moltio casi esse non avevano una bacinella o un bagno separato dove farle.
Un altro rimedio utilizzato era l’alcol ottenuto dal frutto del butter tree, mahwa o mahua (Madhuca longifolia – Sapotaceae) usato come medicina per debolezza muscolare e perdite biancastre.

Neem
Neem

Mango
Mango

Butter tree
Butter tree

400 operatori sanitari sono stati preparati nell’ovest e nel Terai orientale, e 100 operatori sociali locali sono stati formati sugli argomenti dei diritti delle donne e sulla discriminazione di genere. 14 ONG locali hanno continuato il lavoro.

I quattro punti fondamentali del nostro programma ora sono:
•    Capacity Building delle ONG locali, dei facilitatori di coppia locali e degli operatori sanitari governativi.
•    Educazione alla prevenzione a livello locale.
•    Lavoro di lobby e di pubblicizzazione a vari livelli (di villaggio, di Distretto, nazionale, media, partiti politici, autorità locali e ministri interessati)
•    Trattamenti chirurgici (pochi)

Si.: i vostri sforzi sono stati coronati da successo?

Sa.: fino ad un certo punto si, da quando abbiamo iniziato il nostro intervento l’istanza del PU è stata introdotta nel programma governativo sulla salute riproduttiva, esiste un programma nazionale specifico sul PU, i media (internet, televisione e radio) ne hanno parlato molto. Qualche mese fa c’è stato un breve intervento del primo ministro alla TV.

Non siamo solo, per lo meno non più, e ci sono altre ONG al lavoro, ma vorrei dire che CAED è ancora l’unica che combina l’aspetto curativo a quello preventivo.
Da quando il problema è diventato “famoso”, i donatori internazionali hanno mostrato più interesse e stanno offrendo finanziamenti; è chiaro che molte ONG sono attratte da questa nuova dimensione. Penso però, a volte, che questa attrazione abbia a che vedere con gli affari, dato che molte di queste ONG si concentrano esclusivamente sulI’aspetto curativo, e fanno pagare cari gli interventi chirurgici, e nello stesso momento abbiamo bisogno di programmi di prevenzione.

Si.: Samita, ci hai spiegato che CAED si è interessata al PU per la prima volta nell’Ovest. La situazione è differente in altre aree del Nepal?

Sa.: come ho detto precedentemente, abbiamo scoperto che anche le donne del Terai soffrono di PU. Nel Terai orientale abbiamo censito 2.300 donne, ed abbiamo riscontrato una prevalenza di PU del 37%.  Il governo ed altre ONG erano al momento del tutto inconsapevoli della dimensione del problema.
Arriverei a dire che nelle aree rurali la maggior parte delle donne soffrono di prolasso, mentre nella regione tibetana il problema è minore, ma i dati a disposizione sono pochissimi, ed è quindi difficile dare numeri specifici ed accurati.
Secondo alcuni ricercatori la prevalenza è minore nei distretti del Mustang e di Solukhumbu, mentre un censimento del Nepal centro-occidentale, in particolare del distretto di Mugu, nella regione del Karnali, mostra una prevalenza elevata.
Una delle possibili ragioni per la prevalenza nelle aree rurali occidentali è lo status molto basso delle donne, la presenza di molti tabù. Ma questo non spiega tutto, perché nella regione del Terai (che ha la stessa prevalenza), non ci sono gli stessi problemi di status o di tabù sulle mestruazioni.
E quindi torniamo a quanto detto prima:  mancanza di supporto durante il parto, livelli molto elevati di sforzo fisico e lavoro durante la gravidanza e prima e dopo il parto.

Si.: diresti che la religione gioca un ruolo nella prevalenza?

Sa.: insomma, nel Terai orientale sono prevalentemente Hindu, e questo certamente ha un ruolo con le differenze di genere, mentre nelle regioni himalaiane esistono religioni differenti con impatto differente sul ruolo femminile. La prevalenza sembra più elevata nelle donne appartenenti alle caste Brahmin e Chhettri che sono praticanti Hindu. Non volgio suggerire che vi sian un arelazione diretta con la religione, ma  a causa della fede e delle credenze della cultura Hindu, le donne sono trattate come intoccabili nel periodo mestruale e post-partum (almeno fino al 21o giorno). Vi sono così tanti tabù sociali legati alla religione che è innegabile che vi sia un legame tra PU e religione.

Si.: bene Samita, in conclusione, quali sono a tuo parere i prossimi passi necessari, o che come CAED avete programmato?

Sa.: brevemente, CAED è coinvolto attivamente nella attività di lobby presso il governo per sviluppare dele politiche specifiche sul PU, e nel breve termine intende condividere le proprie esperienze con altre ONG nel paese, pubblicizzando il problema per farlo conoscere ancora di più alla gente, ai politici perché se ne occupino sotto vari aspetti, intende inoltre formare sempre più operatori sociali, rappresentanti di ONG, donne attiviste e counselor, fornire educazione preventiva a livello locale, e continuare il suo lavoro di lobby e di supporto a livello generale.
Nel lungo termine dobbiamo promuovere una ricerca specifica a livello nazionale sul prolasso uterino, attraverso il governo, perché abbiamo bisogno di evidenmza scientifica specifica sui fattori che contribuiscono al PU.
Ma ancora più pressante è la necessità di rafforzare le donne sofferenti, di portare le loro voci alle autorità, di stabilire reti di donne sofferenti, perché sono loro le protagoniste.
Ho contatti con una ONG statunitense che ci aiuterà ad internazionalizzare questa istanza (The Advocacy Project).

Per ultimo, vorrei dire che il prossimo passo per noi è quello di diventare una resource ONG, sulla scorta della nostra esperienza. Abbiamo imparato così tanto dal livello locale, abbiamo esperienza nel far conoscere il problema, nel utilizzare il PU come punto di entrata nel problema più generale della riduzione della discriminazione e della violenza di genere.  Abbiamo esperienza di lavoro sia a livello locale si a livello nazionale.


Risorse in rete

Situazione diritti umani Nepal 2008

Prolasso uterino stampa nepalese

The advocacy project: uterine prolapse alliance

Joint Report UNFPA e TU teaching hospital Kathmandu

Studio di Bonetti su prolasso uterino

Studio di Bodner-Adler su prolasso uterino

Seconda conferenza sulla maternità

Report CAED

Dialoghi etnobotanici due

Riprendiamo il filo di una bella discussione che ha segnato il primo post di questo blog. Il dialogo riprende con Andrea Pieroni, che fino a poco tempo fà era Senior Lecturer presso la Division of Pharmacy Practice/Medical Biosciences Research Focus Group, dell’Università di Bradford, GB, mentre ora è professore onorario di Botanica presso l’Università delle Scienze Gastronomiche di Bra.

Rimane comunque membro della Linnean Society di Londra e della Royal Society of Medicine, Presidente della International Society for Ethnopharmacology, Editor-in-Chief del Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine (Editor-in-Chief) e membro del board di Journal of Ethnopharmacology, Journal of Ethnobiology e Food and Foodways.

Silphion: allora, caro Andrea, per riprendere le fila del discorso, dato che sono un tipo cocciuto ritornerei su di un argomento che a te pareva mal posto, cioè traditional knowledge (TK) vs. Evidence Based Medicine (EBM) [un argomento che fa parte di una più ampia discussione che presenterò in futuro intervistando Sue Evans, una erbalista che ha scritto un recente articolo proprio su questa contrapposizione], ma dato che sono anche un tipo educato te lo ripropongo in maniera diversa 🙂
Prima di tutto ti chiederei di chiarire, se vuoi, il significato della tua risposta di allora, cioè:

“si tratta di due concetti assai sghembi, sarebbe come relazionare banane e zibetti.  Perfino nella fitoterapia tradizionale ho problemi a intravvedervi folk knowledge, nel senso che la fitoterapia tradizionale è certo stata toccata dalla folk knowledge, ma come anche la medicina ufficiale, la chirurgia, il gioco degli scacchi, l’aranciata, la Coca-cola, ed i fast food.”

Pieroni: Il significato di quello che volevo dire è che le medicine tradizionali non hanno molto a che vedere con la folk knowledge, che è generalmente trasmessa oralmente. Infatti si parla sempre distintamente, in inglese almeno, di TMs e Folk Medicines, che sono le medicine che si basano sulla folk knowledge.
Le TMs (che hanno codificazioni consistenti) hanno poco di “folk”. Ciò non significa ovviamente che questo sia un male.

Si.: azzardo una riflessione. E’ un fatto che un settore delle cosiddette CAM, in particolare i fitoterapeuti di scuola tradizionale (tra i quali ci metto quelli appartenenti alla mia tradizione, britannica), dà per scontato il rapporto diretto tra folk knowledge e moderna fitoterapia tradizionale, una connessione originaria, più intima e vera, della fitoterapia con la tradizione. Mentre è ancora poco approfondita la riflessione su cosa significhi “rifarsi” alla tradizione, ed anche il riconoscimento del carattere “costruito” della tradizione.

Saltando di palo in frasca, riprendo un tuo commento nella discussione precedente, quando parlavi della rilevanza dell’etnobotanica e “di popoli che costruiscono il loro futuro”. Ti chiedo questo: nella natura composita dell’etnobotanica, c’è una tensione tra questa dimensione di cui tu parli, del fare parte di un processo dinamico, quindi di cambiamento, e la dimensione conservativa, sia nel senso biologico sia culturale?

P.: Sì c’è questa tensione, in coloro che ci riflettono. Ma l’etnobotanica dei migranti è un esempio molto bello di superamento del conflitto. Ovviamente sono ancora tanti gli etnobotanici che pensano che la “tradizione” sia statica e sia di per sé sempre bella e virtuosa. E quindi vedono in termine astorici le cose, perché “conservare” fino in fondo non è mai possibile (meno male!).

Si.: C’è il rischio dell’idealizzazione delle radici e delle tradizioni?  E d’altro canto non è in fondo questo un ruolo fondamentale, la difesa dall’erosione da parte della modernità? Anni fa ad un convegno IASTAM (International Association for the Study of Traditional Asian Medicine) si parlava appunto del destino della tradizione ayurvedica cannibalizzata dall’ayurveda americano “di ritorno”, new age. Naturalmente a prima vista era chiaro con chi stare, i predicatori americani dell’ayurveda “a la page” non erano simpatici. D’altro canto questo ritorno portava linfa, interessi e soldi alle università tradizionali ayurvediche che rischiavano di svanire.  Ma questo ritorno portava anche ad una grande semplificazione, le pratiche più “popolari” e meno esportabili sparivano a favore di quelle più “canoniche”.

P.: In qualsiasi “migrazione”, c’è da fare i conti con l’”adattamento culturale”, e soprattutto con negoziazioni culturali sempre dinamiche.
Direi che la virtù forse stia nel vedere con più curiosità ed empatia ciò che succede durante queste “migrazioni”, di capire cosa avviene, invece di dare giudizi.
Forse anche gli ayurvedici americani hanno aiutato gli ayurvedici “puristi” a “vedere” nuove cose. Non è il succo della vita quello di imparare sempre da un “incontro”?
Qualsiasi pratica medica – per lo parlare della ”scienza” – avrebbero molto da dare e ricevere se si facessero aperta alle osmosi con l’”altro da sé”.

Si.: Allora prendo questo spunto, perché mi pare molto interessante parlare di etnobotanica dei migranti. Mi pare un buon esempio dell’evoluzione dell’etnobotanica, e anche un esempio antiromantico, lontano dallo stereotipo tipico che vuole l’etnobotanica sempre esotica, avventurosa, legata alla scoperta di piante utili per la farmacologia moderna, legata all’antico o al “primitivo”, comunque legata al tradizionale.

Vuoi spendere due parole sull’etnobotanica dei migranti? Ritornando al testo di cui sei coeditor (con Ina Vandebroek: Traveling cultures and plants: the ethnobiology and ethnopharmacy of human migration) sbaglio se vedo in questi saggi da una parte un approccio cognitivista (comparazione di differenti tassonomie folk, di differenti saperi e classificazioni), e dall’altro un forte interesse per i risvolti di salute pubblica e di diritti alla salute delle comunità immigrate, l’uso dell’etnobotnica come chiave di lettura per gli studi sull’identità culturale? Mi pare un campo affascinante perché svela il carattere complesso delle relazioni piante-uomini, una complessità che forse rimane più nascosta, mascherata dall’immaginario romantico-avventuroso, negli studi o nelle divulgazioni sull”etnobotanica classica”.

P.: Gli studi sull’etnobotanica dei migranti ci permetterebbero di analizzare molto bene come la TK legata alle piante cambia nel tempo e nello spazio.
È questione non da poco in termini scientifici.
E‘ vero: il lato di public health c‘è sempre (e ci dovrebbe sempre essere) dietro una ricerca etnobotanica, ma certo nelle società occidentali urbane  risalta molto di più, perché l’agenda dei public health services mette al primo posto il discorso sulla salute dei migranti.
Penso che paradossalmente da questi studi possano arrivare di ritorno anche spunti ed idee per l’etnobotanica “classica”, spesso impantanata tra studio del folklore, romantica osservazione di un presupposto equilibrio società umane-natura, ed un pizzico di esotismo.
C’è il lato del public health, ma anche quello della public nutrition, dell’organizzazione e percezioni degli spazi verdi urbani in contesti multi-culturali, della sostenibilità ambientale e sociale di pratiche ed esperienze urbane.

Si.: Saltando ad un’altra frasca, ho pensato a te l’altro giorno quando un professore di farmacologia mi ha chiesto: “oltre alla medicina cinese e quella ayurvedica, non ce ne sono altre di medicine tradizionali che ci dicono ancora qualcosa, no?”. Pensavo a come è forte lo stereotipo che comunque reitera sempre la stessa cesura tra medicina alta, colta e medicina popolare, per cui anche un rappresentante della biomedicina si troverà a suo agio con le medicine alternative ma solo se sono canonizzate.

P.: Sì questa è la classica fata morgana per cui  un codice standardizzato di per sé significhi “poter dire qualcosa”… In realtà tutto ha da dirci qualcosa, e “ci parla”, anche le culture orali, non codificate, ed in fondo ogni esperienza umana.
Abbiamo ancora tantissimo da imparare (o ri-imparare) sulla dignità dei saperi tradizionali manuali ad esempio, che hanno “fatto” le medicine popolari e le TMs per molti secoli.
Ma per questo bisogna ripensare le cose su piccola scala, ed avere altri “modelli di sviluppo”, come li chiamavamo una volta.
Il collasso economico di oggi è un’opportunità straordinaria per cominciare a praticare sul serio la sostenibilità ambientale, sociale ed economica…

Si.: Finirei chiedendoti del panorama dell’etnobotanica in Italia, sia dal punto di vista delle aree di ricerca che a tuo parere meriterebbero attenzione, sia dal punto di vista formativo: se cioè un giovane studente desiderasse avvicinarsi a questo campo, cosa deve aspettarsi? Che percorsi può/deve fare (a parte andare in Germania o GB)?

P.: Non è possibile “studiare” etnobotanica in Italia, e nemmeno in Europa, né a livello di Laurea, né a livello di Master  vero e proprio (a parte un piccolo Master in Etnobotanica della durata di 12 mesi all’Università di
Kent a Canterbury, però molto focalizzato su aspetti antropologici).
Ma ci sono certo piccoli gruppi di ricerca nelle università italiane che hanno cominciato anche seriamente ad occuparsi anche un pochino di ricerca etnobotanica, ed a cui potenziali laureandi potrebbero afferire:

a Firenze i Proff. Signorini e Bruschi (Agraria) e la Prof.ssa Giusti (Lettere/Antropologia Culturale);

a Pisa il Prof. Tomei (Agraria);

a RomaTre la Prof.ssa Caneva (Biologia); a Roma/La Sapienza la Prof.ssa Leporatti (Farmacia);

a Milano la Prof.ssa Fico (Farmacia);

a Genova il Prof. Mariotti (Biologia);

a Cagliari i Proff. Maxia e Ballero (Farmacia);

a Sassari il Prof. Camarda (Agraria);

a Palermo la Prof.ssa Lentini (Farmacia);

a Catania la Prof.ssa Napoli (Biologia).

Ed infine il sottoscritto a Bra (Scienze Gastronomiche).

Per aspetti invece strettamente e fitoetnolinguistici:i Proff. Trumper e Maddalon (Univ. della Calabria a Cosenza) e il Prof. Sanga (Venezia/Ca’ Foscari), tutti a Lettere.

Si: bene, come sempre, grazie mille, e a presto

Un Curry con Andrea Pieroni

Dr. Andrea Pieroni

Silphion: Allora, caro Andrea, inizierei con questa il nostro dialogo/intervista a distanza.

Mi piacerebbe iniziare da un commento che tu hai fatto durante una discussione. Se non sbaglio si stava parlando del ruolo e dello status dell’etnobotanica, e di come, a tuo parere, al giorno d’oggi essa dovesse essere pensata come una disciplina che deve accompagnarsi ad altre per avere significato, per non ridursi ad esercizio accademico e sterile: quindi etnobotanica e politiche della salute, e politiche ambientali, e conservazione e così via.

Andrea Pieroni:
Sì, secondo me la ricerca etnobotanica potrebbe (dovrebbe) avere questi possibili outputs:
1. Agro-bio diversità, prodotti tipici, sviluppo rurale
2. Ecoturismo ed ecomusealità, patrimonio culturale (tangibile e intangibile)
3. Fitoterapia, erboristeria, uso e gestione di TM (traditional medicines)
4. Etnofarmacologia
5. Public health (soprattutto per la etnobotanica dei migranti nelle società occidentali, ma non solo)

S: Questo commento mi ha fatto pensare ad alcuni argomenti, per esempio al ruolo nella comunicazione tra culture e all’esperienza dell’Albania e del Balkans Peace Park Project (BPPP). Ma adesso mi vorrei concentrare su un’altra riflessione.
Questa discussione mi aveva infatti interessato come fitoterapeuta e quindi “fruitore” di dati etnobotanici e storici. In genere aveva stimolato una riflessione sullo status dei saperi etnobotanici e storici, saperi “deboli” per i quali si parla di credenze piuttosto che di conoscenza. Insomma il problema della traducibilità/commensurabilità, della razionalità, ovvero in genere il problema del relativismo, che ha segnato in maniera importante anche la storia dell’etnobotanica.

Riporto qui un passaggio di Alsdair MacIntyre sulle filosofie del passato che mi pareva potesse estendersi alle culture “altre”: “E’ fin troppo facile rinchiudersi all’interno di questo dilemma: se si debbano leggere le filosofie del passato in modo da renderle rilevanti per i nostri problemi e progetti contemporanei, trasmutandole il più possibile in ciò che sarebbero state se fossero state parte della filosofia presente, e minimizzando o ignorando o addirittura a volte distorcendo ciò che resiste tale trasmutazione perché inestricabilmente legato a ciò che nel passato è radicalmente diverso dalla filosofia presente; oppure con grande cautela leggerle nei loro termini propri, preservando attentamente il loro carattere idiosincratico e specifico, così che esse non possano emergere nel presente se non come un set di pezzi da museo”.

AP: Il problema filosofico dei saperi popolari/indigeni più che di “culture altre” riguarda secondo me soprattutto il rapporto storico strettissimo della scienza e della medicina con la classi alte.
I saperi delle classi subalterne (mi piace usare questo termine, proprio nel senso demartiniano e della grande scuola dei fokloristi italiani di matrice marxista) non hanno mai avuto dignità, anche perché ciò avrebbe messo in crisi molti dogmi della scienza e l’avrebbe costretta forse a divenire autocritica e plurale.
Il problema della traducibilità dei saperi popolari nei saperi “alti”/scienza è tutto da fare. Cruciale è in questo a mio modesto avviso il trovare prima di tutto piattaforme comune di scambio, rispettose, paritetiche, ed intellettualmente oneste.

S: Per fare un esempio, quando ragiono dell’uso del termine “caldo” o “calore” in medicina galenica colta o anche nelle tradizioni popolari, da un lato riconosco in questo termine una generalizzabilità: è comune a moltissime tradizioni in tutto il mondo e di tutte le epoche, e si conforma in parte a descrizioni moderne, biomediche ed anche ad intuizioni comuni. Le piante calde sono spesso piante che effettivamente elicitano tale sensazione, sono degli stimolanti circolatori, ecc. Dall’altro sono cosciente del fatto che nel mondo medievale, il calore, in quanto principio cosmologico, non coincide nettamente con l’esperienza del senso comune e nemmeno con i concetti della scienza contemporanea. Il “riscaldamento” è un modello di trasformazione centrale nella teoria sulla digestione, nella trasformazione da “naturale” in “vitale” che è centrale nella teoria umorale.

AP: Sono un po’ freddino generalmente sul concetto di “caldo/freddo”, in quanto lo ritengo (dopo anni di esperienze e studi etnobotanici) una categoria molto “alta” e assai poco “popolare”, certo penetrata nei saperi
indigeni/popolari specie in Europa, nel Mediterraneo ed in Asia attraverso quelle osmosi – che specificamente nel campo medico, al contrario di molti altri campi del sapere – sono avvenute nel corso dei secoli.
Ma davvero credo che sia molto sopravvalutato.
I saperi popolari del Mediterraneo hanno ragionato anche su molte altre piste, che non sul “caldo/freddo”.

S: Questo non è un problema meramente accademico. Quando come fitoterapeuta mi accingo a ragionare sulle basi di conoscenza e sulla storia della mia pratica mi pongo il problema della gerarchia dei saperi, del loro status, mi pongo cioè il problema del significato della mia storia e delle tradizioni non occidentali a cui in qualche modo attingo. E nel fare questo devo capirne la rilevanza moderna, giostrarmi tra il rischio di ridurli a puri “pezzi da museo”, interessanti fin che si vuole ma esclusi da una definizione restrittiva di scienza e di razionalità (e quindi alla fine di rilevanza), e la tentazione (comune a mio parere in molti circoli delle c.d. medicine alternative e complementari) di decontestualizzarli per trovare in essi una fonte “originaria” (nel caso del passato) o “più vera” (nel caso di tradizioni non occidentali) di un significato perso dalla modernità, da ritrovarsi, come dice Galimberti “ripercorrendo la storia all’indietro per trovare laggiù, in scrigni ben serrati, di cui solo alcuni detengono le chiavi, quei tesori illuminanti il senso della nostra storia e della nostra vita”.

AP: In fitoterapia come in ogni altra pratica medica, penso che porsi il problema del sottofondo culturale/sociale e quindi storico sia essenziale, in questo rifuggendo dalla percezione di medicina come religione, che invece mi sembra di poter ragionevolmente dire sembri permeare al momento molti
esperienze di uso e management di CAMs nel mondo occidentale.
Le medicine popolari che ho studiato mi hanno per esempio sempre dato l’impressione di essere molto più pragmatiche di quanto spesso si creda.

S:Prendo al palla al balzo, riguardo a medicina “alta” vs medicina popolare, prima di tutto chiedendo se hai voglia di parlare di queste altre “piste” nel mediterraneo.

Certi meccanismi di inclusione/esclusione, per continuare il discorso delle classi subalterne e dell’egemonia, sono proprio trasversali. In qualche modo è quello che è successo con il processo di professionalizzazione dei fitoterapeuti britannici negli ultimi 15 anni. Come categoria siamo passati attraverso una trasformazione con corsi di laurea, ipotesi di albo statale, e “normalizzazione” dei saperi.
Questa trasformazione, e la trasformazione delle modalità di trasmissione del sapere tradizionale, la trasformazione dei luoghi di pratica, ecc. ha a poco a poco portato ad una canonizzazione, e cristallizzazione, della cosiddetta tradizione, che, per confrontarsi con l’ambito biomedico, ha scelto cosa portare con se e cosa lasciare. E guarda caso ciò che del passato è stato scelto è stato proprio il modello colto galenico umoralistico, o quelli cinese e ayurvedico, mentre ciò che non poteva entrare facilmente in questa “filosofia” è stato abbandonato oppure recuperato in senso folk. Al tempo mi venne in mente la radicale riorganizzazione del sapere della medicina cinese nel secondo dopoguerra, quando tutto ciò che non poteva essere facilmente descritto come razionale (la demonologia, la magia, le pratiche empiriche popolari) furono drasticamente eliminate dai libri di testo, che sono stati spesso riscritti per renderli più consoni ad un modello occidentale.

Mi piacerebbe anche prendere come spunti il tuo lavoro sulle piante al limine tra alimento e medicina, e quel bell’argomento delle piante medicinali come “oggetto naturale” / “oggetto culturale”, ma magari ci arriviamo dopo.

Mi parli invece un pò dell’Albania? Come è iniziato il tuo lavoro nell’area? E ritornando alla tua iniziale descrizione degli outputs etnobotanici, quali sono quelli che immagini per l’area?

AP: Nel Mediterraneo la medicina popolare ha seguito secondo me anche le percezioni sensoriali (sapore amaro, odori/aromi) e non (solo) astratti concetti di caldo/freddo. La teoria della segnatura ha poi cementato questi
muster cognitivi (cioè non è stata l’origine forse, ma ha permesso la trasmissione delle conoscenze etnobotaniche, come ha anche di recente postulato Brad Bennett) (scarica da qui).

Ben lo credo che il sistema anglosassone ha preso come modello il sistema colto galenico umoralistico, o quelli cinese e ayurvedico, in quanto in questo paese non è mai esistita una scuola (marxista o meno) che abbia dato scientemente dignità ai saperi popolari. Il folklore in Inghilterra è rimasto folklore ed il mondo contadino quello dei “peasants”.

Per questo anche oggi in Inghilterra quando si parla di etnologia europeo o demologia si studiano il De Martino, Cirese, Lombardi-Satriani (e qui…)…

L’Albania era tappa “obbligata” dopo lo studio sugli Arbereshe lucani. Ma era anche il mio sogno di bambino e di adolescente, mai realizzato (non so perché, immagino per quel non so che di “esotico” che l’Albania ha sempre ingenerato nell’immaginario dell’europeo occidentale…).

Ma è stata soprattutto la scommessa di vedere se l’etnobotanica al di là del dato di registrazione dei saperi in via di estinzione, potesse eventualmente avere qualcosa da dire – concretamente, stringentemente – per l’eco-sviluppo di una regione e della sua gente.
Al momento non vedo un punto di arrivo, ma certo l’affascinante cammino di un processo sociale ed umano innescatosi, ma non certo governabile dai “forestieri” (in questo il mio approccio è molto meno euro-centrico e “missionario” di Antonia, che infatti è inglese).
Gli Albanesi delle montagne dovranno costruire il loro futuro nelle loro montagne (o anche negarlo), e sono certo padroni della loro storia, ma io vorrei esserci in questo processo.
Nello specifico le conoscenze etnobotaniche potrebbero essere rivalutate là sotto forma di piccole trasformazioni (piante secche) da vendersi a turisti e small-scale a Scutari, e certo per rinvigorire un uso locale nella medicina che non ha mai smesso (e che anzi – ora che l’assistenza sanitaria nelle montagne non esiste più – si è ringalluzzito…)

Ora vado a mangiarmi un curry

A presto, Andrea