Gummi Myrrha

Continua con questa seconda parte il pezzo sulla mirra, che inizia qui.

Mirra oggi: definizione e descrizione

Ci sono 190 specie di Commiphora (famiglia delle Burseraceae) distribuite in Africa, India, Penisola Arabica usate tradizionalmente come incenso e medicina.  La mirra (Gummi Myrrha) è la gommo-oleoresina essiccata all’aria ottenuta dai fusti e dai rami di Commiphora myrrha (Nees) Engl.  (sinonimi Balsamea myrrha (T.Nees) Oken;B. myrrha Baill.; B. playfairii Engl.; Balsamodendrum myrrha T.Nees; Commiphora coriacea Engl.; C. cuspidata Chiov.; C. molmol (Engl.) Engl. ex Tschirch[82].

Questa specie è un albero indigeno dell’Africa Nordest (Gibuti; Etiopia; Somalia e Kenya), in particolare di Somalia ed Etiopia (e in misura minore Sudan)(CHP) e dell’Arabia meridionale (Oman; Yemen).  La droga, a volte di qualità inferiore, si ricava però anche da altre specie: Commiphora habessinica (O.Berg) Engl.; (sinonimoC. abyssinica); Commiphora schimperi (O.Bergman) Engl.; altre inferiori C. foliacea Sprague, Commiphora playfairii (Hook.f.) Engl C serrulata Engl.. Commiphora africana (A.Rich.) Endl in Etiopia e Sudan.

Commiphora myrrha3

La pianta cresce fino a 3 metri di altezza o più anche se si conoscono forme nane, e porta foglie dentate verdi. Fessure e spaccature si formano naturalmente nella corteccia dalle quali la resina essuda naturalmente dai dotti circolari del parenchima, ma la resa aumenta con le incisioni.

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Nomi popolari: Myrrh, Myrrha, Myrrhe, African Myrrh, herabol Myrrh, Somali Myrrh, Smyrna, Mur, Murry, Bola o Bol, Vola, Murr, Mirra. olio di Mirra, Stacte.

Raccolta: la resina di mirra, come quella dell’incenso, viene raccolta incidendo la corteccia e lasciando che la resina fuoriesca, si raccolga e si indurisca, in due o tre settimane. A questo punto può essere staccata e raccolta. Questo metodo, ancora in uso oggi, è stato descritto per la prima volta da Teofrasto e più tardi da Erodoto.

Le masse raccolte sono rosso-marroni, vengono ammassate in sacche fatte di pelle di capra e mandate quasi esclusivamente ad Aden. La qualità di Mirra più ricercata è la “ogo”, proveniente dalle aree interne lontane dalla costa somala e da Guban[83]. Tempo addietro le masse resinose (gocce o lacrime di mirra) venivano esportate da Aden in paesi stranieri dove venivano lavorate per produrre resinoidi ed olii.

La Somalia è il più grande esportatore al mondo di Mirra, Opopanax (Commiphora kataf (Forssk.) Engl., [= C. erythraea (Ehrenb.) Engl.], Olibanum (Boswellia sacraFlueck. [=B. carteri Birdw.]) e Maidi (B. frereana Birdw.). Le specie di Commiphoraso trovano nelle località interne secche dal nord all’estremo sud, ma buona parte del materiale esportato dalla Somalia viene in realtà raccolto in Etiopia. Alla fine degli anni 80 il volume di resine di Commiphora esportato ammontava a 1000 tonnellate[84]

La gommo-resina

La sesta edizione della Farmacopea Italiana[85] distingue tra mirra eletta emirra in sorte. La prima “si presenta in grani (lagrime) od in pezzi irregolari di varia grossezza, di colore rossastro o rosso-bruno, screpolati, un po’ efflorescenti, alquanto traslucidi, fragili, di frattura lievemente granellare e lucida, con alcune vene o piccole macchie biancastre o giallicce, talore semilunari. Sapore amarognolo, odore aromatico.

La mirra in sorte è formata di masse conglomerate, brune, opache, miste a frammenti di corteccia ed a varie impurità.”

Le Monografie dell’OMS sulle piante medicinali[86] così la descrivono: “Gummi Myrrha consiste nelle oleo-gommo-resine essiccate all’aria essudate da fusti e rami della Commiphora molmol Engler (Burseraceae) ed altre specie di Commiphora correlate, incluse  C. abyssinica Engl., C. erythraea C. schimperi Engl., ma escludendo C. mukul.”  La gommo-resina si presenta come: “gocce o grumi di gocce irregolari o arrotondate di varie dimensioni, di colore da giallo-marroncino a rosso-marrone fino a quasi nero. La superficie è quasi completamente coperta di polvere grigiastra o giallognola; la superficie interna è giallastra o rosso-marrone, che a volte presenta macchie o linee bianche; la frattura è cerosa, granulare, concoidale (a superficie curva) e dà frammenti sottili e traslucenti”.

L’odore è caratteristico, caldo-balsamico, dolce e con toni speziati, aromatico e pungente quando la resina è fresca; il sapore è aromatico, amaro, aspro[87].

La gommo-resina si scioglie parzialmente in acqua, alcol ed etere.

Commiphora myrrha6

Commiphora myrrha4

Commiphora myrrha resina grani

La resina viene usata come nota di base speziata con carattere orientale, come base legnosa, di foresta, di aghi di pino.  Si associa bene a geranio, muschio, patchouli, spezie e basi floreali pesanti[88].

Prodotti derivati[89]

La distillazione in corrente di vapore della gommoresina produce il classico olio di mirra, con rese da 1,5% a 15%, ma grazie a recenti tecnologie (come ad esempio distillazione controcorrente “short-path” o “gas-swept” si producono nuove qualità con rese molto elevate.

Olio di Mirra: liquido vischioso giallo con odore caratteristico della gommoresina, cioè resinoso e dolce balsamico, ma con anche un aspetto amaro/astringente. Odore molto persistente. Nota finale debole, secca, legnosa tipo vetivert.

Resinoide di Mirra: ottenuto per estrazione della gommoresina con solventi volatili (nel passato toluene ed esano); è un solido rosso-marrone con odore dolce, balsamico, di zucchero integrale, e uno sfondo oleoso, legnoso e terpenico. La nota finale è dolce, in qualche modo caramellosa, terpenica e di muffa.

Tintura di Mirra: preparata per macerazione della mirra in polvere con alcol etilico a 80°. Appare un liquido di colore rossastro non molto intenso. Odore e sapore di mirra, reazione acida al tornasole; diluita con acqua si intorbida[90].

Composizione chimica

Come per le specie appartenenti al genere Boswellia, anche nelle specie diCommiphora l’essudato contiene polisaccaridi ed è quindi classificato come gommoresina. Una volta indurita è scura e amara al contrario della gommoresina diBoswellia che è pallida e dolce.

La gommoresina è frazionabile in tre parti, due liposolubili ed una idrosolubile:

1. Frazione volatile liposolubile, o olio essenziale (1,5-17% – forbice più comune 3-8%):  caratterizata sia dai monoterpeni sia dai sesquiterpeni. Tra i monoteropeni troviamo α-, β- e γ−bisabolene, α-pinene, dipentene e limonene, mentre tra i sesquiterpeni troviamo heerabolene, cadinene, curzerene (11.9%), curzerenone(11.7%), diidripirocurzerenone (1,1%), elemolo, beta-elemene, T-cadinolo, commiferinae vari furanosesquiterpenoidi tra i quali il furanoeudesma-1,3-diene (12.5-34.9%), il  furanodien-6-one (0.4% ), il furanoeudesma-1,4-diene-6-one, l’isofuranogermacrene, il 1,10(15)-furanodien-6-one, il 2-metossi furanodiene, illindestrene (3.5-12.9%), ecc.  Sono presenti anche composti fenolici (cinnamaldeide, cuminaldeide, eugenolo, alcol cuminico, m-cresolo), e germacrone[91] (5.8%). Secondo Burfield[92] i sesquiterpeni, ed in particolare i derivati furanoidi[93], sono icomposti più importanti per l’aroma caratteristico della mirra: furanoeudesma-1,3-diene, lindestrene, curzerenone, curzerene, cadinene, diidropirocurzerenone. Il germacrone impartirebbe l’odore caratteristico, con note erbacee.

2. Frazione non volatile liposolubile o resina (20%, massimo 40%):  acidi alfa-, beta- e gamma-commiforico, acido commiforinico, eeraboresene, alfa- e beta-eerabomirroli e commiferina, campesterolo, beta-sitosterolo, alfa-amirone, 3-epi-alfa-amirina.

3. Frazione non volatile idrosolubile o gomma (30–60%): composti che  una volta idrolizzati danno D-galattosio, 4-O-metilglucoronato, L-arabinosio in rapporto 8:7:2[94]. Presente anche dello xilosio.

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Utilizzi

Bruciata fin dall’antichità come incenso in Arabia, Somalia ed Etiopia[96]. Morton (1977) riporta che il fumo della resina bruciata veniva usato in caso di febbri e per altri disturbi[97].

Una delle droghe vegetali più antiche e apprezzate,  la mirra viene ancora usata a livello popolare, per esempio in Marocco come balsamo per disturbi nervosi e applicata durante le cerimonie di pulizia come fumigazione[98]. Viene usata in Egitto come masticatorio in caso di tosse[99]. Nel mondo arabo si usa come antinfiammatorio, antipiretico, antisettico, e stimolante, ed è un rimedio per gastropatie, indigestione, tosse, asma, bronchite, dolore artritico, lebbra e sifilide.

Mrs Grieve[100]  la considera un astringente, vulnerario, tonico e stimolante. Lo consiglia come emmenagogo e come tonico in caso di dispepsia, come espettorante in mancanza di segni di febbre, uno stimolante delle mucose, come carminativo stomachico che eccita l’appetito e il flusso di succhi gastrici e come lavaggio astringente.

Tra gli utilizzi che cita troviamo catarro cronico, tisi, clorosi, amenorrea (con Aloe), gengivite, faringite, afta, ulcere indolenti. Esternamente può essere usata per il suo effetto rubefacente.

Secondo Felter[101], la mirra è la miglior applicazione locale per gengiviti, faringiti con afte e ulcere indolenti, faringite cronica con membrane pallide e umide, tonsillite. Internamente, secondo l’autore, la mirra è uno stimolante delle mucose e non dovrebbe essere usata in condizioni infiammatorie. Piccole dosi promuoverebbero la digestione e sarebbero antisettiche, ma dosi più elevate aumentano il ritmo cardiaco e la temperatura e sono irritanti per le mucose gastriche. E’ comunque un rimedio per soggetti debilitati e condizioni croniche e atoniche, soprattutto per quanto riguarda i polmoni.

Secondo la MTC è una pianta amara e neutrale, che rafforza il sangue e riduce il dolore, riduce il gonfiore e promuove la guarigione delle ferite. E’ una pianta con azioni e indicazioni del tutto simili alla Boswellia (incenso) ed insieme ad essa viene usata per trattare i dolori derivanti da traumi e gonfiori[102]: 1. dolore causato da stagnazione del sangue (dismenorrea; mal di stomaco; dolori articolari da vento-freddo-umido; traumi; dolore da foruncoli e eruzioni); 2. foruncoli e ulcere (esternamente).

Al giorno d’oggi viene occasionalmente utilizzata internamente come carminativo, per problemi di stomaco e come espettorante, ma è usata soprattutto come astringente ed antisettico locale per disordini delle mucose orofaringee e della pelle.

Gli Arabi spalmano la resina su una tela nera che, dopo essersi indurita, viene usata per assicurare le fratture. Gli Indiani dissolvono la mirra in latte di asino o di donna e ne fanno uso come collirio; la somministrano alla donna che allatta per aumentare il flusso di latte; la mescolano con borace in caso di stomatite parassitica; mescolano la tintura di mirra con glicerina in caso di difteria; e la consigliano in forma di tintura in caso di clorosi e dismenorrea in giovani donne. In Dhofar la resina dispersa in acqua viene bevuta o spalmata sul corpo in caso di febbre.  In Libano la mirra viene usata come carminativo, fumigatorio, vulnerario, gastrite e influenza. Il fumo viene diretto sulle ferite per favorire la guarigione. In Oman la mirra calda viene applicata alle carie in caso di mal di denti. In Arabia saudita la resina viene applicata al seno delle madri che allattano per svezzare i bambini.  In Yemen la resina viene spalmata su morsi di serpente e ferite per guarirle, e sul pene come afrodisiaco[95].

Moore[103] la considera una pianta stimolante per tutti i sistemi. E particolarmente per il fegato, il sistema respiratorio, cardiovascolare, linfatico, riproduttivo e per le mucose. Ha una azione tonica sul sistema nervoso centrale e sul parasimpatico.

I prodotti a base di Mirra sono spesso stati usati a livello topico per problemi di igiene orale, una soluzione ottenuta mescolando e scuotendo fortemente la gommoresina in acqua viene usata per disinfettare le gengive, per le infiammazioni della mucosa orale e faringea e per le afte orali. L’olio di mirra è stato usato nei dentifrici. Altre applicazioni sono labbra secche, emorroidi, ferite ed abrasioni, foruncolosi, alitosi.

Resinoidi ed assolute di Mirra sono usate principalmente in fragranze orientali per impartire una nota balsamica, dolce e resinosa. Il resinoide viene usato anche in fragranze da incenso e basi di ambra dolce. Alcuni autori dichiarano che l’odore della mirra somiglierebbe a quello della traspirazione umana, ma altri autori non ritrovano un carattere fortemente animalico o sessuale.

Farmacologia

Dati sperimentali: la resina è antiossidante (scavenger dei radicali liberi), tireotropica, inibitrice delle prostaglandine, e protegge da vari agenti necrotizzanti, citotossici in topi.

Nella sperimentazione animale la resina, l’olio essenziale e i triterpeni hanno mostrato effetti antimicrobici[104]; l’estratto grezzo della gommoresina mostra attività in vitro di potenziamento dell’attività della ciprofloxacina e della tetraciclina contro S. aureus (anche resistente ai farmaci), molte varietà diSalmonella enterica e di Typhimurium e due ceppi di K. pneumoniae[105].

Altre attività provate in vitro o in vivo su modelli animali sono quelle deodorant[106]e, anti-infiammatori[107]a, antitumor[108]ale, astringente, antipiretic[109]a, ipoglicemizzant[110]e, e protettiva dalle ulcer[111]e gastriche.

La resina sembra stimolare la muscolatura liscia[112] e forse la peristalsi[113]. Stimola il tono uterino[114] e promuove il flusso ematico uterino[115].

I sesquiterpeni furanoeudesma-1,3-dieni e curzarene sono analgesici in vi[116]vosu modelli animali (bloccati da naxolone), con meccanismo forse mediato da recettori oppioidi (una spiegazione del Vinum murratum offerto a Gesù per le proprietà analgesiche?)

Cautele

In mancanza di dati completi, si sconsiglia l’utilizzo della resina di mirra in gravidanza, in allattamento e a bambini, a meno di una specifica indicazione di un professionista[117].

Dosaggio

  • Tintura di Mirra (1:5; 90% etanolo)
  • Topico
  • Tintura pura al bisogno sulla pelle o sulle mucose orali 2-3 volte al giorno
  • Colluttorio:  5–10 gocce in un bicchiere di acqua per una azione blanda, fino a 60 per attività più drastiche.
  • Dentifricio in polvere:  10% di gommo-resina polverizzata.

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[82] Secondo alcuni autori⁠ Commiphora molmol era diversa dalla mirra (veniva anche chiamata mirra africana) ma l’odore del fumo era simile e per questa ragione veniva venduta come mirra. Cfr. Tucker, A. O. 1986. Frankincense and myrrh. Economic Botany 40 (4): 425–433

[83] Burfield T. Natural aromatic material – odours & origins. The Atlantic Institute of Aromatherapy, 2000

[84] Bowen, M.R. 1990. A bibliography of forestry in Somalia and Djibuti. Edition two. Natural Resources Institute for Overseas Development Administration, UK and National Range Agency, Somalia. Somali Forestry Papers No. 3

[85] Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia, VI edizione , 1940, Roma

[86] WHO (1999) WHO monographs on selected medicinal plants Vol 3  World Health Organization, Geneva)

[87] Tucker, A. O. 1986. Op. Cit. Langenhein J.H. (2003) Op. Cit.

[88] Arctander, S (1994) Perfume and Flavor Materials of Natural Origin. Allured Publishing Corporation

[89] Burfield T. 2000 Op. Cit.

[90] Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia, Op. Cit.

[91] Brieskorn CH e Noble P (1982) “Unhaltstoffe des eterischen ols de Myrrhe II. Sesquiterpene & Furanosesquiterpene” Medica 44, 87; Olhoff G. (1990) Scents & Fragrances Springer-Verlag pp132-188. Marongiu, Bruno, Alessandra Piras, Silvia Porcedda, and Andrea Scorciapino. “Chemical Composition of the Essential Oil and Supercritical CO2 Extract of Commiphora Myrrha (Nees) Engl. and of Acorus Calamus L.” Journal of Agricultural and Food Chemistry, 2005; Rahman, M , Mark Garvey, Laura Piddock, and Simon Gibbons. “Antibacterial Terpenes from the Oleo-resin of Commiphora Molmol (Engl.).” Phytotherapy Research: PTR, 2008.  Hanus LO,  Rezanka T, Dembitsky VM, Moussaieff A (2005)  Myrrh – Commiphora chemistry. Biomed Pap Med Fac Univ Palacky Olomouc Czech Repub. 2005, 149(1):3-28;   Zhu, N, H Kikuzaki, S Sheng, S Sang, M Rafi, M Wang, N Nakatani, R DiPaola, R Rosen, and C Ho. “Furanosesquiterpenoids of Commiphora Myrrha.” Journal of Natural Products, 1, 2001

[92] Burfield T. 2000 Op. Cit.

[93] Brieskorn CH e Noble P (1982) Op. Cit.

[94] Hanus LO,  Rezanka T, Dembitsky VM, Moussaieff A (2005) Myrrh – Commiphora chemistry. Biomed Pap Med Fac Univ Palacky Olomouc Czech Repub. 2005, 149(1):3-28

[95] Duke, J.A., (2008) Op. Cit.

[96] Uphof, J. C. T. 1968. Dictionary of economic plants. New York: Verlag von J. Cramer.; Usher, G. 1974. A dictionary of plants used by man. New York: Hafner Press.

[97] Lemenih, M., T. Abebe, and M. Olsson. 2003. Gum and resin resources from some Acacia, Boswelli and Commiphora species and their economic contributions in Liban, south-east Ethiopia. Journal of Arid Environments 55 (3): 465–482.

[98] Bellakhdar, J.J. 1997. La pharmacopoée marocaine traditionelle. Médecine Arabe ancienne et savouirs populaires. Ibis Press: Paris.

[99] Sameh F. AbouZid Abdelhalim A. Mohamed (2011) Survey on medicinal plants and spices used in Beni-Sueif, Upper Egypt  Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine, 7:18

[100] Grieve, M (1971, repr. 1931) 1971 A modern herbal; the medicinal, culinary, cosmetic and economic properties, cultivation and folk-lore of herbs, grasses, New York, Dover Publications

[101] Felter, HW (1922) The Eclectic Materia Medica, Pharmacology and Therapeutics. Eclecdtics Publications, USA

[102] Miller JM, Goodell HB. (1968) Frankincense and myrrh. Surg Gynecol Obstet Aug; 127(2):360–5.  Greene DA. (1993) Gold, frankincense, myrrh, and medicine. N C Med J Dec; 54(12):620–2

[103] http://www.swsbm.com/ManualsMM/MatMed5.pdf

[104] Newall CA, Anderson LA, Philpson JD. Herbal Medicine: A Guide for Healthcare Professionals. London, UK: The Pharmaceutical Press, 1996.  The Review of Natural Products by Facts and Comparisons. St. Louis, MO: Wolters Kluwer Co., 1999

[105] Rahman, M , Mark Garvey, Laura Piddock, and Simon Gibbons. “Antibacterial Terpenes from the Oleo-resin of Commiphora Molmol (Engl.).” Phytotherapy Research: PTR, October 1, 2008. http://dx.doi.org/10.1002/ptr.2501.

[106] Wichtl MW. Herbal Drugs and Phytopharmaceuticals. Ed. N.M. Bisset. Stuttgart: Medpharm GmbH Scientific Publishers, 1994.

[107] Duwiejua M, Zeitlin IJ, Waterman PG, Chapman J, Mhango GJ, Provan GJ.  Anti-inflammatory activity of resins from some species of the plant family Burseraceae. Planta Medica, 1993, 59:12–16.  Atta AH, Alkofahi A. Anti-nociceptive and anti-inflammatory effects of some Jordanian medicinal plant extracts. Journal of Ethnopharmacology, 1998, 60:117–124.  Tariq M, Ageel AM, Al-Yahya MA, Mossa JS, Al-Said MS, Parmar NS. Anti-inflammatory activity of Commiphora molmol. Agents and Actions, 1985, 17:381–382.

[108] al-Harbi MM, Qureshi S, Raza M, Ahmed MM, Giangreco AB, Shah AH.(1994) Anticarcinogenic effect of Commiphora molmol on solid tumors induced by Ehrlich carcinoma cells in mice. Chemotherapy 1994:40:337-47.  Qureshi S, al-Harbi MM, Ahmed MM, Raza M, Giangreco AB, Shah AH. (1993) Evaluation of the genotoxic, cytotoxic, and antitumor properties of Commiphora molmol using normal and Ehrlich ascites carcinoma cell-bearing Swiss albino mice. Cancer Chemother Pharmacol. ;33(2):130-8.

[109] Tariq M et al. Anti-inflammatory activity of Commiphora molmol. Agents and Actions, 1985, 17:381–382.  Mohsin A et al. Analgesic, antipyretic activity and phytochemical screening of some plants used in traditional Arab system of medicine. Fitoterapia, 1989, 60:174–177.

  • [110] Al-Awadi FM, Gumaa KA. Studies on the activity of individual plants of an antidiabetic plant mixture. Acta Diabetologica Latina, 1987, 24:37–41.
  • Ubillas RP et al. Antihyperglycemic furanosesquiterpenes from Commiphora myrrha. Planta Medica, 1999, 65:778–779
  • [111] al-Harbi MM, Qureshi S, Raza M, et al. Gastric antiulcer and cytoprotective effect of Commiphora molmol in rats. J Ethnopharmacol 1997;55:141-50
  • [112] The Review of Natural Products by Facts and Comparisons. St. Louis, MO: Wolters Kluwer Co., 1999.   McGuffin M, Hobbs C, Upton R, Goldberg A, eds. American Herbal Products Association’s Botanical Safety Handbook. Boca Raton, FL: CRC Press, LLC 1997

[113] The Review of Natural Products by Facts and Comparisons. St. Louis, MO: Wolters Kluwer Co., 1999.

[114] McGuffin M, Hobbs C, Upton R, Goldberg A, 1997 Op. Cit.

[115] McGuffin M, Hobbs C, Upton R, Goldberg A, 1997 Op. Cit. Brinker F. Herb Contraindications and Drug Interactions. 2nd ed. Sandy, OR: Eclectic Medical Publications, 1998

[116] Dolara P et al. Characterization of the action of central opioid receptors of furaneudesma-1,3-diene, a sesquiterpene extracted from myrrh. Phytotherapy Research, 1996, 10:S81–S83.  Atta AH, Alkofahi A. Anti-nociceptive and anti-inflammatory effects of some Jordanian medicinal plant extracts. Journal of Ethnopharmacology, 1998, 60:117–124

[117] British herbal pharmacopoeia. Exeter, British Herbal Medicine Association, 1996.  Saha JC, Savini EC, Kasinathan S. Ecbolic properties of Indian medicinal plants. Part I. Indian Journal of Medical Research, 1961, 49:130–151.  Pernet R. Phytochimie des Burseraceae. [Phytochemistry of the Burseraceae.] Lloydia, 1972, 35:280–287.

Indicazioni tradizionali: come valutarle, e perché?

Ha senso interrogarsi sui dati tradizionali relativi all’uso delle piante medicinali, ai dati storici ed etnobotanici? Al di là di un mero interesse antiquario o accademico, che significato ha il sapere antico e tradizionale? Quale peso dobbiamo dare alle fonti tradizionali per le nostre decisioni rispetto all’oggetto piante medicinali?

Credo che proprio chi lavora con le piante medicinali, studiandole o usandole, dovrebbe porsi queste domande e tentare di dare loro risposte serie, credibili, aumentando la qualità della riflessione teorica senza usare scorciatoie.  Il fatto che le fonti storiche ed etnobotaniche siano abbondati è contemporaneamente un punto di forza ed un punto critico, perché può sembrare che la loro mera esistenza possa bastare a giustificare l’uso delle piante medicinali, la loro sicurezza, la loro efficacia, ecc.  Non è lo scopo di questo post approfondire le molteplici ragioni per cui questo assunto metodologico sia insostenibile.  Prenderò invece come assunto proprio il fatto che, appurata l’esistenza e la consistenza delle fonti, rimane da approfondire il problema della loro valutazione, della loro significatività, della loro interpretazione.

E allora, approfittando del traino di Erba Volant, tenterei di approfondire il ruolo dei metodi quantitativi in etnobotanica ed etnofarmacologia, e di mostrare come essi possano permettere una valutazione razionale dei dati, e di usare questi dati per intervenire nel mondo, per incidere sul reale, un argomento sul quale avevo discusso tempo fa con Andrea Pieroni.

Facciamo però un passo indietro per meglio definire i termini della questione. L’etnofarmacologia è stata definita come un campo di  studio interdisciplinare che si divide tra scienze mediche, naturali e sociali, e che ha a che vedere con l’osservazione, l’identificazione, la descrizione e la sperimentazione degli ingredienti e degli effetti delle droghe indigene.  Lo scopo di queste osservazioni è ampio, ed è cambiato nel tempo, come nel tempo sono cambiati gli scopi dell’etnobotanica, ma possiamo certamente dire che due possibili obiettivi sono la generazione di predizioni su piante non studiate, e la corroborazione dei dati sull’attività di piante poco studiate.  Il filtro etnobotanico è stato certamente il primo strumento che abbiamo utilizzato per individuare rimedi interessanti: l’osservazione del comportamento dell’uomo, e in qualche caso degli animali, ha portato alla scoperta delle piante che hanno fatto la storia della farmacologia classica, le piante cosiddette eroiche (Strophantus, Datura, Atropa, Ephedra, Physostigma venenosum, Papaver somniferum, ecc.).

Ma le piante eroiche, facilmente identificabili a causa dei loro effetti drastici, costituiscono una percentuale molto ridotta delle piante medicinali, ed identificare piante ad azione meno evidente si è fatto sempre più difficile. Il migliorare della tecnologia sembrava per un certo tempo avere scalzato il metodo della bioprospezione etnobotanica: i metodi di screening high throughput permettevano di testare migliaia di estratti in poco tempo, e la chimica combinatoria permetteva di creare decine di strutture da un unico modello naturale, e la tecnica di raccolta delle piante a random diveniva in questo modo competitiva prché permetteva la raccolta di moltissimi campioni in poco tempo e senza dover coinvolge le popolazioni locali.  Questo non ha impedito che, sotto la spinta di molti etnofarmacologi, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso l’uso del dato etnobotanico sia ritornato in auge.  Questo nonostante che lo screening etnobotanico soffra di alcuni problemi legati ad una sua non economicità (necessita infatti di operatori professionali, di molto tempo e sostegno economico), e a volte alla poca applicabilità dei dati ottenuti localmente a problematiche di salute tipiche dei paesi sviluppati.

Il problema metodologico che si presentava ai ricercatori era però importante: l’etnofarmacologia moderna doveva contemporaneamente evitare di ridursi ad una serie di rassegne meramente elencatorie senza consistenza teorica, slegate le une dalle altre, ed evitare approcci ingenui. C’era cioè la sentita necessità di produrre lavori veramente transdiciplinari, di dotarsi di strumenti analitici migliori, di metodi quantitativi in grado di generare ipotesi falsificabili, riproducibili e trattabili con strumenti statistici; solo in questo modo la disciplina poteva essere in grado di intervenire nel mondo, magari proprio in quelle comunità locali che erano state fino a quel momento solo una fonte informativa.

Un articolo determinante da questo punto di vista è certamente stato quello di Browner, De Montellano e Rubel del 1988, nel quale gli autori proponevano una piattaforma metodologica che comparasse la prospettiva “emica” (cioè determinata dagli elementi interni di una cultura e dal loro funzionamento piuttosto che da schemi esterni) dell’etnomedicina e quella “etica” (di tipo generale, non strutturale, oggettiva) delle bioscienze, per generare nuove interpretazioni dei dati provenienti dalla ricerca transculturale in antropologia medica.

Gli autori identificano come un obiettivo dell’antropologia medica quello di contribuire alla “riduzione del carico mondiale di malattie, disabilità e sofferenze” , oltre ad una nuova comprensione del significato di salute e malattia. Puntualmente essi riconoscono anche che questa proposta potrebbe sembrare a molti ricercatori qualitativi di matrice eccessivamente riduzionistica, incapace di catturare i fenomeni nel loro contesto, ma ribadiscono la loro convinzione che invece sia possibile effettuare analisi etnograficamente valide, capaci di produrre dati che siano allo stesso tempo rilevanti e significativi per gli informatori, e suscettibili di comparazione e valutazione oggettiva.

Gli autori propongono uno schema di lavoro che consiste:

A) nell’identificare i fenomeni da analizzate in termini “emici” (mal di testa, indigestione, ecc.) e le piante usate per trattarli

B) nel determinare in quale misura i fenomeni descritti possano essere compresi nei termini dei metodi e dei concetti biomedici

C) nell’identificare aree di convergenza e divergenza tra i fenomeni descritti e le spiegazioni biomediche.

Una volta effettuati i vari passaggi, sarebbe teoricamente possibile assegnare ad ogni pianta un livello di evidenza, che gli autori così definiscono:

L1: rapporti di utilizzo parallelo in popolazioni tra le quali la diffusione è improbabile.
L2: evidenza L1 supportata da analisi fitochimica che verifichi la presenza di composti chimici che possono produrre un effetto terapeutico, o che risultano positivi in saggi biologici legati all’attività terapeutica.
L3: evidenza L2 supportata da una modalità di azione plausibile che produrrebbe un effetto terapeutico in un paziente.
L4: evidenza L3 supportata da studi clinici

L’approccio di Browning e collaboratori è stato fondamentale ed ha influenzato moltissimi ricercatori nel cosiddetto paradigma biocomportamentale. Uno dei problemi riscontrati è però che, a parte il primo livello di evidenza (L1), tutti gli altri si basano su dati di tipo fitochimico, farmacologico o clinico. Ma come analizzare le moltissime piante per le quali questi dati non fossero disponibili, o lo fossero in minima parte?

Negli anni vari autori si sono cimentati nel tentativo di espandere il programma di Browner e colleghi, partendo da alcuni assunti, che riassumo in questo modo: 1. le piante importanti come medicinali secondo il sapere tradizionale di un popolo non sono campionature random delle Flore totali, 2. le piante producono una ampia gamma di sostanze interessanti per la salute umana, 3. la sperimentazione e la scelta di certe piante da parte dei gruppi umani viene aiutata da caratteristiche organolettiche delle piante legate al contenuto fitochimico, 4. esiste una correlazione tra filogenesi e fitochimica, 5. popolazioni culturalmente e geograficamente distanti hanno meno probabilità di aver condiviso sapere etnobotanico.

Come vedremo, ognuno di questi punti, se esaminato nel dettaglio, presenta delle criticità.

Iniziamo ad esempio dall’assunto della distribuzione non random delle piante medicinali e del significato di questa distribuzione.  Come si quantifica la segregazione delle piante medicinali nei taxa di una Flora specifica, e come si compara tra Flore differenti?  Inoltre, secondo quali criteri vengono selezionate le piante medicinali da parte delle popolazioni umane? E infine, parlando di sapere tradizionale, come si identifica, e come lo si compara tra culture diverse?

Uno degli studi che hanno iniziato ad analizzare il problema della segregazione tassonomica delle piante è certamente quello di Moerman e collaboratori (1999), che hanno effettuato una analisi di 5 Flore distanti fra loro, domandandosi se vi fossero famiglie botaniche dove il numero di piante medicinali fosse superiore a quello che ci si poteva aspettare da una scelta casuale.  Nello studio gli autori hanno usato il metodo della regressione lineare per identificare i valori più probabili data una distribuzione casuale, ed hanno analizzato i valori che differivano dal valore aspettato (i residui). Ad un residuo positivo elevato corrispondeva una famiglia botanica con una maggior concentrazione di piante medicinali.  Raccolti i dati sui residui per le cinque flore, gli autori le hanno poi comparate a coppie usando l’indice di correlazione di Pearson ed hanno identificato tre famiglie sovrapponibili dominanti in quattro flore su cinque: Asteraceae, Apiaceae e Lamiaceae (da notare che le quattro flore congruenti appartengono tutte all’ecozona Olartica, e l’unica non congruente alla regione Neotropicale).

Sull’onda di questa prima pubblicazione, vari autori hanno applicato la regressione lineare all’analisi comparativa di varie Flore, nel tentativo di duplicare e completare il lavoro di Moerman.

Allo stesso tempo sono state avanzate delle critiche e proposti dei miglioramenti alle tecniche statistiche.  La regressione lineare ad esempio soffre di alcune debolezze: non è adatta a generare ipotesi confutabili, tende a favorire i taxa più numerosi, perché pone un limite massimo ai residui: una famiglia con 10 specie non potrà mai avere uno scarto >10, mentre una famiglia con 100 specie potrebbe avere uno scarto di 100.  Inoltre la regressione lineare presuppone che il rapporto tra  numero di specie medicinali e numero di specie totali (SM/ST) sia lineare, ma questo presupposto non è necessariamente giustificato.  Per finire, la suddivisione in taxa usata da Moerman e colleghi permette una comparazione discreta (la spp. x appartiene/non appartiene alla famiglia y) e non continua tra le specie, e in questo modo non riflette bene la prossimità filogenetica, oltre ad essere legata alla parziale convenzionalità della classificazione tassonomica, in modo che la stessa analisi darebbe risultati differenti a seconda di un approccio tassonomico da lumpers o da splitters.

Bennett e Husby nel 2008 hanno testato la resi di Moerman nella Flora equadoriana usando il metodo binomiale, metodo che a loro parere avrebbe permesso di generare dati utili per testare ipotesi, anche se considera comunque il rapporto SM/ST come lineare.  Più di recente Weckerle e colleghi nel 2011 hanno studiato la Flora medicinale campana comparando i metodi della regressione lineare e quello binomiale ad un approccio Bayesiano, che considera il rapporto SM/ST come una variabile random, e tutte i taxa sopraspecifici come pari, prescindendo dalle suddivisioni tassonomiche, evitando quindi il problema del favorire taxa più numerosi.

Altro problema, discusso da Bletter e in altri articoli, come quello ben descritto da Meristemi, è quello dell’origine dei dati tassonomici: solo un lavoro di analisi filogenetica specifico e quindi lungo e costoso, permetterebbe una comparazione basata su un rapporto continuo di vicinanza filogenetica.
Nonostante le grandi difficoltà, mi pare assodato che i dati in letteratura indicano che il clustering tassonomico esiste, e si può quantificare. Per quanto questo dato sia importante ed intrigante, ci rimane da porci una domanda ancora più rilevante per le possibili implicazioni pratiche: quali sono le ragioni per cui i gruppi umani tendono ad usare più di frequente certe specie piuttosto che altre?  La risposta non è scontata, se alcuni autori hanno risposto che i raggruppamenti rispondono solo a criteri di tipo simbolico, mentre altri propongono approcci più o meno radicalmente adattazionisti.

Secondo Moerman la segregazione in gruppi è dovuta per lo meno a due ordini di ragioni legati tra loro: il primo ha a che vedere con la   correlazione tra filogenesi e fitochimica, per cui gli esseri umani riconoscerebbero, grazie alle loro proprietà organolettiche, piante contenenti gruppi chimici specifici (in particolare composti amari, aromatici e piccanti), e quindi, grazie al fatto che i percorsi metabolici si conservano nelle linee evolutive vicine, tenderebbero a riconoscere specie appartenenti a taxa correlati.  Il secondo ordine ha a che vedere con la trasmissione del sapere etnobotanico. La proposta di Moerman è che le flore medicinali analizzate si assomigliano perché i gruppi umani, nelle loro trasmigrazioni nel corso della storia dal paleolitico in poi, hanno portato con se un sapere tradizionale che hanno trasmesso alle generazioni successive, tramandando di fatto l’utilizzo di certe specie o taxa piuttosto che altri. Leonti e colleghi hanno poi parlato di trasmissione non di un sapere definito e specifico ma della trasmissione di un set di criteri di scelta di vario tipo: organolettici, morfologici, ecologici, simbolici.

Questo set di criteri avrebbe permesso l’adattamento del sapere tradizionale all’esplorazione di nuove regioni biogeografiche dove le specie medicinali o addirittura le famiglie più usate in precedenza non fossero presenti o importanti.  Alla base del clustering tassonomico esisterebbe quindi il legame tra le capacità percettive dell’uomo, la fitochimica delle piante, il parallelismo tra filogenesi e fitochimica, oltre a vari fattori culturali e sistemi cognitivi. Le Asteraceae verrebbero scelte perché conterrebbero principi attivi amari facilmente riconoscibili al gusto.  Tutto questo non ci porta ancora alla conclusione che la selezione sia significativa dal punto di vista dell’attività biologica delle piante.  Non va poi dimenticato che altri autori ritengono questo paradigma troppo ambizino, e ritengono che le ragioni per le quali le piante vengono preferite potrebbero essere di altro ordine, ad esempio la loro disponibilità nelle vicinanze delle abitazioni. In questo senso le Asteraceae verrebbero scelte perché si adattano bene a condizioni di crescita in ambiente ruderale e sono quindi facilmente disponibili all’uso.

Nella prossima puntata vorrei concentrarmi sul problema della definizione e quantificabilità del concetto di sapere tradizionale.

Tidbits: cannabis

Nonostante parlare dell’utilizzo della Cannabis e dei suoi derivati come strumento per il trattamento del dolore cronico non sia più una eresia, rimane ancora difficile farlo con chiarezza e serietà e senza pregiudizi o stimmate apposte all’argomento. E’ quindi una buona notizia la pubblicazione di una review sul trattamento del dolore cronico, eseguita presso l’Università di Toronto.

La review ha considerato 18 studi clinici, diversi tipi di assunzione (cannabis fumata, estratti somministrati per via transdermica orale, analoghi del THC) e diversi tipi di dolore non legato a neoplasie (dolore neuropatico, fibromialgia, artrite reumatoide, dolore cronico di origine mista).

I risultati sono stati molto interessanti: la qualità degli studi esaminati è risultata in media eccellente (una rarità nel campo della ricerca su derivati vegetali), e 15 studi su 18 (l’83%) hanno mostrato risultati positivi per l’effetto analgesico. Un numero minore di studi ha mostrato effetti positivi sulla qualità del sonno, e comunque nessuno degli studi ha mostrato effetti collaterali particolarmente preoccupanti. I risultati migliori si sono visti con il dolore neuropatico, mentre gli effetti sono meno eclatanti per la fibromialgia e l’artrite reumatoide. Nonostante gli autori sottolineino che gli effetti, nei casi migliori, sono comunque risultati modesti, vale la pena ricordare che l’importanza di questi effetti va considerata nel contesto delle altre opzioni disponibili. Quando, come nel caso delle neuropatie, le altre opzioni (oppiacei, anestetici locali, antidepressivi) sono spesso non o poco utilizzabili o efficaci, anche una efficacia modesta è un’ottima notizia.

Rimane il fatto però che molti di coloro che utilizzano la Cannabis sativa come strumento terapeutico lo fanno non utilizzando farmaci a penetrazione transdermica orale (Sativex e simili) o i sistemi di evaporazione a basse temperature, bensì attraverso la combustione della pianta e resina secche. Di contro sono molti scarsi gli studi sugli effetti e l’efficacia della Cannabis assunta con l’inalazione del fumo.

Per questo è  interessante lo studio clinico randomizzato (e qui) sull’effetto analgesico della cannabis in casi di neuropatia cronica  eseguito da un gruppo di ricerca del McGill University Health Centre (MUHC) e della  McGill University.

I ricercatori hanno testato fumo di cannabis a tre livelli di THC: 2.5%, 6%e  9.4%. più un placebo allo 0%. I risultati sono stati anche in questo caso chiari: la dose di 25 mg al 9,4% di THC per tre volte al giorno per cinque giorni consecutivi ha portato ad una riduzione significativa dell’intensità media del dolore, la qualità del sonno è migliorata in maniera dose dipendente, l’ansia e la depressione si sono ridotte alla dose di THC pari al 9.4%

Oltre all’utilizzo della Cannabis e dei suoi derivati, i ricercatori da tempo cercano di utilizzare i cannabinoidi endogeni (endocannabinoidi), scoperti per l’appunto grazie alla ricerca sulla Cannabis, come farmaci. Il razionale è questo: lavorando sugli enzimi che degradano gli endocannabinoidi si cerca di aumentare la loro emivita aumentando quindi la loro azione ansiolitica e analgesica. Questa strategia ha funzionato per uno dei due endocannabinoidi principali, l’anandamide. Quando il suo enzima degradante, l’idrolasi delle ammidi degli acidi grassi (fatty acid amide hydrolase – FAAH) viene inibito i livelli di anandamide si elevano riducendo dolore ed infioammazione, e senza segnali di abituazione.

Diverso invece il discorso per quanto riguarda un altro endocannabinoide, il 2-arachidonilglicerolo (2AG), che sembrerebbe più promettente dell’anandamide, dato che la sua concentrazione cerebrale è naturalmente più elevata.  Infatti l’utilizzo di un bloccante selettivo dell’enzima che degrada il 2AG (la monoacilglicerolo lipasi – MAGL) porta ad un aumento dell’effetto analgesico di un fattore otto, effetto che però si riduce dopo sei giorni, e poirta a vari segnali di abituazione anche ad altre sostanze (THC e composti di sintesi con attività di legame ai recettori cannabinoidi CB1). Questi risultati implicano che a differenza dell’anandamide, il 2AG porta ad abituazione (e forse a dipendenza), probabilmente attraverso un meccanismo di downregolazione dei recettori CB1 in alcune aree del cervello.

Digestive Functional Foods 4

Dopo il post monografico, torniamo ad analizzare il dato etnobotanico. Nel seguente spezzone tento di riassumere parte dei dati etnobotanici più recenti relativi all’utilizzo dei cibi funzionali tradizionali latu sensu nei disturbi gastroenterici, cercando, quando possibile, di limitarmi a disturbi non specifici (indigestione, gonfiore, dispepsia, ecc.), e cercando di trarre qualche indicazione di massima sulla eventuale segregazione rtassonomica dei rimedi. Come vedrete le conclusioni sono chiare (ma con vari caveat): esistono poche famiglie nelle quali si concentrano molti dei rimedi, e questi rimedi sono caratterizzati molto spesso dalla presenza di principi amari, pungenti e/o aromatici.  Buona lettura!

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Digestive Functional Foods in the ethnobotanical literature

The author compiled a non-systematic survey of FF plants used world-wide for digestive complaints, limiting, when possible, the analysis to plants used only for non specific gastrointestinal complaints, to remain coherent with the spirit of the FF definition. The plants listed were mainly used as digestives, appetite stimulants, antidyspepsics, carminatives, and antispasmodics. Plants with very specific activities (antiulcer) or with specific indications (IBS, etc.) were excluded, when possible.[1]

In a paper on edible plants of Palestine,[2] of the 103 edible plants, 64 (62 %) were used as food-medicines, and the two most important botanical families for food-medicines were Asteraceae and Lamiaceae.  This is in agreement with the findings of a similar study on food plant consumption in seven Mediterranean countries.[3]
Of the 78 alimentary species collected in Cyprus, 20 (25,6%) belonged to the Asteraceae, 7 each to Apiaceae and Brassicaceae, and 6 to the Lamiaceae. 40 were used only as food, and 37 (47,4%) as both food and medicine.[4]

In a study on Sicilian wild food plants, of the 188 food species recorded, 37 (19,6%) were used as both food and medicine, and of these 12 (32,4%) belonged to Asteraceae,  4 (11%) to Lamiaceae,  3 each to Brassicaceae and Apiaceae.[5]

In a review of plant foods as medicines in Mediterranean Spain, the authors found that  the percentage of edible plants used as medicines varied between 13,39 and 21,42 (17,52% on average), and that of spices and culinary herbs used as medicines varied between 5,74 and 9,25 (7% on average). All in all an average of around 24,5% of edible plants and spices were used as medicines.[6] Lamiaceae  and Asteraceae played major roles both in terms of recorded medicinal uses (146 the former and 57 the latter, of all 559 recorded uses) and of number of species used in medicinal treatments (42 the former and 29 the latter).

According to Rivera and coworkers, of the 145 wild gathered food species from Southern Spain, 81 (55,9%) are also used medicinally, and, more importantly, 61 (42%) are administered orally using the same plant part used in the culinary preparations.  This proportion was halved when examining   cultivated food species.[7]

In an ethnobotanical research in Kenya, the authors found that wild edible-medicinal plants represent  30,2% of all edible plants.⁠

The main datum that emerges from this exercise is the predominance of some taxa.

At a higher level the Family Asteraceae dominates with 41 citations of 25 different Genera, amongst which Matricaria, Sonchus and Artemisia are the most often cited.  The second Family by number of citations is that of Lamiaceae, with 24 citations of 16 different Genera, vastly dominated by Mentha and Ocimum.

Also important are the Apiaceae family with 12 citations of 12 Genera, Zingiberaceae (9 citations of 8 Genera) and Rutaceae (9 citations of 3 Genera, dominated by Citrus spp.).

As an aside, similar data emerge when we examine functional foods in general: a significant percentage, between 20 and 60% (average 40%) of edible wild plants is used in traditional societies as a medicine; and secondly, the family  Asteraceae seem to be the main source of medicinal plant species used by traditional societies (at least in the northern hemisphere) and one of the main sources of functional foods/medicinal foods/food medicines.[8]  Lamiaceae and Apiaceae are also very important in terms of number of species used.[9]
These taxa share a similar chemical make-up: they contain very salient organoleptic compounds, such as essential oils, resins and pungent compounds, and bitter compounds, mainly in the Asteraceae and Cucurbitaceae, usually showing low toxicity.

Similar results can be seen in wider reviews including medicinal plants stricto sensu:  still dominant is the triad of Asteraceae, Lamiaceae and Apiaceae, but with a high frequency of  Euphorbiaceae (8 citations of 4 Genera), Fabaceae (15 citations of 12 Genera) and Solanaceae: all families with a potentially more toxic chemical profile, containing irritant latex, toxic lectins and cyanide-producing molecules, often characterized by a strong bitter taste. ⁠.[10]

Bitters and Spices

The majority of the plants rich in essential oil and pungent compounds have been historically classified as spices.  For most of human history, spices have been a canonical example of a fluid entity shifting from the food to the medicine field: they were sold by grocers and spice merchants but also by apothecaries and physicians; they have been used extensively as ingredients in the preparations of dishes, usually accompanying and exalting the main food crops, while at the same time being consumed as infusions and decoctions, like many other medicinal plants. When used as foods, they were very rarely the main ingredient, and seldom provide high primary metabolite intake. Even when used as a medicine, their sensual, organoleptic quality played an important role, quite apart from their effective therapeutic quality.

In fact spices are more akin to medicinal foods that FF proper, and they were ascribed potent medicinal qualities well before empirical validations were available, most probably because they resemble the prototypical medicinal product: “they are specific (have unique and distinguishing tastes), small (in volume), and powerful (in the stimuli they emit and, in many cases, physiologic action)”.

The characteristic aroma and taste of spices is imparted by volatile essential oils and pungents (mono- and sesquiterpenes plus a few shikimic acid derivatives, plus thioethers in Alliaceae and isothiocyanates in Brassicaceae) and non volatile pungent compounds (mainly belonging to the acid amine group, like capsaicin in Capsicum and piperine in Piper).

Although very different from spices in term of economic and cultural importance, bitters too have a recognized place in many different cultures all over the world, in promoting the state of health. The almost universal use of bitter-tasting drinks as aperitif, digestives or fasting tools emphasizes this important role.[11]

Pungent, aromatic and bitter compounds do not exhaust the chemical variety of digestive FF, and their predominance cannot be taken without some caution. It is in fact probable that this predominance is due to many cultural, economical and social factors beyond the biological ones. Having said that, these compounds are extremely interesting because they seem to be able to act on gastrointestinal physiology before or even without systemic absorption, hence potentially with low toxicity profiles.
Moreover, in the last ten years research on gastrointestinal physiology has focused more and more on the health implications of tastants and olfactants, and this research has blended very well with the hypothesis of the coevolution of plant secondary compounds and human defense mechanisms.

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[1] Dufour DL and Wilson WM “Characteristics of ‘wild’ plant foods used by indigenous populations in Amazonia” in Etkin 1994, Op. Cit.; Vickers WT “The health significance of wild plants for the Siona and Secoya” in Etkin 1994, Op. Cit.; Price LL “Wild food plants in farming environment”s in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Pieroni, A. and Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania”  in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; de Santayana, M.P., San Miguel, E., Morales, R. “Digestive beverages as a medicinal food in a cattle-farming community in Northen Spain (Campoo, Cantambria)”.  in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Volpato and Godinez 2006 Op. Cit.; Vanderbroek, I.,  Sanca, S. “Food medicines in the Bolivian Andes (Apillapampa, Cochabamba Department)” in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Ladio 2006 Op. Cit.; Ogoye-Ndegwa, C., Aagaard-Hansen, J. “Dietary and medicinal use of traditional herbs among the Luo of Western Kenya” in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Eddouks, M. “Aspects of food medicine and ethnopharmacology in Morocco” in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Curtin 1997, Op. cit.; Quave, C.L. and Pieroni, A “Traditional health care and food and medicinal plants use among historic Albanian migrants and Italians in Lucania, Southern Italy”. in Pieroni & Vandebroek 2007, Op. Cit.; Ceuterick, Vandebroek, Torry, & Pieroni Op. Cit; Van Andel, T and van’t Klooster, C. “Medicinal plant use by Surinamese immigrants in Amsterdam, The Netherlands: Results of a pilot market study”. in Pieroni & Vandebroek 2007, Op. Cit; Lundberg, P.C. “Use of traditional herbal remedies by Thai immigrant women in sweden” in Pieroni & Vandebroek 2007, Op. Cit; Vandebroek, I., Balick, M.J., Yukes, J., Duran, L., Kronenberg, F., Wade, C., Ososki, A.L., Cushman, L., Lantigia, R., Mejia, M., Robineau, L. “Use of medicinal plants by Dominican immigrants in New York City for the treatment of common health conditions: A comparative analysis with literatue data from the Dominican Republic” in Pieroni & Vandebroek 2007, Op. Cit; Manandhar, N.P. Plants and people of Nepal. Timber Oress, Oregon, USA, 2002; Ruffo, Birnie, Tengnas 2002 Op. Cit.; Germosen-Robineau, L Farmacopea vegetal caribena. Ed. Universitaria TRAMIL, ENDA-Caribe, 1998; Lewis, W.H., Elwin-Lewis, M.P.F. Medical Botany: Plants affecting human health 2nd edition. Wiley and sons, London, 2003; Williamson, E.M. (Ed.) Major herbs of Ayurveda. Churchill Livingstone, London, 2002; Williamson, Yongping Bao, Chen, Bucheli  2004, Op. Cit.; Akerreta, S., Cavero, R.Y., Lopez, V., Calvo, M.I. “Analyzing factors that influence the folk use and phytonomy of 18 medicinal  plants in Navarra”. Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 2007, 3:16; Lans, C. “Comparison of plants used for skin and stomach problems in Trinidad and  Tobago with Asian ethnomedicine” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 2007, 3:3; Tilahun Teklehaymanot, Mirutse Giday “Ethnobotanical study of Medicinal plants used by people in Zegie peninsula, Northwestern Ethiopia” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 2007, 3:12; Bussmann, Sharon and Lopez 2007 Op. Cit.; John Warui Kiringe “A Survey of Traditional Health Remedies Used by the Maasai of Southern Kaijiado District, Kenya” Ethnobotany Research & Applications, 2006 4:061-073;
[2] Ali-Shtayeh et al., 2008
[3] Hadjichambis ACH, Paraskeva-Hadjichambi D, Della A, Giusti M, DE Pasquale C, Lenzarini C, Censorii E, Gonzales-Tejero MR, Sanchez- Rojas CP, Ramiro-Gutierrez J, Skoula M, Johnson CH, Sarpakia A, Hmomouchi M, Jorhi S, El-Demerdash M, El-Zayat M, Pioroni A: Wild and semi-domesticated food plant consumption in seven circum-Mediterranean areas. International Journal of Food Sciences and Nutrition; 2008, 59 (5):383-414
[4] Della, Paraskeva-Hadjichambi, & Hadjichambis, 2006
[5] Lentini & Venza, 2007
[6] Rivera & Obón, 1996
[7] Rivera et al. 2005, cited in Leonti, S Nebel, Rivera, & M Heinrich, 2006
[8] Leonti, S Nebel, Rivera, & M Heinrich, 2006
[9] Ali-Shtayeh et al., 2008; Hadjichambis ACH, Paraskeva-Hadjichambi D, Della A, Giusti M, DE Pasquale C, Lenzarini C, Censorii E, Gonzales-Tejero MR, Sanchez- Rojas CP, Ramiro-Gutierrez J, Skoula M, Johnson CH, Sarpakia A, Hmomouchi M, Jorhi S, El-Demerdash M, El-Zayat M, Pioroni A: Wild and semi-domesticated food plant consumption in seven circum-Mediterranean areas. International Journal of Food Sciences and Nutrition; 2008, 59 (5):383-414; Della, Paraskeva-Hadjichambi, & Hadjichambis, 2006; Lentini & Venza, 2007; Rivera & Obón, 1996; Rivera et al. 2005, cited in Leonti, S Nebel, Rivera, & M Heinrich, 2006
[10] (Liu, et al., 2009; Long, et al., 2009; Kala, 2005; Muthu, et al., 2006; Pradhan & Badola, 2008; Bussmann & Sharon, 2006; Volpato, et al., 2009; Luziatelli, et al., 2010; Lulekal, et al. 2008; Yineger, Yewhalaw, & Teketay, 2008; Teklehaymanot & Giday, 2007; Mesfin, Demissew, & Teklehaymanot, 2009; Bhattarai, Chaudhary, & Taylor, 2006)
[11] Mills, SY, Bone, K Principles and Practice of Phytotherapy: Modern Herbal Medicine. Churchill Livingstone, 2000; Scarpa A,  Guerci A Actes du 2e Colloque European d‘Ethnopharmacologie et de  la 1 le Conférence internationale d‘Ethnomédecine, Heidelberg. 1993, 30-33; Johns 1990 Op. Cit.

Tidbits: un gusto repellente

Un altro tassello del mosaico complesso che descrive il funzionamento ed il ruolo dei sensi chimici. Naturalmente si parla di recettori TRP (Transient Receptor Potential) descritti altre volte (qui uno recente) come importanti per la traduzione di segnali chimici alimentari in effetti fisiologici.

In due studi (uno pubblicato su Neuron ed il secondo su Current Biology) il team di Craig Montell, ha testato due repellenti per insetti (DEET e citronellale, una aldeide presente in mote spp. di Cymbopogon). In entrambi i casi la repellenza è fortemente correlata con la presenza e funzionalità dei canali TRP (ed altri), responsabili per la percezione gustativa (DEET) e olfattiva (DEET e citronellale) delle sostanze. Fondamentalmente la repellenza sarebbe una vera e propria reazione di disgusto verso il sapore e l’odore delle sostanze testate.

Three taste receptors on the insects’ tongue and elsewhere are needed to detect DEET. Citronellal detection is enabled by pore-like proteins known as TRP (pronounced “trip”) channels. When these molecular receptors are activated by exposure to DEET or citronellal, they send chemical messages to the insect brain, resulting in “an aversion response,” the researchers report.

“DEET has low potency and is not as long-lasting as desired, so finding the molecules in insects that detect repellents opens the door to identifying more effective repellents for combating insect-borne disease,” says Craig Montell, Ph.D., a professor of biological chemistry and member of Johns Hopkins’ Center for Sensory Biology.

Scientists have long known that insects could smell DEET, Montell notes, but the new study showing taste molecules also are involved suggests that the repellant deters biting and feeding because it activates taste cells that are present on the insect’s tongue, legs and wing margins.

“When a mosquito lands, it tastes your skin with its gustatory receptors, before it bites,” Montell explains. “We think that one of the reasons DEET is relatively effective is that it causes avoidance responses not only through the sense of smell but also through the sense of taste. That’s pretty important because even if a mosquito lands on you, there’s a chance it won’t bite.”

The Johns Hopkins study of the repellants, conducted on fruit flies because they are genetically easier to manipulate than mosquitoes, began with a “food choice assay.”

The team filled feeding plates with high and low concentrations of color-coded sugar water (red and blue dyes added to the sugar), allowing the flies to feed at will and taking note of what they ate by the color of their stomachs: red, blue or purple (a combination of red and blue). Wild-type (normal) flies preferred the more sugary water to the less sugary water in the absence of DEET. When various concentrations of DEET were mixed in with the more sugary water, the flies preferred the less sugary water, almost always avoiding the DEET-laced sugar water.

Flies that were genetically engineered to have abnormalities in three different taste receptors showed no aversion to the DEET-infused sugar water, indicating the receptors were necessary to detect DEET.

“We found that the insects were exquisitely sensitive to even tiny concentrations of DEET through the sense of taste,” Montell reports. “Levels of DEET as low as five hundredths of a percent reduced feeding behavior.”

To add to the evidence that three taste receptors (Gr66a, Gr33a and Gr32a) are required for DEET detection, the team attached recording electrodes to tiny taste hairs (sensilla) on the fly tongue and measured the taste-induced spikes of electrical activity resulting from nerve cells responding to DEET. Consistent with the feeding studies, DEET-induced activity was profoundly reduced in flies with abnormal or mutated versions of Gr66a, Gr33a, and Gr32a.

In the second study, Montell and colleagues focused on the repellent citronellal. To measure repulsion to the vapors it emits, they applied the botanical compound to the inside bottom of one of the two connected test tubes, and introduced about 100 flies into the tubes. After a while, the team counted the flies in the two tubes. As expected, the flies avoided citronellal.

The researchers identified two distinct types of cell surface channels that are required in olfactory neurons for avoiding citronellal vapor. The channels let calcium and other small, charged molecules into cells in response to citronellal. One type of channel, called Or83b, was known to be required for avoiding DEET. The second type is a TRP channel.

The team tested flies with mutated versions of 11 different insect TRP channels. The responses of 10 were indistinguishable from wild-type flies. However, the repellent reaction to citronellal was reduced greatly in flies lacking TRPA1. Loss of either Or83b or TRPA1 resulted in avoidance of citronellal vapor.

The team then “mosquito-ized” the fruit flies by putting into them the gene that makes the mosquito TRP channel (TRPA1) and found that the mosquito TRPA1 substituted for the fly TRPA1.

“We found that the mosquito-version of TRPA1 was directly activated by citronellal,” says Montell who discovered TRP channels in 1989 in the eyes of fruit flies and later in humans.

Montell’s lab and others have tallied 28 TRP channels in mammals and 13 in flies, broadening understanding about how animals detect a broad range of sensory stimuli, including smells and tastes.

“This discovery now raises the possibility of using TRP channels to find better insect repellants.”

There is a clear need for improved repellants, Montell says. DEET is not very potent or long-lasting except at very high concentrations, and it cannot be used in conjunction with certain types of fabrics. Additionally, some types of mosquitoes that transmit disease are not repelled effectively by DEET. Citronellal, despite being pleasant-smelling (for humans, anyway), causes a rash when it comes into contact with skin.

Tidbits: eugenolo

In un ancora più recente articolo su Applied and Environmental Microbiology, si esamina l’effetto antibatterico dell’eugenolo. E’ da molto tempo noto che questo composto (presente nell’olio essenziale di chiodi di garofano, di foglia di cannella, di alcune varietà di basilico, e in molte altre piante) mostra attività antibatterica diretta, come molti dei derivati volatili del percorso dell’acido shichimico, attraverso l’interazione con la membrana e la sua destabilizzazione o lisi. In questo articolo si osserva che anche concentrazioni al di sotto del livello inibitorio agiscono sui processi patologici associati alle infezioni batteriche. In particolare l’eugenolo sembra in grado di ridurre l’espressione di varie esoproteine (due enterotossine, SEA e SEB, e la toxic shock syndrome toxin 1) mediante azione a livello dell’espressiione genica.

Eugenol, an essential oil component in plants, has been demonstrated to possess activity against both Gram-positive and Gram-negative bacteria. This study examined the influence that subinhibitory concentrations of eugenol may have on the expression of the major exotoxins produced by Staphylococcus aureus. The results from a tumor necrosis factor (TNF) release assay and a hemolysin assay indicated that S. aureus cultured with graded subinhibitory concentrations of eugenol (16 to 128 µg/ml) dose dependently decreased the TNF-inducing and hemolytic activities of culture supernatants. Western blot analysis showed that eugenol significantly reduced the production of staphylococcal enterotoxin A (SEA), SEB, and toxic shock syndrome toxin 1 (the key exotoxins to induce TNF release), as well as the expression of {alpha}-hemolysin (the major hemolysin to cause hemolysis). In addition, this suppression was also evaluated at the transcriptional level via real-time reverse transcription (RT)-PCR analysis. The transcriptional analysis indicated that 128 µg/ml of eugenol remarkably repressed the transcription of the S. aureus sea, seb, tst, and hla genes. According to these results, eugenol has the potential to be rationally applied on food products as a novel food antimicrobial agent both to inhibit the growth of bacteria and to suppress the production of exotoxins by S. aureus.

Tidbits: Vinca

Qualche breve nota su alcuni articoli sbirciati in rete:

Un articolo appena pubblicato su PNAS illustra i meccanismi di sintesi, secrezione, compartimentazione ed escrezione degli alcaloidi della Vinca (Catharanthus roseus), e descrive gli effetti che questi meccanismi hanno sulla facilità (o meno) di ottenere farmaci per il trattamento dei tumori. Infatti, mentre i farmaci derivano dall’accoppiamento dei due alcaloidi catarantina e vindolina, i percorsi metabolici ed i meccanismi di secrezioni nella pianta risultano in una compartimentazione stretta che impedisce l’accoppiamento delle due molecole nella pianta. Una di esse, la catarantina, che mostra attività antifungina ed insettorepellente, viene secreta infatti nella cera cuticolare della foglia (dove queste attività hanno più senso), mentre la vindolina è presente esclusivamente all’interno delle cellule della foglia.

The monoterpenoid indole alkaloids (MIAs) of Madagascar periwinkle (Catharanthus roseus) continue to be the most important source of natural drugs in chemotherapy treatments for a range of human cancers. These anticancer drugs are derived from the coupling of catharanthine and vindoline to yield powerful dimeric MIAs that prevent cell division. However the precise mechanisms for their assembly within plants remain obscure. Here we report that the complex development-, environment-, organ-, and cell-specific controls involved in expression of MIA pathways are coupled to secretory mechanisms that keep catharanthine and vindoline separated from each other in living plants. Although the entire production of catharanthine and vindoline occurs in young developing leaves, catharanthine accumulates in leaf wax exudates of leaves, whereas vindoline is found within leaf cells. The spatial separation of these two MIAs provides a biological explanation for the low levels of dimeric anticancer drugs found in the plant that result in their high cost of commercial production. The ability of catharanthine to inhibit the growth of fungal zoospores at physiological concentrations found on the leaf surface of Catharanthus leaves, as well as its insect toxicity, provide an additional biological role for its secretion. We anticipate that this discovery will trigger a broad search for plants that secrete alkaloids, the biological mechanisms involved in their secretion to the plant surface, and the ecological roles played by them.

Polifenoli in bottiglia

Leggendo questo lancio di agenzia sul 240 raduno nazionale della American Chemical Society mi è subito venuto in mente il bel post meristemico sul fato dei polifenoli una volta estratti nella fatidica tazza di tè verde. Nel post si spiegava in dettaglio cosa succedesse dal punto di vista chimico alla classe chimica delle catechine, ed in particolare come la loro stabilità fosse molto bassa, e variasse molto per effetto “della temperatura, del pH, dell’esposizione a luce ed ossigeno, del tempo e del tipo di acqua in cui sono solubilizzate.”

Ebbene, nel report alla American Chemical Society (qui il programma del raduno), i ricercatori Shiming Li (stipendiato dalla WellGen, Inc, una azienda di biotecnologie alimentari) e Chi-Tang Ho hanno riportato che il livello di polifenoli nei prodotti commerciali imbottigliati a base di tè (verde e nero) è estremamente basso, a volte praticamente insignificante, rispetto a quanto si potrebbe assumere bevendo una tazza di tè fresca fatta in casa. Per dare un esempio della magnitudine della differenza, una generica tazza di tè (riportano i ricercatori) può contenere da 50 a 150 mg di polifenoli. I sei tè commerciali analizzati (bottiglie da circa mezzo litro, diciamo da 3 a 4 tazze) contenevano 81, 43, 40, 13, 4, e 3 mg. di polifenoli!

Anche partendo dal livello più basso per tazza di tè (50 mg) e da quello più elevato per bottiglia (81 mg) il prodotto commerciale contiene la metà dei polifenoli del tè fatto in casa. Se prendiamo poi in esame i poli estremi, (150 mg per tazza e 3 mg per bottiglia) dovremmo bere 40 bottiglie per assorbire lo stesso ammontare di polifenoli di una tazza.

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BOSTON, Aug. 22, 2010 — The first measurements of healthful antioxidant levels in commercial bottled tea beverages has concluded that health-conscious consumers may not be getting what they pay for: healthful doses of those antioxidants, or “poylphenols,” that may ward off a range of diseases.

Scientists reported here today at the 240th National Meeting of the American Chemical Society (ACS) that many of the increasingly popular beverages included in their study, beverages that account for $1 billion in annual sales in the United States alone, contain fewer polyphenols than a single cup of home-brewed green or black tea. Some contain such small amounts that consumers would have to drink 20 bottles to get the polyphenols present in one cup of tea.

“Consumers understand very well the concept of the health benefits from drinking tea or consuming other tea products,” said Shiming Li, Ph.D., who reported on the new study with Professor Chi-Tang Ho and his colleagues. “However, there is a huge gap between the perception that tea consumption is healthy and the actual amount of the healthful nutrients — polyphenols — found in bottled tea beverages. Our analysis of tea beverages found that the polyphenol content is extremely low.”

Li pointed out that in addition to the low polyphenol content, bottled commercial tea contains other substances, including large amounts of sugar and the accompanying calories that health-conscious consumers may be trying to avoid. He is an analytical and natural product chemist at WellGen, Inc., a biotechnology company in North Brunswick, N.J., that discovers and develops medical foods for patients with diseases, including a proprietary black tea product that will be marketed for its anti-inflammatory benefits, which are due in part to a high polyphenol content.

Li and colleagues measured the level of polyphenols — a group of natural antioxidants linked to anti-cancer, anti-inflammatory, and anti-diabetic properties — of six brands of tea purchased from supermarkets. Half of them contained what Li characterized as “virtually no” antioxidants. The rest had small amounts of polyphenols that Li said probably would carry little health benefit, especially when considering the high sugar intake from tea beverages.

“Someone would have to drink bottle after bottle of these teas in some cases to receive health benefits,” he said. “I was surprised at the low polyphenol content. I didn’t expect it to be at such a low level.”

The six teas Li analyzed contained 81, 43, 40, 13, 4, and 3 milligrams (mg.) of polyphenols per 16-ounce bottle. One average cup of home-brewed green or black tea, which costs only a few cents, contains 50-150 mg. of polyphenols.

After water, tea is the world’s most widely consumed beverage. Tea sales in the United States have quadrupled since 1990 and now total about $7 billion annually. The major reason: Scientific evidence that the polyphenols and other antioxidants in tea may reduce the risk of cancer, heart disease, and other afflictions.

Li said that some manufacturers do list polyphenol content on the bottle label. But the amounts may be incorrect because there are no industry or government standards or guidelines for measuring and listing the polyphenolic compounds in a given product. A regular tea bag, for example, weighs about 2.2 grams and could contain as much as 175 mg. of polyphenols, Li said. But polyphenols degrade and disappear as the tea bag is steeped in hot water. The polyphenol content also may vary as manufacturers change their processes, including the quantity and quality of tea used to prepare a batch and the tea brewing time.

“Polyphenols are bitter and astringent, but to target as many consumers as they can, manufacturers want to keep the bitterness and astringency at a minimum,” Li explained. “The simplest way is to add less tea, which makes the tea polyphenol content low but tastes smoother and sweeter.”

Li used a standard laboratory technique, termed high-performance liquid chromatography (HPLC), to make what he described as the first measurements of polyphenols in bottled tea beverages. He hopes the research will encourage similar use of HPLC by manufacturers and others to provide consumers with better nutritional information.

Uomo e piante 6/dimoltialtri

Ritorno dopo un momentaneo ma necessario “stacco” alla mia soap su uomini e piante. Se siete ancora con me 🙂 siamo arrivato alla puntata numero 6, e le precedenti sono qui, qui, qui, qui, e qui

E’ arrivato il momento di esplicitare meglio l’ipotesi co-evolutiva della nascita della medicina, e per fare ciò è necessario fare un passo indietro per giustificare l’idea che esista una connessione significativa e preculturale tra uomo e piante.

La teoria unificata delle comunicazioni cellulari
Come ci ricorda Meinwald [1] il nostro è un modo di suoni e visioni, e tendiamo a non renderci conto degli eventi chimici che ci circondano, del fatto che tutti gli organismi emettono e rispondono a segnali di tipo chimico, formando una vasta rete di interazioni comunicative fondamentali, attrattive, difensive, associative, ecc.

Fin dalle origini della vita infatti, il problema che i primi organismi cellulari hanno dovuto risolvere è stato quello della comunicazione tra cellula ed ambiente circostante e tra cellula e cellula, ed il problema è stato risolto da tutti gli organismi nello stesso modo, attraverso il linguaggio di molecole che possono penetrare le membrane e interagire con il nucleo oppure che trovano recettori specifici sulla membrana cellulare che mediano poi dei cambiamenti interni.

Ragionando da una prospettiva abbastanza ampia è quindi ovvio che uomini e piante, anzi, animali e vegetali, debbono mostrare dei legami, non soltanto filogenetici ma di relazione, comunicativi: affinché la vita di organismi diversi, anche appartenenti a Regni differenti,  possa prosperare in uno stesso ambiente, vi sono state, e vi devono essere state, continue relazioni mediate da un linguaggio molecolare.

La “teoria unificata delle comunicazioni cellulari” vuole che queste relazioni, ed i percorsi biogenetici del metabolismo secondario che creano le molecole messaggere, siano nati molto presto nella storia dell’albero evolutivo e siano spesso comuni tra i Regni Animalia e Vegetalia. [2] Ciò significa che nonostante la distanza filogenetica tra organismi appartenenti ai due Regni, essi possano però riconoscere gli stessi messaggeri. [3] Questo dato di base spiega la possibilità delle interazioni tra piante ed animali ed il ruolo di intermediari che hanno i metaboliti secondari.

Come rispondere all’ambiente

La possibilità per una pianta di “leggere” i messaggi di altre piante le permette di rispondere a degli indizi ambientali modificando il proprio schema di risposta. Organismi animali possono usare questi indizi per riconoscere lo stato dell’ambiente esterno ed “decidere” come allocare le proprie risorse energetiche.

Un esempio di questo utilizzo dei messaggi molecolari negli animali superiori potrebbe essere legato al fenomeno della senescenza. Organismi che si siano evoluti in ambienti mutevoli possono trarre vantaggio dalla capacità di puntare su un successo riproduttivo immediato a scapito della longevità in caso di ambiente più favorevole, o di puntare sulla longevità e su una ritardata maturazione sessuale in caso di condizioni sfavorevoli. [4]

Esempi di questi percorsi di allarme comprenderebbero varie chinasi legate alla sopravvivenza delle cellule, i fattori di trascrizione NRF2 e CREB, e le deacetilasi istoniche della famiglia della sirtuina, una proteina nota come Sir2 nei lieviti e SIRT1 nell’uomo.

Le Sir2 (Silent information regulator 2), sono presenti in tutti gli organismi, dagli eubatteri agli eucarioti, compresi gli esseri umani. Svolgerebbero due funzioni primarie nei mammiferi: la prima è  coordinare gli schemi di espressione genica (ovvero decidere quali geni sono attivati e quali disattivati in ogni singola cellula, per evitare ad esempio che una cellula renale inizi ad esprimere tendenze epatiche) e mantenere la stabilità di certe regioni cromosomiche e sopprimere l’esagerata espressione di certi geni (silenziamento genico) aumentando la stabilità del genoma; la seconda è funzionare da agenti riparatori emergenziali in caso di danno al DNA. [5] Il problema sorge dal fatto che quando le sirtuine sono occupate a riparare il DNA non regolano più l’espressione dei geni. Fino a che i danni al DNA sono rari le sirtuine riescono a compiere entrambi i compiti con efficienza, ma quando questi danni aumentano (tipicamente con l’età) la de-regolazione dell’espressione genica diventa cronica, e questo sembra essere legato, nei modelli animali utilizzati, a fenotipi di senescenza. [6]

Negli ultimi decenni sono stati scoperti molti composti di origine vegetale (tre esempi sono resveratrolo, i sulforafani ed i curcuminoidi) sintetizzati in risposta a vari tipi di emergenza (siccità, radiazioni, attacchi di insetti, infezioni, ecc.) per stimolare diverse risposte adattive e la rigenerazione cellulare stimolando una maggior espressione di sirtuine ed allungando la vita media,  proteggendo le cellule da lesioni stimolando la produzione di antiossidanti, fattori neurotropici ed altre proteine correlate allo stress.

Il modello coevolutivo

Ma il legame che viene proposto va oltre al dato generalizzato della teoria unificata delle comunicazioni cellulari, anche se si fonda su di essa. Esso si basa sull’ipotesi che l’utilizzo delle piante come fonte privilegiata di nutrienti abbia plasmato la fisiologia dell’uomo.

I nostri antenati, secondo l’ipotesi antropologica attualmente più accreditata, erano onnivori-foliovori, nel senso che avevano una decisa preferenza, certamente ispirata dalla necessità, per le piante ed in particolare per le foglie. E’ molto probabile che l’uomo preferisse sempre cibo denso in energia e povero di composti tossici (carne, tuberi, frutta) piuttosto che foglie; d’altro canto tuberi e frutti non sono disponibili tutto l’anno e sono più difficili da scovare, mentre le foglie sono più facilmente sfruttabili perché sono sempre presenti su tutto il territorio antropizzato, ed è probabile che siano sempre stati parte della dieta, oltre ad essere un “salvavita” in caso d’emergenza.

Questa forzata “convivenza alimentare” con le piante ci ha costretti a confrontarsi con molteplici messaggi chimici (spesso difensivi e quindi tossici) ai quali è stato necessario fornire delle risposte, cioè adattarsi, in qualche modo co-evolversi con essi e con le piante che li contenevano.

La tesi sostenuta da un certo filone antropologico (vedi Johns [12]) è che l’adattamento abbia fatto sì che le proprietà che rendevano le piante tossiche o non commestibili (limitando le possibilità di alimentazione dell’uomo) siano le stesse che le hanno rese attive a livello farmacologico (rappresentando quindi un fattore di promozione della salute). La nostra specie, nell’adattarsi alle tossine delle piante, le ha portate ad essere una parte essenziale della nostra ecologia interna, le ha “introiettate” facendo sì che non ci danneggiassero (o almeno non ai livelli ai quali le ingeriamo) ma anzi che potessero esserci utili.

Ne consegue l’ipotesi che gli esseri umani selezionino le piante sulla base della loro composizione chimica e che l’ingestione dei composti chimici vegetali sia parte di una risposta adattiva integrata che possiede elementi biologici e culturali, e che la nostra eredità biologica, associata allo snodo essenziale costituito dalla rivoluzione neolitica (la domesticazione delle piante e la loro coltivazione), pongano le basi per la nascita dell’uso medicinale delle piante. [7]

Questa ipotesi è andata rafforzandosi nei decenni grazie ai molti studiosi che l’hanno corroborata con vari pezzi di puzzle.


Prove indirette: i nostri simili
Un supporto, seppur indiretto, alla tesi che l’utilizzo delle piante a scopo medicinale da parte dell’uomo abbia origini preculturali e coevolutive viene dagli studi sulla zoofarmacognosia, ovvero sull’automedicazione con le piante da parte degli animali non umani. [8]

Glander, Lozano, Huffman ed altri autori portano vari esempi di zoofarmacognosia, alcuni dei quali riporto di seguito. [9]

Gli elefanti malesi si cibano di una leguminosa [Entada schefferi Ridley – Fabaceae] prima di intraprendere un lungo cammino; in India i cinghiali selvatici dissotterrano e si nutrono in maniera selettiva delle radici di Boerhavia diffusa L. [Nyctaginaceae], usate anche dagli esseri umani come rimedio antelmintico, mentre i maiali si ciberebbero delle radici del melograno [Punica granatum L. — Punicaceae] per la sua tossicità sui nematodi. Gli scimpanzè maschi della Tanzania occidentale, nei periodi dell’anno nei quali aumentano le infestazioni di nematodi, utilizzano le foglie di Aspilia spp. (spesso A. mossambicensis) [Asteraceae] seguendo un rituale molto particolare e completamente diverso dalla ritualità normalmente associata all’alimentazione: arrotolano le foglie, le mettono tra lingua e guancia e poi le ingoiano senza masticarle.

Va notato che Aspilia contiene principi attivi antibatterici, antifungini e antelmintici (thiarubrina A), e che la modalità di assunzione potrebbe favorire l’assorbimento di tali composti attraverso le mucose della guancia. Gli scimpanzè mostrano altri comportamenti molto interessanti: le femmine ingeriscono foglie di Lippia plicata Bak. [Verbenaceae] (usata dagli indigeni come stomachico ed insetticida) quando sembrano avere dei disturbi gastrointestinali, e vari maschi malati sono stati notati mentre succhiavano il midollo del fusto di Vernonia amygdalina Del. [Asteraceae], una pianta molto amara (contiene lattoni sesquiterpenici amari, antelmintici e antischistosomiaci), raramente usata a scopo alimentare ma comune nella medicina tradizionale dell’Africa orientale in caso di febbri malariche, schistosomiasi, dissenteria amebica, elmintiasi, diarrea, mal di stomaco, inappetenza e scorbuto, e dagli agricoltori in caso di parassiti intestinali dei maiali.

Negli esseri umani la Vernonia è efficace contro Giardia lamblia, ossiuri e nematodi dei generi Ancylostoma, Uncinaria, Necator. E’ interessante notare come i primati utilizzino raramente le foglie e la corteccia della pianta, nonostante la maggior concentrazione in composti attivi. Il fatto che queste parti della pianta contengano anche composti tossici è una possibile spiegazione di questo comportamento. I primati utilizzano in maniera simile anche i fusti di Palisota hirsuta (Thunb.) K. Schum. [Commelinaceae] e Eremospatha macrocarpa (Mann and Wendl.) Wendl. [Palmae].

Alouatta palliata (una scimmia urlatrice) mostra una frequenza molto ridotta, rispetto agli scimpanzè, di carie o gengiviti, dato in parte spiegabile con la dieta povera in frutta zuccherina, ma forse anche con il consumo di anacardi [Anacardium occidentale L. — Anacardiaceae], frutti che contengono acido anacardico e cardolo, composti attivi contro i batteri gram-positivi tipici della carie; le stesse scimmie urlatrici sono soggette a parassitosi gastrointestinale, ma quelle di loro che si alimentano anche con frutti dei ficus [Ficus spp. — Moraceae] lo sono di meno. Dato che il latice di Ficus è antelmintico, è possibile che il consumo di foglie e frutti contribuisca ad abbassare il carico di parassiti. [10]

Uno dei primati meno comuni (Brachyteles arachnoides) è preda, come altri, di parassitosi intestinale, ma tra i gruppi che ne soffrono di meno si nota uno schema di alimentazione particolare.  All’inizio della stagione delle piogge questi individui fanno uno sforzo particolare per mangiare piante che prima non assaggiavano, in particolare le leguminose Apuleia leiocarpa (J. Vogel) J.F. Macbr. e Platypodium elegans Vogel. [Fabaceae] (ricche in composti antimicrobici e isoflavoni).

I Colobus rossi normalmente preferiscono foglie giovani, ricche in proteine e povere in tannini ed altri composti fenolici, ma di quando in quando mangiano foglie ad elevato contenuto in tannini, che potrebbero servire per detossificare gli alcaloidi e ridurre il gonfiore intestinale. [11]

I babbuini soffrono comunemente di schistomatosi, ed è stato notato, nei gruppi che vivono presso le cascate Awash (Etiopia), un comportamento particolare degli individui che ne sono affetti gravemente: essi si nutrono di foglie e frutti di Balanites aegyptiaca (L.) Del. [Zygophyllaceae], che contengono diosgenina, attiva contro Schistosoma cercariae.

Prove dirette: la fisiologia ed il comportamenti umani. [12]
Se l’ipotesi appena esposta è valida, ci deve essere rimasta qualche traccia del processo co-evolutivo nel nostro organismo, sia di tipo fisiologico che comportamentale. La difficoltà sta però nel riconoscere se e quali di queste caratteristiche siano tracce coevolutive, perché ci è dato interpretarle come tali solo a posteriori, senza il beneficio di una prova diretta, ma solo tramite inferenze.

Ad esempio, gli esseri umani hanno un intestino adatto a cibi densi di nutrienti ma mantengono una certa capacità di digerire fibre, e possono sopportare dosi relativamente elevate di composti allelopatici; l’uomo è inoltre capace di sopperire al proprio fabbisogno di acidi grassi essenziali tramite i loro precursori presenti nei vegetali.  Queste caratteristiche potrebbero indicare una consuetudine dell’uomo con le piante. Si è anche ipotizzato che la preferenza dell’uomo per il sale (di più di un ordine di magnitudo superiore al suo fabbisogno) potrebbe essere spiegato con la carenza di sodio nelle piante della savana dove Homo si è evoluto, e, come si è visto più sopra, l’incapacità di sintetizzare la vitamina C potrebbe essere spiegata con la sua ubiquità ed abbondanza nei vegetali.

La presenza nella saliva dell’uomo di proteine ricche in prolina (PRP) è un altro importante esempio: l’uomo è in grado di rispondere all’ingestione di tannini mantenendo le parotidi in uno stato di induzione, tanto che il 70% delle secrezioni salivari è del tipo PRP: queste PRP possono servire a legare i tannini presenti nel cibo e renderli meno irritanti per il tratto gastrointestinale e forse per renderli meno attivi sul cibo che ingeriamo (riducendone gli effetti antinutrizionali).

Esempi più generici del rapporto dell’uomo con sostanze velenose sono il vomito ed i sensi chimici.


Il vomito è un istintivo meccanismo di rigetto di una sostanza che si è immediatamente riconosciuta come tossica o in qualche modo non desiderata.

I sensi chimici, gusto ed olfatto mostrano di poter discriminare sostanze vegetali potenzialmente pericolose da altre potenzialmente utili (discriminando tra amaro e dolce ad esempio), e mostrano di poter attivate risposte condizionate molto potenti, in particolare quelle negative associate al cibo. Ciò significa che a seguito di un malessere gastrointestinale legato temporalmente (a prescindere dal legame causale) all’ingestione di cibo, il sapore e l’odore di quel cibo saranno legati al malessere rendendo molto difficile cibarsene ancora. Questo è un tipo di meccanismo di apprendimento, perché una sostanza che abbia provocato un malessere gastrointestinale probabilmente è tossica, o comunque dobbiamo considerarla come tale. [13]

C’è una differenza importante tra olfatto e gusto, perché il primo, essendo molto più plastico del gusto, è meno legato alla percezione negativa, mentre quest’ultimo, essendo limitato alla discriminazione di quattro o cinque sapori, è più fortemente e più meccanicamente legato alla risposta condizionata.


Altro indizio molto rilevante è la presenza di enzimi detossicanti a livello epatico (e in misura minore renale, intestinale e polmonare), enzimi che rendono meno tossiche e facilmente eliminabili varie sostanze di origine vegetale, e che non sono molto specializzati, non hanno cioè la capacità di detossificare sempre e con efficienza una sostanza particolare, ma hanno la capacità plastica di adattarsi a molti problemi diversi, e questo è un indizio che si situa bene nel quadro di una dieta umana prevalentemente onnivora-foliovora (da cui l’esistenza di enzimi che hanno come substrato delle sostanze vegetali), con fonti alimentari molto diversificate (da cui la necessità di plasticità nella risposta).

Possiamo considerare il ruolo degli enzimi detossificanti in congiunzione con la neofobia, cioè il fatto che l’uomo adulto mostri la tendenza ad esser circospetto rispetto alle sostanze che deve assumere. [14]

Dato che il meccanismo epatico esiste per detossificare una sostanza potenzialmente tossica, il fatto di assaggiare sempre piccole quantità di un cibo o di una sostanza nuova permette di non avvelenarsi accidentalmente, e di non sovraccaricare i meccanismi detossificanti. Quindi la combinazione dei due meccanismi ci può permettere di assaggiare un cibo nuovo che può essere pericoloso senza però morire dopo averlo assaggiato.

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Note al testo

[1] Eilser T, Meinwald J (1995) “Preface” in Thomas Eilser and Jerrold Meinwald (eds) Chemical ecology: The Chemistry of Biotic Interaction National Academy Press Washington, D.C. 1995

[2] Roth J., Leroith D. (1987) The Sciences, May-June:51

[3] Lamming D.W., Wood J.G., Sinclair D.A. (2004) “Small molecules that regulate lifespan: evidence for xenohormesis”. Mol Microbiol; 53(4):1003-9; Howitz, K.T., Bitterman, K.J., Cohen, H.Y., Lamming, D.W., Lavu, S., Wood, J.G., et al. (2003) “Small molecule activators of sirtuins extend Saccharomyces cerevisiae lifespan”. Nature 425: 191–196; Mattson MP, Cheng A. (2006) “Neurohormetic phytochemicals: Low-dose toxins that induce adaptive neuronal stress responses”. Trends Neurosci; 29:632–9

[4] Kuzawa C et al. (2008) “Evolution, developmental plasticity and metabolic disease” in SC Stearns and JC Koella (eds.) Evolution in health and disease 2nd edition Oxford UP; Austad SN, Finch CE (2008) “The evolutionary context of human aging and degenerative disease” in in SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.; Ackermann M e Pletchr SD (2008) “Evolutionary biology as a foundation for studying aging and origin-related disease”. In SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.

[5] Guarente, L. (2000) “Sir2 links chromatin silencing, metabolism and aging” Genes Dev 14:1021-1026

[6] Oberdoerffer et al (2008) “SIRT1 redistribution on chromatin promotes genome stability but alters gene expression during aging”; Cell 135,  6

[7] Con questo non si intende proporre l’appiattimento della cultura sulla natura, la riduzione della medicina a fatto biologico e della malattia a rapporto ecologico. Nè si suppone che l’utilità presente dei composti xenobiotici per l’organismo che li ingerisce siano in parte o del tutto riconducibili ad adattamenti passati. Una origine evolutiva, spiega bene Gould (Gould, S.J. “Darwin tra fondamentalismi e pluralismo”. In Pino Donghi (a cura di) La medicina di Darwin. Roma, Laterza, 1998) non si appiattisce su quella adattiva, perché la selezione naturale non esaurisce tutti i meccanismi evolutivi, e l’enorme chemiodiversità delle piante (che esprimono circa i 4/5 di tutti i i composti farmacologicamente attivi conosciuti) offrirebbe comunque materiale farmacologicamente attivo al di là dei rapporti ecologici animale-pianta.

[8] Nel lavoro seminale in questo campo (Rodriguez, E., R. Wrangham. H. Stafford e Downum K. eds., (1993) “Zoopharmacognosy: The use of medicinal plants by animals”. Recent advances in phytochemistry, 89-105) gli autori (responsabili anche del conio del termine zoofarmacognosi) scrivono che:

“The combination of natural products, trichomes and other leaf features are important in the fitness of wild animals,”…“the observation of animals using plants is not new since Amazonian Indians and many people of the African forests tell of how animals use plants and how they copy the animals”

[9] Glander K.E. “Nonhuman primat self-medication with wild plant foods”. In N.L., Etkin  (Ed.), 1994 op. cit. pp. 227-239; Lozano, G.A. (1998) “Parasitic stress and self-medication in wild animals” Advances in the study of behaviour. 27: 291-317; Huffman M.A. (2001) “Self-medicative behavior in the African Great Apes: An evolutionary perspective into the origins of human traditional medicine”. BioScience.; Vol. 51(8): pp. 651-661.

[10] Una ipotesi più difficile da sostanziare ma affascinante è quella che vuole che l’ingestione di piante da parte delle femmine di Alouatta serva a modificare il normale rapporto maschio/femmina della prole, Glander (1994 op. cit.) ipotizza che alcuni composti delle piante ingerite possano modificare la concentrazione ionica delle mucose vaginali delle femmine, e che questo a sua volta possa modificare selettivamente l’accesso degli spermatozoi che portano un cromosoma X rispetto a quelli a Y dato che X è elettropositivo mentre Y è elettronegativo.

[11] Lo stesso fanno altri primati ed è difficile spiegare questo comportamento senza chiamare in causa la zoofarmacognosi anche perché i tannini sono forse l’unico gruppo di composti che non sono detossificabili se non parzialmente. I tannini possono legarsi e precipitare, e quindi inattivare, le molecole azotate, come appunto gli alcaloidi. Interessante notare che i Colobus mangiano anche terre ricche in caolino (geofagia), che grazie alla loro elevata capacità di adsorbimento possono intrappolare e rendere indisponibili all’assorbimento varie tossine (e nutrienti).

[12] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press; Consiglio, C. e Siani V. (2003) Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri

[13] Le risposte condizionate positive, cioè quelle che potrebbero essere molto utili, sono invece molto meno forti, più labili, di quelle negative.

[14] Il bambino è molto meno neofobico, ed anche questo è un meccanismo evolutivo: esso deve infatti poter fare esperienza del mondo, deve poter “assaggiare” in vari modi la realtà che lo circonda. L’uomo adulto invece, raggiunto il suo bagaglio di esperienze, sta più attento.

Sudomagodo…

… di ottima salute.

Verrà pubblicato nell’edizione di agosto di Cell Metabolism uno studio su modelli animali, quindi preliminare, ma che si aggiunge a dati aneddotici e tradizionali sul ruolo che il peperoncino può avere nella riduzione della ipertensione arteriosa. Particolarmente interessante è il ruolo giocato dal recettore vanilloide vascolare nel rilascio di NO, il meccanismo proposto dagli autori per l’attività ipotensiva. Sia i recettori vanilloidi sia l’ossido nitrico sono stati studiati molto negli ultimi anni e sembrano giocare ruoli molto importanti (in particolare NO) in moltissimi scenari. Un altro piccolo tassello che lega i principi pungenti ad attività farmacologiche.

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For those with high blood pressure, chili peppers might be just what the doctor ordered, according to a study reported in the August issue of Cell Metabolism, a Cell Press publication. While the active ingredient that gives the peppers their heat—a compound known as capsaicin—might set your mouth on fire, it also leads blood vessels to relax, the research in hypertensive rats shows.

“We found that long-term dietary consumption of capsaicin, one of the most abundant components in chili peppers, could reduce blood pressure in genetically hypertensive rats,” said Zhiming Zhu of Third Military Medical University in Chongqing, China.

Those effects depend on the chronic activation of something called the transient receptor potential vanilloid 1 (TRPV1) channel found in the lining of blood vessels. Activation of the channel leads to an increase in production of nitric oxide, a gaseous molecule known to protect blood vessels against inflammation and dysfunction, Zhu explained.

The study isn’t the first to look for a molecular link between capsaicin and lower blood pressure. However, earlier studies were based on acute or short-term exposure to the chemical, with some conflicting results. Zhu says their study is the first to examine the effects of long-term treatment with capsaicin in rats with high blood pressure.

The findings in rats should be confirmed in humans through epidemiological analysis, the researchers said. In fact, there were already some clues: the prevalence of hypertension is over 20% in Northeastern China compared to 10-14% in Southwestern China, including Sichuan, Guozhuo, Yunnan, Hunan, and Chongqing, where Zhu is from.

“People in these regions like to eat hot and spicy foods with a lot of chili peppers,” Zhu says. “For example, a very famous local food in my hometown, Chongqing, is the spicy hot pot.”

It isn’t yet clear just how many capsaicin-containing chili peppers a day you’d have to eat to “keep the doctor away,” although that’s a question that should now be examined in greater detail, Zhu says.

For those who can’t tolerate spicy foods, there might still be hope. Zhu notes the existence of a mild Japanese pepper, which contains a compound called capsinoid that is closely related to capsaicin.

“Limited studies show that these capsinoids produce effects similar to capsaicin,” Zhu says. “I believe that some people can adopt this sweet pepper.”