Otto seminari otto

cattedra

Negli anni ho tenuto vari corsi sulle piante medicinali, primariamente indirizzati a studenti/esse di Tecniche Erboristiche, ad erboristi/e, a farmacisti/e e medici.

In fase di progettazione dei corsi ho sempre cercato di inserire una parte dedicata alla metodologia di ricerca e agli strumenti di analisi delle evidenze, ma questo approccio non ha mai incontrato un grande successo, e posso capirne il perché: a causa del tempo limitato che i professionisti riescono a dedicare all’aggiornamento, spesso la tentazione è di accumulare quante più informazioni possibili da poter spendere praticamente nel lavoro quotidiano.  Discorsi teorici sulla validità delle evidenze, sul loro reperimento, sulla loro valutazione possono sembrare solo ostacoli e ritardi inutili,  in fondo chi viene a seguire il corso implicitamente considera il docente come fonte attendibile.

Io penso invece che, in un’ottica che vada al di là dell’immediatamente utile, tale approccio vada ripensato.  Proprio perché il tempo (ed i soldi) sono limitati è utile sviluppare in proprio gli strumenti che ci permettono di formarci da soli una opinione sulle informazioni che riceviamo, senza dovere ogni volta iscriversi ad un altro corso che darà informazioni sparse che inevitabilmente saranno obsolete nel giro di relativamente poco tempo.  Se questo discorso vale per tutti i professionisti, vale a mio parere ancora di più per gli erboristi.

A differenza di medici e farmacisti, chi lavora con le piante medicinali ha un corpus di evidenza sul quale basare le proprie decisioni più limitato e di qualità più variegata. Inoltre le fonti di evidenza sono più diversificate, non essendo limitate a dati sperimentali e clinici, ma comprendendo anche dati storici ed etnobotanici. Gli erboristi non hanno quindi a disposizione facili ed esaustivi formulari, e devono spesso valutare da soli l’importanza di un dato, e devono inoltre  possedere diverse competenze per decifrare lo scenario.

Inoltre l’impressione che mi sono fatto in questi anni è che spesso chi lavora nel campo erboristico mantiene un atteggiamento diffidente e pregiudiziale nei confronti della “Scienza”.

Seppure possa capire da dove proviene questo sentimento, credo che esso sia ingiustificato, e che in realtà impedisca di mettere in campo critiche serie al modo in cui la ricerca viene fatta.  Come non mi stanco di ripetere, l’unico modo per pretendere che i dati storici sulle piante medicinali vengano presi seriamente in considerazione è di essere scientificamente stringenti e metodologicamente esigenti (ho coperto questi argomenti in una serie di post su questo blog, in particolare in Indici quantitativiIndicazioni tradizionali, e Uomo e piante)

Tutto questo per dire che sono molto contento che la S.I.S.T.E. abbia accettato la mia proposta di un corso di otto seminari sulle piante medicinali, i cui due primi appuntamenti saranno interamente dedicati alla problematica dei metodi di ricerca scientifica, e al problema di come valutare ed utilizzare i dati provenienti da storia della medicina ed etnobotanica.

I seminari si terranno a Milano, presso la sede della S.I.S.T.E., i lunedì, dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 17.30, con il seguente calendario: 15 Aprile; 13 Maggio; 27 Maggio; 10 Giugno; 16 Settembre; 14 Ottobre; 11 Novembre; 16 Dicembre.

E’ possibile scaricare il programma dei seminari e la domanda di iscrizione qui.

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Il corso sarà diviso in due parti, la prima dedicata, come già accennato, alle basi della ricerca, mentre la seconda cercherà di delineare lo stato dell’arte sulle piante medicinali che hanno una base di evidenza più solida, dividendo gli argomenti per apparato.

Di seguito il programma completo.

Seminario 1. (15/4) La ricerca in fitoterapia.
Le basi: la logica della ricerca. 
Scienza: non una vacca sacra e neppure un “discorso” tra tanti. Demistificare per valutare.

Breve introduzione alla scienza con il metodo del riepilogo storico.

Cosa è il metodo scientifico? Ovvero, esiste un metodo scientifico? Alcune ragioni per dubitare ma non per disperare. Tentativi di inquadramento dei termini chiave.

Il problema della demarcazione, ovvero, di chi mi devo fidare anche se fa male?

Le basi: la logica della medicina
– Cause
– Malattia e normalità
– Credere, dubitare e sospendere il giudizio
– Prove
– Bias
– Confounding

Seminario 2. (13/5) Gli strumenti a nostra disposizione
Le fonti di informazione a nostra disposizione e più rilevanti per la fitoterapia
– Ricerca storica ed etnobotanica
– Fitochimica ed evoluzione
– Studi in vitro ed in vivo
– Studi clinici
– Metastudi
– Limiti e punti di forza dei vari studi.
L’interpretazione dei dati
– Cenni di epidemiologia
– Come leggere gli studi e come attribuire valori di evidenza e di rilevanza agli studi
– Come costruire una gerarchia delle evidenze
– Cenni ai problemi più generali della ricerca.

Seminario 3. (27/5) Stato dell’arte della ricerca sulle piante. 
– Una visione sullo stato dell’arte: definizioni.
– Le piante con maggiori livelli di evidenza per l’efficacia
– I dati tossicologici
– Interazioni negative e positive

Gli utilizzi delle piante e gli apparati.
Ogni seminario presenterà brevi cenni di fisiopatologia dell’apparato/sistema in questione, ed esaminerà le piante rilevanti che abbiano un sufficiente supporto clinico e sperimentale, oltre a suggerire quali altre piante potrebbero essere utili seppure con un supporto minore.

Seminario 4. (10/6)
– Tonici ed adattogeni
– Antibiotici, immunomodulanti.

Seminario 5. (16/9)
– Apparato gastrointestinale: problemi funzionali (dispepsia, sindrome dell’intestino irritabile, reflusso), gastrite, stipsi, diarrea, disbiosi, problemi epatobiliari
– Apparato genito-urinario: le infezioni del tratto urinario, disturbi funzionali della minzione, iperplasia prostatica benigna, calcolosi

Seminario 6. (14/10)
– Apparato cardiocircolatorio: ipertensione, aritmie, palpitazioni, insufficienza venosa cronica.
Metabolismo: dislipidemie, disglicemie, prediabete, sindrome metabolica

Seminario 7. (11/11)
– Apparato muscoloscheletrico: dolori reumatici, traumi, dolori muscolari
– Apparato nervoso periferico e centrale: ansia, stati depressivi, insonnia,

Seminario 8. (16/12)
– Apparato tegumentario: acne, eczema, psoriasi, micosi cutanee.
– Apparato respiratorio: le malattie da raffreddamento, le bronchiti, la tosse, otite, sinusite, rinite allergica

 

 

 

“A proposito… non avresti un rimedio per le colichette?”

Una review sistematica di Perry e collaboratori sulle coliche infantili (qui l’articolo scaricabile) mi offre il destro per trattare un argomento sfuggente ma sempre presente quando si lavora con mamme e bambini: le colichette

I risultati della review sulle terapie alternative per le coliche sono abbastanza chiare: i dati non sono sufficienti a dare indicazioni certe, anche se l’estratto di finocchio e la preparazione Colimil (contenente finocchio, camomilla e melissa) possono vantare risultati clinici positivi.

Vale però la pena sottolineare che l’ambiguità dell’entità Coliche Infantili rende più difficile progettare una review sistematica o una metanalisi veramente significativa. E’ probabile infatti che a questa etichetta fenomenologica corrispondano una molteplicità di eziologie, quella gastrointestinale rappresentando solo una tra le tante. Una review sistematica dei rimedi erboristici (da sempre mirati a problemi di spasmi intestinali) dovrebbe poter analizzare solo il sottoset di disturbi di chiara origine gastrointestinali, per poter valutare chiaramente l’efficacia dei rimedi.

Ma vediamo più nel dettaglio cosa si intenda per coliche (qui un resoconto di una conferenza del 2000, datata ma ancora utile per inquadrare il problema).

Nonostante siano apparentemente una delle tante evenienze dei disturbi spastici intestinali, le “coliche” dell’infante (piuttosto comuni: 17-25% dei neonati secondo alcuni autori, 10-30% secondo altri) sfuggono ad una definizione precisa, e da qualche anno non sono più considerate necessariamente associate a disturbi gastrointestinali, ma definite come “parossismi di pianto e irritabilità inspiegabili che durano per più di 3 ore al giorno, per più di 3 giorni alla settimana, che continua da più di 3 settimane”.

Sappiamo da alcuni dati che le crisi tendono a ridursi e cessare intorno ai 4 mesi di età, ma il 30% dei bimbi piange fino ai 3 anni, ed il 10% fino ai 4-5 anni (qui una review).
Secondo una ricerca britannica a due settimane di vita ne soffrono il 43% degli infanti che allattano al biberon ed il 16% di quelli che allattano al seno. A 6-7 settimane la percentuale dei bambini allattati al biberon scende al 12% e quella degli allattanti al seno sale al 31%.

Alcuni autori hanno proposto che esse siano una normale distribuzione del pianto nell’infante, altri invece vedono nelle coliche una condizione patologica (qui, qui, e qui) ed identificano alcune cause probabili (in grassetto), ed altre meno corroborate:
1. Iperperistalsi/dismotilità gastrointestinale
2. Allergie alle proteine del latte vaccino
3. Intolleranza al lattosio
4. Disturbo della relazione infante-genitore
5. Anormale risposta neurofisiologica a normali input esogeni ed endogeni

6. Alterazioni ormonali
7. Fumo durante la gravidanza
8. Alterazioni nella microflora intestinale del neonato

E’ possibile che tra questi fattori si instaurino dei circoli viziosi, ad esempio le coliche possono far nascere il dubbio alla madre di non essere capace di allattare, questo la può mettere in crisi e mettere in crisi la sua relazione con l’infante, con peggioramento della situazione. Oppure il pianto causa una eccessiva ingestione di aria che causa gonfiore e dolore, e via dicendo.

Una proposta di eziopatogenesi che tenta di unire alcune delle cause proposte vorrebbe che certi neonati siano predisposti all’intolleranza verso le proteine del latte e ad una dismotilità intestinale con ipersensibilità/iperalgesia nelle prime settimane di vita. Questi processi porterebbero a stress ed alterazione delle percezioni, con una interpretazione anormale (dolore) di normali input (gonfiore addominale).

La realtà è che non si sà individuare una causa unica (dato questo che viene mimetizzato dal pomposo termine “disturbo idiopatico”), che probabilmente siamo di fronte ad un disturbo multifattoriale, o forse a diversi disturbi raggruppati in maniera artificiale. .

L’approccio migliore, secondo Lucassen e collaboratori è ricordare che: non si conosce la causa ma la condizione è benigna e non è associata a condizioni più gravi; che passerà dopo i tre mesi o poco dopo, e se non passa certamente scemerà; che non è legata ad errori nell’allattamento, e non ha senso passare dalla formula normale al latte di soia; e che in definitiva nessuno degli approcci farmacologici sembra utile più della semplice rassicurazione

Dieta
Nella review di Lucassen e collaboratori si propone di non parlare più di coliche dell’infante bensì di distinguere (secondo il modello di Carey) tra 1. pianto normale, 2. pianto eccessivo secondario (nell’ipotesi degli autori, secondario ad allergia a latte vaccino) e 3. pianto eccessivo primario (ovvero idiopatico, ovvero di cui non si conosce la causa).

Da questa review sistematica (criticata però in molto dei suoi punti, sia nel progetto che nella metodologia statistica utilizzata, vedi qui tre lettere al BMJ in risposta all’articolo pubblicato), si evidenzia che l’eliminazione delle proteine del latte vaccino è stata utile se al loro posto è stata usata una formula ipoallergenica, mentre la sostituzione con latte di soia e con formule a basso contenuto in lattosio sono dubbie; che il trattamento farmacologico con Diciclomina è stata efficace ma ha causato effetti collaterali severi, mentre quello con simeticone non ha mostrato di essere di beneficio.

Il suggerimento degli autori di tentare con una settimana di formula ipoallergenica non deve essere letto come universale: il latte ipoallergenico deve essere usato per i bimbi solo se sono allattati con il biberon, mentre in caso di allattamento al seno si avviserà la madre di non usare latticini. Inoltre la sostituzione non è vista come trattamento delle coliche infantili ma come diagnostica per discriminare tra pianto eccessivo primario e pianto eccessivo secondario all’allergia da latte vaccino.

In conclusione, è sensato modificare la dieta della madre in allattamento solo se fosse particolarmente ricca in cibi che causano flatulenza, come latticini, broccoli, cavoli e le altre brassicaceae, succo d’arancia; oppure se fosse ricca in caffeina.

E le piante?
Secondo la tradizione le piante possono dare una mano in alcuni casi di coliche, specialmente quando sia evidente un gonfiore addominale, o l’infante soffra di flatulenza. In questi casi le piante carminative sono l’approccio di elezione, in forma di infuso. Dato che molto spesso le piante carminative sono anche piante miorilassanti e rilassanti in genere, e dato che questi effetti sono tutti desiderabili, la classe delle piante aromatiche e ricche di olii essenziali è la più importante.
Ne menziono alcune delle più utilizzate con i bambini: Matricaria recutita, Melissa officinalis, Nepeta cataria, Lavandula vera. Più carminative le piante Mentha xpiperita, Foeniculum vulgare e Anethum graveolens. Se l’effetto tranquillizzante fosse particolarmente importante è possibile aggiungere Tilia spp.
Una combinazione in forma di infuso solubile contenente Matricaria recutita, Verbena officinalis, Glycyrrhiza glabra, Foeniculum vulgare e Melissa officinalis è stata testata in uno studio clinico prospettico in doppio cieco con placebo su bambini di tre settimane con coliche infantili; il dosaggio arrivava ad un massimo di 150 mL per dose, usata ad ogni episodio di colica, ma non più di tre volte al giorno. Dopo sette giorni di trattamento il punteggio sulla scala di miglioramento era migliore nel gruppo verum, e una maggior percentuale (57%) di bambini ha terminato lo studio senza coliche rispetto al placebo (26%).
Come detto all’inizio di questo post, la review sistematica di Perry, Hunt e Ernst (2010), che ha analizzato 15 studi clinici di qualità per un totale di 994 bambini, ha concluso che l’estratto di finocchio ed una formula contenente finocchio, melissa e camomilla mostrano efficacia in studi clinici controllati con placebo, di buona (ma non ottima) qualità.

Altre pratiche utili
Sempre in caso di chiara presenza di gas intestinali il massaggio sull’addome in senso orario con olio tiepido/caldo sembra utile, anche se non è chiaro se l’utilità derivi dall’azione specifica sul tratto gastrointestinale oppure su una azione tranquillizzante generale.

Tidbits: cannabis

Nonostante parlare dell’utilizzo della Cannabis e dei suoi derivati come strumento per il trattamento del dolore cronico non sia più una eresia, rimane ancora difficile farlo con chiarezza e serietà e senza pregiudizi o stimmate apposte all’argomento. E’ quindi una buona notizia la pubblicazione di una review sul trattamento del dolore cronico, eseguita presso l’Università di Toronto.

La review ha considerato 18 studi clinici, diversi tipi di assunzione (cannabis fumata, estratti somministrati per via transdermica orale, analoghi del THC) e diversi tipi di dolore non legato a neoplasie (dolore neuropatico, fibromialgia, artrite reumatoide, dolore cronico di origine mista).

I risultati sono stati molto interessanti: la qualità degli studi esaminati è risultata in media eccellente (una rarità nel campo della ricerca su derivati vegetali), e 15 studi su 18 (l’83%) hanno mostrato risultati positivi per l’effetto analgesico. Un numero minore di studi ha mostrato effetti positivi sulla qualità del sonno, e comunque nessuno degli studi ha mostrato effetti collaterali particolarmente preoccupanti. I risultati migliori si sono visti con il dolore neuropatico, mentre gli effetti sono meno eclatanti per la fibromialgia e l’artrite reumatoide. Nonostante gli autori sottolineino che gli effetti, nei casi migliori, sono comunque risultati modesti, vale la pena ricordare che l’importanza di questi effetti va considerata nel contesto delle altre opzioni disponibili. Quando, come nel caso delle neuropatie, le altre opzioni (oppiacei, anestetici locali, antidepressivi) sono spesso non o poco utilizzabili o efficaci, anche una efficacia modesta è un’ottima notizia.

Rimane il fatto però che molti di coloro che utilizzano la Cannabis sativa come strumento terapeutico lo fanno non utilizzando farmaci a penetrazione transdermica orale (Sativex e simili) o i sistemi di evaporazione a basse temperature, bensì attraverso la combustione della pianta e resina secche. Di contro sono molti scarsi gli studi sugli effetti e l’efficacia della Cannabis assunta con l’inalazione del fumo.

Per questo è  interessante lo studio clinico randomizzato (e qui) sull’effetto analgesico della cannabis in casi di neuropatia cronica  eseguito da un gruppo di ricerca del McGill University Health Centre (MUHC) e della  McGill University.

I ricercatori hanno testato fumo di cannabis a tre livelli di THC: 2.5%, 6%e  9.4%. più un placebo allo 0%. I risultati sono stati anche in questo caso chiari: la dose di 25 mg al 9,4% di THC per tre volte al giorno per cinque giorni consecutivi ha portato ad una riduzione significativa dell’intensità media del dolore, la qualità del sonno è migliorata in maniera dose dipendente, l’ansia e la depressione si sono ridotte alla dose di THC pari al 9.4%

Oltre all’utilizzo della Cannabis e dei suoi derivati, i ricercatori da tempo cercano di utilizzare i cannabinoidi endogeni (endocannabinoidi), scoperti per l’appunto grazie alla ricerca sulla Cannabis, come farmaci. Il razionale è questo: lavorando sugli enzimi che degradano gli endocannabinoidi si cerca di aumentare la loro emivita aumentando quindi la loro azione ansiolitica e analgesica. Questa strategia ha funzionato per uno dei due endocannabinoidi principali, l’anandamide. Quando il suo enzima degradante, l’idrolasi delle ammidi degli acidi grassi (fatty acid amide hydrolase – FAAH) viene inibito i livelli di anandamide si elevano riducendo dolore ed infioammazione, e senza segnali di abituazione.

Diverso invece il discorso per quanto riguarda un altro endocannabinoide, il 2-arachidonilglicerolo (2AG), che sembrerebbe più promettente dell’anandamide, dato che la sua concentrazione cerebrale è naturalmente più elevata.  Infatti l’utilizzo di un bloccante selettivo dell’enzima che degrada il 2AG (la monoacilglicerolo lipasi – MAGL) porta ad un aumento dell’effetto analgesico di un fattore otto, effetto che però si riduce dopo sei giorni, e poirta a vari segnali di abituazione anche ad altre sostanze (THC e composti di sintesi con attività di legame ai recettori cannabinoidi CB1). Questi risultati implicano che a differenza dell’anandamide, il 2AG porta ad abituazione (e forse a dipendenza), probabilmente attraverso un meccanismo di downregolazione dei recettori CB1 in alcune aree del cervello.

La dose è tutto 1/3

Una discussione di lavoro di qualche giorno fa mi ha riportato alla mente un argomento che ho sempre ritenuto centrale per la traduzione dei dati scientifici, storici ed antropologici sulle piante medicinali in prassi clinica: il dosaggio efficace.
Questo non è un argomento nuovo o sorprendente, è abbastanza chiaro a tutti che perché un farmaco abbia effetto sarà necessario assumerlo alle dosi efficaci (e non superare le dosi tossiche).

Anche in erboristeria/fitoterapia questo è un argomento ovvio: se ad esempio andiamo a vedere le quantità di pianta secca utilizzate nelle tisane vediamo che esse spesso corrispondono a grandi linee ai dati tradizionali ed ai dati moderni.
Anche forme galeniche più moderne come gli estratti secchi vengono abbastanza spesso offerte in quantità che corrispondono come ordine di grandezza ai dati scientifici.
Esiste però una strana area grigia dove i normali ragionamenti ed i metodi di trasformazione dei dosaggi da una forma galenica ad un’altra sembrano essere dimenticati: le tinture idroalcoliche, ed in particolare le TM, o Tinture Madri.

In effetti il problema con l’utilizzo degli estratti idroalcolici è triplice:

  1. la preferenza data alle TM piuttosto che altre forme di estrazione idroalcolica.
  2. l’utilizzo di una forma di misurazione del dosaggio (le gocce) intrinsecamente impreciso e che porta sistematicamente a sottodosaggi.
  3. l’utilizzo di posologie spesso sganciate dai dati scientifici e storico-antropologici.

I termini della quaestio
Vale la pena fare un passo indietro ed intenderci sul significato dei termini.
  Per estratti idroalcolici (o alcoliti) si intendono molti preparati diversi che si ottengono per l’azione, a freddo, dell’alcol etilico di varia gradazione su materiale vegetale fresco o secco.
Tra gli alcoliti troviamo le tinture idroalcoliche classiche (ad esempio le tinture officinali da Farmacopea Ufficiale o FU), ovvero quei preparati che si ottengono (per macerazione e per percolazione) con l’azione solvente di una miscela di alcol etilico ed acqua (a volte con aggiunta di piccole quantità di altri cosolventi) su droghe vegetali essiccate.

Di norma, e ragionando spannometricamente, la tinturazione da secco viene eseguita con un rapporto di 1 a 5 tra materiale vegetale secco (grammi) e solvente (millilitri), con il solvente idroalcolico che varia tra 50% e 85% di alcol.
Nulla però impedisce di effettuare estrazioni con rapporti diversi, ad esempio per ottenere concentrazioni più elevate (senza l’uso di calore): si possono in alcuni casi con il metodo della percolazione ottenere estratti con rapporto 1:3, e eccezionalmente, con sistemi di percolatori posti in serie ed alcuni artifizi tecnologici, 1:2.

Gli alcolaturi (o alcolituri) sono degli alcoliti ottenuti facendo agire l’alcol sulle piante fresche (macerazione) o sul loro succo (espressione).

Le TM sono un caso particolare di alcolaturi, ovvero degli alcolaturi per i quali i rapporti ponderali (1 parte di pianta in peso secco per 10 parti di prodotto finale) e i tempi di estrazione sono definiti in maniera stringente dalle farmacopee tedesca (succo da spremitura della pianta fresca stabilizzato con etanolo in quantità tale da arrivare ad un rapporto tra pianta calcolata al secco e prodotto finale pari a 1:10) e francese (estrazione di pianta fresca con un solvente etanolico a gradazione adeguata in quantità tale da raggiungere un rapporto tra pianta calcolata al secco e prodotto finale pari a 1:10).

Primo problema: perché le TM?

Modificare il rapporto tra pianta e solvente (o più precisamente tra pianta e prodotto finale) significa modificare la quantità di estratto che deve essere assunto per assumere una quantità data di fitocomplesso.
Ipotizziamo che la dose efficace di pianta secca, desunto dai dati tradizionali e scientifici, sia di 1 grammo:

  • se io assumo 1 mL di un estratto 1:5, sto assumendo intorno a 0,2 grammi di pianta secca, quindi dovrò assumere 5 mL di estratto al giorno;
  • se assumo 1 mL di estratto 1:2 sto assumendo 0,5 grammi di pianta secca, quindi dovrò assumere 2 mL di estratto al giorno;
  • se assumo 1 mL di un estratto 1:10 (ad esempio una TM), sto assumendo intorno a 0,1 grammi di pianta secca, quindi dovrò assumere 10 mL di estratto al giorno!

E’ chiaro che, a parità di pianta e di qualità dell’estratto, è preferibile assumere 2 mL di estratto al giorno piuttosto che 10 mL, sia in termini economici sia in termini di salute. Da questo punto di vista è abbastanza ovvio che le TM sono una forma estrattiva poco efficiente, più costosa e quindi meno indicata, in presenza di alternative più concentrate (parliamo sempre di estrazioni idroalcoliche a freddo).

Uno degli argomenti più utilizzati da coloro che preferiscono l’uso delle TM è che esse siano di maggior qualità rispetto alle altre. Questa maggior qualità risiederebbe nel fatto che l’estrazione viene effettuata su pianta fresca, non sottoposta a processi di essicazione che possono ridurne la qualità, e sull’ipotesi che l’utilizzo dell’acqua proveniente dalla matrice vegetale piuttosto che aggiunta dall’esterno avvicini di più la tintura al vero fitocomplesso; qualche autore ha anche proposto che le tinture da pianta fresca siano maggiormente biodisponibili.

E’ sicuramente vero che l’essiccazione è un processo di trasformazione che, se effettuato senza adeguate cautele, può risultare nell’abbassamento, anche rilevante, della qualità del materiale vegetale, soprattutto quando si tratti di materiale aromatico. D’altro canto non sempre l’essiccazione (eseguita con le dovute cautele) è controindicata, è vero anzi che alcune piante devono essere essiccate. Molte piante ad alcaloidi hanno un comportamento più prevedibile e meno pericoloso se sono state essiccate e le piante ad antrachinoni devono essere essiccate e conservate per almeno un anno prima della trasformazione).

Mancano invece dati tratti che mostrino una maggior concentrazione di composti attivi nelle tinture da pianta fresca rispetto a quelle da pianta secca. Oltretutto, le tinture da pianta fresca vengono solitamente preparate in ambienti a minor tasso etanolico, il che significa che composti più lipofilici rischiano di non venire estratti o di venire estratti in minor misura. Inoltre, se il tasso alcolico è basso, potrebbe essere inefficace nell’inibire l’attività enzimatica, rischiando una decomposizione dei composti chiave.

Per comprendere meglio il problema della tinturazione da fresco facciamo un esempio: una tintura da pianta fresca con rapporto peso secco/solvente pari a 1:5.

  • 100 gr. di pianta fresca contenente 80% di acqua vengono macerati in 20 ml di alcol etilico
  • Il peso secco della pianta è di 20 gr
  • Il volume del liquido è di 80 ml (acqua della pianta) + 20 ml (etanolo aggiunto) = 100 ml
  • Il risultato è equivalente ad una tintura 1:5 da pianta secca (20 gr pianta secca:100 ml liquido)

Ma il risultato rischia di essere di cattiva qualità perché la concentrazione d’etanolo finale è molto bassa (25%), insufficiente ad estrarre composti lipofilici e al limite dell’inattivazione enzimatica e della conservabilità.
Se vogliamo che la percentuale alcolica sia ragionevole, dobbiamo accontentarci di tinture dell’ordine del 1:8-1:10, estremamente diluite e quindi poco adatte alla terapia (a parte droghe eroiche o tossiche).

La maggior biodisponibilità viene quindi spesso obliterata dall’elevata diluizione di queste preparazioni, obbligando il paziente a bere quantità rilevanti di tintura, cosa che solitamente incide pesantemente sulla compliance del paziente stesso.

Concludendo, non emergono in letteratura dati che indichino una generalizzata e significativa maggior qualità delle tinture da pianta fresca rispetto alle tinture da pianta secca (a parità di qualità del materiale vegetale e del processo di trasformazione).

Anche di fronte ad un teorico piccolo margine di qualità maggiore per le TM, esso a mio parere è del tutto obliterato dai punti negativi: usare TM significa aumentare in maniera non necessaria il costo del trattamento fitoterapico, assumere maggiori quantità di etanolo e rendere meno comoda la terapia.

Ancora sul resveratrolo

Molto di moda in questi anni, il resveratrolo è oggetto di vari studi che si concentrano sugli effetti antiageing, antiossidanti, antinfiammatori e promotori della longevità. Abbiamo avuto modo di parlarne in altri post legati alle sirtuine (qui e qui), ma oggi evidenzio uno studio (presto pubblicato su Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism) che pur non presentando novità teoriche mette un mattoncino importante nella traduzione dei dati sperimentali in applicazioni cliniche. Come spesso succede con gli estratti vegetali, molto di ciò che sappiamo sul resveratrolo deriva da studi su animali. Lo studio seguente suggerisce che il resveratrolo sia efficace nel ridurre lo stress ossidativo ed infiammatorio anche negli esseri umani sopprimendo la formazione di ROS e di TNF.

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Resveratrol, a popular plant extract shown to prolong life in yeast and lower animals due to its anti-inflammatory and antioxidant properties, appears also to suppress inflammation in humans, based on results from the first prospective human trial of the extract conducted by University at Buffalo endocrinologists.

Results of the study appear as a rapid electronic publication on the Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism website and will be published in an upcoming print issue of the journal.

The paper also has been selected for inclusion in Translational Research in Endocrinology & Metabolism, a new online anthology that highlights the latest clinical applications of cutting-edge research from the journals of the Endocrine Society.

Resveratrol is a compound produced naturally by several plants when under attack by pathogens such as bacteria or fungi, and is found in the skin of red grapes and red wine. It also is produced by chemical synthesis derived primarily from Japanese knotweed and is sold as a nutritional supplement.

Husam Ghanim, PhD, UB research assistant professor of medicine and first author on the study, notes that resveratrol has been shown to prolong life and to reduce the rate of aging in yeast, roundworms and fruit flies, actions thought to be affected by increased expression of a particular gene associated with longevity.

The compound also is thought to play a role in insulin resistance as well, a condition related to oxidative stress, which has a significant detrimental effect on overall health.

“Since there are no data demonstrating the effect of resveratrol on oxidative and inflammatory stress in humans,” says Paresh Dandona, MD, PhD, UB distinguished professor of medicine and senior author on the study, “we decided to determine if the compound reduces the level of oxidative and inflammatory stress in humans.

“Several of the key mediators of insulin resistance also are pro-inflammatory, so we investigated the effect of resveratrol on their expression as well.”

The study was conducted at Kaleida Health’s Diabetes-Endocrinology Center of Western New York, which Dandona directs.

A nutritional supplement containing 40 milligrams of resveratrol was used as the active product. Twenty participants were randomized into two groups of 10: one group received the supplement, while the other group received an identical pill containing no active ingredient. Participants took the pill once a day for six weeks. Fasting blood samples were collected as the start of the trial and at weeks one, three and six.

Results showed that resveratrol suppressed the generation of free radicals, or reactive oxygen species, unstable molecules known to cause oxidative stress and release proinflammatory factors into the blood stream, resulting in damage to the blood vessel lining.

Blood samples from persons taking resveratrol also showed suppression of the inflammatory protein tumor necrosis factor (TNF) and other similar compounds that increase inflammation in blood vessels and interfere with insulin action, causing insulin resistance and the risk of developing diabetes.

These inflammatory factors, in the long term, have an impact on the development of type 2 diabetes, aging, heart disease and stroke, noted Dandona.

Blood samples from the participants who received the placebo showed no change in these pro-inflammatory markers.

While these results are promising, Dandona added a caveat: The study didn’t eliminate the possibility that something in the extract other than resveratrol was responsible for the anti-inflammatory effects.

“The product we used has only 20 percent resveratrol, so it is possible that something else in the preparation is responsible for the positive effects. These agents could be even more potent than resveratrol. Purer preparations now are available and we intend to test those.”

Isoflavoni della soia e salute delle ossa

Un altro studio sugli effetti degli isoflavoni della soia, che aggiunge confusione al quadro già incerto. Lo studio non ha mostrato un miglioramento in termini di densità ossea in donne post menopausa, anche se il dosaggio di isoflavoni più elevato (comunque abbastanza basso – 120 mg/die) in associazione a fattori non farmacologici (stili di vita) ha mostrato una associazione ad un moderato miglioramento.  Come per altri casi di fitoterapia alimentare (ad esempio gli antiossidanti) anche gli insuccessi possono forse aiutarci a capire se e quali differenze intercorrano tra l’assunzione di alcuni composti fitochimici isolati piuttosto che inseriti nella loro naturale matrice vegetale. Come suggeriscono gli autori l’insuccesso può essere dovuto all’inefficacia degli isoflavoni in genere, alla  forma galenica utilizzata, al dosaggio, alla mancanza di una matrice o di altri composti proteici non compresi nella selezione dell’estratto.

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Scientists already know much about the more than 200 bones that make up your body. But mysteries remain regarding the exact role that many natural compounds in foods might play in strengthening our skeletons. Those compounds include estrogen-like substances known as soybean isoflavones.

Agricultural Research Service (ARS) physiologist Marta D. Van Loan and other researchers learned more about these compounds in a 3-year study–the longest of its kind–reported earlier this year in the American Journal of Clinical Nutrition. Van Loan is with the ARS Western Human Nutrition Research Center at the University of California-Davis.

Because of its potential as a possible substitute for conventional steroid hormone replacement therapy for postmenopausal women, soy has been the subject of more than two dozen studies conducted here and abroad during the past decade. According to Van Loan, some of those investigations suggest that soy enhances bone health.

Van Loan teamed up with Iowa State University researcher D. Lee Alekel and others for the 3-year investigation to determine whether isoflavones extracted from soy protein would protect postmenopausal volunteers against bone loss. Participants in the study took either a placebo tablet or a tablet containing one of two moderate amounts of the isoflavones–80 milligrams (mg) or 120 mg–for the duration of the investigation.

Overall, the isoflavones had no significant positive effect on preventing bone loss. However, the 120-mg treatment showed a modest benefit when evaluated in conjunction with lifestyle factors.

The researchers suggest that the body’s response to isoflavones extracted from soy proteins may be different from responses to isoflavones in their natural matrix of soy protein or soy foods, or in a soy-protein supplement. Or, some soy-protein compound other than the extracted isoflavones may have been responsible for the bone-protecting effects seen in some previous studies. Finally, the isoflavone doses used in the 2010 study may not have been high enough to produce a bone-sparing effect.

Stress ossidativo e infiammazione nel malato oncologico

Ricevo  dalla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, e pubblico

Il 27 marzo 2010 a Milano, presso la Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, si terrà il convegno

“Stress ossidativo e infiammazione nel malato oncologico”

Breve orientamento sul convegno:

Tutti ne parlano, anche la televisione trasmette spot pubblicitari sugli antiossidanti.
Si tratta di argomenti di grande attualità, per questo riteniamo che possa essere utile approfondire il tema degli antiossidanti e dell’infiammazione, in particolare nella gestione del malato oncologico, anche nell’ottica della prevenzione di malattie.

I relatori presenti sono tutti di grande livello, tra di essi spicca il Premio Nobel 2008 per la Medicina, prof. Luc Montagnier, a loro si aggiungerà il valore aggiunto di ogni singolo iscritto che potrà portare nelle discussioni il proprio contributo.

Con la presente Vi invito ad iscrivervi e a diffondere questa mail ai Medici, Farmacisti e Biologi di vostra conoscenza che riteniate interessati agli argomenti proposti, certo che tutti noi trarremo da questo evento non solo conferme di ciò che già sappiamo, ma anche spunti di riflessione e, soprattutto, notizie pratiche di immediata applicabilità nella professione.

Dr. Alberto Laffranchi

Responsabile scientifico del Gruppo Me.Te.C.O. (Medicine e Terapie Complementari in Oncologia), Organizzatore dell’evento.

Nota: Il costo iscrizione è stato inevitabile per poter sostenere la giornata, abbiamo comunque cercato di contenerlo e fino al 2 marzo sarà ridotto del 30%, per questo se siete dell’idea di iscrivervi, vi invito a farlo rapidamente.

Programma_27marzo

Il suino in casa – 3

Oops, quasi mi ero dimenticato dei post suini, ecco quindi l’ultimo il penultimo della serie, per parlare di altre strategie (sempre vegetali) di gestione delle infezioni virali, a parte gli olii essenziali di cui si è già parlato qui e qui.

Se, come è stato detto, la strategia direttamente virucida è interessante dal punto di vista teorico ma poco praticabile in pratica, almeno per adesso, quali altre strategie abbiamo a nostra disposizione?

Per capirlo bisogna dare un’occhiata ai fattori facilitanti le infezioni per capire se possiamo modificarli. Schematizzando grandemente individuerei i seguenti punti:

  • Fattori ambientali come clima freddo, correnti d’aria improvvise ed ambienti eccessivamente riscaldati e non adeguatamente umidificati, che, attraverso un’azione riflessa del SNA (raffreddamento mani e piedi ad esempio), riducono il flusso ematico alle mucose, causano ischemia e una riduzione nella concentrazione di anticorpi e un raffreddamento delle mucose.  Questi  fattori  portano ad una temporanea riduzione dell’immunità e ad una facilitazione nella riproduzione di virus e batteri.
  • Condizioni generali del sistema respiratorio. Possibile danneggiamento e guarigione incompleta dei tessuti a causa di molteplici infezioni ed infiammazioni respiratorie
  • Trattamento antibiotico cronico e/o eccessivo, con danneggiamento della flora batterica intestinale e del sistema linfatico intestinale
  • Vita sedentaria e mancanza d’esercizio, particolarmente nei bambini iperprotetti dal freddo.

L’intervento su questi fattori é di primaria importanza in ogni approccio naturale alle infezioni, e contribuisce a limitarne la ricorrenza.  I questi casi una prescrizione automatica di un immunomodulante come l’Echinacea non e più intelligente della prescrizione di antibiotici, solo meno dannosa.  E’ inutile utilizzare immunostimolanti se prima non si e lavorato sulle condizioni più generali di salute.

Una volta presisi cura di questo aspetto, vi sono naturalmente molte piante che possono essere di grande aiuto.

Trattamento fitoterapico

Nello specifico, nel combattere un’infezione virale cercheremo le seguenti attività:

  • Immunomodulazione
  • Attività antivirale in senso lato
  • Azione troporestorativa sui tessuti interessati all’infezione
  • Miglioramento del metabolismo epatico e generale per sostenere l’organismo
  • Applicazioni topiche virucide, antinfiammatorie, analgesiche e antipruriginose.

Piante immunomodulanti

Piante che sono genericamente stimolanti per la risposta immunitaria, o usate tradizionalmente per la profilassi delle infezioni croniche.

  • Andrographis paniculata
  • Picrorrhiza kurroa
  • Echinacea spp
  • Allium sativum
  • Astragalus membranaceus
  • Eleutherococcus senticosus
  • Grifola frondosa
  • Ganoderma lucidum
  • Lentinus edodes
  • Andrographis paniculata

Piante che lavorano al livello dei recettori Toll-like (TLR)
E’ nozione generale che il sistema immunitario naturale non possa operare in maniera discriminativa ma affronti le infezioni in maniera generica o non specifica, attraverso la fagocitosi, l’espressione di citochine e la chemiotassi, e che per una risposta sistemica fosse necessario il coinvolgimento del dei leucociti B e T.  Ma le ricerche degli ultimi anni hanno mostrato che anche questo comparto possiede alcune proprietà discriminative.

La scoperta dei recettori Toll-Like (TLR) nelle membrane e nelle membrane cellulare di macrofagi e cellule dendritiche ha mostrato che essi possono mediare risposte sistemiche, riconoscendo caratteristiche specifiche di batteri, virus e funghi. Essi sembrano emergere come degli snodi importanti per l’attività immunomodulante e proinfiammatoria; dieci membri di questa classe di recettori sono stati riscontrati negli esseri umani.

Nei mammiferi questi recettori svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento di composti virali, micotici e batterici (Takeda et al. 2003; Seya et al 2006), che funziona come percorso per l’attivazione di risposte sistemiche, che prima si pensavano essere limitate al sistema immunitario specifico. E’ un sitema estremamente antico e conservato in molte linee evolutive, che una volta attivato, facilita il rilascio e la traslocazione nucleare del fattore nucleare NF-kB, che a sua volta causa una secrezione di citochine proinfiammatorie ed immunomodulanti (Oshiumi et al. 2003; Cooper 2006).

Sembra che alcune componenti delle piante medicinali (polisaccaridi) possano scatenare l’espressione di alcuni TLR ed iniziare una risposta di immunosorveglianza (Cooper 2006). Le piante a polisaccaridi che hanno mostrato attività sui TLR sono:  Astragalus membranaceus (Shao et al; 2004b), Ganoderma lucidum (Shao et al, 2004a), Panax ginseng (Nakaya; Pugh)  Panax quinquefolius (Pugh), Echinacea angustifolia e purpurea (Pugh), Eleutherococcus senticosus (Han), Platycodon grandiflorum (Yoon) e forse Spirulina (Balachandran et al. 2006).  Dato che i polisaccaridi sono insolubili in alcol, è necessario assumere queste piante in forma di polvere, infuso o decotto.

Piante che modificano l’equilibrio Th-1/Th-2
Molto si è sentito parlare negli ultimi anni dell’equilibrio tra linfociti T helper tipo 1 e tipo 2 nella genesi di problematiche autoimmuni, allergiche o in problemi di ridotta efficienza antivirale del sistema immunitario.
I linfociti Th (CD4+) sono responsabili dell’attivazione e facilitazione della risposta immunitaria cellulare ed umorale. In particolare sembra che il Th1 tenda a favorire la Immunità cellulo mediata, proinfiammatoria, mediante l’espressione di IL-2 e INF-gamma, mentre il Th2  stimola la Immunità umorale (linfociti B) tramite l’espressione di IL-4 e IL-5.

Uno sbilanciamento verso uno o l’altro polo d’attivazione potrebbe essere alla base di vari disturbi.  Ad esempio uno sbilanciamento a favore del comparto Th2, il sistema immunitario, in risposta ad una infezione virale, produce molti anticorpi ed è estremamente reattivo, ma al contempo produce poche risposte cellulomediate e quindi non riesce a gestire i virus verso cui si è allertato.

Questo può portare ad episodi d’allergia o reazione immunitaria esagerata, ed anche alla non completa risoluzione dell’infezione virale.
Sempre in via teorica, quindi, piante che fossero in grado di riportare l’equilibrio verso Th-1 potrebbero essere utili in caso di problemi virali.  Alcune di queste piante sono:

  • Allium sativum
  • Astragalus membranaceus
  • Ganoderma lucidum
  • Grifola frondosa
  • Panax ginseng

NB: Le Echinacea spp. potrebbero essere controindicate in caso di dominanza Th2, perchè aumentando rapidamente il numero di linfociti T circolanti potrebbe aggravare un preesistente disequilibrio verso Th2 (ma questa è una considerazione solo teorica).

Materia Medica Immunomodulante

1. Panax quinquefolium (Araliaceae)

Studi clinici: in alcuni studi clinici controllati il Panax quinquefolium ha ridotto l’incidenza, durata e severità di raffreddore e influenza in soggetti sani e malati. Uno studio di 4 mesi su 323 soggetti (età 18-65) ha testato 400 mg (in due dosi) di estratto di P. quinquefolium standardizzato all’80% di poli-furanosil-piranosil-saccaridi contro il placebo. Nel gruppo verum il numero di episodi di raffreddore riportati è calato del 9.2%, il rischio di contrarre un raffreddore si è ridotto del 12.8%, rispetto al gruppo placebo; inoltre la severità dei sintomi e la loro durata sono calati rispettivamente del 31% e del 34.5% rispetto al gruppo placebo (Predy et al. 2005).

In un secondo studio sono stati testati 43 anziani, con la stessa posologia (ma con estratto standardizzato differente), e per la stesso lasso di tempo. Dopo un mese tutti i soggetti hanno ricevuto il vaccino antinfluenzale. Per i primi due  mesi non sono state notate divergenze tra i due gruppi, mentre negli ultimi due mesi solo il 32% dei soggetti del gruppo verum (rispetto al 62% del gruppo placebo) ha riportato una infezione del tratto respiratorio, ed anche la durata dei sintomi è risultata più bassa (5.6 giorni contro 12.6 nel gruppo placebo) (McElhaney et al. 2006).

2. Andrographis paniculata (Burm. f.) Nees. (Acanthaceae)

Un tonico amaro con interessanti attività immunostimolanti, antipiretiche e antiinfiammatorie, con attività confermata su infezioni batteriche e virali respiratorie, enteriche e urinarie. Classificata come pianta fredda, quindi preferibile utilizzarla in caso di soggetti di costituzione calda o nelle fasi infiammatorie delle infezioni. Sconsigliata in condizioni ‘fredde’, come nel caso di una costituzione fredda oppure nel caso di ‘freddo’ di origine esterna come è spesso il caso nei primi stadi infettivi.

Farmacologia: stimola risposta immunitaria antigene specifica e non antigene specifica in modelli sperimentali, stimola la fagocitosi in vitro e in modelli animali (endovena) (Farnsworth, Bunyapraphatsara 1992; Kapoor, 1990).

Studi clinici
Immunostimolante in studi non controllati di infezioni respiratorie batteriche e virali.  In uno studio controllato in doppio cieco e randomizzato, un estratto somministrato a bambini sani per tre mesi nella stagione invernale ha diminuito in maniera significativa  l’incidenza e la severità dei sintomi del raffreddore (Bone e Mills 2000).

Una combinazione con Eleutherococcus senticosus (Andrographis (88.8 mg) + Eleutherococcus (10.0 mg) tre volte al giorno per 3-5 giorni) è risultata efficace in uno studio cinico contro antivirali classici, su 540 soggetti con influenza. Il 30.1% dei soggetti nel gruppo verum hanno sviluppato complicanze rispetto al 67.8% del gruppo placebo, e la durata dei sintomi è stata minore nel gruppo verum (Kulichenko et al. 2003).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1,5-3 gr. di pianta secca, in grado di apportare 20-40 mg di andrografolide. Ovvero 15-30 ml di TM, o 400-600 mg ES (5:1) standardizzato al 6-10% di andrografolide.

3. Echinacea angustifolia DC; E. purpurea (L.) Moench (Asteraceae)


Farmacologia: (Barret et al 1999; Bone & Mills 2000; Bergner 1997; Wagner 1997
L’estratto di E. angustifolia ha mostrato, in vitro: aumento fagocitosi degli eritrociti e dei granulociti; aumento della funzione immunitaria cellulare delle cellule mononucleate in soggetti normali e immunocompromessi.

Ciò che rende interessante la pianta è che sembrerebbe poter stimolare l’attività delle cellule NK e dei monociti, le cellule che costituiscono la prima linea di difesa dell’organismo. Questa potenzialità risulterebbe da una doppia azione: la pianta e le alchilamidi inibiscono COX e 5-LOX, riducendo i fenomeni infiammatori, ed in particolare riducendo (agendo su 5-LOX) i livelli della PGE2, una prostaglandina che sopprime l’attività delle cellule NK. Inoltre la pianta, i polisaccaridi (arabinogalattano) e le alchilamidi, stimolano in maniera non specifica i fagociti/monociti, con aumento della secrezione di beta interferone, TNF alfa e IL 1, tutte sostanze che stimolano le cellule NK, e l’attività antivirale.

Le ricerche recenti sul ruolo delle alchilamidi nell’attività immunomodulanti della pianta hanno rivelato una interessante interazione di alcune di esse con i recettori cannabinoidi. In particolare sembra che tramite l’interazione con il recettore CB2 le alchilammidi modulino l’espressione di TNF-alfa in monociti e macrofagi, e di IL-6. Ci sarebbe inoltre un effetto sulla espressione di IL-8 non mediato da CB2. Questa catena di azioni porterebbe ad un effetto analgesico, antitumorale ed antinfiammatorio.

Uno studio molto recente ed estremamente interessante è la review della Miller (2005) sugli studi del suo team su modelli murinici. Pur basato su ricerca su modelli animali, l’articolo è estremamente significativo: l’Echinacea è stata somministrata a dosaggi paragonabili a quelli umani (dosi pari a 1.3 gr di radice essiccata per un soggetto di 70 Kg) e per via orale. I risultati indicano che Echinacea sembra in grado di: stimolare la proliferazione delle cellule NK e dei monociti nel midollo di topi giovani e sani; stimolare la stessa proliferazione in caso di topi vecchi e sani, e soprattutto di riportare queste cellule  alla loro originaria funzionalità (persa nei topi a causa dell’età), attività questa non riscontrata in altri composti stimolanti le NK (indometacina e IL-2).

In nessun caso echinacea ha stimolato la proliferazione di altri comparti immunitari. Lo stesso studio mostra come questi effetti siano legati all’utilizzo della pianta in toto, piuttosto che a singole molecole isolate. Ancora più interessante il fatto che l’assunzione cronica della pianta non solo non ha mostrato di essere di detrimento, ma anzi ha mostrato un continuo effetto di profilassi. La stessa dose di echinacea orale, usata su topi leucemici ha mostrato un raddoppio del numero di cellule NK ed un aumento statisticamente significativo della sopravvivenza.

Una scoperta ancora più recente getta una luce del tutto nuova sull’echinacea ma anche su molte altre piante. Quattro studi molto recenti (Pugh et al. 2005; El-Obeid et al. 2006a; El-Obeid et al. 2006b; Sava, et al. 2001) si sono concentrati sulla melanina di origine vegetale, isolandola da Nigella sativa, Camellia sinensis, Echinacea spp., Medicago sativa ed altre piante. Secondo gli autori, la melanina sarebbe un composto particolarmente importante per l’attività immunomodulante ed antiossidante.

Questa, se confermata, sarebbe una scoperta sorprendente, dato che fino ad oggi la melanina non è mai stata considerata importante dal punto di vista farmacologica, è poco e male caratterizzata, non è un metabolita secondario, si sa poco su quali siano le migliori modalità di estrazione, e la possibilità che si creino degli artefatti sperimentali è elevata (Sava, et al. 2001).

Secondo (Pugh et al. 2005) la melanina da Echinacea e da Medicago sativa sarebbe differente dalle altre melanine vegetali, sarebbe più efficace come immunomodulante (con aumento di gamma-interferone dalla milza e di IgA ed IL-6 dalle placche di Peyer, e agirebbe tramite l’attivazione di NF-kB nei monociti attraverso un recettore Toll-like (TLR 2) (Pugh et al. 2005) o forse altri recettori. Anche gli altri studi hanno riscontrati ììo una azione a livello dei recettori Toll-Like, secondo (El-Obeid, et al. 2006a) il recettore influenzato dalla melanina da Nigella sativa sarebbe TLR4, ed essa indurrebbe l’espressione di TNF-alfa, IL-6 e VEGF dai monociti (El-Obeid, et al. 2006b).

Quale che sia la reale portata di questi studi, se la melanina vegetale è veramente importante per la immunomodulazione, è certo che essa non è presente nella maggior parte dei supplementi da estrazione, e che solo la polvere della pianta potrebbe essere usata a scopo terapeutico (la melanina sembra insolubile sotto un pH di 10).

Da questi due studi si possono estrapolare due interessanti indicazioni cliniche: la prima è che la supplementazione a lungo termine di echinacea è probabilmente di beneficio, non sopprime il sistema immunitario e migliora la funzionalità delle cellule del sistema immunitario non specifico, migliorando lo screening antitumorale. La seconda è che la pianta intera sia più efficace degli estratti o delle molecole isolate. I dosaggi di echinacea radice secca vanno da 1.5 a 3 gr per giorno, anche se il dosaggio utilizzato in Miller 2005 era vicino al termine inferiore.

Studi clinici
Una metanalisi ha valutato nove studi di trattamento e quattro studi di prevenzione, tutti controllati e randomizzati, in doppio cieco, delle malattie infettive dell’alto tratto respiratorio, e tutti, a parte uno degli studi di trattamento, hanno mostrato evidenza positiva e significativa, con  riduzione della durata della sindrome influenzale e della severità dei sintomi in pazienti già ammalati, e  riduzione della frequenza di ricorrenze di infezioni, specialmente in pazienti con particolare tendenza.

Dopo questa metanalisi, e fino al 2001, sono stati pubblicati altri 6 studi, 4 dei quali randomizzati controllati in doppio cieco. Tre dei quattro studi controllati hanno dato esito positivo, e l’unico a non avere mostrato differenze significative con il placebo ha usato estratti di bassa qualità.

Studio clinico randomizzato in doppio cieco su 48 donne per 4 settimane, con Echinacea e arabinogalattani da Larice (Kim et al. 2002); i livelli di properidina (una componente del sistema alternativo del complemento, un marker dell’arttivazione immunitaria) sono aumentati del 21% (Echinacea angustifolia ed E. purpurea) e del 18% (E. angustifolia, E. purpurea e arabinogalattani) rispetto al placebo.

Studio clinico randomizzato in doppio cieco su 282 adulti che hanno assunto  un estratto di Echinacea spp. (standardizzazione e posologia: 2.5 mg alcamidi, 25 mg acido cicorico e  250 mg polisaccaridi il primo giorno; 1 mg alcamidi, 10 mg ac. cicorico, 100 mg polisaccaridi al giorno per i seguenti 7 giorni). La severità dei sintomi è calata del 23.1% rispetto al placebo (Goel et al. 2004).

In uno studio clinico correlato al precedente su 150 pazienti con la stessa formulazione (posologia:  2 mg alcamidi, 20 mg ac. cicorico, 200 mg polisaccaridi il primo giorno; 0.75 mg alcamidi, 7.5 mg ac. cicorico e 75 mg polisaccaridi al giorno per i seguenti 7 giorni). Il gruppo verum ha mostrato una riduzione dei sintomi ed un aumento nel numero di leucociti totali, di monociti, neutrofili, e cellule NK (Goel et al 2005).

In uno studio clinico seguente, 80 soggetti hanno assunto un estratto di E. purpurea dall’inizio del raffreddore fino alla scomparsa dei sintomi. La mediana della durata del raffreddore è risultato di 6 giorni rispetto ai 9 giorni nel gruppo placebo (Schulten et al. 2001).

Altri studi hanno riportato l’assenza di miglioramenti statisticamente significativi in caso di raffreddore (Grimm, Muller 1999; Turner et al. 2005; Schwarz et al. 2005; Yale, Liu 2004).

In uno studio clinico randomizzato in doppio cieco, sono state somministrate a 148 studenti capsule da 1 gr contenenti polvere di E. purpurea herba (25%) e radix (25%) e E. angustifolia radix (50%) o placebo, sei volte al giorno il primo giorno di raffreddore e tre volte al giorno per un massimo di 10 giorni.  Nessuna differenza significativa tra gruppo verum e placebo (Barret et al. 2002).

In uno studio clinico seguente 128 adulti hanno ingerito 100 mg di E. purpurea o placebo tre volte al giorno fino alla scomparsa dei sintomi del raffreddore (max 14 giorni); nessuna differenza statistica osservata (Yale, Liu 2004).

L’echinacea stimola la fagocitosi, l’attività delle cellule NK, il numero di linfociti T, il complemento e l’espressione di qualche mediatore. La sua azione normalizzante sull’immunità cellulo-mediata è meno sicura.  Ha una chiara attività immunostimolante se assunto ai primi sintomi e per tutta la durata dell’infezione. Nonostante l’utilizzo come terapia di profilassi sia meno supportato dai dati clinici, è utilizzabile nella profilassi a breve termine (2-4 settimane).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1,5-3 gr. di pianta secca, in grado di apportare 10-15 mg di alchilammidi.  Ovvero 15-30 ml di TM, o 500 -1000 mg di ES (4:1) standardizzato rispetto alle alchilammidi. La standardizzazione ad echinacosidi è utile solo ai sensi della prevenzione delle adulterazioni, ma non ha alcun significato in termini di efficacia.  Per assicurare la non adulterazione dell’E. angustifolia bisognerebbe richiedere la garanzia di assenza di acido cicorico.

4. Astragalus membranaceus (Fisch. Ex Link) Bge. (Fabaceae)


Farmacologia: la pianta contiene polisaccaridi, flavonoidi, minerali ed amminoacidi. L’Astragalo in vitro aumenta la citotossicità delle natural killer cells e riduce la soppressione dei macrofagi, stimola l’attività fagocitica, la produzione di anticorpi ed  interleuchina 2.

Somministrato per via orale ad animali aumenta il numero e la funzionalità dei macrofagi e la loro attività fagocitaria, protegge contro le infezioni da virus (parainfluenza virus tipo I, Newcastle virus, coxsackie B2 e B3 virus, Hep B), aumentando la sopravvivenza del 30-40%, molto probabilmente non per una azione diretta ma per l’azione immunostimolante e di stimolazione di produzione di interferone (Brush et al. 2006). Aumenta la risposta dell’interferone alle infezioni virali (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987).

Studi clinici
Un decotto di Astragalo aumenta la concentrazione di IgM, IgE e cAMP e l’induzione di interferone (INF) da parte dei leucociti periferici. In soggetti predisposti al raffreddore aumenta la concentrazione di IgA e IgG dopo 60 giorni (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987)

In uno studio aperto su soggetti proni al raffreddore il trattamento è risultato profilattico per il raffreddore, con grande riduzione delle recidive. In uno studio clinico aperto randomizzato su pazienti con leucopenia si è dimostrato un aumento del numero dei leucociti (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987)

In un piccolo studio clinico controllato con placebo in doppio cieco sono stati comparati Echinacea purpurea, Astragalus membranaceus, Glycyrrhiza glabra, una combinazione delle tre piante e il placebo. L’Astragalus ha causato l’attivazione e la proliferazione più potente, in particolare dei CD8 e CD4 (Brush et al 2006)

L’Astragalo trova la sua applicazione ideale nella profilassi delle infezioni, nei primi giorni di infezione, nelle infezioni virali croniche con debilitazione e sudorazione spontanea, ma deve essere abbandonato durante gli episodi di infezione acuta.

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 2-4,5 gr di pianta secca. Ovvero 20-40 ml di TM, o 400-900 mg ES (5:1).

5. Eleutherococcus senticosus (Rupr. & Maxim.) Maxim. (Araliaceae)


Farmacologia: l’estratto ha aumentato del 30-45% la fagocitosi in vitro di Candida albicans da parte di granulociti e monociti di donatori sani. Il pre-trattamento con estratto di eleuterococco aumenta la resistenza di modelli animali alle infezioni batteriche e virali.
In uno studio in doppio cieco randomizzato l’eleuterococco ha stimolato la produzione di linfociti T helper e l’attività dei linfociti T, l’attività citostatica delle cellule NK ma non ha avuto effetti su granulociti e monociti (Boh et al 1987).

Uno studio in doppio cieco con 36 soggetti umani ha mostrato che l’estratto della pianta migliora la reattività immunitaria non specifica (Bone e Mills 2000; Bone, 1998). Vedi anche lo studio combinato con Andrographis paniculata (sopra).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1-4 gr di pianta secca. Ovvero 10-40 ml di TM, o 500-1000 mg ES (4:1) o 100-200 mg di ES (20:1), in grado di apportare 2-4 mg di eleuteroside E.

6. Baptisia tinctoria (L.) R. Br. (Fabaceae)


Farmacologia: la frazione polisaccaridica e l’estratto etanolico aumentano la produzione di anticorpi in vitro e stimolano la fagocitosi. L’estratto etanolico alza il conteggio leucocitario e migliora le reazioni di difesa endogene. Le glicoproteine hanno dimostrato di essere immunologicamente attive (Barret et al 1999; Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Henneicke-von Zepelin et al 1999).

Non esiste alcuno studio clinico effettuato su Baptisia da sola, ma esistono  studi clinici randomizzati, controllati, in doppio cieco, su tre combinazioni contenenti Baptisia. Due di questi studi sono di tipo omeopatico. L’unico ad utilizzare dosi ponderali, anche se molto ridotte, combinava Baptsia tinctoria, Echinacea spp. radice e Thuja spp. con posologia di 170 mg/die su 238 soggetti con raffreddore, con riduzione dell’intensità e della durata della sintomatologia (Henneicke-von Zepelin et al. 1999)

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1-3 gr gr di pianta secca. Ovvero 10-30 ml di TM.

7. Uncaria tomentosa (Willd. ex Schult.) (Rubiaceae)


Farmacologia
L’azione immunostimolante dell’Uncaria tomentosa è stata fino ad oggi dimostrata solo in test in vitro e su modelli animali. Stimola la secrezione di interleukina-1 e interleukina-6 in vitro, e la fagocitosi in vitro ed in modelli sperimentali.  Gli alcaloidi ossindolici pentaciclici inducono le cellule endoteliali a secernere un fattore di proliferazione dei linfociti (Bone e Mills 2000; Obregon Vilches 1995)

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 2-5 gr di pianta secca. Ovvero 20-40 ml di TM, o 450-1100 mg di ES (5:1),
Sono stati identificati due chemiotipi, quello da utilizzare è il chemiotipo ad alcaloidi ossindolici pentaciclici (POA), in particolare speciofillina, mitrafillina, pteropodina, isomitrafillina e isopteropodina; l’altro contiene, oltre ai POA, degli alcaloidi ossindolici tetraciclici (TOA) come rinchofillina e isorincofillina.  Quest’ultimo chemiotipo non deve essere usato.

8. Funghi

Il fungo Agaricus blazei Murr possiede spiccate proprietà immunostimolanti e antitumorali, comparabili a quelle dei più conosciuti Lentinus edodes, Grifola frondosa e Ganoderma spp.  Le frazioni indicate come responsabili dell’attività del fungo comprendevano vari glucani, complessi polissacaride-proteina (ATOM), complessi RNA-proteine, e glucomannano (Mizuno 2002; Mizuno et al. 1990; Wasser, Weis 1999; Ito et al. 1997; Fujimiya et al. 1998; Fujimiya et al. 2000; Cho et al. 1999), che vanno ad aggiungersi al lentinano, polisaccaride responsabile dell’attività immunostimolante del Lentinus edodes (Aoki 1984; Kanai, Kondo 1981).

In uno studio recente (Takeda e Okumura 2004) l’assunzione di estratti di Agaricus blazei e Lentinus edodes ha aumentato l’attività delle cellule NK, anche se è stato notato che la sensibilità all’estratto di Agaricus blazei era molto varia tra i soggetti, ed era correlata alla sensibilità all’estratto di Lentinus edodes.  Gli autori ipotizzando una sensibilità selettiva di alcuni individui ai composti presenti negli estratti.

Possibili meccanismi di attivazione delle cellule NK.

  1. Attivazione dei recettori Toll-like (TLR). Dieci membri di questa classe di recettori sono stati riscontrati negli esseri umani. Nei mammiferi questi recettori svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento di composti micotici e batterici (Takeda, Kaisho, Akira 2003). I TLR attivano percorsi di segnalazione come NK-κB, che risultano nella secrezione di varie citochine proinfiammatorie (Oshiumi et al. 2003). Sembra che il recettore TLR-2/6 riconosca alcune componenti dello zimosano ma non  dei β-glucani (Underhill et al. 1999; Gantner et al. 2003).
  2. Attivazione dei recettori per le lectine. Alcuni tipi di lectine possono funzionare come immunomodulanti (Hofer et al. 2001), ed è possible che l’interazione tra lectine presenti nei funghi e recettori lectinici di tipo C possa giocare un ruolo nella immunomodulazione.
  3. Attivazione dei recettori per β-glucano.  I β-glucani hanno mostrato interessanti proprietà in vivo di stimolazione delle risposte antinfettive ed antitumorali dei soggetti (Tzianabos 2000).  Sono un gruppo eterogeneo di polimeri del glucosio, costruiti da uno scheletro di unità β-D-glucopiranosil a legame β(1→3), con catene laterali  a legame β(1→6); sono una parte fondamentale della struttura delle pareti cellulari di funghi, macrofunghi, piante ed alcuni batteri, e vengono riconosciute dal sistema immunitario innato dei vertebrati (non sono presenti nei tessuti animali), esclusivamente attraverso vari recettori cellulari superficiali (Battle et al. 1998).  L’attività di questi recettori è stata individuata su leucociti di vario tipo (macrofagi, neutrofili, eosinofili e cellule NK) e cellule non immunitarie (endoteliali, epiteliali alveolari, fibroblasti).  Dei recettori individuati (Zimmerman et al. 1998; Rice et al. 2002; Brown, Gordon 2001; Taylor et al. 2002) solo uno, dectin-1 ha mostrato chiaramente di essere in grado di mediare le risposte biologiche al β-glucano  (Brown, Gordon 2003).

Il suino in casa – 2

Ho terminato il primo post della serie suina in maniera forse criptica, e mi si domanda: “perché consideri gli olii essenziali il metodo che meno ti attira? E alla fine della giostra, come li posso usare?”

Allora, gli olii essenziali sono la strategie che meno mi attira, nonostante io sia molto interessato a questi materiali, perché sono e rimango un fitoterapeuta di formazione tradizionale, e tendo a preferire quelle strategie fitoterapiche che mi pare offrano delle alternative vere agli approcci già esistenti nella farmacopea classica.

Ovvero mi interessa ciò che le piante e il loro utilizzo (che non sono le piante a curare, ne il terapeuta, ma il triangolo pianta-paziente-terapeuta)  possono offrirci di innovativo, di non già presente, addirittura di non ottenibile con gli strumenti “ricevuti”.

E da questo punto di vista gli olii essenziali, IMHO, sono molto simili ad un farmaco classico (mutatis mutandis):

  • sono molto selettivi (nel produrli/estrarli riduciamo la diversità molecolare della pianta di origine più di quanto non facciamo con altri metodi estrattivi)
  • sono molto concentrati, quindi a parità di unità di utilizzo tenderanno ad avere un ventaglio di attività più ridotto ma con intensità di azione maggiore, ed il loro profilo tossicologico ed i livelli di rischio saranno maggiori che rispetto ad altri preparati tipicamente erboristici
  • sono inoltre un rimedio relativamente nuovo sul palcoscenico fitoterapico rispetto ad altre preparazioni, e quindi abbiamo meno dati storici ed etnobotanici che possano accompagnare i dati sperimentali, epidemiologici e clinici.

D’altro canto l’attività antinfettiva è certamente quella elettiva per questi prodotti, e la minireview offerta sulla loro attività antivirale offre spunti interessanti.

Credo che i dati più interessante siano:

  1. il fatto che non si osserva uno sviluppo di resistenza agli olii essenziali, circostanza che in alcuni casi potrebbe renderli un presidio estremamente importante
  2. il fatto che agiscano come virucidi/virustatici con modalità differenti da quelle degli antivirali di sintesi, quindi potenzialmente abbinabili a questi per ampliare il raggio di intervento e ridurre eventuali effetti collaterali
  3. il fatto che, per quanto selettivi, sono ancora dei rimedi con uno spettro di attività ampio, per cui una scelta oculata permetterebbe di utilizzare un OE contemporameamente antinfettivo, antinfiammatorio ed espettorante, una combinazione particolarmente utile nei disturbi del tratto respiratorio

D’altro canto prima che i dati sull’azione antivirale ed in particolare sull’azione antinfluenzale possano tradursi in prassi, credo debba passare ancora del tempo.

L’azione antivirale è quasi sempre limitata al virione prima della penetrazione o dopo il rilascio dalla cellula, e questo limita il campo di applicazione.

I test effettuati sono limitati all’utilizzo topico, per cui è prematuro parlare di utilizzo antivirale per os, tenuti presenti anche i possibili effetti indesiderati derivanti dall’ingestione di quantità significative di olii essenziali, riducibili solo da formulazioni particolari per eccipienti e strumenti di delivery (ad esempio capsule gastroresistenti, ecc.).

Credo quindi che per il momento l’utilizzo più razionale in caso di influenza e virosi respiratorie in genere sia quello di vaporizzazioni ambientali tramite areosol a scopo preventivo, applicazioni topiche che permettano il rilascio lento di olii essenziali respirati dalla soggetto, e suffumigi/fumigazioni nel momento della piena infezione a scopo sia antivirale sia antibatterico (in caso di superinfezioni) sia espettorante/antinfiammatorio.

E allora? Se gli olii essenziali non sono la mia prima scelta, quale lo è?

Non è questo il luogo per parlare di terapia, ma se la fitoterapia può contribuire in maniera interessante sarà, come dicevo più sopra, solo se potrà offrire prospettive terapeutiche nuove o strategie diverse, non incompatibili (anzi) con altre prospettive, ma sperabilmente concorrenti nel contribuire alla salute del paziente.

E allora ci saranno le piante che agiscono migliorando le condizioni dell’organismo in modo che meglio possano affrontare le infezioni. Quindi piante stimolanti la circolazione e diaforetiche,  immunomodulanti, piante adattogene (ma non nel momento di infezione acuta), piante espettoranti e piante per gestire la febbre e la tosse senza sopprimerle. Poi ci saranno certamente le piante ad azione antivirale ed antibatterica in caso di superinfezione. Ma altrettanto importanti saranno i rimedi da convalescenza, tra i quali tradizionalmente troviamo gli amari e gli epatici.

Ma questo argomento merita un post intero, ed adesso non ne ho il tempo.