La dose è tutto 2/3

Analizzato nel post precedente il problema delle TM vs. altri estratti idroalcolici, veniamo al secondo problema: le gocce.

Secondo problema: perché le gocce?

L’utilizzo delle gocce come unità di misura delle forme liquide potrebbe sembrare solo un dettaglio tecnico ma non è meno importante della forma galenica scelta. Nonostante questo metodo di misura possa teoricamente avere ancora una giustificazione quando si trattasse di dispensare estratti liquidi di piante estremamente potenti (Phytolacca, Atropa, Datura, Convallaria, ecc.), quando si tratti di piante in libera circolazione e non tossiche, esso è da considerarsi arcaico e poco razionale, per il semplice fatto che non da garanzia di uniformità.

Questo fatto dovrebbe essere evidente se consideriamo che non esiste un rapporto preciso che correli le gocce al volume del liquido, poiché questo rapporto dipende dal tenore alcolico, e quindi dalla sua viscosità.

In un esperimento eseguito da Bone nel 2005 sono state messi a confronto 4 diversi tipi di estratti liquido misurati con due tipi di contagocce, a foro ampio e a foro ridotto, per vedere il numero di gocce necessario per raggiungere 1 mL.

Il risultato è sorprendete se lo compariamo alla vulgata che vuole che per ogni mL ci vogliano 20-25 gocce. Si osserva un aumento del numero di gocce necessario per arrivare al mL all’aumentare del tasso etanolico.

  • Un glicerinato 1:1 di cardo mariano al 5% di etanolo vuole dalle 28 alle 33 gocce (a seconda del diametro del’orifizio) per fare 1 mL.
  • Un estratto 1:2 di arpagofito al 25% di etanolo ne vuole 39-44
  • Un estratto 1:2 al 45% di etanolo di peonia bianca da 45 a 50 gocce
  • Un estratto di semi di sedano 1:2 al 60% di etanolo da 50 a 60
  • Un estratto 1:5 al 90% di etanolo di mirra ne vuole da 50 a 65.

Come si può notare, anche facendo una valutazione conservativa di 40 gocce per mL in media, siamo quasi al doppio del dosaggio “standard”, ovvero rischiamo di dosare sempre la metà della quantità efficace, con evidenti riflessi sull’efficacia della terapia! Anche una pianta medicinale di sicura efficacia non può essere sfruttata a dovere se usata al di sotto del dosaggio efficace.

La dose è tutto 1/3

Una discussione di lavoro di qualche giorno fa mi ha riportato alla mente un argomento che ho sempre ritenuto centrale per la traduzione dei dati scientifici, storici ed antropologici sulle piante medicinali in prassi clinica: il dosaggio efficace.
Questo non è un argomento nuovo o sorprendente, è abbastanza chiaro a tutti che perché un farmaco abbia effetto sarà necessario assumerlo alle dosi efficaci (e non superare le dosi tossiche).

Anche in erboristeria/fitoterapia questo è un argomento ovvio: se ad esempio andiamo a vedere le quantità di pianta secca utilizzate nelle tisane vediamo che esse spesso corrispondono a grandi linee ai dati tradizionali ed ai dati moderni.
Anche forme galeniche più moderne come gli estratti secchi vengono abbastanza spesso offerte in quantità che corrispondono come ordine di grandezza ai dati scientifici.
Esiste però una strana area grigia dove i normali ragionamenti ed i metodi di trasformazione dei dosaggi da una forma galenica ad un’altra sembrano essere dimenticati: le tinture idroalcoliche, ed in particolare le TM, o Tinture Madri.

In effetti il problema con l’utilizzo degli estratti idroalcolici è triplice:

  1. la preferenza data alle TM piuttosto che altre forme di estrazione idroalcolica.
  2. l’utilizzo di una forma di misurazione del dosaggio (le gocce) intrinsecamente impreciso e che porta sistematicamente a sottodosaggi.
  3. l’utilizzo di posologie spesso sganciate dai dati scientifici e storico-antropologici.

I termini della quaestio
Vale la pena fare un passo indietro ed intenderci sul significato dei termini.
  Per estratti idroalcolici (o alcoliti) si intendono molti preparati diversi che si ottengono per l’azione, a freddo, dell’alcol etilico di varia gradazione su materiale vegetale fresco o secco.
Tra gli alcoliti troviamo le tinture idroalcoliche classiche (ad esempio le tinture officinali da Farmacopea Ufficiale o FU), ovvero quei preparati che si ottengono (per macerazione e per percolazione) con l’azione solvente di una miscela di alcol etilico ed acqua (a volte con aggiunta di piccole quantità di altri cosolventi) su droghe vegetali essiccate.

Di norma, e ragionando spannometricamente, la tinturazione da secco viene eseguita con un rapporto di 1 a 5 tra materiale vegetale secco (grammi) e solvente (millilitri), con il solvente idroalcolico che varia tra 50% e 85% di alcol.
Nulla però impedisce di effettuare estrazioni con rapporti diversi, ad esempio per ottenere concentrazioni più elevate (senza l’uso di calore): si possono in alcuni casi con il metodo della percolazione ottenere estratti con rapporto 1:3, e eccezionalmente, con sistemi di percolatori posti in serie ed alcuni artifizi tecnologici, 1:2.

Gli alcolaturi (o alcolituri) sono degli alcoliti ottenuti facendo agire l’alcol sulle piante fresche (macerazione) o sul loro succo (espressione).

Le TM sono un caso particolare di alcolaturi, ovvero degli alcolaturi per i quali i rapporti ponderali (1 parte di pianta in peso secco per 10 parti di prodotto finale) e i tempi di estrazione sono definiti in maniera stringente dalle farmacopee tedesca (succo da spremitura della pianta fresca stabilizzato con etanolo in quantità tale da arrivare ad un rapporto tra pianta calcolata al secco e prodotto finale pari a 1:10) e francese (estrazione di pianta fresca con un solvente etanolico a gradazione adeguata in quantità tale da raggiungere un rapporto tra pianta calcolata al secco e prodotto finale pari a 1:10).

Primo problema: perché le TM?

Modificare il rapporto tra pianta e solvente (o più precisamente tra pianta e prodotto finale) significa modificare la quantità di estratto che deve essere assunto per assumere una quantità data di fitocomplesso.
Ipotizziamo che la dose efficace di pianta secca, desunto dai dati tradizionali e scientifici, sia di 1 grammo:

  • se io assumo 1 mL di un estratto 1:5, sto assumendo intorno a 0,2 grammi di pianta secca, quindi dovrò assumere 5 mL di estratto al giorno;
  • se assumo 1 mL di estratto 1:2 sto assumendo 0,5 grammi di pianta secca, quindi dovrò assumere 2 mL di estratto al giorno;
  • se assumo 1 mL di un estratto 1:10 (ad esempio una TM), sto assumendo intorno a 0,1 grammi di pianta secca, quindi dovrò assumere 10 mL di estratto al giorno!

E’ chiaro che, a parità di pianta e di qualità dell’estratto, è preferibile assumere 2 mL di estratto al giorno piuttosto che 10 mL, sia in termini economici sia in termini di salute. Da questo punto di vista è abbastanza ovvio che le TM sono una forma estrattiva poco efficiente, più costosa e quindi meno indicata, in presenza di alternative più concentrate (parliamo sempre di estrazioni idroalcoliche a freddo).

Uno degli argomenti più utilizzati da coloro che preferiscono l’uso delle TM è che esse siano di maggior qualità rispetto alle altre. Questa maggior qualità risiederebbe nel fatto che l’estrazione viene effettuata su pianta fresca, non sottoposta a processi di essicazione che possono ridurne la qualità, e sull’ipotesi che l’utilizzo dell’acqua proveniente dalla matrice vegetale piuttosto che aggiunta dall’esterno avvicini di più la tintura al vero fitocomplesso; qualche autore ha anche proposto che le tinture da pianta fresca siano maggiormente biodisponibili.

E’ sicuramente vero che l’essiccazione è un processo di trasformazione che, se effettuato senza adeguate cautele, può risultare nell’abbassamento, anche rilevante, della qualità del materiale vegetale, soprattutto quando si tratti di materiale aromatico. D’altro canto non sempre l’essiccazione (eseguita con le dovute cautele) è controindicata, è vero anzi che alcune piante devono essere essiccate. Molte piante ad alcaloidi hanno un comportamento più prevedibile e meno pericoloso se sono state essiccate e le piante ad antrachinoni devono essere essiccate e conservate per almeno un anno prima della trasformazione).

Mancano invece dati tratti che mostrino una maggior concentrazione di composti attivi nelle tinture da pianta fresca rispetto a quelle da pianta secca. Oltretutto, le tinture da pianta fresca vengono solitamente preparate in ambienti a minor tasso etanolico, il che significa che composti più lipofilici rischiano di non venire estratti o di venire estratti in minor misura. Inoltre, se il tasso alcolico è basso, potrebbe essere inefficace nell’inibire l’attività enzimatica, rischiando una decomposizione dei composti chiave.

Per comprendere meglio il problema della tinturazione da fresco facciamo un esempio: una tintura da pianta fresca con rapporto peso secco/solvente pari a 1:5.

  • 100 gr. di pianta fresca contenente 80% di acqua vengono macerati in 20 ml di alcol etilico
  • Il peso secco della pianta è di 20 gr
  • Il volume del liquido è di 80 ml (acqua della pianta) + 20 ml (etanolo aggiunto) = 100 ml
  • Il risultato è equivalente ad una tintura 1:5 da pianta secca (20 gr pianta secca:100 ml liquido)

Ma il risultato rischia di essere di cattiva qualità perché la concentrazione d’etanolo finale è molto bassa (25%), insufficiente ad estrarre composti lipofilici e al limite dell’inattivazione enzimatica e della conservabilità.
Se vogliamo che la percentuale alcolica sia ragionevole, dobbiamo accontentarci di tinture dell’ordine del 1:8-1:10, estremamente diluite e quindi poco adatte alla terapia (a parte droghe eroiche o tossiche).

La maggior biodisponibilità viene quindi spesso obliterata dall’elevata diluizione di queste preparazioni, obbligando il paziente a bere quantità rilevanti di tintura, cosa che solitamente incide pesantemente sulla compliance del paziente stesso.

Concludendo, non emergono in letteratura dati che indichino una generalizzata e significativa maggior qualità delle tinture da pianta fresca rispetto alle tinture da pianta secca (a parità di qualità del materiale vegetale e del processo di trasformazione).

Anche di fronte ad un teorico piccolo margine di qualità maggiore per le TM, esso a mio parere è del tutto obliterato dai punti negativi: usare TM significa aumentare in maniera non necessaria il costo del trattamento fitoterapico, assumere maggiori quantità di etanolo e rendere meno comoda la terapia.

Macrobiotica? No, microbioma…

Un bel post di Not Exactly Rocket Science sul ruolo della flora batterica intestinale (microbioma) nella digestione e nella salute umana, che analizza e condensa gli studi degli ultimi anni (qui, qui e qui tre lavori recenti) che hanno analizzato non solo come il microbioma possa agire sul cibo che ingeriamo, con conseguenze sulla salute, ma anche su come ciò che ingeriamo modifichi il microbioma, di nuovo con importanti riflessi sulla salute. L’applicazione di una ottica evoluzionista favorisce uno sguardo laterale al problema, lega il problema della sterilizzazione dell’ambiente in cui viviamo, della modificazione della dieta, dell’allattamento materno, con fenomeni di modificazione radicale o impoverimento della diversità genica del microbioma, che a sua volta potrebbe influenzare l’incidenza di vari stati patologici, come le allergie, i disturbi infiammatori intestinali, ecc.

Sudomagodo…

… di ottima salute.

Verrà pubblicato nell’edizione di agosto di Cell Metabolism uno studio su modelli animali, quindi preliminare, ma che si aggiunge a dati aneddotici e tradizionali sul ruolo che il peperoncino può avere nella riduzione della ipertensione arteriosa. Particolarmente interessante è il ruolo giocato dal recettore vanilloide vascolare nel rilascio di NO, il meccanismo proposto dagli autori per l’attività ipotensiva. Sia i recettori vanilloidi sia l’ossido nitrico sono stati studiati molto negli ultimi anni e sembrano giocare ruoli molto importanti (in particolare NO) in moltissimi scenari. Un altro piccolo tassello che lega i principi pungenti ad attività farmacologiche.

———————————————————–

For those with high blood pressure, chili peppers might be just what the doctor ordered, according to a study reported in the August issue of Cell Metabolism, a Cell Press publication. While the active ingredient that gives the peppers their heat—a compound known as capsaicin—might set your mouth on fire, it also leads blood vessels to relax, the research in hypertensive rats shows.

“We found that long-term dietary consumption of capsaicin, one of the most abundant components in chili peppers, could reduce blood pressure in genetically hypertensive rats,” said Zhiming Zhu of Third Military Medical University in Chongqing, China.

Those effects depend on the chronic activation of something called the transient receptor potential vanilloid 1 (TRPV1) channel found in the lining of blood vessels. Activation of the channel leads to an increase in production of nitric oxide, a gaseous molecule known to protect blood vessels against inflammation and dysfunction, Zhu explained.

The study isn’t the first to look for a molecular link between capsaicin and lower blood pressure. However, earlier studies were based on acute or short-term exposure to the chemical, with some conflicting results. Zhu says their study is the first to examine the effects of long-term treatment with capsaicin in rats with high blood pressure.

The findings in rats should be confirmed in humans through epidemiological analysis, the researchers said. In fact, there were already some clues: the prevalence of hypertension is over 20% in Northeastern China compared to 10-14% in Southwestern China, including Sichuan, Guozhuo, Yunnan, Hunan, and Chongqing, where Zhu is from.

“People in these regions like to eat hot and spicy foods with a lot of chili peppers,” Zhu says. “For example, a very famous local food in my hometown, Chongqing, is the spicy hot pot.”

It isn’t yet clear just how many capsaicin-containing chili peppers a day you’d have to eat to “keep the doctor away,” although that’s a question that should now be examined in greater detail, Zhu says.

For those who can’t tolerate spicy foods, there might still be hope. Zhu notes the existence of a mild Japanese pepper, which contains a compound called capsinoid that is closely related to capsaicin.

“Limited studies show that these capsinoids produce effects similar to capsaicin,” Zhu says. “I believe that some people can adopt this sweet pepper.”

Ancora sul resveratrolo

Molto di moda in questi anni, il resveratrolo è oggetto di vari studi che si concentrano sugli effetti antiageing, antiossidanti, antinfiammatori e promotori della longevità. Abbiamo avuto modo di parlarne in altri post legati alle sirtuine (qui e qui), ma oggi evidenzio uno studio (presto pubblicato su Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism) che pur non presentando novità teoriche mette un mattoncino importante nella traduzione dei dati sperimentali in applicazioni cliniche. Come spesso succede con gli estratti vegetali, molto di ciò che sappiamo sul resveratrolo deriva da studi su animali. Lo studio seguente suggerisce che il resveratrolo sia efficace nel ridurre lo stress ossidativo ed infiammatorio anche negli esseri umani sopprimendo la formazione di ROS e di TNF.

——————————–

Resveratrol, a popular plant extract shown to prolong life in yeast and lower animals due to its anti-inflammatory and antioxidant properties, appears also to suppress inflammation in humans, based on results from the first prospective human trial of the extract conducted by University at Buffalo endocrinologists.

Results of the study appear as a rapid electronic publication on the Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism website and will be published in an upcoming print issue of the journal.

The paper also has been selected for inclusion in Translational Research in Endocrinology & Metabolism, a new online anthology that highlights the latest clinical applications of cutting-edge research from the journals of the Endocrine Society.

Resveratrol is a compound produced naturally by several plants when under attack by pathogens such as bacteria or fungi, and is found in the skin of red grapes and red wine. It also is produced by chemical synthesis derived primarily from Japanese knotweed and is sold as a nutritional supplement.

Husam Ghanim, PhD, UB research assistant professor of medicine and first author on the study, notes that resveratrol has been shown to prolong life and to reduce the rate of aging in yeast, roundworms and fruit flies, actions thought to be affected by increased expression of a particular gene associated with longevity.

The compound also is thought to play a role in insulin resistance as well, a condition related to oxidative stress, which has a significant detrimental effect on overall health.

“Since there are no data demonstrating the effect of resveratrol on oxidative and inflammatory stress in humans,” says Paresh Dandona, MD, PhD, UB distinguished professor of medicine and senior author on the study, “we decided to determine if the compound reduces the level of oxidative and inflammatory stress in humans.

“Several of the key mediators of insulin resistance also are pro-inflammatory, so we investigated the effect of resveratrol on their expression as well.”

The study was conducted at Kaleida Health’s Diabetes-Endocrinology Center of Western New York, which Dandona directs.

A nutritional supplement containing 40 milligrams of resveratrol was used as the active product. Twenty participants were randomized into two groups of 10: one group received the supplement, while the other group received an identical pill containing no active ingredient. Participants took the pill once a day for six weeks. Fasting blood samples were collected as the start of the trial and at weeks one, three and six.

Results showed that resveratrol suppressed the generation of free radicals, or reactive oxygen species, unstable molecules known to cause oxidative stress and release proinflammatory factors into the blood stream, resulting in damage to the blood vessel lining.

Blood samples from persons taking resveratrol also showed suppression of the inflammatory protein tumor necrosis factor (TNF) and other similar compounds that increase inflammation in blood vessels and interfere with insulin action, causing insulin resistance and the risk of developing diabetes.

These inflammatory factors, in the long term, have an impact on the development of type 2 diabetes, aging, heart disease and stroke, noted Dandona.

Blood samples from the participants who received the placebo showed no change in these pro-inflammatory markers.

While these results are promising, Dandona added a caveat: The study didn’t eliminate the possibility that something in the extract other than resveratrol was responsible for the anti-inflammatory effects.

“The product we used has only 20 percent resveratrol, so it is possible that something else in the preparation is responsible for the positive effects. These agents could be even more potent than resveratrol. Purer preparations now are available and we intend to test those.”

Isoflavoni della soia e salute delle ossa

Un altro studio sugli effetti degli isoflavoni della soia, che aggiunge confusione al quadro già incerto. Lo studio non ha mostrato un miglioramento in termini di densità ossea in donne post menopausa, anche se il dosaggio di isoflavoni più elevato (comunque abbastanza basso – 120 mg/die) in associazione a fattori non farmacologici (stili di vita) ha mostrato una associazione ad un moderato miglioramento.  Come per altri casi di fitoterapia alimentare (ad esempio gli antiossidanti) anche gli insuccessi possono forse aiutarci a capire se e quali differenze intercorrano tra l’assunzione di alcuni composti fitochimici isolati piuttosto che inseriti nella loro naturale matrice vegetale. Come suggeriscono gli autori l’insuccesso può essere dovuto all’inefficacia degli isoflavoni in genere, alla  forma galenica utilizzata, al dosaggio, alla mancanza di una matrice o di altri composti proteici non compresi nella selezione dell’estratto.

—————————————

Scientists already know much about the more than 200 bones that make up your body. But mysteries remain regarding the exact role that many natural compounds in foods might play in strengthening our skeletons. Those compounds include estrogen-like substances known as soybean isoflavones.

Agricultural Research Service (ARS) physiologist Marta D. Van Loan and other researchers learned more about these compounds in a 3-year study–the longest of its kind–reported earlier this year in the American Journal of Clinical Nutrition. Van Loan is with the ARS Western Human Nutrition Research Center at the University of California-Davis.

Because of its potential as a possible substitute for conventional steroid hormone replacement therapy for postmenopausal women, soy has been the subject of more than two dozen studies conducted here and abroad during the past decade. According to Van Loan, some of those investigations suggest that soy enhances bone health.

Van Loan teamed up with Iowa State University researcher D. Lee Alekel and others for the 3-year investigation to determine whether isoflavones extracted from soy protein would protect postmenopausal volunteers against bone loss. Participants in the study took either a placebo tablet or a tablet containing one of two moderate amounts of the isoflavones–80 milligrams (mg) or 120 mg–for the duration of the investigation.

Overall, the isoflavones had no significant positive effect on preventing bone loss. However, the 120-mg treatment showed a modest benefit when evaluated in conjunction with lifestyle factors.

The researchers suggest that the body’s response to isoflavones extracted from soy proteins may be different from responses to isoflavones in their natural matrix of soy protein or soy foods, or in a soy-protein supplement. Or, some soy-protein compound other than the extracted isoflavones may have been responsible for the bone-protecting effects seen in some previous studies. Finally, the isoflavone doses used in the 2010 study may not have been high enough to produce a bone-sparing effect.

Fitoalimurgia Chepang 2/2

Eccoci qui, quindi, alla seconda puntata.

Come argutamente notava Meristemi, non è che proprio che non abbia fatto capire la mia posizione relativamente al valore delle piante selvatiche .

Allora, nella seconda puntata mi sbilancio per dire che: si, credo che le piante appartenenti al continuum tra selvatico e non-ancora-coltivato-ma-quasi rappresentino un potenziale bacino sia di fattori nutrizionali sia di fattori non-nutrizionali ma funzionali che può fare la differenza per la sicurezza alimentare e per il mantenimento della salute.

Certamente queste piante sono un potenziale critico proprio in quelle situazioni di potenziale deficit nutrizionale che si presentano in molti paesi del sud del mondo, ma in maniera meno evidente possono giocare un ruolo simile anche nei nostri paesi di relativa opulenza alimentare [1].

Dato che il mio obiettivo al momento è molto limitato (vorrei parlare di quello che ho visto durante un viaggio) mi limito a fare alcune considerazioni ed a citare alcuni autori, certo che proprio in questo momento Meristemi sta cucinando qualcosa di succoso. Me la cavo quindi citando due volumi recenti che raccolgono molti dei dati più interessanti a questo riguardo: il volume edito da Pieroni e Price [2] ed il testo della recentemente scomparsa Nina Etkin. [3]

Proprio da quest’ultimo ricavo una citazione. Louis Grivetti [4] ricordando la sua prima esperienza sul campo, riporta che:

“(p)er più di cento anni i baTlokwa del deserto del Kalahari orientale, nel Botswana, non hanno sofferto di carestie o di ripercussioni a livello sociale a causa della siccità. Tale successo alimentare in quest’area è dovuto all’equilibrio tra offerta ambientale e decisioni culturali. Il Kalahari orientale offriva una elevata diversità di piante selvatiche eduli, ed i baTlokwa utilizzavano regolarmente tali risorse. Il messaggio più importante che emerse dopo due anni di lavoro sul campo fu che la siccità non aveva causato carestie, e che una spiegazione per il disastro del Sahel [ovvero la tremenda carestia che colpì la regione del Sahel a seguito di una lunga siccità, proprio negli anni della ricerca nel Kalahari. NdT] era l’incapacità culturale a riconoscere ed utilizzare le risorse alimentari selvatiche disponibili — cibi che in precedenza erano stati utilizzati come sostentamento durante le siccità.“

L’autore continua rimarcando il pericolo insito nella perdita di conoscenze riguardo alle piante selvatiche, perdita che si può tradurre in ridotte possibilità di sopravvivenza durante il periodo di crisi, perdita che in parte è secondaria ad un processo di trasformazione dell’agricoltura e della società più in generale, che porta al rifiuto delle pratiche tradizionali viste come primitive.

D’altro canto l’argomento è complesso, e sarebbe improvvido pensare ad un automatismo che leghi l’avanzare dell’agricoltura con la perdita in saperi o risorse. Come avverte nello stesso volume Lisa Leimar Price [5], l’allontanarsi dalla dipendenza totale dalla foresta come fonte di cibo comporta un aumento nella quantità di piante raccolte da ambienti agricoli, da ambienti disturbati dall’attività umana, dai campi, dai bordi, dai sentieri, ecc. Questo passaggio sembra portare con sè un aumento, e non una diminuzione, della diversità di piante consumate.

E spesso questa maggior diversità di piante utilizzate dipende fortemente alle donne, per il ruolo da esse svolto nelle società tradizionali, come coloro che si occupano della casa e del giardino, e quindi che sono in diretto contatto con tutte le aree transizionali tra foresta e coltivazioni. Una riduzione dei saperi sulle piante selvatiche, avverte la Price, può invece dipendere dallo stigma sociale ad esse associato, e fortemente legato al tema della povertà. [6]

Ecco allora che emergono alcuni temi che mi sono stati utili nel ripensare al mio viaggio:

  • l’importanza di riconoscere la parziale artificiosità della divisione cibo/medicina, fondamentale per valutare gli effetti sulla salute globale della popolazione dell’utilizzo delle piante selvatiche
  • evitare rigidità di pensiero rispetto alla supposta dicotomia tradizione/modernità, selvatico/agricolo
  • evitare l’associazione tra consumo di piante selvatiche ed idee di povertà, arretratezza, primitività, un tema come si vedrà centrale nel caso di studio del Nepal.

I problemi

Nel 2004 e poi nel 2009 sono stato a visitare i villaggi Chepang nella valle del Kandrang, nel VDC di Shaktikor, del Distretto del Chitwan.

La zona è caratterizzata da foresta mista dominata da Mallotus philippensis (Lamm.) Muell. Arg. (Euphorbiaceae), Schima wallichii (DC) Korth. (Theaceae), Shorea robusta Roxb. Ex Gaertner f. (Dipterocarpaceae), Bombax ceiba L. (Bombaceae), Betula alnoides Buch.-Ham. ex D.Don. (Betulaceae), e naturalmente Diploknema butyracea.

Nel 1993 un quinto delle terre di proprietà nella valle era ancora gestita a Khorya (debbio). A parte il terreno a Khorya, le comunità possiedono anche particelle minori di terra, detta bari, relativamente più fertile e produttiva del Khorya, e una parte di terreno intorno alla casa gestito come orto familiare.

Fino a 25 anni fa il periodo di maggese (Lhotse) era di 10-15 anni, e il Khorya forniva una parte minoritaria del sostentamento alimentare, ancora prevalentemente dipendente dalla foresta. Con l’aumentare della densità della popolazione il periodo di coltivazione venne allungato e quello di Lhotse accorciato fino a 1-6 anni, cosa cosa che rese il sistema sempre meno sostenibile, portò a raccolti sempre più poveri a causa della riduzione della fertilità del suolo e dei fenomeni erosivi.

A questo si sommava la riduzione della biodiversità forestale. A tutti gli effetti l’equilibrio tra raccolta di piante selvatiche nella foresta e cibo coltivato a Khorya era stato invertito, sempre più cibo proveniva dall’agricoltura e sempre meno dalla foresta, che però perdeva comunque in diversità a causa del ridotto Lhotse.

Dal punto di vista dei Chepang il sistema Khorya è una necessità, quindi insostituibile per il supporto della popolazione nel breve termine; dal punto di vista ambientale, il sistema, come è strutturato oggi, è una tragedia a lungo termine, che mette a rischio la stabilità e la fertilità del suolo, e la vera e propria esistenza della foresta, in cambio di un misero raccolto.

Il sapere tradizionale

La maggior parte dei nuclei familiari della zona (ca. Il 90%) usa le risorse forestali o non coltivate a scopo medicinale, per ricavarne dei soldi al mercato, o per sopperire ad una vera e propria mancanza di cibo (il 75% dei nuclei familiari).

Tutte le case stoccano al primo piano, oltre ai cereali coltivati, piante selvatiche, in particolare Githa (Dioscorea bulbifera L. — Dioscoreaceae) e Bhyakur (Dioscorea deltoidea Wall. ex Griseb.) e in minor misura dei germogli di bambù (Bambusa nepalensis Stapleton — Poaceae).

Quasi tutti gestiscono in qualche modo le piante selvatiche, sia attraverso una protezione in situ, sia attraverso processi preagricoli di domesticazione.

Secondo una ricerca recente relativa proprio a quest’area in generale le donne sono leggermente più competenti degli uomini rispetto alle piante selvatiche, ma la differenza non è significativa, e certamente minore rispetto a quello che mi sarei potuto aspettare sulla scorta degli studi citati precedentemente.

E’ possibile che le ridotte competenze agricole dei Chepang possano in parte spiegare questa uniformità tra uomini e donne. Non avendo sviluppato molto la coltivazione degli orti familiari, forse è venuta a mancare alle donne Chepang la possibilità di aumentare le loro competenze sulle piante degli ambienti di transizione [7].

Lo studio nota anche delle differenze genere-specifiche: gli uomini sono più competenti delle donne nel campo delle piante medicinali, probabilmente un riflesso del fatto che tradizionalmente gli sciamani Chepang (Pande) sono tutti uomini; anche la composizione etnica della popolazione si riflette sulla conoscenza delle piante: in aree abitate da soli Chepang il sapere sulle piante è maggiore che nelle aree a popolazione mista (Chepang e immigrati da altre aree), probabilmente (secondo gli autori) perché l’influenza dei non-Chepang  svalutata agli occhi dei Chepang le risorse raccolte dal selvatico, associandole ad idee di arretratezza culturale, primitività, ecc. che, come abbiamo visto, sono state (ed in parte sono ancora) associate alla comunità Chepang.

E’ anche possibile che questi contatti abbiano indirettamente ridotto le attività comunitarie, fondamentali per la trasmissione, verticale ed orizzontale, dei saperi tradizionali.

Questo trend è ravvisabile anche tra le differenti classi di età: gli individui sotto i 30 anni sono meno competenti dei più anziani, probabilmente per una riduzione del trasferimento di sapere in famiglie sempre meno multigenerazionali. [8]

Oltre al declino del sapere relativo alle piante selvatiche, la popolazione denuncia un declino nel numero e nella varietà delle piante stesse. Gli anziani tra i Chepang attribuiscono il declino a molti fattori: la deforestazione, il modificarsi del sistema di Khorya, la pressione demografica ed immigratoria, il cambiamento nei costumi alimentari (diretto verso cibi più cosmopoliti, o meno caratterizzati come Chepang), l’aumento delle monoculture, la mancanza di strategie di conservazione e di sostenibilità.

Le strategie

Vi è qui un nodo centrale: alcune pratiche tradizionali (Khorya e raccolta spontanea) sono inserite in un nuovo contesto demografico, sociale e culturale, e questo (mal)adattamento ha delle conseguenze sul germoplasma e sulla sostenibilità di tali pratiche; perché se è vero che le  piante selvatiche e non coltivate sono una risorsa culturale, alimentare e medicinale fondamentale, è necessario riconoscere che un sistema di sfruttamento tradizionale può risultare fortemente inadeguato alle nuove richieste ambientali, ed entrare in crisi.

Per fare solo alcuni esempi, al momento nell’area è del tutto impossibile anche solo pensare ad un periodo di maggese di 10-15 anni: la pressione demografica (interna ma anche esterna, se negli ultimi 45 anni l’immigrazione è aumentata molto mettendo in crisi anche I modelli culturali locali) [9] è troppo forte, ed aumenterà ancora nel futuro; le risorse forestali non possono stare al passo con questa pressione, e la riconversione del Khorya in terrazzamenti è possibile solo in minima parte a causa della natura estremamente ripida dei terreni.

Ciò che manca è una strategia per gestire questa crisi senza sacrificare i saperi tradizionali.

Considerate le condizioni del territorio in cui abitano i Chepang, le loro grandi competenze rispetto agli NTFP, la grande valenza culturale della raccolta nel selvatico e la possibilità che le specie non coltivate apportino un contributo importante alla dieta, non completamente riducibile ad apporto calorico o di macronutrienti, è razionale pensare ad un possibile spazio aperto per l’etnobotanica applicata, perché essa raccolga il sapere che sta scomparendo sulle proprietà nutrizionali e medicinali delle piante selvatiche, perché lo integri ai progetti di ricerca e sviluppo per offrire strategie percorribili ed accettabili dalle comunità locali (vedi rispetto a questo il lavoro svolto negli anni dall’International Centre for Underutilized Crops e dalla Global Facilitation Unit for Underutilized Species, recentemente accorpatesi per formare Crops for the Future)

Circa 15 anni fa gli stessi Chepang misero sul piatto diverse proposte per superare il problema della Khorya:

  1. Favorire la conoscenza di orti familiari, dove coltivare piante, ortaggi ed alberi da frutto e da foraggio: permettono raccolti maggiori e un maggior ritorno economico. Alberi “poliedrici” come il Chiuri sono particolarmente promettenti.
  2. Negli orti familiari potrebbero essere coltivati, lungo I limitari, specie ad elevato valore aggiunto come I bambù, le piante da saggina, utili per l’artigianato, in particolare per I manufatti intrecciati, attività nella quale I Chepang primeggiano.
  3. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda le piante medicinali
  4. Altrettanto importante sarebbe imparare nuove e migliori forme di gestione della foresta, per migliorare e rendere più efficiente la raccolta di piante selvatiche, e per ridurre il rischio di impoverimento del terreno.

Grazie allo sforzo di varie organizzazioni locali gli orti famigliari sono aumentati e sono di miglior qualità, ma rimangono ancora insufficienti per il sostentamento. Le piante più utilizzate sono:

Ma veniamo allora ai kandamools, ovvero alle piante selvatiche utilizzate. Non volendo allungare oltremodo il già lungo post, non elenco tutte le specie utilizzate (qui e qui potete trovare articoli che descrivono in dettaglio le specie più importanti) ma citerò solo quelle che ho visto nei viaggi, o delle quali ho parlato direttamente con un abitante della valle. Quello che presento non è che un suggerimento per ulteriori approfondimenti.

Le piante selvatiche (kandamools)

From Chepang Khilendra 2009
From Viaggio tra i Chepang di Musbang

1. Yoshi/Chiuri. Diploknema butyracea (Roxb.) H.J. Lam — Sapotaceae

Ban Yoshi: Chiuri selvatico; Rang Yoshi: Chiuri coltivato

Probabilmente la pianta più importante per I Chepang. E’ una pianta fondamentale per l’identità del gruppo: definisce la cultura Chepang, fornisce una fonte fondamentale di materiale per l’alimentazione, la cultura materiale, il sostentamento economico. Praticamente ogni parte della pianta viene sfruttata. I Chepang si tramandano una tassonomia popolare molto dettagliata sulla pianta, sulle sue varietà, sulla germinazione dei semi, sulle cure dell’albero, sulla raccolta dei frutti, del nettare, sull’estrazione del burro dei semi, ecc., e utilizzano più di 30 nomi per la pianta a seconda del periodo di fioritura; del colore dei frutti, delle foglie, sella corteccia, dei rami e dei semi; della forma del tronco; delle dimensioni, odore e sapore del frutto; della produttività.

Una racconto mitologico sull’origine dell’albero sottolinea la centralità della pianta:

“Molto tempo fa, di notte, una bufala scappò dalla stalla dove stava riposando, ed andò in un campo di miglio per mangiare fino a che non fu completamente sazia. Ma quando decise di tornare alle stalle, perse la via del ritorno a causa dell’oscurità, e cadde in un pericoloso burrone e lì rimase, incastrata a metà. Nessuno riuscì ad aiutarla a risalire, e ella morì lì. Si narra che nel medesimo luogo, fertilizzato dalla carcassa della bufala, nacque il primo albero di Chiuri”

Narra sempre il mito che è possibile leggere nel Chiuri questa lontana origine: I suoi frutti danno un succo lattiginoso (il latte della bufala) e il burro estratto dai semi è il burro di bufala. I piccoli grani neri nella polpa del frutto sono i grani di miglio che la bufala si era mangiata. Inoltre I Chepang usano ancora una frase tipica: il Chiuri è per noi come una bufala.

Usi

  • Semi: medicinali
  • Burro dei semi: cibo, olio da lampade, medicinale
  • Cake dei semi: agricoltura (come pesticida ed insetticida), pesca, foraggio (dopo la lisciviazione)
  • Frutti: cibo, medicina, Raksi
  • Fiori: nettare, apicoltura, medicina, bevande fermentate
  • Foglie: foraggio, piatti, cartine per tabacco
  • Corteccia: medicina, combustibile, pesca
  • Legno: costruzione, cultura materiale, combustibile
  • Latice: gomma da masticare, trappole per insetti ed uccelli

In particolare il burro ricavato dai semi viene utilizzato per cucinare, internamente per costipazione cronica e febbri. A livello topico per pelle infiammata, reumatismi, tenia pedis. Il burro viene usato nelle lampade dei templi perché non emette cattivi odori e brucia con fiamma luminosa, bianca e senza fumo.

Potenzialmente il burro potrebbe essere usato non solo per cucinare ma come margarina, come fonte di acido palmitico per l’industria farmaceutica, per fare delle candele, come sostituto dell’olio di cocco per fare saponi, pr fare unguenti e creme e come balsamo per i capelli mescolato a degli attar.

2. Ghitta (Dioscorea bulbifera L.), Bhyakur (D. deltoidea Wall. ex Griseb), Chunya (D. pentaphylla L.) e Bharlang (Dioscorea spp.) — Dioscoreaceae

Come in molte aree del mondo le Dioscoree rappresentano una risorsa insostituibile per il sostentamento alimentare. E come in molti casi le Dioscoree selvatiche non sono immediatamente fruibili, a causa della presenza di alcuni composti tossici. In particolare le specie utilizzate in Nepal sono caratterizzate da un contenuto in proteine e fibre più elevato delle varietà coltivate, e non sono particolarmente tossiche. Non contengono alcaloidi e quantità relativamente basse di nor-diterpeni furanoidi come la diosbulbina A ed in particolare la diosbulbina B, più composti cianogeni ben entro i limiti di sicurezza. I rari casi di infiammazione e tossicità riportati in letteratura sono più probabilmente dovuti alla presenza di cristalli di ossalato.

Per quanto poco tossiche, queste specie vengono comunque trattate in maniera complessa per eliminare la parte amara: dopo aver pelato i tuberi, questi vengono fatti a fette (eliminazione di metaboliti presenti nella corteccia) e messi a bollire con acqua e cenere (tecnica della cottura ed adsorbimento) per tre volte cambiando ogni volta l’acqua di bollitura (eliminazione dell’acqua e cenere saturate); il materiale così trattato viene poi posto per un giorno a bagno nell’acqua corrente di un torrente (lisciviazione), per poi essere trasformato in farina alimentare.

Le Dioscoree non sono importanti sono a livello alimentare: nel distretto del Gorkha vengono consumate come piante sacre durante il festival Hindu del Maghe Sankranti: il primo giorno del festival i tuberi vengono bolliti, poi fritti, e mangiati.

In altre regioni vengono anche usate come rimedi antelmintici.

3. Sisnu/Nelau (Urtica dioica L.) — Urticaceae

Certamente uno dei cibi selvatici più comuni ed utilizzati dalla gente delle colline. I germogli giovanili e le foglie primaverili vengono raccolte e cotte insieme ai germogli di bambù, usate nelle zuppe o mescolate alla polenta di mais, grano o Eleusine coracana (con aggiunta di sale e peperoncino).

La radice viene utilizzata come rimedio per tosse e raffreddore, miscelata insieme a Woodfordia fruticosa e Castanopsis indica (Roxburgh ex Lindley) A. de Candolle.

4. Rimsi & Gotsai

Rimsi/Koiralo (Bauhinia variegata L.) Fabaceae

Le giovani foglie, i fiori ed i frutti vengono fatti bollire e consumati come direttamente o conservati in salamoia e usati come achar.

Sono importanti piante medicinali: corteccia e fiori si usano per linfadenia, elmintiasi ed amebiasi, disturbi gastrici, e localmente in polvere per tagli e ferite (probabilmente grazie alla presenza importante di tannini).

5. Gotsai sag/Tanki (Bauhinia purpurea L.) — Fabaceae

I germogli floreali, le cime giovani ed i frutti acerbi vengono cotti e consumati direttamente o come achar, i semi vengono fritti e mangiati come snack, mentre le foglie adulte vengono usate come foraggio. La corteccia ricca in tannini viene usata come astringente in caso di diarrea e dissenteria, e come agente colorante.

From Dolakha 2009

6. Gaidung (Asparagus racemosus Willd.) — Asparagaceae/Liliaceae

I germogli giovanili e le foglie tenere si consumano come verdura cotta o come achar. Viene usato come rimedio insetticida e come tonico. Nel Dhading la frutta viene consumata per trattare problemi della pelle come foruncoli.

In Nepal le radici vengono arrostite sul fuoco e lasciate all’aperto per tutta la notte, quindi vengono polverizzate, mescolate con acqua e usate in caso di minzione dolorosa o urente.

In Ayurveda la radice viene considerata un rimedio Rasayana molto importante, usato in moltissime condizioni patologiche.

Nella valle del Khandrang alcuni nuclei abitativi hanno iniziato la domesticazione della pianta, in parte a causa dell’ottimo potenziale di mercato delle radici, in parte a causa del rischio di perdita di germoplasma nel selvatico (è una specie in pericolo).

7. Tama bans (Dendrocalamus hamiltonii Nees & Arnott ex Munro o Bambusa nepalensis Stapleton) — Poaceae

I germogli vengono fatti bollire o preparati per la conservazione come achar per il consumo personale; nella stagione secca (da febbraio ad aprile) vengono conservati come germogli fermentati (tama), un prodotto moto venduto nei mercati locali ed importante per il sostegno economico delle famiglie.

Il bambù adulto si usa come fonte di fibre per intrecciare cesti, stuoie e recinzioni.

8. Tore Nyuro (Thelypteris ciliata (Wallis ex Bentham) Ching e spp.) — Thelypteridaceae.

Le fronde tenere si consumano lesse o conservate come achar.

Il succo del rizoma si usa in caso di febbre, disturbi gastrici, diarrea ed indigestione.

9. Danthe Nyuro (Dryopteris cochleata (D. Don) C. Christensen) — Dryopteridaceae

Una delle felci più importanti nel distretto del Gorkha. Fronde e germogli giovanili si consumano lessi in famiglia (una volta fatti bollire si mantengono fino a 15 giorni) e vendute nei mercati locali.

Il succo delle radici si usa in caso di dissenteria e diarrea.

Sta diventando rara nel selvatico a causa dell’eccessiva raccolta (è una pianta considerata in pericolo)

10. Pani Nyuro & Chyan (Diplazium esculentum (Retzius) Swartz ex Sch. & Diplazium polypodioides Blume) — Woodsiaceae/ Dryopteridaceae

Le fronde tenere di Pani Nyuro vengono consumate lesse.

Il succo dei rizomi si usa in caso di febbri malariche, e una pasta ottenuta battendo le fronde si usa sulla pelle in caso di foruncoli o scabbia. Il succo della radice del Chyan Nyuro si applica su ferite ed abrasioni.

11. Thotne/Chaunle (Aconogonon molle (D. Don) H. Hara) – sin: Persicaria mollis; Polygonum molle) — Polygonaceae

I germogli giovanili consumati come verdura fresca o bollita, o come achar, particolarmente ricercato per il suo sapore acre.

Le foglie si usano in caso diarrea nel distretto del Manang.

Anche questa è una specie in pericolo, a causa della raccolta non sostenibile e della perdita di terreno forestale.

12. Porali/Ghiraula (Luffa cylindrica (L.) Roemer) Cucurbitaceae

Pianta già introdotta negli orti familiari. Il frutto tenero si consuma come verdura, mentre da secco viene venduto sul mercato come spugna vegetale.

I Tharu mescolano I semi macerati in acqua insieme ai semi di Zizyphus mauritiana Lam. e al succo della radice di Callicarpa macrophylla Vahl., quindi filtrano il tutto ed usano il liquido in caso di varicella, quando l’eruzione cutanea non “esce”.

———————————————–

[1] The Local Food-Nutraceuticals Consortium (2005) “Understanding local Mediterranean diets: A multidisciplinary pharmacological and ethnobotanical approach” Local Food-Nutraceuticals Consortium Pharmacological Research 52 (2005) 353–366; Estruch R,et al. (2006) “PREDIMED Study Investigators Effects of a Mediterranean-style diet on cardiovascular risk factors: a randomized trial”. Ann Intern Med. 4;145(1):1-11; Salas-Salvadó J, et al. (2008) “Effect of a Mediterranean diet supplemented with nuts on metabolic syndromestatus: one-year results of the PREDIMED randomized trial” Arch Intern Med. 8;168(22):2449-58; Shai I, et al.  (2008) “Dietary Intervention Randomized Controlled Trial (DIRECT) Group. Weight loss with a low-carbohydrate, Mediterranean, or low-fat diet”. N Engl J Med. 17;359(3):229-41

[2] Pieroni A, Price LL (2006) Eating and healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[3] Etkin, N (2008) Edible medicines: an ethnopharmacology of food. University of Arizona Press

[4] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[5] Price LL (2006) “Wild food plants in farming environment”s. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[6] Price LL (2006) op cit.

[8] Rijal, Arun. (2008) “A Quantitative Assessment of Indigenous Plant Uses Among Two Chepang Communities in the Central Mid-hills of Nepal.” Methods 6: 395-404

[9] Rijal, Arun. (2008) op. cit.

[10] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu

Fitoalimurgia Chepang 1/2

In questi giorni di tribolazione per il Nepal (leggi qui e qui le cronache di Enrico Crespi), spintonato da un post di Meristemi (eccolo qui) sulla fitoalimurgia, prendo l’occasione per scrivere nuovamente di Chepang, un gruppo etnico di cui avevo già parlato in un’altra occasione, descrivendo un albero particolarmente importante nella loro cultura.

Come giustamente rimarca Meristemi, la fitoalimurgia, o più in generale lo studio del ruolo delle piante selvatiche o non coltivate nella storia dell’uomo, è particolarmente affascinante perché rappresenta una chiave di lettura poliedrica, che ci permette molteplici punti di entrata nel “discorso” piante e uomo. Inoltre è un esempio di ciò di cui parlava Andrea Pieroni in un post di qualche tempo fa, ovvero delle dimensioni pratiche ed etiche dell’etnobotanica, che diviene una attività non solo accademica ma applicata, uno strumento per modificare la realtà.

Il tema delle piante selvatiche tra cibo e medicina pone inoltre in primo piano il problema dell’articolazione tra tradizione e progresso scientifico. Mi ci hanno fatto pensare i post di Anna Meldolesi sul consumo etico, e di Bressanini sugli OGM, e non tanto per quello che hanno detto, quanto per le riflessioni che mi pareva scaturissero dai vari commenti.

Le strategie di gestione, di raccolta e di conservazione delle piante selvatiche sono pratiche tradizionali che meritano di essere studiate? O dovremmo invece pensare che siano fasi primitive, preagricole, del nostro rapporto con le piante, quindi ormai desuete e impari allo scopo? La fitoalimurgia è un campo dello scibile utile solo a survivalist che si allenano per la terza guerra mondiale, o per romantici innamorati del folklore, oppure ci possono dire qualcosa di rilevante sulle strategie di salute alimentare?

E ancora, se il dato scientifico si deve tradurre in politiche (in questo caso agricole ed alimentari) e se contesti differenti esigono risposte differenti anche a partire dagli stessi dati, le pratiche agricole tradizionali o le pratiche pre-agricole possono rappresentare parte delle politiche alimentari in determinati contesti?

Non intendo tentare di rispondere a nessuna di queste domande, almeno per il momento

I Chepang

Il caso di studio dei Chepang (che ho portato a Pollenzo, presso l’Università di Scienze Gastronomiche, su invito di Andrea Pieroni) credo possa servire proprio a vedere la complessità del problema, e di come la soluzione ai problemi di salute e sicurezza alimentare passi contemporaneamente dalla necessità:

1. di un approccio trickle-up, ovvero che parte dall’ascolto delle popolazioni locali, della loro percezione dei problemi e delle possibili soluzioni (che spesso sorprende chi parte da posizioni preconcette)

2. di un approccio scientifico allo studio dei sistemi tradizionali di gestione del territorio e della biodiversità

3. dell’inserimento della dimensione dell’identità culturale di un gruppo all’interno dell’equazione sulle possibili soluzioni.

#

Rimando i lettori al post precedente per una introduzione ai Chepang. Ricordo brevemente che sono vissuti come cacciatori-raccoglitori fino a poco tempo fa, dipendendo interamente dalla foresta come fonte di radici e piante alimentari, e cacciagione,  fino a 100-150 anni fà.[1]

Più di recente sono diventati stanziali e si sono adattati ad una vita da agricoltori con la tecnica del debbio (in lingua Chepang Khorya, in inglese swidden, o slash-and-burn).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Rimangono però ancora pesantemente dipendenti dalla foresta (come d’altronde è vero, in minor misura, per molta della popolazione nepalese, che per il 90% vive in aree al limine tra foresta e campi coltivati) e dai suoi prodotti, o da piante non coltivate (ad esempio il Chiuri– Dyploknema butyracea (Roxb.) H. J. Lam — Sapotaceae, qui la monografia infoerbe) per la sussistenza alimentare, per le medicine, per la cultura materiale, per il foraggio, per il combustibile ed anche per un sostegno economico, dato che scambiano o vendono vari prodotti ai mercati locali.

Sono certamente una delle comunità più svantaggiate del Nepal dal punto di vista socio-economico, dell’accesso all’educazione e ai servizi di salute, in termini nutrizionali (soprattutto deficit proteico, mentre la dieta fortemente vegetale riduce i deficit vitaminici), in particolare tra donne e bambini (i bambini possono soffrire di malnutrizione e le donne incinte di deficienza di ferro e di proteine) (anche se negli ultimi 15 anni molte cose sono cambiate),[4] circa il 50% delle famiglie sono in situazione di debito, con un deficit di contanti molto acuto e con un surplus annuale molto basso; l’agricoltura (in particolare le coltivazioni di mais – Zea mays L. e panico indiano – Eleusine coracana (L.) Gaertner. – Poaceae) provvede sostentamento al 97% della popolazione solo per 5-6 mesi all’anno e per il resto dell’anno le famiglie devono fare ricorso alla foresta ed ai suoi prodotti. [5]

Anche se negli ultimi anni sono stati introdotti gli orti familiari, con cetrioli, pomodori, zucche e zucchine ed altri ortaggi, la maggior parte dei Chepang continua a fare affidamento più sulle piante selvatiche o non coltivate, o sulle piante coltivate con il metodo del debbio. [6]

Come è stato detto, gli alimenti principali dei Chepang sono il mais e la Eleusine coracana. Da quest’ultima si ricava il Dhindo, ovvero la polenta di miglio, e il Jand (bevanda fermentata a base di miglio e mais), la bevanda più tipica, bevuta da tutti in famiglia.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Di grande importanza, non solo alimentare ma anche culturale, sono i curry a base di larve e pupe di api e vespe, e a base di pipistrelli.

Centrale nella cosmogonia Chepang è, come si è detto, l’albero del Chiuri (Diploknema butyracea), o Yoshi in lingua Chepang, che provvede la famiglia di frutta, miele, nettare, ghee, foglie per piatti, fiori per bevande fermentate, ecc., per il consumo locale o per la vendita nei mercati a valle, vendita che fornisce fino al 60% del reddito familiare (vedi il mio precedente post per il dettaglio sull’albero).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Altri items venduti o scambiati al mercato sono i germogli fermentati di bambù, i doko (cesti di bambù), i naglo (i grandi piatti di fibre intrecciate per separare il loglio dal cereale) e le namlo (le cinghie da trasporto).

Vivono in villaggi, o meglio gruppi di case sparse sui pendii molto ripidi del gruppo del Mahabarat, nel Nepal centrale lungo i fiumi Trisuli, Narayani e Rapti e nei bacini degli affluenti (Manahari e Lothar al sud, Malekhi e Belkhu al nord) compresi nei Distretti del Dhading, Makwanpour, Chitwan e Gorkha.

Le loro case sono a tetto basso, piccole e quasi sempre ad una sola camera, con poca ventilazione. I componenti della famiglia vivono in questa unica stanza, mentre il secondo piano funge da solaio per I cereali ed altri alimenti conservati. Onnipresenti nella casa sono il ripiano di bambù sopra al fuoco per essiccare ed affumicare carne, pesce e cereali (e semi di Chiuri), e la mola (due pietre circolari per le farine di cereali), mentre subito fuori dalla porta troviamo l’attrezzo per decorticare il grano o rompere il guscio dei semi.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

A differenza di molto altri gruppi etnici nepalesi, i Chepang non danno molto rilievo alle gerarchie ed alle differenze di genere sessuale che, pur sussistendo, sono meno marcate rispetto al resto del paese. Le donne godono di maggior libertà, ed il cibo viene equamente diviso tra tutti i membri della famiglia, senza differenze di età o di genere (cosa non comune nel resto delle zone rurali del paese, dove spesso le donne devono nutrirsi dopo il resto della famiglia e con ciò che rimane, nutrendosi quindi poco e male, un dato rilevante per il problema del prolasso uterino).

Studi antropologici

Mentre i Chepang sono stati oggetto di molte ricerche ed analisi di tipo sociologico, minori e di minor qualità sono gli studi e gli interventi sullo sviluppo economico e sociale. Come lamentano gli stessi Chepang, c’è veramente poco sui Chepang che provenga dai Chepang stessi, e poco spazio è stato dato alla domanda “quale beneficio ha portato ai Chepang tutto il lavoro svolto sui Chepang?”. [7]

Fino a poco tempo fa i progetti governativi si sono poco interessati alle definizioni di sviluppo fornite dai locali, e spesso gli sforzi delle ONG sono stati trascurabili e politicamente non impegnati, evasivi, almeno fino alla metà degli anni ‘90.

Nel 1993 si è tenuto il primo “Gathering of the concerned” e nel testo che raccoglie le esperienze di questo incontro, emergono le istanze avvertite come più pressanti: [8]

1. Inferiorità, o mancanza di autostima, imposta ed istituzionalizzata. Quando CAED iniziò a lavorare con I Chepang, era comune riferirsi ad essi, anche nei documenti ufficiali, come Jungli (selvaggi/incivili) o Bankar/Banmanchhe (scimmie), ed in genere caratterizzarli come primitivi e stupidi. Questa istanza è stata infatti il primo punto di “attacco” del progetto SEACOW, la rivalutazione delle competenze e conoscenze del gruppo rispetto alle NTFP, competenze che potevano essere tradotte in riscatto sociale ed economico.

2. La cultura. Secondo Battharai le domande che è necessario porsi, prima della classica: “come facciamo a salvare la cultura dei Chepang?” sono le seguenti: “perché è necessario salvare o conservare questa cultura quando sono gli stessi Chepang a non voler essere chiamati così, a rifiutare la propria cultura? E come identifichiamo la cultura da salvare? Chi è che vuole conservarla e perché? Non si rischia un approccio tipo ‘zoo umano’?” E’ possibile raggiungere un maggior benessere senza rischiare la perdita di identità culturale?”. [9]

3. Autonomia tribale. Come si può gestire il miglioramento delle condizioni economiche vis-a-vis l’autonomia tribale e culturale, dove troviamo l’equilibrio? In particolare quale è la soluzione più desiderabile al problema della gestione della foresta? Nazionalizzazione, proprietà privata o diritti etnici collettivi?

4. Sostenibilità. L’opinione fortemente espressa dai Chepang e dalle ONG locali è che è insostenibile continuare a discutere del concetto di sostenibilità solo in termini economici. Questa tendenza ha eclissato importanti istanze, come ad esempio la necessità di rinforzare le risorse di base, la giustizia sociale e i bisogni specifici ed area-dipendenti.

———————–

Note

[1] Bista DB (2004) People of Nepal. Ratna Pustak Bhandar

[2] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu; Marandhar NP (1989) “Medicinal plants used by Chepang tribes of Makwampur District, Nepal”. Fitoterapia Lx, Perish; Bhattrai TR (1995) “Chepangs: Status, efforts and issues; a Syo’s perspective”. In TR Bhattrai Chepang Resources and Development. SNV/SEACOW, Khatmandu; Gautam MK, Roberts EH, Singh BK (2003) “Community based leasehold approach and agroforestry technology for restoring degraded hill forest and improving rural livelihoods in Nepal”. Paper presented at the International Conference on rural livelihoods, Forest and Biodiversity, Bonn; Pandit BH (2001) “Non-timber forest products on shifting cultivation plots (Khorya): a means of improving livelihoods of Chepang Rural Hill Tribe of Nepal”. Asia-Pacific Journal of Rural Development; 11:1-14

[3] declino dovuto probabilmente ad una epidemia

[4] Kerkhoff, E. & E. Sharma. (2006) Debating Shifting Cultivation in the Eastern Himalayas: Farmers’ innovations as lessons for policy. International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD), Kathmandu

[5] Balla, M.K., K.D. Awasthi, P.K. Shrestha, D.P. Sherchan & D. Poudel. (2002) Degraded Lands in Mid-hills of Central Nepal: A GIS appraisal in quantifying and planning for sustainable rehabilitation. LI-BIRD, Pokhara, Nepal

[6] Aryal G.R. & G.S. Awasthi. (2004) “Agrarian Reform and Access to Land Resource in Nepal: Present status and future perspective/action“. ECARDS review paper (Unpublished). Environment, Culture, Agriculture, Research and Development Services (ECARDS), Kathmandu, Nepal

[7] Bhattarai, Teeka R. (1995) Chepangs, resources, and development : collection of expressions of the Gathering of the Concerned, 7-9 February 19. Kathmandu: SNV: 1995. 185 p.

[8] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

[9] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

Braccia rubate a qualsiasi altra cosa

La libertà di parola è sacrosanta, ma perché sempre, e sempre più spesso, dobbiamo sorbirci questo? Parole al vento, dare aria alla bocca, parlare o scrivere perché si può. Ma un po’ di pudore no?

Marcello Veneziani, sul Giornale di qualche giorno fà, nell’articolo “Gli evoluzionisti credono di essere Dio” riesce nell’incredibile impresa di mettere in fila tutti i soliti, vecchi, triti argomenti da bar filosofico di periferia sull’evoluzionismo, aggiungendoci da par suo la candida ammissione, anzi lo sbandieramento, dell’analfabetismo scientifico.

Ovvio e banale, tanto che lo aspettavo al varco da giorni, è l’aggancio con il testo di Piatteli-Palmarini e Fodor (PPF), ché naturalmente, pur disdegnando l’approccio scientifico, ci si vuole sempre agganciare a delle autoritas dal sapore e dal lessico scientifico (capra e cavoli, n’est-ce pas?). Anche in questo però il Veneziani arriva tardino, c’avevano già pensato in tanti altri ad usare il magico duo come ariete. Vabbè, lo scoop lo farà un’altra volta.

L’articolo è di per sè abbastanza vuoto, vuoto spinto. Dato che l’autore dichiara quasi subito la sua ignoranza in fatto di evoluzione

“Non dirò una parola sull’evoluzionismo, non ho la minima autorità e competenza né per gloriarlo né per confutarlo, e nemmeno per spiegarlo.”…”Non si tratta dunque di essere pregiudizialmente avversi all’evoluzionismo, confesso candidamente la mia radicale ignoranza in materia”

ci si potrebbe aspettare un articolo su un gruppo di evoluzionisti sofferenti di turbe paranoiche (“guardi, una tristezza, fino a ieri stavano bene, stamane sono qui a maneggiare creta e a cercare di fare l’uomo”).

Invece no, l’autore intende proprio discutere dell’evoluzionismo, della teoria Darwiniana.

L’autore infatti inizia con una serie di vignette retoriche che colpiscono tanto l’immaginario (“ateismo esibizionista”, “scimmione di Darwin che impone con le zampe della scienza e i barriti dei mass media l’indiscutibile verità evoluzionista”) e che gli permettono di evitare lo scomodo compito del ragionamento e della giustificazione delle proprie affermazioni.

Per non farsi mancare nulla poi prosegue con un non sequitur: Dato che aveva appena annunciato di nulla sapere sull’evoluzionismo, passa poi a spiegarci  quali siano gli obiettivi di tale oscuro oggetto: essere “una risposta assoluta, irrevocabile e generale al senso della vita, dell’umano e del divino”, usando, da fine intellettuale qual’è, un classico stratagemma retorico, la cazzata.

Sprezzante del pericolo di ridicolo, impermeabile al concetto di onestà intellettuale, impervio alla necessità di aderenza alla realtà, prosegue per buona parte dell’articolo in questo modo. Qualche esempio illuminante:

  • I PPF vengono attaccati perché “hanno osato dubitare in un loro testo dell’infallibilità di Darwin”
  • di Roberto de Mattei, viene chiesto “lo scalpo e la rimozione dagli incarichi scientifici ai vertici del CNR perché sostiene argomenti critici verso il dogma darwiniano”.
  • “Parlo soltanto dell’implicazione assurda che la teoria evoluzionista comporta quando viene applicata oltre i confini della scienza, alla condizione umana, alla storia, al pensiero e al senso del divino”
  • “Nessuna scienza spiegherà mai perché un tipo di scimmia si è fatta uomo e altre specie no” (sic!)

“infallibilità di Darwin” ” Dogma darwiniano”… suonano familiari? Eh si, sono i soliti fantocci costruiti per sparargli addosso. E non mi si venga a dire che è solo ignoranza.

Ma finiamo in bellezza…

  • “Le teorie vanno continuamente falsificate, come dice Popper, nel senso di verificate” (sic!)

Vabbè, forse non era molto attento a quella lezione, stava leggendo Tolkien invece di Hempel, eppoi falsificare, verificare, che differenza fa? Ma possibile che questi “intellettuali” negazionisti siano sempre, sempre così prevedibili? Mai una volta che non facciano riferimento a Popper, sbagliando completamente, naturalmente, perché leggere veramente gli autori che si citano è fuori luogo, credo…

E’ molto più semplice esimersi da qualunque ragionamento e lasciare che il lavoro lo faccia la retorica, sparando una sfilza di nomi evocativi e di sicuro successo (non si sbaglia mai se si citano nella stessa frase Platone, Aristotele, Fidia, Michelangelo, la cultura Sufi o di un Bodhi, un derviscio o un maestro tantrico), dei concetti affastellati senza coerenza tipo, sentite qui:

l’evoluzione è solo uno dei moduli in cui si sviluppa la vita; ce ne sono altri opposti come il declino, la decadenza, il graduale invecchiamento o la degenerazione. … Ci sono i ritorni o i corsi e i ricorsi, della storia e della natura; e ci sono le parabole, c’è l’asse delle ascisse che cresce e quello delle ordinate che decresce, c’è l’acme di una vita, di un’epoca, di un popolo, situata a cavallo tra un’evoluzione e un degrado

Lo so, lo so, è come sparare sulla croce rossa, ma certo che nel 2010 sentir parlare di contrapposizione tra evoluzione e degrado, beh, rimpiango Piattelli-Palmarini e Fodor (per essere precisi, apprezzo molto Fodor nelle sue altre incarnazioni filosofiche)

Chi manca all’appello? Ma Spengler, of course:

la maturità, per esempio, è il punto più alto nella traiettoria umana, situato nel centro fra una crescita graduale detta progresso e un invecchiamento altrettanto graduale detto regresso. La storia delle civiltà segue lo stesso percorso evolutivo e involutivo e si sottrae al determinismo progressista. Conosce espansioni e decadenze, sviluppi e degradi, incivilimenti e imbarbarimenti

Tutto questo orgasmo…per nascondere una spaventosa vacuità di pensiero e per mimetizzare delle enormi falsità

ma quando vedo una teoria tracimare dal suo ambito, debordare, farsi dogma e schema totale di vita, fino a generare conformismo e perfino intimidazione verso chi sostiene percorsi opposti, allora insorgo. La miscela di relativismo e di intolleranza, di nichilismo e di fanatismo, mi spaventa più dei vecchi dogmatismi autoritari

Certo, alla fine è meglio il buon vecchio e sano totalitarismo piuttosto che il futuro spaventoso che ci si prospetta se finissimo nelle mani dei biologi evoluzionisti.

Quasi mi veniva da ridere, ma poi invece no.

Sul libro di PPF

http://bioetiche.blogspot.com/2010/04/anche-avvenire-di-tanto-in-tanto.html

http://leucophaea.blogspot.com/2010/04/non-accenna-diminuire-la-polemica-t.html

http://leucophaea.blogspot.com/2010/02/andiamo-sul-pesante.html