Uomo e piante 6/dimoltialtri

Ritorno dopo un momentaneo ma necessario “stacco” alla mia soap su uomini e piante. Se siete ancora con me 🙂 siamo arrivato alla puntata numero 6, e le precedenti sono qui, qui, qui, qui, e qui

E’ arrivato il momento di esplicitare meglio l’ipotesi co-evolutiva della nascita della medicina, e per fare ciò è necessario fare un passo indietro per giustificare l’idea che esista una connessione significativa e preculturale tra uomo e piante.

La teoria unificata delle comunicazioni cellulari
Come ci ricorda Meinwald [1] il nostro è un modo di suoni e visioni, e tendiamo a non renderci conto degli eventi chimici che ci circondano, del fatto che tutti gli organismi emettono e rispondono a segnali di tipo chimico, formando una vasta rete di interazioni comunicative fondamentali, attrattive, difensive, associative, ecc.

Fin dalle origini della vita infatti, il problema che i primi organismi cellulari hanno dovuto risolvere è stato quello della comunicazione tra cellula ed ambiente circostante e tra cellula e cellula, ed il problema è stato risolto da tutti gli organismi nello stesso modo, attraverso il linguaggio di molecole che possono penetrare le membrane e interagire con il nucleo oppure che trovano recettori specifici sulla membrana cellulare che mediano poi dei cambiamenti interni.

Ragionando da una prospettiva abbastanza ampia è quindi ovvio che uomini e piante, anzi, animali e vegetali, debbono mostrare dei legami, non soltanto filogenetici ma di relazione, comunicativi: affinché la vita di organismi diversi, anche appartenenti a Regni differenti,  possa prosperare in uno stesso ambiente, vi sono state, e vi devono essere state, continue relazioni mediate da un linguaggio molecolare.

La “teoria unificata delle comunicazioni cellulari” vuole che queste relazioni, ed i percorsi biogenetici del metabolismo secondario che creano le molecole messaggere, siano nati molto presto nella storia dell’albero evolutivo e siano spesso comuni tra i Regni Animalia e Vegetalia. [2] Ciò significa che nonostante la distanza filogenetica tra organismi appartenenti ai due Regni, essi possano però riconoscere gli stessi messaggeri. [3] Questo dato di base spiega la possibilità delle interazioni tra piante ed animali ed il ruolo di intermediari che hanno i metaboliti secondari.

Come rispondere all’ambiente

La possibilità per una pianta di “leggere” i messaggi di altre piante le permette di rispondere a degli indizi ambientali modificando il proprio schema di risposta. Organismi animali possono usare questi indizi per riconoscere lo stato dell’ambiente esterno ed “decidere” come allocare le proprie risorse energetiche.

Un esempio di questo utilizzo dei messaggi molecolari negli animali superiori potrebbe essere legato al fenomeno della senescenza. Organismi che si siano evoluti in ambienti mutevoli possono trarre vantaggio dalla capacità di puntare su un successo riproduttivo immediato a scapito della longevità in caso di ambiente più favorevole, o di puntare sulla longevità e su una ritardata maturazione sessuale in caso di condizioni sfavorevoli. [4]

Esempi di questi percorsi di allarme comprenderebbero varie chinasi legate alla sopravvivenza delle cellule, i fattori di trascrizione NRF2 e CREB, e le deacetilasi istoniche della famiglia della sirtuina, una proteina nota come Sir2 nei lieviti e SIRT1 nell’uomo.

Le Sir2 (Silent information regulator 2), sono presenti in tutti gli organismi, dagli eubatteri agli eucarioti, compresi gli esseri umani. Svolgerebbero due funzioni primarie nei mammiferi: la prima è  coordinare gli schemi di espressione genica (ovvero decidere quali geni sono attivati e quali disattivati in ogni singola cellula, per evitare ad esempio che una cellula renale inizi ad esprimere tendenze epatiche) e mantenere la stabilità di certe regioni cromosomiche e sopprimere l’esagerata espressione di certi geni (silenziamento genico) aumentando la stabilità del genoma; la seconda è funzionare da agenti riparatori emergenziali in caso di danno al DNA. [5] Il problema sorge dal fatto che quando le sirtuine sono occupate a riparare il DNA non regolano più l’espressione dei geni. Fino a che i danni al DNA sono rari le sirtuine riescono a compiere entrambi i compiti con efficienza, ma quando questi danni aumentano (tipicamente con l’età) la de-regolazione dell’espressione genica diventa cronica, e questo sembra essere legato, nei modelli animali utilizzati, a fenotipi di senescenza. [6]

Negli ultimi decenni sono stati scoperti molti composti di origine vegetale (tre esempi sono resveratrolo, i sulforafani ed i curcuminoidi) sintetizzati in risposta a vari tipi di emergenza (siccità, radiazioni, attacchi di insetti, infezioni, ecc.) per stimolare diverse risposte adattive e la rigenerazione cellulare stimolando una maggior espressione di sirtuine ed allungando la vita media,  proteggendo le cellule da lesioni stimolando la produzione di antiossidanti, fattori neurotropici ed altre proteine correlate allo stress.

Il modello coevolutivo

Ma il legame che viene proposto va oltre al dato generalizzato della teoria unificata delle comunicazioni cellulari, anche se si fonda su di essa. Esso si basa sull’ipotesi che l’utilizzo delle piante come fonte privilegiata di nutrienti abbia plasmato la fisiologia dell’uomo.

I nostri antenati, secondo l’ipotesi antropologica attualmente più accreditata, erano onnivori-foliovori, nel senso che avevano una decisa preferenza, certamente ispirata dalla necessità, per le piante ed in particolare per le foglie. E’ molto probabile che l’uomo preferisse sempre cibo denso in energia e povero di composti tossici (carne, tuberi, frutta) piuttosto che foglie; d’altro canto tuberi e frutti non sono disponibili tutto l’anno e sono più difficili da scovare, mentre le foglie sono più facilmente sfruttabili perché sono sempre presenti su tutto il territorio antropizzato, ed è probabile che siano sempre stati parte della dieta, oltre ad essere un “salvavita” in caso d’emergenza.

Questa forzata “convivenza alimentare” con le piante ci ha costretti a confrontarsi con molteplici messaggi chimici (spesso difensivi e quindi tossici) ai quali è stato necessario fornire delle risposte, cioè adattarsi, in qualche modo co-evolversi con essi e con le piante che li contenevano.

La tesi sostenuta da un certo filone antropologico (vedi Johns [12]) è che l’adattamento abbia fatto sì che le proprietà che rendevano le piante tossiche o non commestibili (limitando le possibilità di alimentazione dell’uomo) siano le stesse che le hanno rese attive a livello farmacologico (rappresentando quindi un fattore di promozione della salute). La nostra specie, nell’adattarsi alle tossine delle piante, le ha portate ad essere una parte essenziale della nostra ecologia interna, le ha “introiettate” facendo sì che non ci danneggiassero (o almeno non ai livelli ai quali le ingeriamo) ma anzi che potessero esserci utili.

Ne consegue l’ipotesi che gli esseri umani selezionino le piante sulla base della loro composizione chimica e che l’ingestione dei composti chimici vegetali sia parte di una risposta adattiva integrata che possiede elementi biologici e culturali, e che la nostra eredità biologica, associata allo snodo essenziale costituito dalla rivoluzione neolitica (la domesticazione delle piante e la loro coltivazione), pongano le basi per la nascita dell’uso medicinale delle piante. [7]

Questa ipotesi è andata rafforzandosi nei decenni grazie ai molti studiosi che l’hanno corroborata con vari pezzi di puzzle.


Prove indirette: i nostri simili
Un supporto, seppur indiretto, alla tesi che l’utilizzo delle piante a scopo medicinale da parte dell’uomo abbia origini preculturali e coevolutive viene dagli studi sulla zoofarmacognosia, ovvero sull’automedicazione con le piante da parte degli animali non umani. [8]

Glander, Lozano, Huffman ed altri autori portano vari esempi di zoofarmacognosia, alcuni dei quali riporto di seguito. [9]

Gli elefanti malesi si cibano di una leguminosa [Entada schefferi Ridley – Fabaceae] prima di intraprendere un lungo cammino; in India i cinghiali selvatici dissotterrano e si nutrono in maniera selettiva delle radici di Boerhavia diffusa L. [Nyctaginaceae], usate anche dagli esseri umani come rimedio antelmintico, mentre i maiali si ciberebbero delle radici del melograno [Punica granatum L. — Punicaceae] per la sua tossicità sui nematodi. Gli scimpanzè maschi della Tanzania occidentale, nei periodi dell’anno nei quali aumentano le infestazioni di nematodi, utilizzano le foglie di Aspilia spp. (spesso A. mossambicensis) [Asteraceae] seguendo un rituale molto particolare e completamente diverso dalla ritualità normalmente associata all’alimentazione: arrotolano le foglie, le mettono tra lingua e guancia e poi le ingoiano senza masticarle.

Va notato che Aspilia contiene principi attivi antibatterici, antifungini e antelmintici (thiarubrina A), e che la modalità di assunzione potrebbe favorire l’assorbimento di tali composti attraverso le mucose della guancia. Gli scimpanzè mostrano altri comportamenti molto interessanti: le femmine ingeriscono foglie di Lippia plicata Bak. [Verbenaceae] (usata dagli indigeni come stomachico ed insetticida) quando sembrano avere dei disturbi gastrointestinali, e vari maschi malati sono stati notati mentre succhiavano il midollo del fusto di Vernonia amygdalina Del. [Asteraceae], una pianta molto amara (contiene lattoni sesquiterpenici amari, antelmintici e antischistosomiaci), raramente usata a scopo alimentare ma comune nella medicina tradizionale dell’Africa orientale in caso di febbri malariche, schistosomiasi, dissenteria amebica, elmintiasi, diarrea, mal di stomaco, inappetenza e scorbuto, e dagli agricoltori in caso di parassiti intestinali dei maiali.

Negli esseri umani la Vernonia è efficace contro Giardia lamblia, ossiuri e nematodi dei generi Ancylostoma, Uncinaria, Necator. E’ interessante notare come i primati utilizzino raramente le foglie e la corteccia della pianta, nonostante la maggior concentrazione in composti attivi. Il fatto che queste parti della pianta contengano anche composti tossici è una possibile spiegazione di questo comportamento. I primati utilizzano in maniera simile anche i fusti di Palisota hirsuta (Thunb.) K. Schum. [Commelinaceae] e Eremospatha macrocarpa (Mann and Wendl.) Wendl. [Palmae].

Alouatta palliata (una scimmia urlatrice) mostra una frequenza molto ridotta, rispetto agli scimpanzè, di carie o gengiviti, dato in parte spiegabile con la dieta povera in frutta zuccherina, ma forse anche con il consumo di anacardi [Anacardium occidentale L. — Anacardiaceae], frutti che contengono acido anacardico e cardolo, composti attivi contro i batteri gram-positivi tipici della carie; le stesse scimmie urlatrici sono soggette a parassitosi gastrointestinale, ma quelle di loro che si alimentano anche con frutti dei ficus [Ficus spp. — Moraceae] lo sono di meno. Dato che il latice di Ficus è antelmintico, è possibile che il consumo di foglie e frutti contribuisca ad abbassare il carico di parassiti. [10]

Uno dei primati meno comuni (Brachyteles arachnoides) è preda, come altri, di parassitosi intestinale, ma tra i gruppi che ne soffrono di meno si nota uno schema di alimentazione particolare.  All’inizio della stagione delle piogge questi individui fanno uno sforzo particolare per mangiare piante che prima non assaggiavano, in particolare le leguminose Apuleia leiocarpa (J. Vogel) J.F. Macbr. e Platypodium elegans Vogel. [Fabaceae] (ricche in composti antimicrobici e isoflavoni).

I Colobus rossi normalmente preferiscono foglie giovani, ricche in proteine e povere in tannini ed altri composti fenolici, ma di quando in quando mangiano foglie ad elevato contenuto in tannini, che potrebbero servire per detossificare gli alcaloidi e ridurre il gonfiore intestinale. [11]

I babbuini soffrono comunemente di schistomatosi, ed è stato notato, nei gruppi che vivono presso le cascate Awash (Etiopia), un comportamento particolare degli individui che ne sono affetti gravemente: essi si nutrono di foglie e frutti di Balanites aegyptiaca (L.) Del. [Zygophyllaceae], che contengono diosgenina, attiva contro Schistosoma cercariae.

Prove dirette: la fisiologia ed il comportamenti umani. [12]
Se l’ipotesi appena esposta è valida, ci deve essere rimasta qualche traccia del processo co-evolutivo nel nostro organismo, sia di tipo fisiologico che comportamentale. La difficoltà sta però nel riconoscere se e quali di queste caratteristiche siano tracce coevolutive, perché ci è dato interpretarle come tali solo a posteriori, senza il beneficio di una prova diretta, ma solo tramite inferenze.

Ad esempio, gli esseri umani hanno un intestino adatto a cibi densi di nutrienti ma mantengono una certa capacità di digerire fibre, e possono sopportare dosi relativamente elevate di composti allelopatici; l’uomo è inoltre capace di sopperire al proprio fabbisogno di acidi grassi essenziali tramite i loro precursori presenti nei vegetali.  Queste caratteristiche potrebbero indicare una consuetudine dell’uomo con le piante. Si è anche ipotizzato che la preferenza dell’uomo per il sale (di più di un ordine di magnitudo superiore al suo fabbisogno) potrebbe essere spiegato con la carenza di sodio nelle piante della savana dove Homo si è evoluto, e, come si è visto più sopra, l’incapacità di sintetizzare la vitamina C potrebbe essere spiegata con la sua ubiquità ed abbondanza nei vegetali.

La presenza nella saliva dell’uomo di proteine ricche in prolina (PRP) è un altro importante esempio: l’uomo è in grado di rispondere all’ingestione di tannini mantenendo le parotidi in uno stato di induzione, tanto che il 70% delle secrezioni salivari è del tipo PRP: queste PRP possono servire a legare i tannini presenti nel cibo e renderli meno irritanti per il tratto gastrointestinale e forse per renderli meno attivi sul cibo che ingeriamo (riducendone gli effetti antinutrizionali).

Esempi più generici del rapporto dell’uomo con sostanze velenose sono il vomito ed i sensi chimici.


Il vomito è un istintivo meccanismo di rigetto di una sostanza che si è immediatamente riconosciuta come tossica o in qualche modo non desiderata.

I sensi chimici, gusto ed olfatto mostrano di poter discriminare sostanze vegetali potenzialmente pericolose da altre potenzialmente utili (discriminando tra amaro e dolce ad esempio), e mostrano di poter attivate risposte condizionate molto potenti, in particolare quelle negative associate al cibo. Ciò significa che a seguito di un malessere gastrointestinale legato temporalmente (a prescindere dal legame causale) all’ingestione di cibo, il sapore e l’odore di quel cibo saranno legati al malessere rendendo molto difficile cibarsene ancora. Questo è un tipo di meccanismo di apprendimento, perché una sostanza che abbia provocato un malessere gastrointestinale probabilmente è tossica, o comunque dobbiamo considerarla come tale. [13]

C’è una differenza importante tra olfatto e gusto, perché il primo, essendo molto più plastico del gusto, è meno legato alla percezione negativa, mentre quest’ultimo, essendo limitato alla discriminazione di quattro o cinque sapori, è più fortemente e più meccanicamente legato alla risposta condizionata.


Altro indizio molto rilevante è la presenza di enzimi detossicanti a livello epatico (e in misura minore renale, intestinale e polmonare), enzimi che rendono meno tossiche e facilmente eliminabili varie sostanze di origine vegetale, e che non sono molto specializzati, non hanno cioè la capacità di detossificare sempre e con efficienza una sostanza particolare, ma hanno la capacità plastica di adattarsi a molti problemi diversi, e questo è un indizio che si situa bene nel quadro di una dieta umana prevalentemente onnivora-foliovora (da cui l’esistenza di enzimi che hanno come substrato delle sostanze vegetali), con fonti alimentari molto diversificate (da cui la necessità di plasticità nella risposta).

Possiamo considerare il ruolo degli enzimi detossificanti in congiunzione con la neofobia, cioè il fatto che l’uomo adulto mostri la tendenza ad esser circospetto rispetto alle sostanze che deve assumere. [14]

Dato che il meccanismo epatico esiste per detossificare una sostanza potenzialmente tossica, il fatto di assaggiare sempre piccole quantità di un cibo o di una sostanza nuova permette di non avvelenarsi accidentalmente, e di non sovraccaricare i meccanismi detossificanti. Quindi la combinazione dei due meccanismi ci può permettere di assaggiare un cibo nuovo che può essere pericoloso senza però morire dopo averlo assaggiato.

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Note al testo

[1] Eilser T, Meinwald J (1995) “Preface” in Thomas Eilser and Jerrold Meinwald (eds) Chemical ecology: The Chemistry of Biotic Interaction National Academy Press Washington, D.C. 1995

[2] Roth J., Leroith D. (1987) The Sciences, May-June:51

[3] Lamming D.W., Wood J.G., Sinclair D.A. (2004) “Small molecules that regulate lifespan: evidence for xenohormesis”. Mol Microbiol; 53(4):1003-9; Howitz, K.T., Bitterman, K.J., Cohen, H.Y., Lamming, D.W., Lavu, S., Wood, J.G., et al. (2003) “Small molecule activators of sirtuins extend Saccharomyces cerevisiae lifespan”. Nature 425: 191–196; Mattson MP, Cheng A. (2006) “Neurohormetic phytochemicals: Low-dose toxins that induce adaptive neuronal stress responses”. Trends Neurosci; 29:632–9

[4] Kuzawa C et al. (2008) “Evolution, developmental plasticity and metabolic disease” in SC Stearns and JC Koella (eds.) Evolution in health and disease 2nd edition Oxford UP; Austad SN, Finch CE (2008) “The evolutionary context of human aging and degenerative disease” in in SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.; Ackermann M e Pletchr SD (2008) “Evolutionary biology as a foundation for studying aging and origin-related disease”. In SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.

[5] Guarente, L. (2000) “Sir2 links chromatin silencing, metabolism and aging” Genes Dev 14:1021-1026

[6] Oberdoerffer et al (2008) “SIRT1 redistribution on chromatin promotes genome stability but alters gene expression during aging”; Cell 135,  6

[7] Con questo non si intende proporre l’appiattimento della cultura sulla natura, la riduzione della medicina a fatto biologico e della malattia a rapporto ecologico. Nè si suppone che l’utilità presente dei composti xenobiotici per l’organismo che li ingerisce siano in parte o del tutto riconducibili ad adattamenti passati. Una origine evolutiva, spiega bene Gould (Gould, S.J. “Darwin tra fondamentalismi e pluralismo”. In Pino Donghi (a cura di) La medicina di Darwin. Roma, Laterza, 1998) non si appiattisce su quella adattiva, perché la selezione naturale non esaurisce tutti i meccanismi evolutivi, e l’enorme chemiodiversità delle piante (che esprimono circa i 4/5 di tutti i i composti farmacologicamente attivi conosciuti) offrirebbe comunque materiale farmacologicamente attivo al di là dei rapporti ecologici animale-pianta.

[8] Nel lavoro seminale in questo campo (Rodriguez, E., R. Wrangham. H. Stafford e Downum K. eds., (1993) “Zoopharmacognosy: The use of medicinal plants by animals”. Recent advances in phytochemistry, 89-105) gli autori (responsabili anche del conio del termine zoofarmacognosi) scrivono che:

“The combination of natural products, trichomes and other leaf features are important in the fitness of wild animals,”…“the observation of animals using plants is not new since Amazonian Indians and many people of the African forests tell of how animals use plants and how they copy the animals”

[9] Glander K.E. “Nonhuman primat self-medication with wild plant foods”. In N.L., Etkin  (Ed.), 1994 op. cit. pp. 227-239; Lozano, G.A. (1998) “Parasitic stress and self-medication in wild animals” Advances in the study of behaviour. 27: 291-317; Huffman M.A. (2001) “Self-medicative behavior in the African Great Apes: An evolutionary perspective into the origins of human traditional medicine”. BioScience.; Vol. 51(8): pp. 651-661.

[10] Una ipotesi più difficile da sostanziare ma affascinante è quella che vuole che l’ingestione di piante da parte delle femmine di Alouatta serva a modificare il normale rapporto maschio/femmina della prole, Glander (1994 op. cit.) ipotizza che alcuni composti delle piante ingerite possano modificare la concentrazione ionica delle mucose vaginali delle femmine, e che questo a sua volta possa modificare selettivamente l’accesso degli spermatozoi che portano un cromosoma X rispetto a quelli a Y dato che X è elettropositivo mentre Y è elettronegativo.

[11] Lo stesso fanno altri primati ed è difficile spiegare questo comportamento senza chiamare in causa la zoofarmacognosi anche perché i tannini sono forse l’unico gruppo di composti che non sono detossificabili se non parzialmente. I tannini possono legarsi e precipitare, e quindi inattivare, le molecole azotate, come appunto gli alcaloidi. Interessante notare che i Colobus mangiano anche terre ricche in caolino (geofagia), che grazie alla loro elevata capacità di adsorbimento possono intrappolare e rendere indisponibili all’assorbimento varie tossine (e nutrienti).

[12] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press; Consiglio, C. e Siani V. (2003) Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri

[13] Le risposte condizionate positive, cioè quelle che potrebbero essere molto utili, sono invece molto meno forti, più labili, di quelle negative.

[14] Il bambino è molto meno neofobico, ed anche questo è un meccanismo evolutivo: esso deve infatti poter fare esperienza del mondo, deve poter “assaggiare” in vari modi la realtà che lo circonda. L’uomo adulto invece, raggiunto il suo bagaglio di esperienze, sta più attento.

Fitoalimurgia Chepang 2/2

Eccoci qui, quindi, alla seconda puntata.

Come argutamente notava Meristemi, non è che proprio che non abbia fatto capire la mia posizione relativamente al valore delle piante selvatiche .

Allora, nella seconda puntata mi sbilancio per dire che: si, credo che le piante appartenenti al continuum tra selvatico e non-ancora-coltivato-ma-quasi rappresentino un potenziale bacino sia di fattori nutrizionali sia di fattori non-nutrizionali ma funzionali che può fare la differenza per la sicurezza alimentare e per il mantenimento della salute.

Certamente queste piante sono un potenziale critico proprio in quelle situazioni di potenziale deficit nutrizionale che si presentano in molti paesi del sud del mondo, ma in maniera meno evidente possono giocare un ruolo simile anche nei nostri paesi di relativa opulenza alimentare [1].

Dato che il mio obiettivo al momento è molto limitato (vorrei parlare di quello che ho visto durante un viaggio) mi limito a fare alcune considerazioni ed a citare alcuni autori, certo che proprio in questo momento Meristemi sta cucinando qualcosa di succoso. Me la cavo quindi citando due volumi recenti che raccolgono molti dei dati più interessanti a questo riguardo: il volume edito da Pieroni e Price [2] ed il testo della recentemente scomparsa Nina Etkin. [3]

Proprio da quest’ultimo ricavo una citazione. Louis Grivetti [4] ricordando la sua prima esperienza sul campo, riporta che:

“(p)er più di cento anni i baTlokwa del deserto del Kalahari orientale, nel Botswana, non hanno sofferto di carestie o di ripercussioni a livello sociale a causa della siccità. Tale successo alimentare in quest’area è dovuto all’equilibrio tra offerta ambientale e decisioni culturali. Il Kalahari orientale offriva una elevata diversità di piante selvatiche eduli, ed i baTlokwa utilizzavano regolarmente tali risorse. Il messaggio più importante che emerse dopo due anni di lavoro sul campo fu che la siccità non aveva causato carestie, e che una spiegazione per il disastro del Sahel [ovvero la tremenda carestia che colpì la regione del Sahel a seguito di una lunga siccità, proprio negli anni della ricerca nel Kalahari. NdT] era l’incapacità culturale a riconoscere ed utilizzare le risorse alimentari selvatiche disponibili — cibi che in precedenza erano stati utilizzati come sostentamento durante le siccità.“

L’autore continua rimarcando il pericolo insito nella perdita di conoscenze riguardo alle piante selvatiche, perdita che si può tradurre in ridotte possibilità di sopravvivenza durante il periodo di crisi, perdita che in parte è secondaria ad un processo di trasformazione dell’agricoltura e della società più in generale, che porta al rifiuto delle pratiche tradizionali viste come primitive.

D’altro canto l’argomento è complesso, e sarebbe improvvido pensare ad un automatismo che leghi l’avanzare dell’agricoltura con la perdita in saperi o risorse. Come avverte nello stesso volume Lisa Leimar Price [5], l’allontanarsi dalla dipendenza totale dalla foresta come fonte di cibo comporta un aumento nella quantità di piante raccolte da ambienti agricoli, da ambienti disturbati dall’attività umana, dai campi, dai bordi, dai sentieri, ecc. Questo passaggio sembra portare con sè un aumento, e non una diminuzione, della diversità di piante consumate.

E spesso questa maggior diversità di piante utilizzate dipende fortemente alle donne, per il ruolo da esse svolto nelle società tradizionali, come coloro che si occupano della casa e del giardino, e quindi che sono in diretto contatto con tutte le aree transizionali tra foresta e coltivazioni. Una riduzione dei saperi sulle piante selvatiche, avverte la Price, può invece dipendere dallo stigma sociale ad esse associato, e fortemente legato al tema della povertà. [6]

Ecco allora che emergono alcuni temi che mi sono stati utili nel ripensare al mio viaggio:

  • l’importanza di riconoscere la parziale artificiosità della divisione cibo/medicina, fondamentale per valutare gli effetti sulla salute globale della popolazione dell’utilizzo delle piante selvatiche
  • evitare rigidità di pensiero rispetto alla supposta dicotomia tradizione/modernità, selvatico/agricolo
  • evitare l’associazione tra consumo di piante selvatiche ed idee di povertà, arretratezza, primitività, un tema come si vedrà centrale nel caso di studio del Nepal.

I problemi

Nel 2004 e poi nel 2009 sono stato a visitare i villaggi Chepang nella valle del Kandrang, nel VDC di Shaktikor, del Distretto del Chitwan.

La zona è caratterizzata da foresta mista dominata da Mallotus philippensis (Lamm.) Muell. Arg. (Euphorbiaceae), Schima wallichii (DC) Korth. (Theaceae), Shorea robusta Roxb. Ex Gaertner f. (Dipterocarpaceae), Bombax ceiba L. (Bombaceae), Betula alnoides Buch.-Ham. ex D.Don. (Betulaceae), e naturalmente Diploknema butyracea.

Nel 1993 un quinto delle terre di proprietà nella valle era ancora gestita a Khorya (debbio). A parte il terreno a Khorya, le comunità possiedono anche particelle minori di terra, detta bari, relativamente più fertile e produttiva del Khorya, e una parte di terreno intorno alla casa gestito come orto familiare.

Fino a 25 anni fa il periodo di maggese (Lhotse) era di 10-15 anni, e il Khorya forniva una parte minoritaria del sostentamento alimentare, ancora prevalentemente dipendente dalla foresta. Con l’aumentare della densità della popolazione il periodo di coltivazione venne allungato e quello di Lhotse accorciato fino a 1-6 anni, cosa cosa che rese il sistema sempre meno sostenibile, portò a raccolti sempre più poveri a causa della riduzione della fertilità del suolo e dei fenomeni erosivi.

A questo si sommava la riduzione della biodiversità forestale. A tutti gli effetti l’equilibrio tra raccolta di piante selvatiche nella foresta e cibo coltivato a Khorya era stato invertito, sempre più cibo proveniva dall’agricoltura e sempre meno dalla foresta, che però perdeva comunque in diversità a causa del ridotto Lhotse.

Dal punto di vista dei Chepang il sistema Khorya è una necessità, quindi insostituibile per il supporto della popolazione nel breve termine; dal punto di vista ambientale, il sistema, come è strutturato oggi, è una tragedia a lungo termine, che mette a rischio la stabilità e la fertilità del suolo, e la vera e propria esistenza della foresta, in cambio di un misero raccolto.

Il sapere tradizionale

La maggior parte dei nuclei familiari della zona (ca. Il 90%) usa le risorse forestali o non coltivate a scopo medicinale, per ricavarne dei soldi al mercato, o per sopperire ad una vera e propria mancanza di cibo (il 75% dei nuclei familiari).

Tutte le case stoccano al primo piano, oltre ai cereali coltivati, piante selvatiche, in particolare Githa (Dioscorea bulbifera L. — Dioscoreaceae) e Bhyakur (Dioscorea deltoidea Wall. ex Griseb.) e in minor misura dei germogli di bambù (Bambusa nepalensis Stapleton — Poaceae).

Quasi tutti gestiscono in qualche modo le piante selvatiche, sia attraverso una protezione in situ, sia attraverso processi preagricoli di domesticazione.

Secondo una ricerca recente relativa proprio a quest’area in generale le donne sono leggermente più competenti degli uomini rispetto alle piante selvatiche, ma la differenza non è significativa, e certamente minore rispetto a quello che mi sarei potuto aspettare sulla scorta degli studi citati precedentemente.

E’ possibile che le ridotte competenze agricole dei Chepang possano in parte spiegare questa uniformità tra uomini e donne. Non avendo sviluppato molto la coltivazione degli orti familiari, forse è venuta a mancare alle donne Chepang la possibilità di aumentare le loro competenze sulle piante degli ambienti di transizione [7].

Lo studio nota anche delle differenze genere-specifiche: gli uomini sono più competenti delle donne nel campo delle piante medicinali, probabilmente un riflesso del fatto che tradizionalmente gli sciamani Chepang (Pande) sono tutti uomini; anche la composizione etnica della popolazione si riflette sulla conoscenza delle piante: in aree abitate da soli Chepang il sapere sulle piante è maggiore che nelle aree a popolazione mista (Chepang e immigrati da altre aree), probabilmente (secondo gli autori) perché l’influenza dei non-Chepang  svalutata agli occhi dei Chepang le risorse raccolte dal selvatico, associandole ad idee di arretratezza culturale, primitività, ecc. che, come abbiamo visto, sono state (ed in parte sono ancora) associate alla comunità Chepang.

E’ anche possibile che questi contatti abbiano indirettamente ridotto le attività comunitarie, fondamentali per la trasmissione, verticale ed orizzontale, dei saperi tradizionali.

Questo trend è ravvisabile anche tra le differenti classi di età: gli individui sotto i 30 anni sono meno competenti dei più anziani, probabilmente per una riduzione del trasferimento di sapere in famiglie sempre meno multigenerazionali. [8]

Oltre al declino del sapere relativo alle piante selvatiche, la popolazione denuncia un declino nel numero e nella varietà delle piante stesse. Gli anziani tra i Chepang attribuiscono il declino a molti fattori: la deforestazione, il modificarsi del sistema di Khorya, la pressione demografica ed immigratoria, il cambiamento nei costumi alimentari (diretto verso cibi più cosmopoliti, o meno caratterizzati come Chepang), l’aumento delle monoculture, la mancanza di strategie di conservazione e di sostenibilità.

Le strategie

Vi è qui un nodo centrale: alcune pratiche tradizionali (Khorya e raccolta spontanea) sono inserite in un nuovo contesto demografico, sociale e culturale, e questo (mal)adattamento ha delle conseguenze sul germoplasma e sulla sostenibilità di tali pratiche; perché se è vero che le  piante selvatiche e non coltivate sono una risorsa culturale, alimentare e medicinale fondamentale, è necessario riconoscere che un sistema di sfruttamento tradizionale può risultare fortemente inadeguato alle nuove richieste ambientali, ed entrare in crisi.

Per fare solo alcuni esempi, al momento nell’area è del tutto impossibile anche solo pensare ad un periodo di maggese di 10-15 anni: la pressione demografica (interna ma anche esterna, se negli ultimi 45 anni l’immigrazione è aumentata molto mettendo in crisi anche I modelli culturali locali) [9] è troppo forte, ed aumenterà ancora nel futuro; le risorse forestali non possono stare al passo con questa pressione, e la riconversione del Khorya in terrazzamenti è possibile solo in minima parte a causa della natura estremamente ripida dei terreni.

Ciò che manca è una strategia per gestire questa crisi senza sacrificare i saperi tradizionali.

Considerate le condizioni del territorio in cui abitano i Chepang, le loro grandi competenze rispetto agli NTFP, la grande valenza culturale della raccolta nel selvatico e la possibilità che le specie non coltivate apportino un contributo importante alla dieta, non completamente riducibile ad apporto calorico o di macronutrienti, è razionale pensare ad un possibile spazio aperto per l’etnobotanica applicata, perché essa raccolga il sapere che sta scomparendo sulle proprietà nutrizionali e medicinali delle piante selvatiche, perché lo integri ai progetti di ricerca e sviluppo per offrire strategie percorribili ed accettabili dalle comunità locali (vedi rispetto a questo il lavoro svolto negli anni dall’International Centre for Underutilized Crops e dalla Global Facilitation Unit for Underutilized Species, recentemente accorpatesi per formare Crops for the Future)

Circa 15 anni fa gli stessi Chepang misero sul piatto diverse proposte per superare il problema della Khorya:

  1. Favorire la conoscenza di orti familiari, dove coltivare piante, ortaggi ed alberi da frutto e da foraggio: permettono raccolti maggiori e un maggior ritorno economico. Alberi “poliedrici” come il Chiuri sono particolarmente promettenti.
  2. Negli orti familiari potrebbero essere coltivati, lungo I limitari, specie ad elevato valore aggiunto come I bambù, le piante da saggina, utili per l’artigianato, in particolare per I manufatti intrecciati, attività nella quale I Chepang primeggiano.
  3. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda le piante medicinali
  4. Altrettanto importante sarebbe imparare nuove e migliori forme di gestione della foresta, per migliorare e rendere più efficiente la raccolta di piante selvatiche, e per ridurre il rischio di impoverimento del terreno.

Grazie allo sforzo di varie organizzazioni locali gli orti famigliari sono aumentati e sono di miglior qualità, ma rimangono ancora insufficienti per il sostentamento. Le piante più utilizzate sono:

Ma veniamo allora ai kandamools, ovvero alle piante selvatiche utilizzate. Non volendo allungare oltremodo il già lungo post, non elenco tutte le specie utilizzate (qui e qui potete trovare articoli che descrivono in dettaglio le specie più importanti) ma citerò solo quelle che ho visto nei viaggi, o delle quali ho parlato direttamente con un abitante della valle. Quello che presento non è che un suggerimento per ulteriori approfondimenti.

Le piante selvatiche (kandamools)

From Chepang Khilendra 2009
From Viaggio tra i Chepang di Musbang

1. Yoshi/Chiuri. Diploknema butyracea (Roxb.) H.J. Lam — Sapotaceae

Ban Yoshi: Chiuri selvatico; Rang Yoshi: Chiuri coltivato

Probabilmente la pianta più importante per I Chepang. E’ una pianta fondamentale per l’identità del gruppo: definisce la cultura Chepang, fornisce una fonte fondamentale di materiale per l’alimentazione, la cultura materiale, il sostentamento economico. Praticamente ogni parte della pianta viene sfruttata. I Chepang si tramandano una tassonomia popolare molto dettagliata sulla pianta, sulle sue varietà, sulla germinazione dei semi, sulle cure dell’albero, sulla raccolta dei frutti, del nettare, sull’estrazione del burro dei semi, ecc., e utilizzano più di 30 nomi per la pianta a seconda del periodo di fioritura; del colore dei frutti, delle foglie, sella corteccia, dei rami e dei semi; della forma del tronco; delle dimensioni, odore e sapore del frutto; della produttività.

Una racconto mitologico sull’origine dell’albero sottolinea la centralità della pianta:

“Molto tempo fa, di notte, una bufala scappò dalla stalla dove stava riposando, ed andò in un campo di miglio per mangiare fino a che non fu completamente sazia. Ma quando decise di tornare alle stalle, perse la via del ritorno a causa dell’oscurità, e cadde in un pericoloso burrone e lì rimase, incastrata a metà. Nessuno riuscì ad aiutarla a risalire, e ella morì lì. Si narra che nel medesimo luogo, fertilizzato dalla carcassa della bufala, nacque il primo albero di Chiuri”

Narra sempre il mito che è possibile leggere nel Chiuri questa lontana origine: I suoi frutti danno un succo lattiginoso (il latte della bufala) e il burro estratto dai semi è il burro di bufala. I piccoli grani neri nella polpa del frutto sono i grani di miglio che la bufala si era mangiata. Inoltre I Chepang usano ancora una frase tipica: il Chiuri è per noi come una bufala.

Usi

  • Semi: medicinali
  • Burro dei semi: cibo, olio da lampade, medicinale
  • Cake dei semi: agricoltura (come pesticida ed insetticida), pesca, foraggio (dopo la lisciviazione)
  • Frutti: cibo, medicina, Raksi
  • Fiori: nettare, apicoltura, medicina, bevande fermentate
  • Foglie: foraggio, piatti, cartine per tabacco
  • Corteccia: medicina, combustibile, pesca
  • Legno: costruzione, cultura materiale, combustibile
  • Latice: gomma da masticare, trappole per insetti ed uccelli

In particolare il burro ricavato dai semi viene utilizzato per cucinare, internamente per costipazione cronica e febbri. A livello topico per pelle infiammata, reumatismi, tenia pedis. Il burro viene usato nelle lampade dei templi perché non emette cattivi odori e brucia con fiamma luminosa, bianca e senza fumo.

Potenzialmente il burro potrebbe essere usato non solo per cucinare ma come margarina, come fonte di acido palmitico per l’industria farmaceutica, per fare delle candele, come sostituto dell’olio di cocco per fare saponi, pr fare unguenti e creme e come balsamo per i capelli mescolato a degli attar.

2. Ghitta (Dioscorea bulbifera L.), Bhyakur (D. deltoidea Wall. ex Griseb), Chunya (D. pentaphylla L.) e Bharlang (Dioscorea spp.) — Dioscoreaceae

Come in molte aree del mondo le Dioscoree rappresentano una risorsa insostituibile per il sostentamento alimentare. E come in molti casi le Dioscoree selvatiche non sono immediatamente fruibili, a causa della presenza di alcuni composti tossici. In particolare le specie utilizzate in Nepal sono caratterizzate da un contenuto in proteine e fibre più elevato delle varietà coltivate, e non sono particolarmente tossiche. Non contengono alcaloidi e quantità relativamente basse di nor-diterpeni furanoidi come la diosbulbina A ed in particolare la diosbulbina B, più composti cianogeni ben entro i limiti di sicurezza. I rari casi di infiammazione e tossicità riportati in letteratura sono più probabilmente dovuti alla presenza di cristalli di ossalato.

Per quanto poco tossiche, queste specie vengono comunque trattate in maniera complessa per eliminare la parte amara: dopo aver pelato i tuberi, questi vengono fatti a fette (eliminazione di metaboliti presenti nella corteccia) e messi a bollire con acqua e cenere (tecnica della cottura ed adsorbimento) per tre volte cambiando ogni volta l’acqua di bollitura (eliminazione dell’acqua e cenere saturate); il materiale così trattato viene poi posto per un giorno a bagno nell’acqua corrente di un torrente (lisciviazione), per poi essere trasformato in farina alimentare.

Le Dioscoree non sono importanti sono a livello alimentare: nel distretto del Gorkha vengono consumate come piante sacre durante il festival Hindu del Maghe Sankranti: il primo giorno del festival i tuberi vengono bolliti, poi fritti, e mangiati.

In altre regioni vengono anche usate come rimedi antelmintici.

3. Sisnu/Nelau (Urtica dioica L.) — Urticaceae

Certamente uno dei cibi selvatici più comuni ed utilizzati dalla gente delle colline. I germogli giovanili e le foglie primaverili vengono raccolte e cotte insieme ai germogli di bambù, usate nelle zuppe o mescolate alla polenta di mais, grano o Eleusine coracana (con aggiunta di sale e peperoncino).

La radice viene utilizzata come rimedio per tosse e raffreddore, miscelata insieme a Woodfordia fruticosa e Castanopsis indica (Roxburgh ex Lindley) A. de Candolle.

4. Rimsi & Gotsai

Rimsi/Koiralo (Bauhinia variegata L.) Fabaceae

Le giovani foglie, i fiori ed i frutti vengono fatti bollire e consumati come direttamente o conservati in salamoia e usati come achar.

Sono importanti piante medicinali: corteccia e fiori si usano per linfadenia, elmintiasi ed amebiasi, disturbi gastrici, e localmente in polvere per tagli e ferite (probabilmente grazie alla presenza importante di tannini).

5. Gotsai sag/Tanki (Bauhinia purpurea L.) — Fabaceae

I germogli floreali, le cime giovani ed i frutti acerbi vengono cotti e consumati direttamente o come achar, i semi vengono fritti e mangiati come snack, mentre le foglie adulte vengono usate come foraggio. La corteccia ricca in tannini viene usata come astringente in caso di diarrea e dissenteria, e come agente colorante.

From Dolakha 2009

6. Gaidung (Asparagus racemosus Willd.) — Asparagaceae/Liliaceae

I germogli giovanili e le foglie tenere si consumano come verdura cotta o come achar. Viene usato come rimedio insetticida e come tonico. Nel Dhading la frutta viene consumata per trattare problemi della pelle come foruncoli.

In Nepal le radici vengono arrostite sul fuoco e lasciate all’aperto per tutta la notte, quindi vengono polverizzate, mescolate con acqua e usate in caso di minzione dolorosa o urente.

In Ayurveda la radice viene considerata un rimedio Rasayana molto importante, usato in moltissime condizioni patologiche.

Nella valle del Khandrang alcuni nuclei abitativi hanno iniziato la domesticazione della pianta, in parte a causa dell’ottimo potenziale di mercato delle radici, in parte a causa del rischio di perdita di germoplasma nel selvatico (è una specie in pericolo).

7. Tama bans (Dendrocalamus hamiltonii Nees & Arnott ex Munro o Bambusa nepalensis Stapleton) — Poaceae

I germogli vengono fatti bollire o preparati per la conservazione come achar per il consumo personale; nella stagione secca (da febbraio ad aprile) vengono conservati come germogli fermentati (tama), un prodotto moto venduto nei mercati locali ed importante per il sostegno economico delle famiglie.

Il bambù adulto si usa come fonte di fibre per intrecciare cesti, stuoie e recinzioni.

8. Tore Nyuro (Thelypteris ciliata (Wallis ex Bentham) Ching e spp.) — Thelypteridaceae.

Le fronde tenere si consumano lesse o conservate come achar.

Il succo del rizoma si usa in caso di febbre, disturbi gastrici, diarrea ed indigestione.

9. Danthe Nyuro (Dryopteris cochleata (D. Don) C. Christensen) — Dryopteridaceae

Una delle felci più importanti nel distretto del Gorkha. Fronde e germogli giovanili si consumano lessi in famiglia (una volta fatti bollire si mantengono fino a 15 giorni) e vendute nei mercati locali.

Il succo delle radici si usa in caso di dissenteria e diarrea.

Sta diventando rara nel selvatico a causa dell’eccessiva raccolta (è una pianta considerata in pericolo)

10. Pani Nyuro & Chyan (Diplazium esculentum (Retzius) Swartz ex Sch. & Diplazium polypodioides Blume) — Woodsiaceae/ Dryopteridaceae

Le fronde tenere di Pani Nyuro vengono consumate lesse.

Il succo dei rizomi si usa in caso di febbri malariche, e una pasta ottenuta battendo le fronde si usa sulla pelle in caso di foruncoli o scabbia. Il succo della radice del Chyan Nyuro si applica su ferite ed abrasioni.

11. Thotne/Chaunle (Aconogonon molle (D. Don) H. Hara) – sin: Persicaria mollis; Polygonum molle) — Polygonaceae

I germogli giovanili consumati come verdura fresca o bollita, o come achar, particolarmente ricercato per il suo sapore acre.

Le foglie si usano in caso diarrea nel distretto del Manang.

Anche questa è una specie in pericolo, a causa della raccolta non sostenibile e della perdita di terreno forestale.

12. Porali/Ghiraula (Luffa cylindrica (L.) Roemer) Cucurbitaceae

Pianta già introdotta negli orti familiari. Il frutto tenero si consuma come verdura, mentre da secco viene venduto sul mercato come spugna vegetale.

I Tharu mescolano I semi macerati in acqua insieme ai semi di Zizyphus mauritiana Lam. e al succo della radice di Callicarpa macrophylla Vahl., quindi filtrano il tutto ed usano il liquido in caso di varicella, quando l’eruzione cutanea non “esce”.

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[1] The Local Food-Nutraceuticals Consortium (2005) “Understanding local Mediterranean diets: A multidisciplinary pharmacological and ethnobotanical approach” Local Food-Nutraceuticals Consortium Pharmacological Research 52 (2005) 353–366; Estruch R,et al. (2006) “PREDIMED Study Investigators Effects of a Mediterranean-style diet on cardiovascular risk factors: a randomized trial”. Ann Intern Med. 4;145(1):1-11; Salas-Salvadó J, et al. (2008) “Effect of a Mediterranean diet supplemented with nuts on metabolic syndromestatus: one-year results of the PREDIMED randomized trial” Arch Intern Med. 8;168(22):2449-58; Shai I, et al.  (2008) “Dietary Intervention Randomized Controlled Trial (DIRECT) Group. Weight loss with a low-carbohydrate, Mediterranean, or low-fat diet”. N Engl J Med. 17;359(3):229-41

[2] Pieroni A, Price LL (2006) Eating and healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[3] Etkin, N (2008) Edible medicines: an ethnopharmacology of food. University of Arizona Press

[4] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[5] Price LL (2006) “Wild food plants in farming environment”s. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[6] Price LL (2006) op cit.

[8] Rijal, Arun. (2008) “A Quantitative Assessment of Indigenous Plant Uses Among Two Chepang Communities in the Central Mid-hills of Nepal.” Methods 6: 395-404

[9] Rijal, Arun. (2008) op. cit.

[10] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu

Fitoalimurgia Chepang 1/2

In questi giorni di tribolazione per il Nepal (leggi qui e qui le cronache di Enrico Crespi), spintonato da un post di Meristemi (eccolo qui) sulla fitoalimurgia, prendo l’occasione per scrivere nuovamente di Chepang, un gruppo etnico di cui avevo già parlato in un’altra occasione, descrivendo un albero particolarmente importante nella loro cultura.

Come giustamente rimarca Meristemi, la fitoalimurgia, o più in generale lo studio del ruolo delle piante selvatiche o non coltivate nella storia dell’uomo, è particolarmente affascinante perché rappresenta una chiave di lettura poliedrica, che ci permette molteplici punti di entrata nel “discorso” piante e uomo. Inoltre è un esempio di ciò di cui parlava Andrea Pieroni in un post di qualche tempo fa, ovvero delle dimensioni pratiche ed etiche dell’etnobotanica, che diviene una attività non solo accademica ma applicata, uno strumento per modificare la realtà.

Il tema delle piante selvatiche tra cibo e medicina pone inoltre in primo piano il problema dell’articolazione tra tradizione e progresso scientifico. Mi ci hanno fatto pensare i post di Anna Meldolesi sul consumo etico, e di Bressanini sugli OGM, e non tanto per quello che hanno detto, quanto per le riflessioni che mi pareva scaturissero dai vari commenti.

Le strategie di gestione, di raccolta e di conservazione delle piante selvatiche sono pratiche tradizionali che meritano di essere studiate? O dovremmo invece pensare che siano fasi primitive, preagricole, del nostro rapporto con le piante, quindi ormai desuete e impari allo scopo? La fitoalimurgia è un campo dello scibile utile solo a survivalist che si allenano per la terza guerra mondiale, o per romantici innamorati del folklore, oppure ci possono dire qualcosa di rilevante sulle strategie di salute alimentare?

E ancora, se il dato scientifico si deve tradurre in politiche (in questo caso agricole ed alimentari) e se contesti differenti esigono risposte differenti anche a partire dagli stessi dati, le pratiche agricole tradizionali o le pratiche pre-agricole possono rappresentare parte delle politiche alimentari in determinati contesti?

Non intendo tentare di rispondere a nessuna di queste domande, almeno per il momento

I Chepang

Il caso di studio dei Chepang (che ho portato a Pollenzo, presso l’Università di Scienze Gastronomiche, su invito di Andrea Pieroni) credo possa servire proprio a vedere la complessità del problema, e di come la soluzione ai problemi di salute e sicurezza alimentare passi contemporaneamente dalla necessità:

1. di un approccio trickle-up, ovvero che parte dall’ascolto delle popolazioni locali, della loro percezione dei problemi e delle possibili soluzioni (che spesso sorprende chi parte da posizioni preconcette)

2. di un approccio scientifico allo studio dei sistemi tradizionali di gestione del territorio e della biodiversità

3. dell’inserimento della dimensione dell’identità culturale di un gruppo all’interno dell’equazione sulle possibili soluzioni.

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Rimando i lettori al post precedente per una introduzione ai Chepang. Ricordo brevemente che sono vissuti come cacciatori-raccoglitori fino a poco tempo fa, dipendendo interamente dalla foresta come fonte di radici e piante alimentari, e cacciagione,  fino a 100-150 anni fà.[1]

Più di recente sono diventati stanziali e si sono adattati ad una vita da agricoltori con la tecnica del debbio (in lingua Chepang Khorya, in inglese swidden, o slash-and-burn).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Rimangono però ancora pesantemente dipendenti dalla foresta (come d’altronde è vero, in minor misura, per molta della popolazione nepalese, che per il 90% vive in aree al limine tra foresta e campi coltivati) e dai suoi prodotti, o da piante non coltivate (ad esempio il Chiuri– Dyploknema butyracea (Roxb.) H. J. Lam — Sapotaceae, qui la monografia infoerbe) per la sussistenza alimentare, per le medicine, per la cultura materiale, per il foraggio, per il combustibile ed anche per un sostegno economico, dato che scambiano o vendono vari prodotti ai mercati locali.

Sono certamente una delle comunità più svantaggiate del Nepal dal punto di vista socio-economico, dell’accesso all’educazione e ai servizi di salute, in termini nutrizionali (soprattutto deficit proteico, mentre la dieta fortemente vegetale riduce i deficit vitaminici), in particolare tra donne e bambini (i bambini possono soffrire di malnutrizione e le donne incinte di deficienza di ferro e di proteine) (anche se negli ultimi 15 anni molte cose sono cambiate),[4] circa il 50% delle famiglie sono in situazione di debito, con un deficit di contanti molto acuto e con un surplus annuale molto basso; l’agricoltura (in particolare le coltivazioni di mais – Zea mays L. e panico indiano – Eleusine coracana (L.) Gaertner. – Poaceae) provvede sostentamento al 97% della popolazione solo per 5-6 mesi all’anno e per il resto dell’anno le famiglie devono fare ricorso alla foresta ed ai suoi prodotti. [5]

Anche se negli ultimi anni sono stati introdotti gli orti familiari, con cetrioli, pomodori, zucche e zucchine ed altri ortaggi, la maggior parte dei Chepang continua a fare affidamento più sulle piante selvatiche o non coltivate, o sulle piante coltivate con il metodo del debbio. [6]

Come è stato detto, gli alimenti principali dei Chepang sono il mais e la Eleusine coracana. Da quest’ultima si ricava il Dhindo, ovvero la polenta di miglio, e il Jand (bevanda fermentata a base di miglio e mais), la bevanda più tipica, bevuta da tutti in famiglia.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Di grande importanza, non solo alimentare ma anche culturale, sono i curry a base di larve e pupe di api e vespe, e a base di pipistrelli.

Centrale nella cosmogonia Chepang è, come si è detto, l’albero del Chiuri (Diploknema butyracea), o Yoshi in lingua Chepang, che provvede la famiglia di frutta, miele, nettare, ghee, foglie per piatti, fiori per bevande fermentate, ecc., per il consumo locale o per la vendita nei mercati a valle, vendita che fornisce fino al 60% del reddito familiare (vedi il mio precedente post per il dettaglio sull’albero).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Altri items venduti o scambiati al mercato sono i germogli fermentati di bambù, i doko (cesti di bambù), i naglo (i grandi piatti di fibre intrecciate per separare il loglio dal cereale) e le namlo (le cinghie da trasporto).

Vivono in villaggi, o meglio gruppi di case sparse sui pendii molto ripidi del gruppo del Mahabarat, nel Nepal centrale lungo i fiumi Trisuli, Narayani e Rapti e nei bacini degli affluenti (Manahari e Lothar al sud, Malekhi e Belkhu al nord) compresi nei Distretti del Dhading, Makwanpour, Chitwan e Gorkha.

Le loro case sono a tetto basso, piccole e quasi sempre ad una sola camera, con poca ventilazione. I componenti della famiglia vivono in questa unica stanza, mentre il secondo piano funge da solaio per I cereali ed altri alimenti conservati. Onnipresenti nella casa sono il ripiano di bambù sopra al fuoco per essiccare ed affumicare carne, pesce e cereali (e semi di Chiuri), e la mola (due pietre circolari per le farine di cereali), mentre subito fuori dalla porta troviamo l’attrezzo per decorticare il grano o rompere il guscio dei semi.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

A differenza di molto altri gruppi etnici nepalesi, i Chepang non danno molto rilievo alle gerarchie ed alle differenze di genere sessuale che, pur sussistendo, sono meno marcate rispetto al resto del paese. Le donne godono di maggior libertà, ed il cibo viene equamente diviso tra tutti i membri della famiglia, senza differenze di età o di genere (cosa non comune nel resto delle zone rurali del paese, dove spesso le donne devono nutrirsi dopo il resto della famiglia e con ciò che rimane, nutrendosi quindi poco e male, un dato rilevante per il problema del prolasso uterino).

Studi antropologici

Mentre i Chepang sono stati oggetto di molte ricerche ed analisi di tipo sociologico, minori e di minor qualità sono gli studi e gli interventi sullo sviluppo economico e sociale. Come lamentano gli stessi Chepang, c’è veramente poco sui Chepang che provenga dai Chepang stessi, e poco spazio è stato dato alla domanda “quale beneficio ha portato ai Chepang tutto il lavoro svolto sui Chepang?”. [7]

Fino a poco tempo fa i progetti governativi si sono poco interessati alle definizioni di sviluppo fornite dai locali, e spesso gli sforzi delle ONG sono stati trascurabili e politicamente non impegnati, evasivi, almeno fino alla metà degli anni ‘90.

Nel 1993 si è tenuto il primo “Gathering of the concerned” e nel testo che raccoglie le esperienze di questo incontro, emergono le istanze avvertite come più pressanti: [8]

1. Inferiorità, o mancanza di autostima, imposta ed istituzionalizzata. Quando CAED iniziò a lavorare con I Chepang, era comune riferirsi ad essi, anche nei documenti ufficiali, come Jungli (selvaggi/incivili) o Bankar/Banmanchhe (scimmie), ed in genere caratterizzarli come primitivi e stupidi. Questa istanza è stata infatti il primo punto di “attacco” del progetto SEACOW, la rivalutazione delle competenze e conoscenze del gruppo rispetto alle NTFP, competenze che potevano essere tradotte in riscatto sociale ed economico.

2. La cultura. Secondo Battharai le domande che è necessario porsi, prima della classica: “come facciamo a salvare la cultura dei Chepang?” sono le seguenti: “perché è necessario salvare o conservare questa cultura quando sono gli stessi Chepang a non voler essere chiamati così, a rifiutare la propria cultura? E come identifichiamo la cultura da salvare? Chi è che vuole conservarla e perché? Non si rischia un approccio tipo ‘zoo umano’?” E’ possibile raggiungere un maggior benessere senza rischiare la perdita di identità culturale?”. [9]

3. Autonomia tribale. Come si può gestire il miglioramento delle condizioni economiche vis-a-vis l’autonomia tribale e culturale, dove troviamo l’equilibrio? In particolare quale è la soluzione più desiderabile al problema della gestione della foresta? Nazionalizzazione, proprietà privata o diritti etnici collettivi?

4. Sostenibilità. L’opinione fortemente espressa dai Chepang e dalle ONG locali è che è insostenibile continuare a discutere del concetto di sostenibilità solo in termini economici. Questa tendenza ha eclissato importanti istanze, come ad esempio la necessità di rinforzare le risorse di base, la giustizia sociale e i bisogni specifici ed area-dipendenti.

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Note

[1] Bista DB (2004) People of Nepal. Ratna Pustak Bhandar

[2] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu; Marandhar NP (1989) “Medicinal plants used by Chepang tribes of Makwampur District, Nepal”. Fitoterapia Lx, Perish; Bhattrai TR (1995) “Chepangs: Status, efforts and issues; a Syo’s perspective”. In TR Bhattrai Chepang Resources and Development. SNV/SEACOW, Khatmandu; Gautam MK, Roberts EH, Singh BK (2003) “Community based leasehold approach and agroforestry technology for restoring degraded hill forest and improving rural livelihoods in Nepal”. Paper presented at the International Conference on rural livelihoods, Forest and Biodiversity, Bonn; Pandit BH (2001) “Non-timber forest products on shifting cultivation plots (Khorya): a means of improving livelihoods of Chepang Rural Hill Tribe of Nepal”. Asia-Pacific Journal of Rural Development; 11:1-14

[3] declino dovuto probabilmente ad una epidemia

[4] Kerkhoff, E. & E. Sharma. (2006) Debating Shifting Cultivation in the Eastern Himalayas: Farmers’ innovations as lessons for policy. International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD), Kathmandu

[5] Balla, M.K., K.D. Awasthi, P.K. Shrestha, D.P. Sherchan & D. Poudel. (2002) Degraded Lands in Mid-hills of Central Nepal: A GIS appraisal in quantifying and planning for sustainable rehabilitation. LI-BIRD, Pokhara, Nepal

[6] Aryal G.R. & G.S. Awasthi. (2004) “Agrarian Reform and Access to Land Resource in Nepal: Present status and future perspective/action“. ECARDS review paper (Unpublished). Environment, Culture, Agriculture, Research and Development Services (ECARDS), Kathmandu, Nepal

[7] Bhattarai, Teeka R. (1995) Chepangs, resources, and development : collection of expressions of the Gathering of the Concerned, 7-9 February 19. Kathmandu: SNV: 1995. 185 p.

[8] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

[9] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

Uomo e piante 5/dimoltialtri

Ed eccoci all’ultima puntata della sezione introduttiva della serie uomo/piante, dove cercherò di sintetizzare i dati principali relativi alla nascita dell’agricoltura, in quanto evento importante nell’articolazione del rapporto tra piante e uomo. Le puntate precedenti si trovano qui, qui, qui, e qui.

L’agricoltura
Gli antecedenti
Il passaggio da caccia-raccolta ad agricoltura, (la cosiddetta “rivoluzione neolitica“), non fu netto e puntuale, nè avvenne ovunque, nè si presentò con le stesse modalità. Fu lento, graduale, non lineare, avvenne indipendentemente in molti luoghi. Come nota Diamond, l’agricoltura non fu una scoperta o una invenzione, bensì una “evoluzione che prese il via come sottoprodotto di scelte spesso inconsce”. (30)

E’ ipotizzabile che le prime esperienze di coltivazione avvennero all’interno delle foreste pluviali, dove a causa della forte competizione per la luce la copertura forestale non permette la crescita del sottobosco. Solo la casuale caduta di alcuni alberi, creando delle radure naturali dove penetra il sole, permette la germinazione dei semi rimasti dormienti e la crescita di varie specie diverse.

I gruppi umani che abitavano la foresta, insediandosi nelle vicinanze di tali radure, ebbero l’opportunità di osservare la crescita di questi “giardini” spontanei.  In più, le deiezioni del gruppo arricchivano il terreno di composti azotati e di semi delle piante alimentari favorite dal gruppo stesso. In questo modo il gruppo avrebbe potuto osservare le fasi di crescita proprio delle piante alimentari a lui utili, e con il tempo avrebbe portato al costume di facilitare la crescita di tali piante  migliorando le condizioni, eliminando la competizione di altre piante, fino alla creazioni di radure artificiali mediante l’abbattimento di alberi di piccola taglia, ovvero avviandosi verso la coltivazione e la addomesticazione con la tecnica del debbio (anche addebbiatura, o taglia-e-brucia, dal termine inglese slash-and-burn: il taglio della vegetazione, il suo essiccamento e combustione per creare piccoli appezzamenti da coltivare a maggese).

Il passaggio dalla coltivazione pre-agricola (intesa come il complesso delle operazioni di semina o impianto, di cura e di raccolta delle piante selvatiche o addomesticate, con o senza aratura del terreno) all’agricoltura (intesa come la coltivazione di piante addomesticate con aratura sistematica del terreno), (31) avviene in maniera indipendente in vari siti, nell’arco di tempo che va da ca. 10.000 anni fa a 3.500 anni fa.

La nascita dell’agricoltura
Medio Oriente
In Medio Oriente l’evidenza archeobotanica sulla nascita dell’agricoltura si concentra nell’area intorno alle pianure fertili della Mesopotamia dal levante meridionale alle colline meridionali ai piedi dei Monti Zagros.

Secondo l’ipotesi ricevuta sulla nascita dell’agricoltura in Medio Oriente, basata soprattutto sui lavori di Hillman (incentrati sui ritrovamenti presso il sito di Tell Abu Hureyra, sulle rive dell’Eufrate in Siria), la coltivazione dei cereali iniziò in risposta ad un improvviso cambiamento climatico avvenuto tra 11.000 e 10.000 anni C14 fa (nel cosiddetto stadiale del Dryas recente). Il passaggio, sempre secondo questa ipotesi, avvenne in tempi relativamente brevi ed in maniera puntuale, e le cultivar sviluppate in questo periodo di tempo viaggiarono dalla loro zona di origine in tutta Europa insieme agli agricoltori migranti, ed insieme ai loro idiomi di tipo Indo-Europeo (secondo la cosiddetta Ipotesi Anatolica o Teoria della Discontinuità Neolitica di Renfrew). (32)

Secondo la teoria corrente, questo passaggio climatico, che portò a condizioni più fredde e secche, spinse verso il declino varie specie selvatiche meno adattate al clima arido, in primis le lenticchie [Lens spp. — Fabaceae] ed altri legumi, in seguito le forme selvatiche del Triticum (il farro selvatico – Triticum dicoccoides (Korn. ex Asch. & Graebn.) Schweinf. e il piccolo farro selvatico – Triticum boeoticum Boiss., (33) di Secale spp., poi Stipa spp., Stipagrostis spp., Scirpus spp., e per ultime le specie più resistenti alla siccità, le Chenopodiaceae.

Lenticchie

Segale

Questo declino spinse probabilmente le popolazioni umane a coltivare alcune specie più produttive per sopravvivere al periodo di carestia. I frutti del farro selvatico erano abbastanza grossi da essere sfruttati per sopperire alla riduzione della vegetazione. Una successiva ibridazione del farro aumentò l’eterozigosi, causando la scompare in alcuni individui del rachide fragile che aiuta la disseminazione anemofila ma rende difficile la raccolta.

Un recente studio (34) mette però in dubbio sia la data di inizio dei primi “esperimenti” agricoli, che verrebbe anticipata di molto, sia i tempi brevi per la stabilizzazione delle cultivar (che avrebbero invece avuto bisogno di millenni per diventare stabili). La scoperta di più di 90.000 frammenti vegetali presso il sito archeologico di Ohalo II in Siria, risalenti a 23.000 anni fà, indicherebbe la raccolta di cereali selvatici 10.000 anni prima del periodo previsto dalla teoria corrente, e certamente prima del Dryas.

Inoltre, lo studio delle frequenze di individui con mutazione del rachide (la forma rigida che riduce la dispersione dei frutti) mostra che tra il momento della sua prima apparizione (9.250 anni fà) e la sua fissazione (ovvero con la stabilizzazione della mutazione nella popolazione, che diventa monofiletica) passarono ben 3.000 anni, quando già la dispersione dell’agricoltura era iniziata, in tempi quindi molto più lunghi di quelli previsti dalla teoria ricevuta. Per finire, il modello matematico proposto supporta una origine delle piante coltivate attraverso processi più complessi, di inter-ibridazione tra varie specie, e in vari tentativi di addomesticazione.

Quale che sia stato l’esatto momento e l’esatto meccanismo che permise la selezione di piante con caratteristiche genetiche particolari, la selezione di questa caratteristica favorevole per l’uomo rese possibile raccolti più ricchi in meno tempo e con meno perdite, capaci di sostenere popolazioni umane più dense. L’ibrido venne coltivato insieme al piccolo farro selvatico e all’orzo spontaneo [Hordeum spontaneum K. Koch o H. vulgare subsp. spontaneum (K.Koch) Thell.].

Orzo selvatico

A partire dal Neolitico preceramico A (PPNA – ca. 10.300 anni fa) il clima tornò più caldo e umido facilitando così l’espansione delle coltivazioni. Le tre specie di cereali summenzionate passarono, in un lungo processo di interazione con l’uomo, dallo stadio selvatico a quello di “coltivazione incipiente” e di “addomesticazione”, passano cioè attraverso la trasformazione genetica verso forme addomesticate grazie all’azione di popolazioni sempre più sedentarie, fino ad arrivare ad una vera e propria fase di agricoltura a livello di villaggio. Questo stadio viene anche definito come stadio della coltivazione incipiente e della addomesticazione, durante il quale iniziano quei processi di modificazione genetica delle piante che portano verso la addomesticazione, e dove le popolazioni passano da sostentamento grazie a raccolta semisedentaria all’agricoltura.

L’evidenza più ampia di uno stile di vita schiettamente agropastorale si ha però solo per il periodo PPNB (da 9 500 a 7 500 anni fa), detto anche stadio dell’agricoltura piena.
E’ a questo periodo che fanno riferimento le evidenze archeobotaniche sulla presenza di tutte le principali specie agricole: orzo [Hordeum vulgare tetrastico e distico], piccolo farro [T. monococcum, forma coltivata di T. boeoticum] e farro [T. dicoccum forma coltivata di T. dicoccoides], lenticchie [Lens culinaris Medik — Fabaceae], piselli [Pisum sativum L.– Fabaceae], ceci [Cicer arietinum L.– Fabaceae], lino [Linum usitatissimum — Linaceae] e Vicia ervilia (L.) Willd. [Fabaceae].

Alla fine del PPNB l’agricoltura viene praticata in tutto il Sud Est asiatico e si sposta ad Ovest verso Cipro, attraverso l’Anatolia verso l’Europa, a Sud Est verso l’Egitto e ad Est verso l’Asia Centrale e Meridionale.
Tra 7000 e 5000 anni fa le coltivazioni vengono portate nelle pianure aride tra il Tigri e l’Eufrate, dove inizia la coltivazione intensiva supportata dall’irrigazione, e la parallela nascita delle prime città e dei primi piccoli templi Sumeri. (35)

Asia
Non esistono dati archeobotanici di questo tipo, a questo livello di dettaglio, per l’Asia.

I dati permettono solo di dire che in Cina centro orientale, nell’area dello Huang-ho (Fiume Giallo) tra 8.000 e 6.000 anni fa, nel Primo Paleolitico, esistevano degli insediamenti umani che praticavano la coltivazione del riso e di due specie di miglio [Panicum miliaceum L. — Poaceae; Setaria italica (L.) P. Beauv — Poaceae] (più dubbia è invece la presenza di coltivazioni di soia [Glycine max (L.) Merr. — Fabaceae]).

Riso

Miglio

Da quest’area il riso viaggiò con l’uomo verso Nord in Corea, dove era certamente coltivato 3200 anni fa, e forse verso ovest, in India settentrionale, anche se la presenza del cereale nel subcontinente 4500 anni fa potrebbe anche essere dovuta ad una addomesticazione indipendente.

Il viaggio del riso fu fermato dal clima equatoriale in Indonesia, da dove l’agricoltura si espande (verso ad esempio la Nuova Guinea) con un modello alternativo di agricoltura incipiente, basato su radici e tuberi come l’igname [Dioscorea alata L. e D. esculenta (Lour.) Burkill. — Dioscoreaceae], e il taro [Colocasia esculenta (L.) Schott — Araceae], piuttosto che su cereali (secondo alcuni autori le prime coltivazioni sono proprio state quelle di radici e tuberi nelle foreste tropicali).

Africa
Contrariamente a quanto solitamente ritenuto, è probabile che l’agricoltura si sia sviluppata in maniera indipendente anche nell’Africa tropicale nord, a sud del Sahara, seguendo in questo caso un modello “misto”: nei climi più secchi del Nord utilizzo e addomesticazione di cereali come il sorgo [Sorghum bicolor (L.) Moench.] e il miglio perla [Pennisetum glaucum — (L.) R. Br.] insieme a legumi quali Vigna unguiculata (L.) Walp. (fagiolo dell’occhio), V. subterranea (L.) Verdc. (pisello di terra) e Macrotyloma geocarpum (Harms) Maréchal & Baudet, e all’albero del Karitè [Vitellaria paradoxa C. F. Gaertn. — Sapotaceae]; nel Sud più umido radici e tuberi [Dioscorea spp.], riso africano [Oryza glaberrima Steud.] e olio da palma [Elaeis guineensis Jacq. — Arecaceae].

Sorgo

Fagiolo dell’occhio

Comunque sia, in tutti questi siti si può parlare di modello agropastorale perché la coltivazione di cereali e legumi va sempre di pari passo all’allevamento di animali da carne e latte, come capre, pecore, ecc.

Le Americhe
Molto diversa è la situazione del continente Americano.
Anche qui abbiamo evidenza, per quanto scarsa e poco organica, della addomesticazione e coltivazione di piante, ma i dati archeologici indicano che non si arrivò se non molto tardi all’allevamento degli animali, per cui la dieta si basò per molto tempo quasi totalmente sulle specie vegetali coltivate o raccolte spontanee, con risultante deficit di proteine e grassi animali.

Vengono solitamente identificate tre aree principali di sviluppo: Mesoamerica (odierno Messico e Centro America), le Ande, e l’Amazzonia.

Mesoamerica
Le principali specie addomesticate in Mesoamerica furono il mais [Zea mays L. — Poaceae], i fagioli [Phaseolus vulgaris L.; P. coccineus L.; P. acutifolius A. Gray– Fabaceae], e le zucchine [Cucurbita pepo L.; C. mixta Pangalo– Cucurbitaceae], ma vengono raccolti e consumati molti frutti, come l’avocado [Persea americana Mill. — Lauraceae], la papaya [Carica papaya L. — Caricaceae], la guava [Psidium guajava L. — Myrtaceae], il sapote blanco [Casimiroa edulis La Llave & Lex. — Rutaceae] e negro [Diospyros digyna Jacq. — Ebenaceae], il peperoncino piccante [Capsicum spp. — Solanaceae] e la ciruela [Spondias mombin L. — Anacardiaceae].

Riguardo all’origine dell’agricoltura, i dati sono molto scarsi. Le evidenze archeologiche indicano che le foreste tropicali a stagione secca dei neotropici furono centri importanti di insediamento umano e coltivazione, coinvolgenti piccoli gruppi di coltivatori che si spostavano al cambiare delle stagioni

Con tutta probabilità la zucchina fu addomesticata ca. 10000 anni fa, ed uno studio recentissimo indicherebbe che il mais fu addomesticato ca. 8700 anni fà, a partire da una pianta selvatica denominata teosinte, nelle foreste tropicali dell’odierno Messico sudorientale, nella valle del Rìo Balsas, e che viaggiò con l’uomo fino a Panama ca. 7600 anni fà, fino ad essere coltivato nell’area settentrionale dell’America del Sud ca. 6000 anni fà. (36)

L’evidenza però suggerisce che le tre specie principali iniziarono ad essere coltivate insieme come sistema agronomico solo 3-4000 anni fa.

Teosinte

Ande
Le specie addomesticate sugli altopiani Andini erano due Chenopodiaceae [Chenopodium quinoa Willd. e Chenopodium pallidicaule Aellen.], i fagioli Lima [Phaseolus lunatus L.], la patata [Solanum tuberosum L. — Solanaceae], delle zucchine locali [Cucurbita moschata Duchesne, e C. ficifolia Bouche] e due camelidi, lama [Lama glama] ed alpaca [Vicugna pacos], almeno 5000 anni fa. Ma le popolazioni non svilupparono mai il sistema agropastorale tipico della mezzaluna fertile.

Amazzonia
In Amazzonia le specie addomesticate furono, come nei tropici asiatici, radici e tuberi, in particolare la manioca o cassava [Manihot esculenta Crantz. — Euphorbiaceae] e le arachidi [Arachis hypogaea L. — Fabaceae]-

Il passaggio all’agricoltura non avvenne invece mai in molte altre aree a clima comparabile come la California, l’Australia sud-ovest, l’Africa meridionale). (37)

Le conseguenze
In quasi tutte le aree di passaggio all’agricoltura la fonte primaria di cibo si ritrova nella combinazione tra uno o più cereali e uno o più legumi, che supplementavano la dieta con olii e amminoacidi assenti nei cereali, come la lisina.

Il passaggio ha probabilmente risposto a pressioni ed esigenze di equilibri energetici, di convenienza e di previsione del futuro, è stata una risposta al declino delle risorse (ad esempio la riduzione nel numero dei grandi mammiferi), alla maggior disponibilità di specie addomesticabili rispetto a quelle spontanee a causa dei cambi climatici della fine del pleistocene in Medio Oriente, ed inoltre ai progressi delle tecniche di stoccaggio del cibo. (38)

Lo spostamento di sempre maggiori settori della popolazione verso l’agricoltura e l’allevamento, porta ad un aumento della sedentarietà ed anche ad un aumento della disponibilità di cibo dal punto di vista quantitativo, mentre dal punto di vista della scelta porta forse ad una riduzione della diversità alimentare. Certamente rende possibile la vita ordinata secondo  stratificazioni sociali in comunità stabili. (39)

L’aumento delle calorie consumate può aver portato ad una iniziale minor morbilità, ma anche ad un aumento della fertilità e della densità abitativa, con conseguente aumento dei rifiuti, concentrati in zone specifiche, delle latrine, e degli allevamenti, tre fattori favorevoli all’insorgere di nuove malattie e di nuovi vettori di malattie: ratti, mosche, zanzare, topi, zecche. (40)

Gli stessi animali allevati divennero con tempo nuovi vettori di malattie, i maiali portarono ad esempio all’infezione da Ascaris, ed i bovini alla tubercolosi. Le feci accumulate favorirono il propagarsi degli elminti, le acqua sporche alla febbre tifoide.
Inoltre le modificazioni dell’ambiente richieste dall’agricoltura facilitarono il diffondersi di altre malattie per via oro-fecale; le opere di irrigazione e l’utilizzo di tecniche tipiche dell’agricoltura mobile come il debbio nelle foreste favorirono malaria, schistosomiasi e febbre gialla in Egitto, Mesopotamia ed India.

Se il peggioramento della qualità dell’alimentazione (e quindi delle capacità di resistenza dell’organismo) è andata parallela all’aumento delle fonti di infezione, è probabile che in tempi non troppo lunghi si sarà osservata una selezione degli individui più deboli o sotto stress maggiore (quindi un aumento della mortalità infantile), e la costruzione dell’immunità nei soggetti sopravvissuti. Quindi, col tempo, si sarà giunti al punto di equilibrio tra ospite e patogeno, punto al quale la maggior parte degli ospiti sopravvive e passa l’infezione, rendendo possibile la sopravvivenza del patogeno.

Dal punto di vista della struttura sociale e della gestione della salute e della malattia, una società agricola, che prevede un modello produttivo molto più spinto per sostenere la crescita demografica, prevede anche una stratificazione ed una gerarchizzazione, dove alcuni membri del gruppo avranno più potere, più ricchezza e maggior capacità decisionale di altri; la divisione del lavoro avrà portato individui e famiglie a specializzarsi in alcuni campi del sapere, tra i quali per l’appunto la medicina.

E’ probabile che le nuove malattie derivanti dall’aumento della densità e dalla sedentarizzazione abbiano messo in crisi e screditato i vecchi modi di gestire le malattie, i vecchi rimedi, aprendo la possibilità di nuove concettualizzazioni, più sofisticate ed elaborate. Tutto ciò crea un contrasto tra sapere medico popolare (il sapere precedente, che permane come “prima linea” di soccorso per il malato) e il “nuovo” sapere medico, colto ed arcano. La cura è più concentrata sul paziente, gestita agli inizi dal gruppo dei pari o dalla famiglia, passando poi per figure intermedie fino al trattamento da parte degli specialisti. (41)

La stratificazione favorisce quindi un maggior pluralismo di forme di cura ed un maggior scetticismo.
L’aumento del carico di lavoro spinge probabilmente alla ricerca/offerta di rimedi tonici (fisici, psicologici, sessuali). I gruppi che avevano maggiori conoscenze di zone ad elevata biodiversità vegetale avevano probabilmente maggior conoscenza delle piante medicinali, ma questa non era una conoscenza fortemente iniziatica, visto che per tutti era possibile avere esperienza delle piante. E’ probabile che alcune conoscenze fossero più iniziatiche, in particolare quelle legate agli uomini, che, non dovendo lavorare i campi e rimanendo sempre nello stesso luogo, visitavano di più la foresta e passavano ai figli i segreti delle piante, mentre le donne conoscevano molto bene le piante della zona di passaggio dalla foresta al coltivato, e si passavano le conoscenze quando (come succede in molte società) passavano dal loro villaggio a quello dell’uomo che sposavano.

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Note

30. Diamond, op.cit. p.78

31. Le due definizioni sono prese da: Harris DR (2005) “Origins and spread of Agricolture” in G. Price (ed.) The Cultural History of Plants. Routledge, New York pp.13-26

32. cfr. Hillman, G.C. (1996) “Late Pleistocene changes in wild plant-foods available to hunter-gatherers of the northern Fertile Crescent: Possible preludes to cereal cultivation”. In D.R. Harris (ed.) The Origins and Spread of Agriculture and Pastoralism in Eurasia, London: UCL Press and Washington, DC: Smithsonian Institution Press, ma cfr. anche il recente lavoro di Abbo S et al (2010) “Yield stability: an agronomic perspective on the origin of Near Eastern Agriculture”. Vegetation History and Archaeobotany; DOI 10.1007/ s00334-009-0233-7, dove si mette in dubbio l’importanza dei cambiamenti climatici per lo sviluppo dell’agricoltura. In effetti gli autori sostengono che, al contrario, è la stabilità climatica il fattore necessario per una agricoltura sostenibile e per l’introduzione di nuove coltivazioni. Recenti studi sul DNA mitocondriale sembrano dare un colpo molto serio alla teoria Anatolica, dato che sembra da questi dati che i primi contadini europei non siano legati strettamente ai cacciatori-raccoglitori, nè ai primi agricoltori medio orientali (Renfrew C. (2010) Archaeogenetics — towards a ‘New Synthesis’? Curr Biol 20: R162-R165)

33. Alcuni autori riclassificano i due farri in maniera differente, rispettivamente come Triticum turgidum subsp. dicoccoides (Korn. ex Asch. & Graebn.) Thell. e Triticum monococcum L. subsp. aegilopoides (Link) Thell.

34. Robin G. Allaby, Dorian Q. Fuller, Terence A. Brown (2008) “The genetic expectations of a protracted model for the origins of domesticated crops” PNAS, 105 (37): 13982–13986

35. Nel tardo periodo di Ubaid e di Uruk (IV millennio a.C.) i sumeri avevano quasi il monopolio del grano ma a causa di eccessi e di errori di irrigazione e della progressiva salinizzazione del terreno il grano crebbe sempre meno facilmente e la specie più tollerante del sale, l’orzo, arrivò a predominare.
Per queste ragioni nel 3000 a.C. si avviano vie di scambio tra le zone dell’altipiano iraniano e la Mesopotamia, e poi tra la Mesopotamia del Sud e Valle dell’Indo.

36. Piperno RD, Ranere AJ, Holst I, Iriarte J, and Dickau R (2009) “Starch grain and phytolith evidence for early ninth millennium B.P. maize from the Cenral Balsas River Valley, Mexico” PNAS 106 (13): 5019-5024

37. Johns 1990 op. cit.; Diamond 1997 op. cit.; Harris DR (2005) “Origins and spread of Agricolture” in G. Price (ed.) The Cultural History of Plants. Routledge, New York

38. Hillman, G.C. (2000) “The plant food economy of Abu Hureyra 1: the Epipalaeolithic”. In A.M.T. Moore, G.C. Hillman, and A.J. Legge (eds.) Village on the Euphrates: From Foraging to Farming at Abu Hureyra, New York: Oxford University Press, 327-399.  Hillman, G.C., Hedges, R., Moore, A., Colledge S., and Pettitt, P. (2001) “New evidence for late glacial cereal cultivation at Abu Hureyra on the Euphrates”. The Holocene 11, 383-393.

39. Diamond 1997 op. cit. Emboden WA Jr. (1995) “Art and artifact as ethnobotanical tools in the ancient near east with emphasis on psychoactive plants”. In R. E. Schultes, Siri Von Reis (ed.) Ethnobotany: Evolution of a discipline, New York: Chapman & Hall: pp. 93-107

40. cfr. Kiple 1993 op. cit. L’aumento delle calorie disponibili potrebbe aver portato ad un aumento della percentuale di adipe, che nelle donne, potrebbe avere portato ad un aumento della fertilità.

41. Kleinmann, A. Patients and healers in the context of culture.  Berkeley; University of California Press, 1980

Uomo e piante 4/dimoltialtri

Il rapporto con i patogeni
Se l’Africa è il luogo di origine e della prima evoluzione del genere Homo, per comprendere i rapporti coevolutivi tra Homo e patogeni è necessario approfondire l’argomento della distribuzione dei patogeni nel mondo, per capire se le malattie infettive siano distribuite a random o se esistano delle differenze  caratterizzanti il continente africano.

Dato che l’indagine archeologica è impossibile per l’assenza di resti analizzabili, una conferma diretta sulla distribuzione dei patogeni nel periodo di interesse non è possibile, ma secondo Guegan e collaboratori (23)  le inferenze dalle attuali distribuzioni permettono di dire che:

  1. la diversità delle specie patogene per l’uomo era ed è massima nelle zone tropicali e subtropicali.
  2. le specie di patogeni endemiche nelle zone temperate del mondo sono molto poche, mentre nelle zone tropicali sono presenti sia i patogeni endemici (patogeni, spesso zoonosi,  con stadi esterni legati a vettori o a riserve, come gli elminti) sia quelli a distribuzione globale (di solito virus, batteri e funghi trasmessi direttamente, adattati alle popolazioni umane, con ciclo vitale interno all’uomo e quindi poco sensibili all’ambiente).

Ciò significa che le diverse popolazioni umane non sono state esposte allo stesso carico di malattie infettive, e che le popolazioni africane hanno avuto (e hanno) a che fare con una maggior diversità di patogeni.

I Cro Magnon erano probabilmente organizzati in piccoli gruppi egalitari di cacciatori e raccoglitori e, a differenza di H. neanderthalensis, avevano una dieta dominata dagli alimenti di origine vegetale. (24)

Come tutti gli ominidi, essi convivevano con parassiti con i quali si erano evoluti in Africa (dai macroparassiti come Enterobius, Ancylostoma, Uncinaria, Necator, ai microparassiti come Plasmodium responsabile della malaria e Flavivirus della febbre gialla) ed anche con parassiti di altri animali, ad esempio il Trypanosoma brucei rhodesiense della tripanosomiasi africana, il Leptospira della leptospirosi, la Brucella della brucellosi, la Salmonella della salmonellosi, lo Schistosoma della schistosomiasi, la Amoeba della dissenteria amebica, il Treponema pertenue, proveniente da animali o carne decomposta, che causa la framboesia, la Borrelia che porta la borreliosi, e la Yersinia pestis.

E’ probabile che, se non esenti da malattie, i primi Homo sapiens fossero comunque poco colpiti da malattie infettive, e soffrissero prevalentemente di ferite, traumi e di infezioni croniche a bassa intensità della pelle e del tratto gastrointestinale, le uniche che potevano mantenersi attive in popolazioni numericamente esigue, o perché duravano a lungo (dissenteria amebica) o perché potevano alternarsi tra ospiti diversi (schistosomiasi).(25)

Certamente non soffrivano di infezioni acute come morbillo o varicella, infezioni virali che o uccidono o rendono immuni e necessitano quindi di grandi numeri per mantenersi attive. Inoltre la maggior parte dei gruppi umani erano sempre in movimento, quindi non esistevano quelle riserve di focolai infettivi tipici degli insediamenti stabili che sono le latrine, la spazzatura e gli allevamenti.

Un caso di studio: la malaria
L’analisi delle frequenze di alcune malattie a base genetica ha dato indizi molto importanti proprio sul fondamentale ruolo selettivo/evolutivo delle malattie infettive. L’esempio più studiato è certamente quello del rapporto tra disordini dell’emoglobina e la malaria, che mostra come nonostante i fattori stocastici impliciti nella trasmissione della malaria, il rischio di infezione dipenda in buona parte da fattori predeterminati a livello genetico. (26)

L’anemia falciforme risulta da una modificazione della subunità di tipo beta dell’emoglobina con formazione della emoglobina S (HbS) invece che la forma normale A (HbA). Negli omozigoti HbSS la HbS, quando viene ossidata, tende a precipitare e ad alterare la forma degli eritrociti, che divengono rigidi e distorti a falce (drepanociti), fragili, proni ad emolisi. I soggetti soffrono una elevata morbosità e mortalità, hanno aspettative di vita basse e raramente si riproducono.

L’allele modificato dovrebbe quindi essere estremamente raro o già scomparso, mentre si osservano frequenze molto elevate (più del 20%) nella fascia dell’Africa tropicale e frequenze meno elevate ma ancora superiori a quanto ci si aspetterebbe in Grecia, Turchia, India, Sicilia, ecc., mentre l’allele è assente in Nord America, Nord Europa, Australia.

Questa persistenza si potrebbe spiegare con una frequenza molto elevata di mutazione ricorrente, ma è più probabile che l’eterozigote HbAS abbia un vantaggio selettivo sugli individui “sani” HbAA. Questo vantaggio selettivo risulta evidente sovrapponendo le aree di persistenza dell’allele con quelle della distribuzione della malaria, aree che combaciano molto bene. Ed infatti si è scoperto che gli eterozigoti hanno ridotta prevalenza ed intensità della malaria rispetto agli omozigoti HbAA.

I parassiti della malaria (Plasmodium spp.) hanno più difficoltà a sopravvivere all’interno degli eritrociti anemici, probabilmente perché la loro azione pro-ossidante danneggia più facilmente l’eritrocita, causa una sua morte precoce e un rilascio di forme parassitarie immature che non sopravvivono all’esterno della cellula.

La stessa ipotesi di un vantaggio selettivo è stata avanzata anche per altre modificazioni patologiche dell’emoglobina, come alfa- e beta-talassemie, o per disfunzioni eritrocitarie, come ad esempio per il favismo, ovvero la deficienza dell’enzima Glucosio-6-fosfato deidrogenasi (G6PD). La deficienza di questo enzima chiave causa una reazione avversa a farmaci pro-ossidanti (l’emoglobina si ossida molto più facilmente, precipita e causa lisi dell’eritrocita) che si manifesta come una eccessiva distruzione di eritrociti. La ridotta capacità della cellula nel resistere allo stress ossidativo starebbe però alla base dell’effetto protettivo dalla mortalità da Plasmodium falciparum.

Come ha ben esposto Nina Etkin in un suo recente articolo la coscienza di questi legami evolutivi non è interessante solo dal punto di vista accademico, ma può funzionare come sapere applicato.(27) Comparare questi adattamenti biologici alla malaria agli adattamenti culturali, ad esempio la scelta delle piante medicinali o i comportamenti alimentari, ci può aiutare a spiegare perché tali adattamenti si siano presentati, e ci può aiutare a usare il dato etnobotanico come filtro per la ricerca di nuove piante utili.

L’autrice usa la pianta al momento più interessante per il trattamento della malaria, la Artemisia annua e la molecola artemisinina, mostrando come l’azione antimalarica derivi dal potenziale proossidante della molecola, che agisce sull’eritrocita e sul plasmodio, mimando in questo l’effetto di sensibilizzazione all’ossidazione delle anemie emolitiche.

L’autrice indica anche altri  comportamenti come probabili adattamenti culturali di fronte alla malaria, come la tradizione est africana di fermentare la birra in recipienti ferrosi. La birra così ottenuta sarebbe carica di ferro, un fattore chiave nei processi ossidativi che faciliterebbe la lesione ossidativa agli eritrociti.

L’espansione

Con l’espandersi verso le nuove aree temperate, H. erectus e le altre specie di Homo si lasciarono indietro (in Africa) tutte le malattie con vettori o ospiti intermediari speciali e specifici del continente (tripanosoma, arborvirus, ecc.), mentre il clima più mite riduceva il carico di patogeni; se a queste differenze sommiamo il disgelo seguito all’ultima glaciazione (10.000 anni fa), si spiega forse la crescita demografica e la conseguente aumentata necessità di cibo che spinse verso la domesticazione degli animali e verso l’agricoltura. (28)

In questo quadro assume particolare rilevanza sanitaria il fatto che queste popolazioni assumessero sempre una grande varietà di cibi vegetali, ricchi di una grande diversità di nutrienti e di tossine vegetali, responsabili, come vedremo più avanti, della riduzione delle infezioni enteriche. (29)

Sempre questo quadro suggerisce che fosse ancora assente la figura dell’esperto guaritore, dell’esperto di piante medicinali e di riti, e che la gestione della salute ed il trattamento della malattia (vista ancora come un evento che si originava all’esterno del corpo, biologico e sociale) fosse collettivo e non segreto, folklorico e comunque comprendente un complesso di terapie razionali, sia chirurgiche sia erboristiche, usate per curare malattie semplici (diarrea, costipazione, ferite, ecc.) più un uso di tonici primaverili o altro che forse apportavano nutrienti. (30)

Come si vedrà più avanti, la “scoperta” dell’agricoltura, con la possibilità di discriminare tra piante spontanee e piante coltivate, piante alimentari e piante medicinali, permette la individuazione di soggetti esperti e di conoscenze segrete, limitate agli esperti, esoteriche.

La conquista del mondo
I movimenti migratori che hanno portato H. sapiens a conquistare il mondo sono conosciuti nelle loro linee più generali.

Nell’arco temporale del “grande balzo in avanti”, dopo la conquista dell’Eurasia meridionale, H. sapiens arriva in Australia e Nuova Guinea (unite al tempo a causa della glaciazione) tra i 30.000 e i 40.000 anni fa (iniziando l’estinzione della megafauna australasiana), con quello che è stato probabilmente il primo utilizzo di imbarcazioni per superare grandi distanze (intorno agli 80 km). Circa 20.000 anni fa l’uomo conquista le terre fredde della Siberia, probabilmente contribuendo all’estinzione del Mammut e del rinoceronte lanoso. E’ probabile che solo le maggiori capacità di H. sapiens rispetto ad H. erectus e H. neanderthalensis abbiano permesso questo passaggio.

L’ultima grande massa continentale ad essere conquistata è stata l’America. Approfittando di favorevoli condizioni climatiche, è probabile che intorno a 12-000 anni fa i primi coloni siano arrivati in Alaska, e che nel giro di mille anni queste popolazioni siano arrivate in Patagonia. La Groenlandia dovrà aspettare il 2000 a.C. (31)

Se la parte principale della dieta di Homo sapiens arcaico era costituita dai vegetali (lo indicherebbero le strie dei denti comparabili a quelle dei vegetariani contemporanei, i cestini per la raccolta di vegetali nel tardo Paleolitico, i fitoliti indicanti uso di cereali, il rapporto Stronzio/Calcio delle ossa che si innalza nel Mesolitico), con il passare del tempo egli diviene sempre più attivo nel procacciarsi la carne, passando da scavenger passivo a scavenger attivo e cacciatore, e gli strumenti, specie quelli utilizzati per la macellazione delle carcasse animali, si fanno più sofisticati a mano a mano che cresce la competizione con i grossi carnivori.

Certamente l’utilizzo più massiccio della carne come alimento energetico facilita l’apporto di principi nutritivi atti a sostenere l’encefalizzazione e quindi l’ominazione.

A questo periodo risalgono altri importanti ritrovamenti di indizi sull’uso delle piante da parte dell’uomo. I resti trovati nei siti Neolitici degli abitanti dei laghi dell’Europa centrale indicano coltivazione o raccolta di ca. 200 specie diverse di piante (ad es. papavero da oppio, Papaverum somniferum L. — Papaveraceae).

Il maggior consumo di cibi ad elevata densità e d’origine animale ha probabilmente migliorato lo status nutrizionale di Homo sapiens ma ha anche cambiato il suo rapporto con foglie e composti allelopatici, ed è probabile che questi cambiamenti abbiano avuto un effetto sull’equilibrio tra status nutritivo, organismi patogeni e proprietà positive e negative dei composti attivi. Il cambiamento di dieta, infatti, potrebbe aver reso da un lato meno necessario l’utilizzo di foglie (energeticamente povere) e dall’altro aver reso possibile un loro consumo più elevato in caso di necessità (perché un organismo ben nutrito detossifica più facilmente gli xenobiotici, ovvero i composti chimici farmacologicamente attivi esogeni introdotti con la dieta).

Forse è qui, con lo sganciamento parziale dell’uomo dalla necessità di ingerire piante tossiche, e con l’inizio del lungo processo che avrebbe portato alla domesticazione di alcune piante, che si ha per la prima volta la possibilità di parlare di medicina e non solo di comportamenti di automedicazione. Perché il disaccoppiamento della frazione nutritiva da quella tossica permette di individuare due soggetti fino a questo momento fortemente sovrapposti: le piante alimentari e le piante medicinali, ed è possibile ingerire, coscientemente, composti allelopatici a scopo curativo.

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Note

23. Guegan J-F, Prugnolle F, Thomas F (2008) “Global spatial patterns of infectuous diseases and human evolution”. In S.C. Stearns & J.C. Koella (eds.) Evolution in Health and Disease. Second Edition. Oxford University Press

24. Kiple K.F. “The ecology of disease”. in W.F. Bynum e R. Porter 1993 op. cit. pp. 357-381. Anche se la presenza di asce e coltelli di pietra e di segni da taglio sui denti indicano un utilizzo di carne, le strie sui denti e la loro qualità estremamente simile a quelle dei vegetariani odierni indica una dieta prevalentemente vegetariana (Consiglio e Siani 2003 op. cit. )

25. In mancanza di dati archeologici, la fonte più importante di inferenze sul passato sono le condizioni di vita odierne delle ultime popolazioni di cacciatori raccoglitori; essi sono ben nutriti rispetto ai vicini coltivatori, e di solito in salute (Vickers W.T. “The health significance of wild plants for the Siona and Secoya”. In Etkin, N.L. (Ed.), 1994 op. cit. pp. 143-165), ed i loro problemi parassitari ed infettivi sono probabilmente in equilibrio con la popolazione (Kiple 1993 op. cit. ).

26. Ma, come hanno mostrato Mackinnon MJ, Mwangi TW, Snow RW, Marsh K, Williams TN (2005) “Heritability of malaria in Africa”. PLoS Med 2(12): e340,  i fattori genetici dell’ospite sembrano contare per il 25-33% della variabilità totale nella suscettibilità, e solo una piccola percentuale di questa variazione sembra legata ai geni più conosciuti e studiati, rafforzando l’ipotesi che la suscettibilità alla malaria sia sotto il controllo di molti geni differenti, e di fattori non genetici sempre predeterminati, che si articolano in maniera complessa con i fattori genetici.

27. Etkin, N (2003) “The co-evolution of people, plants, and parasites: biological and cultural adaptations to malaria”. Proceedings of the Nutrition Society, 62:311-317

28. Diamond 1997 op. cit.

29.  Johns 1990 op. cit.;  Vickers 1994 op. cit. ; Kiple 1993 op. cit.

30. Anche in questo caso ci si rifa ai agli studi effettuati sulle ultime popolazioni di cacciatori raccoglitori, che utilizzano rimedi per molti problemi: ferite, fratture, slogature, dolore, problemi di pelle, febbre, raffreddore, tosse, diarrea, mal di testa, ecc. Le piante venivano e vengono consumate come infusi, forse ancora prima come pianta fresca o secca ingerita tal quale.

31. Diamond 1997 op. cit.

Uomo e piante 3/dimoltialtri

Rieccoci qui alla serie Uomo e piante. Dopo un post introduttivo ed uno che esaminava in breve l’evoluzione delle piante dal punto di vista dei loro composti di difesa, nella terza installazione iniziamo a parlare dell’evoluzione umana in relazione in particolare alla dieta.

I primi passi dell’uomo
E’ fuor di dubbio che l’origine dell’uomo sia da ricercarsi in Africa, e che dall’Africa esso abbia poi colonizzato il resto del mondo. (5)

I dati genetici e paleontologici indicano infatti che l’antenato comune a uomini e scimpanzè viveva probabilmente nelle foreste pluviali dell’Africa centrale nutrendosi principalmente di frutta, più raramente di altre parti vegetali ed occasionalmente di carne.

Le prime specie di primati della tribù Hominini comparvero quasi sicuramente in Tanzania ed in Etiopia intorno a 6-7 milioni di anni fa, (6) e le varie specie di australopitecine (divise in “robuste” e “gracili”) si diversificarono intorno ai 4 milioni di anni fa.

Alcune di queste specie (almeno due  delle “robuste”), vissero fino ad essere contemporanee ad Homo habilis, sulla costa orientale africana dall’Etiopia al Sud Africa, in habitat sia di foresta che di savana. La loro alimentazione fu prevalentemente vegetariana, probabilmente dominata dalle foglie, per almeno tre milioni di anni, finché non si estinsero circa un milione di anni fa.(7)

Tra i 3 ed i 2 milioni di anni fa un importante cambiamento climatico e vegetazionale portò ad una progressiva estensione dei territori a savana a scapito della copertura forestale, ad una riduzione nella disponibilità dei frutti molli tipici delle foreste e ad un aumento di legumi e frutti duri, di piante erbacee e della possibilità da parte degli Ominidi di cacciare grandi erbivori.

E’ in questo contesto che si situa la comparsa del primo rappresentante del genere umano, Homo habilis, bipede abile costruttore di utensili ma dalla scatola cranica ancora piccola. Sempre in questo lasso di tempo si situa la iniziale diversificazione di Homo, che corrisponde anche al momento di maggior diversità nel genere, per il momento limitato all’Africa. E’ stato ipotizzato, infatti, che in quel periodo abbiano convissuto in Africa fino a sei specie di Ominidi, comprese tre del genere Homo (H. habilis, H. rudolfensis e H. ergaster).(8)

Il cambiamento climatico e la maggior disponibilità di erbivori di grande taglia determinò probabilmente la dieta maggiormente basata sulla carne di H. abilis (fino al 30%), che però è improbabile fosse un cacciatore attivo, ma piuttosto uno spazzino passivo, dipendente per il suo sostentamento dall’attività dei grandi carnivori come le tigri dai denti a sciabola.(9)

I dati archeologici sulla dieta degli ominidi mostrerebbero che fin da subito Homo divenne il maggior competitore delle australopitecine, a causa della sovrapposizione delle risorse alimentari dei due gruppi, specialmente per quanto riguarda le specie vegetali utilizzate. E’ possibile che in caso di difficoltà nel reperire carne gli Homo si volgessero verso cibi di riserva vegetali, entrando in forte competizione con le australopitecine, le quali avrebbero dovuto a loro volta fare affidamento su altre fonti di cibo, facili da reperire o difficili per Homo da sfruttare.

La scomparsa delle forme di Homo di statura ridotta circa 1.6 milioni di anni fa, e l’estinzione delle forme robuste delle australopitecine (dopo l’aumento progressivo delle dimensioni dei loro molari) indicherebbero che queste strategie di utilizzo degli alimenti di riserva non potevano essere mantenute facilmente di fronte ad una aumentata efficacia come cacciatori degli Homo di grandi dimensioni. (10)

E’ possibile ipotizzare che fin da questo periodo le piante ed i metaboliti contenuti in esse abbiano giocato un ruolo nell’evoluzione degli Ominidi. Secondo alcuni ricercatori il cambiamento climatico avrebbe forzato i primati, ed in particolare le femmine, ad adattarsi ad un ambiente caratterizzato da momenti di abbondanza e da altri di relativa carestia, e da un aumentato carico di metaboliti secondari.

Parte dell’adattamento potrebbe essere stato la maggior facilità di stoccare il surplus di energia sotto forma di depositi adiposi da sfruttare nei momenti di bisogno, una caratteristica che distingue nettamente gli esseri umani dagli altri primati, a parte l’orangutang, il quale vive anch’esso passaggi drammatici da abbondanza a carestia nelle foreste del Borneo.

Un altro adattamento fu forse la ricerca di nuove fonti di cibo meno tossiche e più diversificate. Secondo alcuni autori questi cambiamenti potrebbero aver segnato uno dei passaggi critici nell’evoluzione degli Homo.(11) Nuove strategie alimentari che permettessero un flusso di nutrienti più continuo durante l’anno, e l’aumentata capacità di stoccaggio potrebbero essere stati critici per l’evoluzione del cervello per almeno due ragioni strettamente collegate: la prima è che la strategia di ricerca allargata a nuovi habitat e verso molteplici fonti di cibo necessita di un cervello più plastico, potente e quindi più grande di quello di un animale che usi poche fonti di cibo; la seconda che un cervello più grande è metabolicamente molto costoso da produrre nella gestazione e da mantenere  durante la vita extrauterina, ed ha bisogno di fonti stabili di energia.(12)

E’ possibile che l’abilità di stoccare energia in maniera più efficiente, nata per rispondere ai momenti di carestia, abbia funzionato, una volta che lo sfruttamento di nuovi habitat avesse permesso un flusso di nutrienti stabile nel tempo, da esaptazione (o preadattamento) per l’abilità delle femmine di gestire la maggior crescita cerebrale del feto durante la gravidanza rispetto ad altri mammiferi, condizione che è stata definita come uno stato di “carestia accelerata” per la donna. (13)

Secondo le teorie delle migrazioni umane che hanno più supporto empirico, (14) le popolazioni originali di H. ergaster (H. erectus africanus – la specie che seguì a Homo habilis), dalle loro probabili zone di origine nella Rift Valley, si sarebbero espanse in una prima ondata prima, tra 1,5 e 1.2 milioni di anni fa, nel continente africano verso sud (Pigmei e Khoisan), verso ovest (odierni Niger e Congo) e nord, passando poi in Asia attraverso la penisola del Sinai circa 1.2 milioni di anni fa e da lì in Europa 500.000 anni fa, dove si sarebbero insediate ed evolute fino a dare origine ad una nuova specie, Homo neanderthalensis, che aveva con tutta probabilità una dieta del tutto simile a Homo erectus, ovvero fortemente carnea, in particolare a base di erbivori.(15)

Mentre in Europa faceva la sua comparsa il Neandertal, in Africa, da una piccola popolazione geograficamente separata dallo stock di H. erectus africano (H. ergaster), si sarebbe originato, meno di 200.000 anni fa, il primo nucleo di Homo sapiens (H. sapiens arcaico), che avrebbe poi iniziato a migrare verso le zone già occupate da H. erectus e H. neanderthalensis ca. 100.000 anni fa.(16)

E’ quindi ipotizzabile che tra i 50 ed i 35.000 anni fa tre specie di Homo convivessero sulla terra: H. neanderthalensis come discendente di Homo erectus in Europa, Homo erectus in Asia, e Homo sapiens nel suo continuo movimento espansionistico dall’Africa al resto del globo. Secondo la stessa logica è ipotizzabile che H. sapiens e H. neanderthalensis abbiano condiviso i territori in Europa, e forse che si siano mescolati.(17)

La dieta

Un passaggio decisivo per l’evoluzione della dieta degli ominidi fu certamente l’utilizzo del fuoco per la cottura del cibo, che con tutta probabilità appare come attività intorno a 400.000 anni fa. La cottura presentava indubbiamente dei grandi vantaggi per gli ominidi: essa infatti trasforma alcuni cibi prima indigeribili in cibi commestibili; facilita l’utilizzo dell’energia contenuta nei cibi riducendo il dispendio energetico digestivo; riduce il consumo dei denti. Inoltre un recente studio mostra che con tutta probabilità gli ominidi avevano già sviluppato una preferenza per i cibi cotti, preferenza forse spiegabile con la somiglianza tra i segnali molecolari provenienti dal cibo cotto e i segnali molecolari che aiutano l’ominide a distinguere tra cibi “buoni” e cibi “cattivi”.(18)

L’utilizzo del fuoco potrebbe aver facilitato i raccoglitori africani del Pleistocene nello sfruttamento di radici, tuberi e noci, che secondo la received view erano le risorse vegetali più importanti di Homo intorno a 100.000 anni fa, anche se l’ipotesi che la raccolta dei cereali in Africa fosse tecnicamente troppo difficile e quindi irrilevante rispetto alla raccolta delle radici, viene messa in discussione dai recenti dati provenienti dagli scavi nella caverna di Ngalue (odierno Monzambico).
Gli scavi mostrano una presenza importante di grani di amido di sorgo ed altre erbacee, suggerendo che almeno 105.000 anni fa Homo sapiens raccogliesse i semi delle graminacee per la sua sussistenza. (19)  Questa conclusione sembrerebbe supportata dallo studio sugli strumenti del sito di Kanjera in Kenya, che mostrerebbero segni inequivocabili di utilizzo per la processazione di piante erbacee (oltre che per l’apertura di noci, la pulitura di radici e il disossamento di carcasse di animali).(20)

Si situa in questo contesto temporale la prima testimonianza a noi pervenuta dell’utilizzo di piante medicinali da parte dell’uomo (di Neandertal, in questo caso). In una tomba risalente al 60.000 a.C., presso il sito archeologico Shanidar IV (in Iraq), sono stati ritrovati pollini raggruppati in maniera tale da suggerire che le piante dalle quali provenivano formassero un tappeto per il corpo del deceduto. Nonostante sia impossibile essere certi che fossero piante usate a scopo medicinale, o comunque importanti per la cultura di Shanidar IV, la maggior parte degli autori concorda con questa ipotesi. Le piante sono state identificate come appartenenti ai generi Achillea sp. [Asteraceae], Althaea sp. [Malvaceae], Muscari sp. [Liliaceae/Hyacinthaceae], Senecio sp. [Asteraceae], e alle specie Centaurea solstitialis L. [Asteraceae] ed Ephedra altissima [Ephedraceae], piante tuttora importanti nella fitoterapia irachena e presenti in altre tradizioni mediche.(21)

Muscari armeniacum

Centaurea sostitialis

Ephedra altissima

Il grande balzo

Proprio la presenza contemporanea dell’uomo di Neandertal e dei primi esemplari di Homo sapiens (Cro-Magnon) tra i 50.000 e i 35.00 anni fa in Europa coincise con due grandi eventi, uno di tipo culturale ed uno di tipo climatico.  Circa 50.000 anni fa si ha testimonianza, in Asia orientale prima e di seguito nel Vicino Oriente ed in Europa sud orientale, di un periodo di grande progresso tecnologico e comportamentale (la cosiddetta “rivoluzione umana” o “il grande balzo in avanti”).

Cambiamenti paragonabili sono avvenuti all’incirca nel periodo dell’arrivo degli Homo moderni in Europa, 40.000 anni fa, testimoniati tra e altre cose dai graffiti della grotta di Lascaux, nell’odierna Francia. In effetti in questo periodo (Paleolitico superiore) si osserva un avanzamento nella complessità tecnologica, artistica e rituale molto maggiore di quanto osservato nei periodi precedenti, come ad esempio l’uso di strumenti a lama specializzati, l’apparire dell’arte, del simbolismo, la comparsa di siti di sepoltura umana accompagnati da ornamenti complessi in osso, corno, conchiglie o oggetti d’avorio.(22)

Nello stesso periodo ci fu l’inizio delle grandi instabilità e fluttuazioni del clima dell’era glaciale, con il passaggio da climi temperati a climi estremamente rigidi e viceversa, e questi mutamenti continuarono a verificarsi alternativamente a distanza di poche migliaia di anni. In Europa questi cambiamento erano legati all’inversione della circolazione oceanica nel Nord Atlantico e potevano congelare e scongelare l’Atlantico in meno di una decade. Quindi è del tutto possibile che nell’arco della vita di un Neandertal e di un Cro-Magnon, il clima e l’ambiente animale e vegetale a cui erano abituati fosse spazzato via e sostituito da climi, specie animali e vegetali del tutto nuovi. Quando le colonie di Cro-Magnon iniziarono a convivere con i Neandertaliani, il cambiamento climatico potrebbe aver favorito i primi, che forse avevano dei vantaggi quali una rete sociale più ampia e solida, abiti e ripari più efficienti, e alla fine ciò potrebbe aver portato alla scomparsa dei Neandertal.

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Note

1. Tattersall I., Schwartz J. Extinct humans. Boulder CO; Westview Press, 2000; Johanson D., Edgar B. From Lucy to language. NY; Simon & Schuster, 1996.

2. Crowe, I (2005) “The Hunter-Gatherers”, in G. Price (ed.) The Cultural History of Plants. Routledge, New York, pp. 3-11

3. Crowe 2005 op. cit.

4. Secondo Tutin (Tutin C (1992) “Foraging profiles of sympatric lowland gorillas and chimpanzees on the Lopé game reserve, Gabon”. In E.M. Widdowson and A. Whiten (eds.) Foraging Strategies and Natural Diet of Monkeys, Apes and Humans. Oxford, Clarendon Press) è probabile che la frugivoria sia stato il primo stadio di adattamento (anche primati oggi tipicamente foliovori (come i gorilla) sarebbero comunque passati dallo stadio di frugivoria), ed il più plastico. La foliovoria sarebbe infatti in cul-de-sac evolutivo che costringe l’animale a sviluppare una flora batterica gastrica o intestinale per fermentare le fibre delle foglie e renderle assorbibili. Una volta sviluppata tale flora l’animale sarebbe comunque costretto ad alimentarsi in parte con foglie anche in periodi di abbondanza di frutti, solo per mantenere attiva la flora.

5. Diamond, J. Guns, germs, and steel: The fates of human societies. W.W. Norton & Co., 1997; Ed. italiana Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Torino, Einaudi 2000; Dawkins R. Il racconto dell’antenato. La grande storia dell’evoluzione. Mondadori, Milano, 2006; Filler A.G. (2007) “Homeotic evolution in the Mammalia: Diversification of therian axial seriation and the morphogenetic basis of human origins”. PLoS ONE 2(10): e1019. doi:10.1371/journal.pone.0001019

6. I resti di Sahelanthropus tchadensis e poi di Orrorin tugenensis si situano intorno a quell’area temporale, e poco più tardi appaiono i primi resti di Ardipithecus ramidus (5.8 milioni di anni fa) e di Kenyanthropus platyops (3.5 milioni di anni fa).

7. Gli australopitecini, differenziati in molte specie, spesso contemporanee, comprendevano almeno tre di tipo “robusto (Australopithecus aethiopicus – 2.6-2.3 milioni di anni fa; A. robustus – 2-1.5 milioni di anni fa; A. boisei – 2.1-1.1 milioni di anni fa). e tre più “gracili” (A. anamensis (4.2-3.9 milioni di anni fa), A. afariensis (3.9-3.0 milioni di anni fa), A. africanus (3-2 milioni di anni fa). Gli australopitecini robusti (per i quali alcuni autori usano ora il termine Parantrhopus perché ritengono che appartengano ad un clade unico) molto probabilmente non sono diretti antenati dell’uomo moderno, ma appartengono ad un ramo laterale del cespuglio evolutivo. Quelli più “gracili” sono invece probabilmente i nostri progenitori diretti (Gould, S.J. The structure of evolutionary theory. Belknap Press, 2002).  Rispetto agli ominidi che li avevano preceduti gli australopitecini in genere mostravano una dentatura più adatta ai cibi duri, per i quali era necessario passare da funzioni di taglio ed affettatura (tipiche dei cibi morbidi) a schiacciamento e triturazione, e ad una masticazione circolare. I denti erano situati sotto e non davanti al cranio (con riduzione quindi del prognatismo, una riduzione che si è mantenuta sino a noi), canini ridotti e cuspidi arrotondate e basse. D’altro canto secondo alcuni autori la presenza di incisivi piccoli sarebbe più indicativa di foliovorìa che di frugivorìa (Consiglio, C. e Siani V.  Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri, 2003). Consiglio e Siani stimano una percentuale dal 2 al 5%), foliovora e/o frugivora. L’ambiente forniva ampie possibilità di alimentarsi con noci (A. africanus usava ciottoli per romperle), bacche e legumi della savana, e foglie e frutti carnosi reperibili nella foresta. Più ambigui i dati sui robusti. Gli studi sulla chimica delle ossa effettuati sui fossili sono compatibili sia con una dieta prevalentemente foliovora sia con una ricca in radici e carne. La dentatura indica che erano più adatti dei gracili a mangiare cibi duri (sia che ne mangiassero maggiori quantità, sia che il cibo fosse più duro). Secondo Consiglio e Siani 2003 op. cit.  A. robustus e A. boisei potevano usare frutti di alberi della savana come Parinari excelsa, P. curattellifolia, Sclerocarya birdea, Ricinodendron rataneeni.  Da questi dati si presume una dieta prevalentemente vegetariana, foliovora e adatta a semi duri tipici delle piante della savana.

8. Gould 2002 op. cit.

9. La carnivoria sembrerebbe comprovata da vari dati, come la riduzione dello smalto dei denti, i cumuli di ossa ritrovate nei siti abitativi, i segni di arnesi da taglio su denti e sulle ossa, e le tracce indicative di alimentazione a base di pesce. E’ ipotizzabile che si fosse creata una nuova nicchia ecologica per H. abilis come spazzino delle carcasse lasciate dai carnivori meno specializzati, come la tigre dai denti a sciabola del Pliocene e Pleistocene. Può darsi che esso fosse principalmente uno spazzino passivo che si nutriva delle ossa e del loro midollo, battendo sul tempo i carnivori specializzati nell’utilizzo delle ossa. Comunque sia, la dieta conteneva carne come componente importante, ma certamente non maggioritaria (si valuta intorno al 30%). Con la scomparsa delle tigri dai denti a sciabola dall’Africa (1.7 milioni di anni fa) H. habilis ha con tutta probabilità dovuto diventare uno spazzino più attivo, che doveva competere con spazzini molto più specializzati ai quali doveva contendere i resti; alcuni autori hanno collegato questo cambiamento di modalità con l’aumento di statura che si nota nel passaggio tra H. habils e H. erectus (i cui fossili africani sono stati chiamati Homo ergaster).

10. cfr. Wood and Lieberman 2001 e Ungar PS, Grine FE, Teaford MF (2008) “Dental Microwear and Diet of the Plio-Pleistocene Hominin Paranthropus boisei“. PLoS ONE 3(4): e2044

11. Mancando, come sempre in questo caso, prove dirette di quando sia accaduto, dobbiamo avvalerci sono di dati indiretti, di inferenze. Uno studio sui lemuri del Madagascar (L. cattia) (Sauther M.L. “Wild plant use by pregnant and lactating ringtailed lemurs, with implications for early hominid foraging”. In N.L. Etkin (Ed.) 1994 op. cit. pp. 240-258). I lemuri sono un tipo di proscimmia sociale diurna che abita la foresta fluviale a mosaico del Madagascar, e l’analisi dei suoi comportamenti alimentari può essere utile per intuire alcuni passaggi cruciali che hanno portato alla divergenza dei primi ominidi. Il risultato degli studi suggerisce che un avanzamento critico che ha differenziato i preominidi dalle altre specie di primati sia stato lo sviluppo di comportamenti volti ad aumentare la possibilità di sfruttamento delle risorse ambientali. Dati i cambiamenti climatici, che hanno causato una modificazione dell’ambiente nella direzione di una bioregione di savana-mosaico, gli ominidi africani per avere successo devono avere imparato a sfruttare nuove nicchie ecologiche. Dato che le femmine incinte o che allattano sono comunque soggette, rispetto ai maschi, a maggiori restrizioni alimentari (devono evitare cibi con eccessive quantità di metaboliti tossici) e ad elevati costi (devono spostarsi di più per ricercare il cibo), è ipotizzabile che da loro sia partita la spinta alla ricerca di nuove nicchie, di nuovo strumenti per avere disponibilità di cibo tutto l’anno.

12.  Johns 1990 op. cit.

13. Ellison P.T. On fertile ground: A natural history of human reproduction. Harvard University Press, Cambridge, USA, 2001, pp. 289-294

14. Il modello della “origine africana recente” o “della sostituzione”. Cfr. White T.D., Asfaw B., DeGusta D., Gilbert H., Richards G.D., Suwa G. et al. (2003) “Pleistocene Homo sapiens from Middle Awash, Ethiopia”. Nature, 423:742-7; Stringer C.B. (2003) “Out of Ethiopia” Nature, 423:692-4; Stringer, C. (2001) “The evolution of modern humans: where are we now?” General Anthropology 7 (2): 1-5

15. I dati sulla riduzione dello smalto e della area masticatoria, i segni di coltello su ossa e denti, la presenza di strumenti da taglio come asce e coltelli di pietra, sono consistenti con un aumento della quantità di carne nella dieta di H. erectus, e che forse fosse passato ad un ruolo di scavenger più attivo (statura più elevata). La carne era quindi probabilmente una componente importante, secondo Consiglio e Siani 2003 op. cit. da situarsi in media intorno al 30% e non più del 50%. La dieta delle popolazioni insediatesi vicino a laghi, mari e corsi d’acqua era anche molto ricca in pesce. Gli scavi presso il sito di Gesher Benot Ya’aqov, sulle rive del paleo-lago Hula nel nord della Valle del Giordano, nel Rift del Mar Morto, risalgono a 790.000 anni fa, e indicano che la popolazione faceva ampio utilizzo di granchi e soprattutto pesce. Gli stessi scavi hanno consentito di verificare quali piante venissero utilizzate ed in parte anche a che scopo. Tra le piante usate a scopo non alimentare troviamo olivo, quercia, Styrax officinalis, mentre tra quelle alimentari figurano le ghiande di quercia (detossificate probabilmente tramite cottura e forse geofagia), i semi della Euryale ferox e soprattutto i frutti della Trapa natans, molto nutrienti grazie alla percentuale di amido in essi contenuta. E’ possibile che fossero consumati anche i frutti della vite selvatica (Vitis sylvestris) e dell’olivo, come anche le foglie della rapa bianca (Beta vulgaris) e del cardo mariano (Silybum marianum) (Alperson-Afil N, Sharon G, Kislev M, Melamed Y, Zohar I, Ashkenazi S, Rabinovich R, Biton R, Werker E, Hartman G, Feibel C, Goren-Inbar N. (2009) “Spatial Organization of Hominin Activities at Gesher Benot Ya’aqov, Israel”. Science 326:1677-1680)

16. Secondo una teoria alternativa, il modello multiregionale (o modello a candelabro), le tre sottopopolazioni di H. erectus migrate in Africa, Asia ed Europa si sarebbero evolute parallelamente ed indipendentemente per dare origine a Homo sapiens in tutta la sua diversità.  Stringer 2003 op. cit. propone una teoria ancora differente, secondo la quale vi sono stati vari eventi di dispersione nell’evoluzione umana negli ultimi due milioni di anni uno, particolarmente importante, sarebbe avvenuto nel Pleistocene Medio di Africa ed Europa, più di 600.000 anni fa, con l’origine e la dispersione di Homo heidelbergensis. Secondo Stringer 2003 op. cit. questa specie vide di seguito un graduale evento di speciazione circa 300.000 anni fa, dando origine a Homo sapiens neanderthalensis (o H. neandertalensis – Neandertal) al nord del Mediterraneo ed a Homo sapiens arcaico al sud, in Africa. Nel frattempo ad est continuava l’evoluzione di Homo erectus, in Cina e Giava. Queste due linee evolutive possono esseresi incontrate in aree di sovrapposizione, come ad esempio in Medio Oriente, circa 100.000 anni fa, ed in Europa 35.000 anni fa.

17. Altri autori ipotizzano modelli misti, nei quali la componente della seconda ondata migratoria si sia ibridata in parte con alcune spp. della prima ondata, come Homo neanderthalensis, cfr. Duarte C., Mauricio J., Pettitt P.B., Souto P., Trinkaus E., van der Plicht H. et al. (1999) “The early upper Paleolithic human skeleton from the Abrigo do Lagar Velho (Portugal) and modern human emergence in Iberna”. Proceedings of the National Academy of Sciences, USA, 96:7604-9.

18. Wobber V, Hare B, Wrangham R. (2008) “Great apes prefer cooked food”. J Hum Evol 55:340-348

19. Mercader J. (2009) “Mozambican grass seed consumption during the Middle Stone Age”. Science 326:1680-1683).
20. Braun DR, Plummer T, Ditchfield P, Ferraro JV, Maina D, Bishop LC, Potts R. (2008) “Oldowan behavior and raw material transport: perspectives from the Kanjera Formation”. J Archaeol Sci 35:2329-2345

21. Lietava, J. 1992 “Medicinal plants in a Middle Paleolithic grave. Shanidar IV” Journal of Ethnopharmacology 35:263-266; Leroi-Gourhan A. (1975) “The flower found with Shaidar IV, a Neandrethal burial in Iraq”. Science. 190:562-564; Solecki R.S. (1975) “Shanidar IV, a Neanderthal flower burial in Northen Iraq”. Science. 190:880-881. Per una opinione contraria sul ruolo delle piante nei riti di sepoltura di Shanidar IV, cfr, Sommer J.D. (1999) “The Shanidar IV ‘flower burial’: a re-evaluation of Neanderthal burial ritual”. Cambridge Archeological Journal 9(1):127-137

22. Diamond 1997 op. cit.

Uomo e piante 1/dimoltialtri

Uomo e piante

Devo soccombere alla realtà dei fatti, la sintesi non è nelle mie carte, e i post brevi ed illuminanti nemmeno :-).

Cerco di allora di illudermi con la sistematicità, ma  tendo a soccombere alla tendenza al dettaglio. Ecco quindi che mi ci è voluto un po’ per capire che dovevo pur iniziare a buttare fuori questi post dedicati al rapporto tra uomo e piante, anche se non tutti i link sono a posto ecc.

Spero nella benevolenza di chi leggerà, ed anche nelle loro indicazioni e suggerimenti per il miglioramento di quella che nelle intenzioni sarebbe una lunga serie di post.

Questo è anche un modo per trovare il tempo per rivedere le monografie di Infoerbe a poco a poco, con la scusa di linkarle qui.

Un dato incontrovertibile, ma velato dal tempo trascorso e dalla consuetudine, che serve ad inquadrare la discussione che seguirà, è l’esistenza di una relazione speciale che lega le piante all’uomo dagli albori della cultura umana e da prima ancora. Pochi sono gli aspetti della vita dell’uomo nei quali le piante non abbiano giocato in qualche epoca un ruolo importante, addirittura determinante. Allo stesso tempo le piante, in una sorta di viaggio coevolutivo, sono cambiate con l’uomo, sino a diventare in parte dei costrutti culturali.

Le piante forniscono materiale per costruire edifici, templi, vascelli; resine per impermeabilizzare i vascelli, da bruciare nei templi per onorare gli dei, da mescolare al cibo. Dalle piante si modellano strumenti, oggetti sacri ed artistici, fibre per costruire corde, tessuti da indossare e pigmenti per colorarli e per dipingere la storia dell’uomo. Le piante hanno fornito i primi inebrianti usati nei riti magico-religiosi ed i primi veleni usati nella caccia o nelle ordalie, ed entrano nei miti come “oggetti spirituali”, portatori di relazioni simboliche dell’uomo con il mondo naturale e supernaturale. Alcune piante hanno determinato il corso della storia economica e culturale fino a tempi molto recenti, come nel caso delle spezie e delle vie commerciali che furono aperte per assicurarsi il loro monopolio. (1)

Le piante, per finire, (come verrà ampiamente esposto più avanti) sono state per la maggior parte della storia umana la principale fonte di nutrimento, e la fonte più importante di farmaci in tutte le tradizioni mediche antiche ed in certa misura anche nella medicina moderna.

Per citare alcuni esempi a questo riguardo, nella più antica farmacopea occidentale che ci sia arrivata nella sua interezza, il Περὶ ὕληϛ ἰατρικῆϛ (De Materia Medica) di Pedanio Dioscoride (scritto ca. 50-68 d. C.), l’autore elenca circa 725 rimedi, dei quali più di 600 sono di origine vegetale (82-83%), 35 di origine animale (4.7-4.8%) e 90 sono minerali (12.2-12.4%);(2) nella Naturalis Historia (Storia Naturale) di Plinio il Vecchio, compilato nello stesso periodo o poco dopo, su 1693 sostanze medicamentose menzionate, 1391 (82%) sono sostanze di origine vegetale (delle quali 119 spezie o piante aromatiche), 218 (13%) sono sostanze animali e 84 (5%) sono dei minerali.(3)

Nella farmacopea cinese antica le percentuali sono simili: nello Shennong bencao jing (ca. 100 d. C.) su 365 droghe 246 (68%) sono di origine vegetale (i minerali costituiscono lo 11.5% e gli animali il 18.3%); nella raccolta del 659 d.C., il Hsin hsiu pent’sao, la percentuale di rimedi vegetali è del 64% e nel Takuan pent’sao (del 1108 d.C.) del 67.7%.

Nel Caraka Samhita, uno dei due testi più antichi della tradizione medica ayurvedica, si citano 582 rimedi, dei quali 341 (ca. 60%) di origine vegetale.(4)

Per quanto riguarda la farmacopea moderna, secondo Guerci e Lugli: “in un laboratorio farmaceutico medio oltre il 60% dei farmaci provengono, direttamente o indirettamente, dalle piante” e “un quarto delle prescrizioni rilasciate negli stati uniti d’America contiene principi attivi estratti da piante” (per una descrizione più dettagliata ed esaustiva del rapporto tra farmaci prodotti e farmaci legati in maniera più o meno diretta al mondo vegetale vedi il post di Meristemi).(5)

Alcuni di questi farmaci sono tra i più conosciuti ed utilizzati: morfina dal papavero da oppio [Papaver somniferum L. — Papaveraceae], chinino da Cinchona spp. [Rubiaceae], aspirina dalla corteccia di salice [Salix spp. — Salicaceae] e dalla regina dei prati [Filipendula ulmaria (L.) Maxim. — Rosaceae], digossina dalla digitale [Digitalis purpurea L. — Scrophulariaceae], taxolo dal tasso [Taxus brevifolia Nutt. — Taxaceae], vinblastina da Vinca [Catharanthus roseus (L.) G.Don f. — Apocinaceae].

Cibo, farmaco, uomo
Nelle società industrializzate la percezione comune individua i farmaci sia dalla loro forma (pillole o compresse, composti chimici assunti a dosi molto ridotte, nell’ordine dei micro/milligrammi), sia dalla loro funzione (hanno attività farmacologica spiccata, riducono o eliminano sintomi, curano malattie), mentre i cibi sono sostanze consumate solitamente in quantità molto maggiori e che normalmente non esercitano attività farmacologica ai dosaggi tipici dei farmaci, e neppure a quelli alimentari.

In pratica, però, nonostante l’apparenza, la distinzione tra ciò che è farmaco e ciò che è alimento non è così netta, anzi offre molti spazi di sovrapposizione, e le definizioni sono spesso normative e culturali oltre che oggettive. Le piante in particolare possono offrirci vari esempi

Le piante possono infatti essere usate sia come medicina sia come cibo, ed è difficile tracciare una separazione netta tra queste due aree: il cibo può essere medicina e viceversa. Le risorse vegetali nelle società tradizionali, in particolare le verdure selvatiche, sono spesso utilizzate contemporaneamente in diversi contesti come cibo e come medicina. La raccolta o la coltivazione, la preparazione ed il consumo di tali specie sono radicate nelle percezioni emiche (NdT: riferite al punto di vista, alle credenze, ai valori dell’attore sociale ottica) degli ambienti naturali associati alle risorse disponibili, alla cucina e alla pratica medica locale, all’apprezzamento del gusto e tradizioni culturali.(6)

Un esempio classico di questa ambiguità sono le spezie, che costituiscono un gruppo di piante anche oggi utilizzato a scopo alimentare, sempre in quantità molto ridotte; esse sono state tra le prime piante non strettamente alimentari ad essere coltivate (come ad esempio zenzero [Zingiber officinale Willd. Roscoe — Zingiberaceae] e canna da zucchero [Saccharum officinarum L. — Poaceae ], tra le prime cultivar conosciute) e tra le prime ad essere riconosciute dall’uomo come medicinali (dato suffragato dalle moderne ricerche farmacologiche – antisettica, digestiva, antispasmodica ed altre estremamente interessanti).

Tra le spezie meritano una menzione particolare due piante, l’aglio [Allium sativum L. — Alliaceae] e la curcuma [Curcuma longa L.– Zigiberaceae], perché sono due piante che nei loro rispettivi contesti geografici sono piante alimentari comunissime ed allo stesso tempo con una decisa attività di prevenzione e di trattamento delle malattie.(7)

Il caffè [Coffea arabica L.– Rubiaceae]ed il tè [Camellia sinensis (L.) Kuntze — Theaceae] sono due altri esempi tipici di piante con riconosciuta e potente attività farmacologica a dosi relativamente ridotte e che, nonostante ciò, sono, per ragioni di consuetudine e storiche, considerate degli alimenti. Questa difficoltà a distinguere tra i due campi è resa ancora maggiore (o forse è resa più esplicita (8)) dallo sviluppo della zona chiaroscurale che comprende i supplementi alimentari a scopo salutistico, i nutraceutici, gli alimenti funzionali, i cibi tossici o medicinali. (9)

Se passiamo dalle società industrializzate a realtà tribali o di comunità più ridotte e agricolo-pastorali, questa sovrapposizione tra cibo e farmaco non solo è presente, ma è comunemente accettata. Alcuni dei casi più studiati (in particolare da Timothy Johns e collaboratori) sono quelli dei Maasai, dei Batemi e di altre tribù dell’Africa Orientale, che mescolano radici e cortecce ad azione terapeutica alle zuppe a base di carne, ed dei Luo ed altre tribù di Kenya e Tanzania che usano nei pasti, in specifiche celebrazioni annuali, vegetali a foglia larga con attività farmacologia spiccata, molto amare e/o piccanti.

Questo comportamento è stato proposto come spiegazione del cosiddetto paradosso Maasai. Questo gruppo ottiene il 66% delle calorie da lipidi (pasti composti principalmente da latte e sangue), senza mostrare però la costellazione di disordini cardiovascolari che nei paesi europei e nordamericani è associata a diete ad alto tenore di grassi; nelle circa 25 piante usate nelle zuppe è stata riscontrata una elevata percentuale di  saponine, molecole in grado di legarsi al colesterolo ed ai grassi saturi alimentari e quindi potenzialmente in grado di ridurre il rischio (anche se è probabile che la differenza sia dovuta anche a fondamentali differenze di stili di vita tra società industrializzate e società pastorali). Le stesse piante usate come additivi alimentari mostrano attività antivirale contro il morbillo.(10)

In alcuni casi le piante sono un “cibo” ed una “medicina” con forte valenza simbolica: valga per tutti l’esempio del peyote [Lophophora williamsii (Salm-Dyck) J. Coulter — Cactaceae], dio, sacramento, cibo sacro, medicina.(11)

La differenza tra alimento e farmaco può risiedere non nella “natura” del materiale, ma nella modalità di scelta o nell’orizzonte culturale nel quale la scelta viene effettuata. Comunità che condividono caratteristiche simili dal punto di vista socio-economico e geografico, ma culturalmente e/o etnicamente distinte, possono utilizzare la biodiversità vegetale in maniera diversa, usando categorie diverse per determinare  l’interfaccia tra cibo e medicina.(12)

ll sapore, l’apparenza, la consistenza, l’odore, il nutrimento che possono apportare, sono tutti stimoli sensoriali e categorie che determinano la scelta di una pianta come alimento o come medicina, ma nell’equazione entrano anche altri fattori. Alcune piante medicinali, ad esempio, vengono selezionate a seconda della stagione a causa di problemi di disponibilità, quindi in certi periodi dell’anno si sovrapporranno alle piante mangerecce, soprattutto in corrispondenza di malattie stagionali come le malattie da raffreddamento, la malaria, i parassiti, i problemi digestivi. Altre volte, le piante spontanee usate come medicina diventano cibi d’emergenza in momenti di carestia, e sono sovente delle antiche cultivar (sempre più spesso dimenticate anche da quelle popolazioni che si avvantaggerebbero di più dal loro sfruttamento).(13)

Il fatto, poi, che la maggior parte delle piante usate a scopo medicinale non siano piante selvatiche che si incontrano nel profondo della foresta, bensì infestanti, ovvero quelle piante che si situano nel continuum tra selvatico e coltivato, sottolinea  la natura relazionale della polarità alimento-farmaco. La pianta è attiva farmacologicamente in virtù di sue proprietà biologiche, ma viene “costruita” come medicina nella sua relazione con l’attività e la cultura umana, visto che proprio le piante nate “intorno” all’attività agricola dell’uomo senza farne del tutto parte sono diventate il suo strumento medicinale principale. (14)

In sistemi medici colti come la medicina cinese o quella indiana, la sovrapposizione tra cibo e medicina è stata addirittura formalizzata all’interno del costrutto teorico medico. Nel Shennong pent’sao jing, quello che potrebbe essere vista come la prima raccolta sistematica della farmacopea cinese, risalente al primo secolo d.C., i farmaci vengono divisi in tre categorie, dette di grado superiore, medio ed inferiore. Tutte le droghe di livello superiore (chiamate anche rimedi imperatore) appartengono al campo dei cibi-farmaco, rimedi igienisti macrobiotici che “alleggeriscono il corpo”, “estendono gli anni di vita” ed “eliminano la vecchiaia”, dai quali non ci si aspetta una efficacia terapeutica diretta, e la cui somministrazione a lungo termine era considerata sicura, senza pericolo: ginseng [Panax ginseng C. Meyer. — Araliaceae], liquirizia [Glycyrrhiza glabra L. —  Fabaceae], Angelica sinensis [Apiaceae], piantaggine [Plantago spp. — Plantaginaceae] ecc.(15)

Simile classificazione è presente anche nella farmacopea ayurvedica, dove le piante considerate più importanti, i rimedi Rasayana, si usano per nutrire e rinforzare il “tessuto primordiale” o rasa , per ritardare l’invecchiamento, promuovere l’energia vitale e migliorare le capacità cognitive. Anche in questo caso si tratta di piante quasi alimentari, il cui consumo è possibile in grandi quantità e per lungo tempo, e la cui azione è simile ad un nutrimento terapeutico, mentre le piante più attive nel senso moderno e farmacologico del termine sono anche quelle meno importanti [Withania somnifera (L.) Dunal. — Solanaceae; Ocimum sanctum L. — Lamiaceae, Phyllanthus emblica L. — Euphorbiaceae, Asparagus racemosus Willd. — Asparagaceae (o Liliaceae)].(16)

Se poi analizziamo dal punto di vista chimico le piante usate come medicine e quelle di uso alimentare scopriamo che i medesimi composti chimici ad attività farmacologica (alcaloidi, composti amari, flavonoidi, glicosidi, in particolare cianogenici, saponine, acidi organici) sono presenti nelle due categorie, anche se in concentrazioni molto differenti.

Conclusioni
Da quanto detto discende che l’uomo ha sempre inserito nella sua dieta composti farmacologicamente attivi presenti nelle piante di cui si nutriva, anche se probabilmente con maggior frequenza nelle epoche antiche rispetto ad oggi.

Ma come è successo che le piante siano diventate un elemento così importante per gli esseri umani? Ed in particolare, perché esse sono così importanti per la medicina?
Una prima risposta generica a questi quesiti viene dalla considerazione della quantità e diversità di vita vegetale sul globo: grazie alla loro natura autotrofa, le piante superano di una magnitudo di fattore dieci tutta la biomassa di origine animale sul globo; possiedono una capacità ineguagliabile di sintetizzare ex novo composti chimici, poiché, a differenza degli animali, non possono muoversi, e per difendersi dai predatori devono sintetizzare ed utilizzare speciali composti di difesa.

L’approccio coevolutivo spiega la nascita della “pianta medicinale”, il momento aurorale della medicina, come una relazione tra uomo, pianta e patogeni, che nei milioni di anni avrebbe permesso all’uomo di adattarsi ai composti di difesa, di imparare a renderli meno tossici ed infine di utilizzarli a proprio beneficio.

Naturalmente il dato biologico adattivo può spiegare un inizio, può giustificare un ventaglio molto limitato di attività delle piante sull’uomo. Non è possibile farvi risalire direttamente le elaborazioni culturalmente mediate della medicina.(17)

Un corollario di questa tesi è che:

una delle chiavi per comprendere come questo processo sia iniziato sta nel riconoscere l’importanza del sapere tradizionale sulle piante presente in ogni cultura, e nell’identificazione degli elementi culturali e biologici del processo dinamico attraverso il quale questo sapere viene ottenuto e mantenuto in una comunità.(18)

Sarà quindi necessario valutare il ruolo giocato dalle piante all’interno delle diverse culture e dei diversi contesti storici e simbolici, e cercare uno schema che ci permetta di collegare tra di loro questi dati, per chiarire quanto essi siano generalizzabili; per chiarire cioè quanto i parallelismi di utilizzo in diverse aree geografiche dipendano dal passaggio di informazioni tra una area e l’altra  (e non siano quindi trattabili come indipendenti), e quanto invece siano indipendenti e quindi si rinforzino a vicenda.

A loro volta questo collegamenti potranno essere messi in relazione con ciò che sappiamo sulle relazioni evolutive tra uomo e piante, ed anche con ciò che sappiamo in termini di chimica delle piante, ad esempio che esistono dei cluster di attività intorno a determinati composti o gruppi chimici, e che determinati gruppi chimici mostrano la tendenza a segregarsi secondo divisioni tassonomiche.

Questi dati presi assieme e usati, per così dire, per effettuare una triangolazione, potrebbero gettare più luce sulle basi biologiche ed evolutive dell’uso delle piante come medicine da parte dell’uomo.

Prima di tentare questa analisi/descrizione è però necessario fare un passo indietro, esplorare i presupposti biologici di queste relazioni, andare a trovarne i semi nella preistoria della nostra specie o addirittura del nostro genere. Per fare questo esamineremo brevemente quali siano stati i passaggi più importanti nel mondo vegetale dalle sue prime esplorazioni delle terre emerse fino ai nostri tempi, per capire come l’evoluzione delle strategie di sopravvivenza delle piante abbia potuto poi intercalarsi con la nostra. A partire da questi dati sarà poi più semplice esaminare l’evoluzione dell’uomo, della sua dieta e della sua trasformazione nei millenni in pratica terapeutica.

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Note

1. Lewington A. Plants for People. London, The Natural History Museum, 1990. Heiser, C.B.m, Jr. Of plants and people. Norman OK, University of Oklahoma Press, 1985. Balick, M.J., Cox, PA Plants, people, and culture: The science of ethnobotany. Scientific American Library, 1996

2. Pedacii Dioscoridis de materia medica libri sex interpetre Petro Andrea Matthiolo cum eiusdem commentariis. Venezia, 1544. Collins M.  Medieval herbals: The illustrative tradition. The British Library and University of Toronto Press, 2000

3. Nei libri dal XX al XXXII. In Fabre,  La pharmacopée romaine dans l’oeuvre de Pline l’ancien. Tesi di dottorato presentata alla Sorbona (Paris IV), aprile 1998

4. Il secondo è il Susruta Samhita; di entrambi è incerto il periodo di composizione, anche se la loro presenza è certa nel primo secolo d.C., e è possibile risalgano al quarto secolo a.C. – Wujastyk, D. Indian Medicine in Bynum W.F. e Porter R. Companion encyclopedia of the history of medicine. 2 vols. London, Routledge, 1993, pp.755; cfr. Priyadaranjan Ray e Hirendra Nath Gupta Caraka Samhita (a Scientific synopsis), New Delhi, National Institute of Sciences of India, 1965, Tabelle 1-3

5. Guerci A., Lugli A. Piante medicinali del mondo, patrimonio dell’umanità: Una visione tra etnobotanica, tradizione e scienza. Planta Medica Edizioni, 2005, p. 2 e p.14; cfr. anche Foster, S. & Johnson, R. Desk Reference to Nature’s Medicine. National Geographic Society, Washington D.C, 2006.

6. Pieroni A., & Price L.L. “Introduction” in Eating and Healing: Traditional Food As Medicine, The Haworth Press, 2006

7. D’altro canto possono essere definiti farmaci i cibi assunti per curare o alleviare le malattie, e cibi i beni consumabili che tradizionalmente non sono stati considerati medicinali dai vari governi.

8. Nel senso che l’aumento delle ambiguità in questo campo non è altro, a mio parere, che  la rivelazione della artificialità della distinzione normativa, che ha voluto racchiudere la complessità in definizioni troppo stringenti. In società meno normative, questa sovrapposizione di campi non è vista come problematica.

9. Nel campo ancora giovane ed in grande sviluppo dello studio delle interrelazioni tra “alimenti” e “medicine” i termini usati per descrivere la zona di confine tra i due settori sono ancora relativamente vaghi: per “cibo funzionale” (functional food) si deve intendere, seguendo Preuss (Preuss A (1999) Zur Charakterisierung Funktioneller Lebens- mittel (Characterization of functional food) Deutsche. Lebensmittel-Rundschau 95 468-47),  un cibo che oltre agli utilizzi legati ad aspetti nutrizionali o di piacere sensoriale, mostra utilizzi legati ad effetti di altro tipo sulle funzioni dell’organismo, e che occuperebbe una posizione mediana ma in parte distinta (una terza opzione) tra cibo e medicina. Per “cibo medicinale” (medicinal food) o “medicine alimentari” (food medicines), seguendo Pieroni e Quave (Pieroni, A. e Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania” in A., Pieroni e L., Leimar Price (eds.)  (2006) Eating and Healing, Haworth Press,  p. 110) intendiamo invece quell’area di sovrapposizione tra cibo e medicina, quando una pianta viene ingerita in un “contesto alimentare” allo scopo di ottenere uno specifico effetto medicinale. Il termine “nutraceutico” (dall’inglese nutraceutic, composto di nutritional e pharmaceutic) identifica una pianta alimentare o derivato che, grazie al contenuto in metaboliti secondari (al di la quindi del puro effetto nutritivo), può modificare la fisiologia umana ed in alcuni casi i processi patologici.

10. cfr Johns, T. e Kokwaro, J.O. (1991) “Food plants of the Luo of Siaya District, Kenya”. Economic Botany 45: 103-113.; Uiso F.C.  Determination of toxicological and nutritional factors of Crotalaria species used as indigenous vegetables. M.Sc.Thesis, Mc Gill University, 1991; Johns, T.  “Plant constituents and the nutrition and health of indigenous peoples”. In V.D., Nazarea (Ed.), Ethnoecology-Situated knowledge, located lives. Tucson: University of Arizona Press, 1990;  Johns, T., Mahunnah, R.L.A., Sanaya, P.,  Chapman, L. e Ticktin, T. (1999) Saponins and phenolic content in plant dietary additives of a traditional subsistence community, the Bateni of Ngorongoro District, Tanzania. Journal of Ethnopharmacology 66: 1-10.; Johns, T., Mhoro, E.B. e Sanaya, P. (1996) Food plants and masticants of the Batemi of Ngorongoro District, Tanzania. Economic Botany 50: 115-121.; Johns, T., Mhoro, E.B. e Uiso, F.C. (1996) Edible plants of Mara Region, Tanzania. Ecology of Food and Nutrition 35: 71-80; Parker M., Chabot S., Ole Karbolo M. K., Ward B. J., Johns T. A. “Traditional dietary additives of the Maasai are antiviral against the measles virus.”  Poster alla 8th International Congress of Ethnopharmacology, 2004, Canterbury, UK.

11. cfr. Evans Schultes R., Hoffmann, A. e Ratsch, C. Plants of the Gods:  Their sacred, healing, and hallucinogenic powers. Revised and expandend edition. Healing Arts Press, Vermont, 1998, pp. 144-155

12. Quave C.L. & Pieroni A. “Traditional health care and food and medicinal plant use among historic Albanian migrants and Italians in Lucania, southern Italy”. In A. Pieroni e I. Vandebroek (eds.) Traveling cultures and plants: The ethnobiology and ethnopharmacy of human migrations. Berghahn Books, Oxford, 2007

13. Sull’area di sovrapposizione tra piante come farmaco e come alimento, sul continuum che lega le piante spontanee a quelle domesticate, e sull’importanza di queste analisi per la comprensione della transizione tra caccia e raccolta e agricoltura, vedi la bella raccolta di saggi coordinata da Lisa Etkin (Etkin, N.L. (Ed.), Eating on the wild side. Tucson: University of Arizona Press. Etkin, N.L. (1996)). Per un esempio di testo scritto allo scopo di conservare il sapere locale sulle piante selvatiche ad utilizzo alimentare cfr. Ruffo C. K., Birnie A., Tegnas B. Edible Wild Plants of Tanzania. Technical Handbook No. 27 Regional Land Management Unit, Nairobi, Kenya, 2002.

14. Traduco con infestanti il termine weed, che in inglese denota appunto le piante che si trovano nel continuum della relazione uomo-piante, tra piante spontanee e piante coltivate. In questo continuum abbiamo le piante spontanee, che crescono al di fuori dell’habitat disturbato dall’uomo e che non possono con successo invadere permanentemente habitat disturbati dall’uomo; le piante infestanti, la cui popolazione cresce completamente o in maggioranza in situazioni marcatamente disturbate dall’uomo, senza essere deliberatamente coltivate, quasi sempre erbacee e a crescita veloce; le piante coltivate, piantate intenzionalmente. Ma vi sono anche le piante domesticate accidentalmente a causa dell’attività dei cacciatori-raccoglitori, e le piante domesticate, che si sono evolute in una nuova forma a causa della continua manipolazione, tanto che possono aver perso la capacità di riprodursi da sole (cfr. Zimdahl, R.L., Fundamentals of Weed Science, 2nd ed. Academic Press, San Diego, CA., 1992, p. 172); Etkin, N.L. “The cull of the wild”. In N.L., Etkin (Ed.), 1994 op. cit.; Etkin, N.L. (1996) “Medicinal cuisines: Diet and ethnopharmacology”. International Journal of Pharmacognosy 34: 313-326. Etkin, N.L. e Ross, P.J. (1982) “Food as medicine and medicine as food: An adaptive framework for the interpretation of plant utilisation among the Hausa of northern Nigeria”. Social Science and Medicine 16: 1559-1573. Grivetti, L.E. e Ogle B.M. (2000) “Value of traditional foods in meeting macro- and micronutrients needs: The wild plant connection”. Nutrition Research Review 13: 31-46

15. Unschuld, P.U. Medicine in China: a history of pharmaceutics, Berkeley, University of California Press, 1986, p.24.  Se teniamo presente che il termine “efficacia terapeutica” (wu-tu) si traduce come “non-velenosa”, possiamo capire come questi rimedi possano ben essere esemplificati da piante alimentari con azione terapeutica (e difatti troviamo qui rimedi come il Panax ginseng o la piantaggine che mostrano attività farmacologica secondo gli standard moderni, ma che possono essere assunti anche a lungo termine senza rischi). Questo favore verso i farmaci macrobiotici è evidente anche nel primo documento esistente che parla di rimedi vegetali, nei manoscritti medici di Mawangdui, risalenti al 3 e 2 secolo a.C., dove, pur non comparendo la divisione teorica tra rimedi di grado diverso, già si parla di rimedi che allungano la vita ecc. Il manoscritto MSVI.A.9 contiene la prima descrizione di una droga effettuata da un medico, Wen Zhi, descrive il porro (jiu) come la “pianta dei mille anni” e “re delle centinaia di piante”, che concentra i vapori (qi) dei cieli e della terra (cfr. Harper, D. (trad. e comm.) Early chinese medical literature: The Mawangdui medical manuscripts. Kegan Paul International, New York, 1997, p. 106)

16. cfr. Puri, H.S. Rasayana: Ayurvedic herbs for longevity and rejuvenation. Taylor & Francis, New York, 2003

17. Per molte attività umane, “non ha senso fornire una spiegazione evolutivo-adattiva (a meno che non si parli di adattamento evolutivo in senso culturale). Non è che [le attività umane] non abbiano radici biologiche. Semplicemente ne sono troppo lontane” (Rozin P (2000) “Evolution and adaption in the understanding of behavior, culture, and mind”. American Behavioral Scientist. 6 (43):970-986). Al più possiamo proporre una feconda commistione tra presupposti biologici e sviluppi culturali, raccontare la storia di questa relazione, nella speranza che nel racconto, nel processo storico e non nelle origini, si nascondano le ragioni ultime della situazione attuale, soprattutto guardando agli enormi cambiamenti culturali avvenuti nel brevissimo periodo nel quale l’uomo ha subito una evoluzione culturale. Come scrive Rozin 2000 op. cit. : “There is no doubt that humans are primates and that human cultures have influenced humans for only a small part of their evolutionary history; there is every reason to believe that we will find the precultural primate in many human activities. But even a casual glance at human cultures today will suggest that these tens of thousands of years of human culture have vastly transformed humans and their institutions and that it would be folly to expect to trace most of what humans do now to specific primate predispositions, except in the most indirect way.”

18. cfr. Johns T. The origins of human diet and medicine. University of Arizona Press, 1999, p. 2

I frutti aromatici del Siltimur

Una delle conseguenze pratiche della mia seconda puntata in Nepal, nel 2006, nella valle di Nar-Phoo, è stata la raccolta di vari campioni di piante aromatiche con l’intenzione di distillarne l’olio essenziale a Kathmandu. Una delle piante che ci avevano più interessato anche come possibili antivirali era stato il Siltimur, Lindera neesiana, ed in particolare ci interessavano i frutti, usati come rimedio per dolori di stomaco e tosse, e più commestibili delle foglie o della corteccia, e quindi dei possibili candidati per la categoria piante medicinali/alimentari.

Non si riuscì in quella occasione a distillare i frutti della pianta, ma il buon Khilendra aveva effettuato l’anno prima una distillazione di prova, ed aveva conservato bene il campione…

From Nepal 2006

… che io diligentemente portai in Italia per affidarlo alle cure dell’equipe dell’Università Patavina, che già altre volte aveva collaborato a queste mie impromptu missioni.

Dopo un po’ di attesa, ecco finalmente che esce l’articolo relativo ad analisi e attività biologica dell’olio stesso, nel primo numero del 2010 di Fitoterapia, con il titolo “Essential oil of Lindera neesiana fruit: Chemical analysis and its potential use in topical applications” e l’autorship di Comaia, Dall’Acqua, Grillo, Castagliuolo, il buon Khilendra Gurung, e la professoressa Innocenti.

Oltre ad essere una interessante esemplificazione dell’utilità di accoppiare la  tecnica della Gas cromatografia (GC-MS)  alla risonanza magnetica (NMR), l’articolo aggiunge alcuni tasselli importanti relativi alla composizione chimica della frazione aromatica dei frutti della pianta, e sembrerebbe supportare l’idea che i citrali (nerale e geraniale) siano importanti per spiegare l’attività antimicrobica degli OE.

Vediamo allora cosa sappiamo su questa pianta alla luce di questi nuovi dati.

Cosa è?

La Lindera neesiana (Wallich ex Nees) Kurz è un arbusto o piccolo albero deciduo alto fino a 4-5 metri, con foglie picciolate, molto varie in dimensioni, lunghe da 3 a 20cm. e larghe da 1 a 10 cm.,ovali e glabre. I bei fiori gialli sono disposti in ombrelle, e i frutti sono globosi.

From Nepal 2006
From Nepal 2006

La pianta appartiene alle Lauraceae, uno dei più antichi gruppi di angiosperme, parte del primitivo gruppo delle Laurales, che insieme alle Magnoliales fa parte dei Magnoliidi; in letteratura si può trovare anche con i binomiali Tetranthera neesiana Wallich, Aperula neesiana (Wallich ex Nees) Blume e Benzoin neesianum Wall. ex Nees (che è il suo basionimo).

In Nepal centro-orientale la pianta cresce nella zona Himalayana temperata e subtropicale, tra 1800 e 2600 mslm, in aperture lungo le gole profonde nelle foreste.  Fiorisce tra ottobre  e novembre e fruttifica tra marzo e giugno.

Ha vari nomi: in lingua nepalese si chiama per l’appunto 
siltimur; in lingua gurung si chiama katu, gutung, kutung o siltimuri; in lingua Nyeshang phopri
.

Come viene usata?

I vari gruppi etnici nepalesi utilizzano i frutti maturi (neri) e aromatici sia marinati come alimento sia freschi o essiccati come rimedio per mal di stomaco dovuto ad indigestione, come antelmintici e in caso di flatulenza (in Manang – Gyasumdo).

In altre zone vengono masticati in caso di diarrea, mal di denti, nausea, flatulenza, o usati a livello topico per foruncoli e scabbia, malattie della pelle, o internamente per parassiti intestinali; sono considerati un antidoto per animali e uomini in caso di ingestione di piante velenose (Pohle, 1990 Manandhar 2002; Rajbhandari 2001; Joshi 2001).

Le foglie e i ramoscelli sono anch’essi aromatici se vengono spezzati, e vengono usate per malattie della pelle. Sono inoltre una buona fonte di foraggio per bestiame bovino e caprino (Manandhar 2002; Rajbhandari 2001).

La radice e la corteccia, una volta polverizzate, sono usate internamente in caso di dolori (Manandhar 2002; Rajbhandari 2001).

Cosa contiene e come funziona?

L’appartenenza della pianta a Magnoliidi suggerirebbe la presenza di neolignani ad azione antinfiammatoria, comuni a questo gruppo, e la presenza, nell’OE, di derivati del percorso biogenetico dello shikimato (le Lauraceae sono ricche in fenilpropanoidi come eteri fenolici e fenoli, ad attività biologica elevata ma con profilo tossicologico spesso importante).

In effetti frutti, foglie e corteccia di Lindera neesiana contengono olio essenziale, circa l’1% distillabile dai frutti secchi (Gurung, Khilendra: comunicazione personale), l’1.3% dalle foglie fresche e lo 0,5% dai ramoscelli (Singh et al. 1995).

L’OE di foglia, (come previsto dall’appartenenza alle Lauraceae) è caratterizzato da una massiccia percentuale di metil cavicolo (83.76%) e safrolo (11.86%), mentre miristicina  (69.99%) e1,8-cineolo (17.97%) caratterizzano l’OE di ramoscelli (Singh et al. 1995). La presenza di metil cavicolo e safrolo, due molecole a sospetta attività epatotossica ed epatocarcinogenica (sono dei procarcinogeni attivabili dai sistemi de detossificazione epatica) suggerisce che l’OE di foglia sia potenzialmente tossico.

L’articolo di prossima pubblicazione rileva quanto invece sia differente l’OE dei frutti. I principali composti isolati dall’OE sono risultati i citrali (Z-citrale 15.08%, E-citrale 11.89%), l’1,8-cineolo (8.75%), il citronellale (6.72%), e α- e β-pineni (rispettivamente 6.63% e 5.61%). I composti che caratterizzavano gli OE di foglia e ramoscelli sono presenti nel frutto a percentuali molto minori ma non minime: miristicina (4,41%) e metil
eugenolo (ca. 2%). Altri composti identificati a percentuali significative sono: geraniolo, citronellolo,  elemicina, ossido di cariofillene, spatulenolo, nerolo, 6-metil-5-epten-2-one, linalolo ed α-terpineolo.

From Nepal 2006

Infine, i composti presenti in percentuali minime o in tracce sono: α-tujene, camfene, verbenene, mircene, α-fellandrene, p-cimene, cis-ocimene,
 trans-ocimene, 2, 6-dimetil-5-eptanale, γ-terpinene, cis-sabinene, cis-linalolo ossido, trans-linalolo ossido, α-
camfolenale, canfora, terpinen-4-olo, mirtenale, S-(-)-verbenone, trans-carveolo, geranil formiato, β-elemene, trans-cariofillene, β-bisabolene, geranil acetato, e geranil propionato.

Non ci sono molti studi sulle attività biologiche della Lindera neesiana, ma lo studio italiano evidenzia l’attività dell’OE da frutto sullo Staphylococcus aureus (un batterio Gram-positivo) a concentrazione (IC50) di ca. 100 microgrammi per mL, sul lievito Candida albicans a IC50 di ca. 276 microgrammi per mL, ed infine sulla Pseudomonas aeruginosa (un Gram-negativo) a IC50 di 13 570 microgrammi per mL.

Le attività sui patogeni sono state confrontate con quelle di un controllo negativo (DMSO, il solvente usato per solubilizzare gli OE, da solo) e di tre controlli positivi (due antibiotici: ampicillina e  kanamicina, ed un antimicotico, la nistatina). In nessun caso l’OE è risultato efficace quanto le molecole di sintesi, e solo l’attività su Staphylococcus aureus merita a mio parere ulteriori attenzioni.

La bassa efficacia sulla Pseudomonas non dovrebbe stupire, in genere tutti gli olii essenziali hanno attività meno spiccata nei confronti dei G-negativi, a causa della componente lipopolisaccaridica  della loro membrana, che riduce la capacità di penetrazione degli OE, notoriamente lipofili.

(Mi) Stupisce di più la bassa attività su Candida spp., visto il contenuto in citrali mi sarei aspettato di più, comunque sempre meglio dell’azione sui G-. Positiva invece l’assenza di attività citotossica a livelli di attività.

Cosa sarebbe interessante studiare per il futuro? Vista la probabile facilità con la quale i citrali formano legami con i gruppi azotati delle proteine, sarebbe interessante vedere se la loro presenza in un olio essenziale facilita la permanenza dello stesso olio essenziale sul derma, o se miscele di OE a citrali con OE ad elevata volatilità riduce quest’ultima.

Inoltre altrettanto interessante sarebbe vedere se c’è un ruolo per l’utilizzo di questi frutti nell’alimentazione da carestia. Chi lo sa?

Appunti di viaggio in Nepal. Buthan?!

Per essere stato un viaggio di semivacanza è stato quite eventful. Intanto l’incrocio di voli: mentre io me ne volavo bel bello verso Kathmandu (bel bello! 12 ore di attesa a Delhi…) mia sorella mi incrociava nei cieli per andare (bel bella anche lei) a Thimphu, in Buthan, alla Conferenza dello IASTAM , per l’esattezza il settimo ICTAM o International Congress on Traditional Asian Medicine.

Non essendo l’ubiquità nelle mie carte, non potevo essere e , allora ho scelto di essere là perché il visto per lì costava troppo, e poi la famigliola non avrebbe accettato una vacanza congressuale :-).

Leggendo il booklet del programma e degli abstracts (scaricalo qui) il congresso sembra ancora più interessante di quanto non pensassi già… comunque visto il pezzo di famiglia (più qualche amico) che ha ottenuto insider knowledge, programmerò una bella intervista (Intanto godetevi lo slide show).

In particolare, per gli appetiti erbacei e conservazionisti di qualche amico blogger, sottolineo questa bella sezione di discussione: “Cultivating the Wilds: Idioms and Experiences of Potency, Protection, and Profit in the Sustainable Use of Materia Medica in Transnational Asian Medicines. A panel in memory of Yeshe Choedron Lama (1971-2006)“.

La sezione esplora “l’intersezione tra istanze di conservazione e di sviluppo”, il possibile destino delle MAP e dei prodotti “naturali” in un mondo che sempre di più li tratta come merce, e che come merce li inserisce nel dibattito sulla sostenibilità. Tratta delle complesse interrelazioni tra economie locali, regionali e transnazionali, e tra approccio allo sfruttamento di specie rare o in via di estinzione da parte di comunità locali che da queste specie traggono parte, o gran parte, del sostentamento, e di come facilitare il dialogo tra comunità, terapeuti tradizinali, conservazionisti ed il mercato.

Tutti argomenti estremamente interessanti che sono una delle ragioni più importanti per le quali ritorno in Nepal, che mi sembra da questo (e da molti altri punti di vista) un laboratorio stimolante sia per il materiale vegetale che per quello umano.

PS: ultim’ora: tra pochi giorni sarà disponibile il PodCast della sezione suddetta. Mi/Ci aspettano ore notturne di ascolto…
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Panel 9: Cultivating the Wilds: Idioms and Experiences of Potency, Protection, and Profit in the Sustainable Use of Materia Medica in Transnational Asian Medicines. A panel in memory of Yeshe Choedron Lama (1971-2006)

Panel Description:
This panel aims to integrate knowledge, methods, and field experience from a variety of disciplines and professional perspectives to explore the intersection of conservation and development agendas related to Asian materia medica.

The panel begins with the assumption that the landscape of Asian medical production is undergoing a profound set of changes, from the increasing commoditization of medicinal and aromatic plants (MAPs) and an array of medicinal products derived from these raw materials to the design and implementation of complex regulatory structures (GAP, GMP, etc) related to the sourcing of medicinals and the production of medicines and other ‘natural’ products.  Importantly linked to these changes are concerns over what ‘sustainability’ is, means, and does and how natural resources such as materia medica are valued in the intersection between local, regional, and transnational socio-economies.  In addition, rising concerns about over-harvesting and concomitant approaches to cultivation of rare, endangered, and commonly used MAPs are giving rise to new possibilities for collaboration between local communities, traditional medicine practitioners, scientists, governmental and non-governmental organizations, and (social) entrepreneurs; yet they are also raising new issues, from the methods by which quality and efficacy of cultivated ingredients are determined to questions about how to equitably distribute resources (including access to medical care), determine ‘ownership’ of traditional knowledge, steward land, and connect to markets.  All of these concerns point toward the intersection of cultural preservation, environmental protection, indigenous and non-indigenous ways of knowing about and interacting with the natural world, and the socio-economic pressures that are concomitant with modern life.
They also present unique opportunities for innovative, cross-disciplinary and cross-cultural engagement. In this panel, we strive to offer grounded case studies (e.g. results of cultivation trials, ongoing efforts to create coperative marketing/sourcing arrangements, models for community-based medicinal plant conservation, etc.) with more critical or analytical approaches to these issues (e.g. approaches to thinking about IPR in this context, social and political obstacles to conservation, etc.). We also strive to have a balance of medical practitioners, researchers/scientists, and those engaged in conservation and development initiatives involved in this panel.

Invasione aliena!

Appena tornato e subito due bei post sulle specie aliene, dal sempre meritevole Meristemi e dalle braccia rubate di Equipaje. E per non essere da meno ecco la lista di aliene (ma non tutte sono delle aliene) che ho contrabbandato (si fa per dire, eh…) dall’ultimo viaggio nepalese:

1. Semi di Diploknema butyracea

2. Miele di Diploknema butyracea

3. Frutti essiccati di Aegle marmelos

4. Succo concentrato di Aegle marmelous, con e senza zucchero aggiunto (veramente ottimo, speriamo di riuscire ad introdurlo in Italia – il succo, non l’albero)

5. Olio di semi di Prunus armeniaca selvatica

6. Olio di semi di Prinsepia utilis

7. Olio essenziale distillato di Murraya koenigii fol

8. Olio essenziale distillato di Cedrus deodara