Diario di viaggio in Nepal: 3

Eccoci di ritorno agli appunti di viaggio.
Eravamo rimasti al viaggio in Dolakha, lasciando in sospeso la visita alla unità di distillazione, ragione principale della visita alla regione, per ragioni strettamente professionali (controllo della situazione dal punto di vista della produzione e dal punto di vista organizzativo) e di interesse personale.
Come si diceva, eccoci arrivati all’unità di distillazione, a ca. 3500 mslm. L’ospitalità è sempre grande, il tè caldo e dolce…

Ma vediamo qualche dato su questo impianto, sul suo funzionamento e gestione.

L’unità di distillazione, Balem damgi, assieme ad altre due dislocate sempre in questa zona, anche se ad altitudini minori, è stata acquistata dalla Cooperativa Deudunga che le gestisce grazie ad un finanziamento della UNDP.
Il mio amico Khilendra ha scritto il proposal per Hymalayan BioTrade (HBT) allo scopo di ottenere il finanziamento, dato che già la Cooperativa Deudungaera stakeholder di HBT e insieme stavano cercando modi di sviluppare l’industria degli olii essenziali nella zona, che pur essendo relativamente ricca rispetto ad altre regioni, rimane pur sempre povera.

UNDP non è mai arrivata a controllare a che fine fossero stati spesi i propri soldi, ed anche se posso dire che HBT e Khilendra sono certamente tra i maggiori esperti nel campo dello sviluppo delle industrie rurali e dello sfruttamento sostenibile di NTFPs, ed anche se comprendo la necessità di organismi delle dimensioni di UNDP di decentrare e demandare ad altri parti anche importanti del proprio intervento, si rafforza sempre di più l’impressione di avere a che fare con consulenti e burocrati calati dall’alto, con pochissima esperienza sul campo, poca comprensione della situazione e delle forze in gioco, e pagati troppo…

Comunque, diamo un’occhiata all’apparato.

Per chi non avesse mai visto un distillatore di olii essenziali, diciamo che si tratta di un distillatore in corrente di vapore, in particolare di un distillatore ad acqua e vapore, ovvero un distillatore dove il flusso di vapore è saturo, o bagnato (ovvero con acqua sia in fase vapore che in fase liquida ma dispersa in goccioline molto piccole).

In questo caso particolare la fonte di vapore è direttamente sottostante al materiale vegetale, nella stessa caldaia di distillazione. Il materiale vegetale viene caricato all’interno della caldaia, su un piano perforato o di maglia metallica, al di sopra del livello dell’acqua.

Qui sotto un diagrammino…

La caldaia di distillazione è sigillata da un coperchio dotato di un tubo di raccordo, che vedremo subito. Il coperchio è di solito mantenuto solidale alla caldaia da una serie di morsetti o imbullonaggi, ma in questo caso viene utilizzato il metodo del sigillo ad acqua, ovvero il coperchio si inserisce in una canaletta sul bordo della caldaia, canaletta opportunamente riempita di acqua che impedisce la comunicazione con l’esterno.

Questo metodo, poco utilizzato al giorno d’oggi, permette una facile apertura della caldaia e velocizza i procedimenti di carico e scarico, ma non è in grado di assicurare una tenuta stagna in caso di pressioni particolarmente elevate (qui sotto il dettaglio della canaletta nella quale si inserisce il bordo del coperchio).

Quando l’acqua raggiunge il punto di ebollizione (ca. 89 gradi centigradi a questa altitudine) il flusso di vapore saturo (quindi che non supera gli 89 gradi) passa attraverso il materiale vegetale, interagisce con esso e con l’essenza in esso contenuta, in parte la estrae e la trasporta nello spazio saturo di vapore al di sopra del carico di materiale vegetale.

A questo punto i vapori misti di acqua e essenza passano dalla caldaia al condensatore, passando per un tubo di raccordo (eccolo qui sotto).

Il condensatore in questo caso è un condensatore a tubi multipli raffreddati ad acqua in controcorrente; i vapori passano dal tubo di raccordo ad una serie di tubicini che corrono paralleli immersi in un contenitore stagno dove scorre, in direzione contraria al flusso del vapore (quindi entra in basso ed esce in alto), acqua fredda.

Diagramma:

…e foto

Una volta condensato il liquido viene raccolto in un recipiente (detto a volte bottiglia fiorentina) che serve sia a raccogliere sia a favorire la separazione tra olio essenziale liposolubile ed acqua arricchita da composti volatili idrosolubili (detta acqua aromatica).

Qui sotto vedete un diagramma esplicativo (spero)..

e qui sotto il manager che versa acqua dentro il tubo ad imbuto che porta all’interno della bottiglia fiorentina

Qui sotto il dettaglio del liquido condensato (olio essenziale + acqua) che viene raccolto dall’imbuto della bottiglia fiorentina

La bottiglia fiorentina è costruita con un troppo-pieno che permette il drenaggio automatico dell’acqua in eccesso, e la conservazione dell’olio essenziale.

Una volta terminata la distillazione l’olio essenziale più leggero dell’acqua viene raccolto aggiungendo acqua alla bottiglia fiorentina impedendo il deflusso del troppo pieno, in questo modo il pelo dell’acqua sale e spinge l’olio essenziale ad uscire dal foro superiore e raccogliersi nel catino di raccolta…

… da dove viene poi estratto tramite rubinetto…

… e filtrato alla bell’e meglio per il trasporto.

L’olio essenziale viene trasportato dall’unità di distillazione alla casa del manager a Marbu, e da Marbu a Kathmandu, prima a piedi (fino a Singhpati) e poi in autobus. In tutto 2 o 3 giorni di viaggio.

In questo caso il materiale vegetale distillato erano le fronde di Juniperus recurva, uno dei due ginepri della zona, insieme al Juniperus indica.

Ecco qui sotto il prossimo carico pronto per la distillazione.

Dopo la raccolta dell’olio, è tempo di preparare l’unità per il prossimo carico. Si deve quindi eliminare il carico ormai esausto…

… e drenare l’acqua rimasta sul fondo della caldaia.

Sostenibilità
E veniamo alle criticità di sostenibilità, che sono di due tipi: problemi legati all’unità di distillazione e al suo utilizzo, e problemi legati ai materiali utilizzati.
Partiamo da alcune osservazioni sull’impianto.

E’ un impianto industriale da 2500 litri, che non utilizza un generatore di vapore separato.

Questo dettaglio purtroppo significa che non è stato possibile mettere in piedi un apparato per usare come combustibile il materiale vegetale esausto dopo la distillazione (come avviene per gli impianti che distillano Gaultheria), cosa che avrebbe permesso di sganciarsi dallo sfruttamento del legname della zona per il riscaldamento diretto.

La ragione per cui, a differenza delle unità di distillazione di Gaultheria spp. situate più in basso, l’apparato non comprende un generatore separato, è semplice: era troppo difficile trasportare anche il generatore fino a 3500 m. Già il trasporto della caldaia da sola è stato molto complesso, ed ha costretto a smontare in parte i ponti sospesi perché la caldaia era troppo larga e non passava attraverso i cavi tesi dei ponti stessi.

Tempo di distillazione

Una volta che il materiale vegetale arriva all’unità, i cinque componenti del team caricano la caldaia di acqua e poi di materiale vegetale, e quindi si inizia il processo.
Il tempo di operazione (dall’accensione del fuoco al termine della distillazione) è di circa 29 ore. Se togliamo da questo monte ore il tempo necessario a portare l’acqua alla temperatura desiderata prima di iniziare la distillazione, che è di circa 4-6 ore, ricaviamo un tempo di distillazione di circa 24 ore.

Ora, anche senza ulteriori calcoli mi sento di dire che il tempo di distillazione è eccessivamente lungo, e mantenendomi molto cauto direi che si può tagliare subito del 50% senza dover fare dei calcoli.

Vediamo perché: i processi interni alla carica vegetale che viene estratta non sono semplicissimi da descrivere, e dipendono molto dal materiale vegetale e dalle su condizioni, ma quello che empiricamente si può vedere è che la quantità di olio essenziale distillato per unità di tempo cambia nel tempo, e dopo un periodo nel quale la quantità si mantiene pressochè costante, si ha un cambiamento di pendenza della curva fin a raggiungere un quasi-plateau, ovvero una situazione dove all’aumentare del tempo di distillazione corrisponde un aumento minimo e sempre più ridotto di olio distillato.

Ora, se il mio scopo è l’estrazione totale di tutto l’estraibile dalla pianta aromatica, questa curva non mi interessa molto. Ma se il mio scopo è quello di far funzionare in maniera commercialmente (ed ambientalmente) sostenibile un impianto di distillazione la curva è di fondamentale importanza.
Se dopo un tempo t di distillazione, ed un corrispondente utilizzo di una quantità Qt di risorse (mettiamoci inseme sia il combustibile sia le ore-uomo), ho raggiunto il punto di quasi-plateau, ottenendo per esempio il 90% dell’olio teoricamente estraibile, ha senso che io operi per un periodo di tempo magari doppio o o triplo (2 o 3t), usando 2 o 3Qt, per ottenere magari un ulteriore 5% di olio essenziale?

Se il mio olio essenziale è di elevato valore commerciale, e se una parte significativa del suo valore commerciale risiede nella sua completezza, o addirittura proprio nella coda di distillazione, allora forse ne vale la pena.
Ma se il valore commerciale è medio e non dipende molto da quel 5% finale, allora è necessario terminare l’operazione di distillazione al calare della resa. La scelta del momento esatto dipenderà certo dalle caratteristiche dell’olio e del mercato, ma non è più possibile non tenere conto di questo dato.

Nel caso concreto, non è solo un problema di semplice cattivo utilizzo delle risorse, ma anche un problema di biosostenibilità.

Dato che non è possibile utilizzare gli scarti della distillazione come fonte di energia, per scaldare l’acqua della caldaia viene utilizzato un fuoco alimentato dalle risorse forestali della zona, che non sono infinite e anzi sono in un delicato equilibrio (e questo sarà nel futuro forse il fattore più limitante).

Razionalizzare il processo
E’ quindi di fondamentale importanza razionalizzare il tempo di distillazione, calcolando in maniera precisa una curva di distillazione (scarica qui un esempio) e riducendo di conseguenza il numero di ore.  Naturalmente una modificazione di questo genere avrebbe delle conseguenze di altro tipo, sociale ed economico.
Al momento i cinque operatori della distilleria lavorano da 3 a 5 mesi all’anno, a seconda della disponibilità di materiale.

Per le operazioni di carico e scarico dell’unità lavorano tutti e 5 insieme. Per il resto fanno turni di 2-4 ore per persona per ciclo di distillazione. Nei periodi di manutenzione e riposo 2 o 3 persone, in caso di necessità, possono tornare casa per 2-4 giorni (eccezionalmente per 1 settimana). Una volta alla settimana uno degli operai scende a prendere il cibo.

La razionalizzazione ridurrebbe, e di molto, le ore lavoro per ciclo per il personale.

Una parte di questa diminuzione delle ore-ciclo potrebbe essere accomodata da un aumento dei cicli.  Ma dato che il numero di cicli di estrazione dipende dalla disponibilità di materiale vegetale fresco, esso non può aumentare senza limiti, sia per l’oggettiva difficoltà dei raccoglitori di fare fronte a richieste così elevate, sia per la limitatezza intrinseca del bacino di raccolta che non potrebbe sostenere elevati livelli di raccolta (e qui si passa al problema legato ai materiale vegetali, ma vedi sotto).

Ciò si tradurrebbe in una riduzione di lavoro per il personale, che in una zona povera e disagiata come questa si traduce in problemi sociali, di sostentamento delle famiglie della FUG locale (per semplificare, una versione nepalese delle nostre comunità montane), consistente in ca. 100 unità abitative e ca. 700 individui.

Coobazione
Un secondo intervento utile a migliorare la produttività e la qualità dell’olio, oltre che a rendere più sostenibile l’apparato, sarebbe quello di dotare l’unità di un sistema di coobazione.
La coobazione è un procedimento  di ricircolo dell’acqua distillata (che al momento viene gettata o usata come acqua calda per lavare i piatti).

L’acqua distillata dovrebbe poter essere riversata automaticamente all’interno della caldaia per alimentare l’acqua di distillazione. Il ricircolo permetterebbe il recupero delle molecole parzialmente idrosolubili (composti ossigenati come i fenoli), diciamo uno 0,2-0,7% (fino ad un massimo dell’1% per olii ricchi in fenoli).  Questo comporterebbe un piccolo miglioramento quantitativo e forse qualitativo.

Il miglioramento qualitativo dipende dal tipo di pianta, dal tipo di impianto e soprattutto dalla temperatura dell’acqua: se essa non supera i 100 gradi centigradi i processi di idrolisi e degradazione dei composti ossigenati (che aumentano con la coobazione) vengono ridotti.

Acqua di scarto
C’è poi la questione dell’utilizzo dell’acqua eliminata dalla caldaia alla fine della distillazione, acqua carica di molti composti idrosolubili derivati dal materiale e che al momento viene gettata (con a mio parere un certo impatto sull’area) e che potrebbe essere reimpiegata in qualche modo, ad esempio come fonte di composti utili per nelle coltivazioni (allelopatia, oppure repellenza per gli artropodi, ecc.).

Raccolta sostenibile?
Oltre ai due ginepri, come si diceva, in questa unità si distilla il Rhododenron anthopogon.

Tutte queste piante hanno problemi intrinseci di sostenibilità: Rhododenron anthopogon è classificato in questa regione come vulnerabile dallo IUCN, e in una situazione ancora più delicata sono il Juniperus indica, e il Juniperus recurva.

Di per se, la raccolta non è distruttiva, essendo limitata a foglie, ramoscelli e fiori (la raccolta di questi ultimi comporta problemi maggiori delle altre modalità), ma il problema risiede nel volume della richiesta e nei tempi di rigenerazione delle popolazioni locali.

Lo stesso problema, traslato al caso della Gaultheria spp. raccolta ad altitudini minori, è stato affrontato mediante accordi con le FUG circostanti. Quando in una area di raccolta si raggiunge il limite di sfruttamento, i raccoglitori possono andare a raccogliere la pianta nelle altre FUG in modo da lasciare un periodo di 2-3 anni perché le popolazioni di Gaultheria si riprendano.

A differenza della Gaultheria però, i tempi di recupero del germoplasma di Juniperus e Rhododedron sono molto lunghi (7-20 anni per il ginepro, 5-10 per il rododendro), troppi per poterli “ammortizzare” sfruttando altre zone di raccolta, il che significa che o si accettano vari anni di sospensione nella raccolta di tali specie o si rischia il loro depauperamento. L’individuazione di altre specie interessanti per la distillazione potrebbe contribuire a ridurre il peso della raccolta.

Le zone di raccolta

Per renderci meglio conto della situazione ci incamminiamo verso le zone di raccolta…

e arriviamo a ca. 4000 mslm, alla zona di raccolta di Rhododendron anthopogon

E mentre il tempo si porta al bigio, arriviamo in cima…

Una visita a Nar-Phoo

Nella seconda puntata dedicata al Nepal (un paese vicino al mio cuore per varie ragioni, di cui ho parlato anche qui) vorrei parlare di un viaggio effettuato nell’estate del 2006 insieme a quattro colleghi nepalesi.

From Nepal 2006

Si trattava di una missione di ricognizione etnobotanica nella valle di Naar-Phoo, nel distretto di Manang, il cui scopo era visitare alcune zone di particolare interesse per la flora medicinale nepalese, poco visitate e studiate fino a quel momento. La missione si inseriva in un progetto di più ampio respiro sulla documentazione delle pratiche mediche tradizionali del distretto del Manang, e sulla documentazione fitochimica delle piante più interessanti.

Il successo di questa missione e il rapporto che è stato compilato in seguito è il risultato del lavoro congiunto mio e di Khilendra Gurung, un amico e botanico nepalese, fortemente impegnato nello studio della botanica e dell’etnobotanica himalayana, e nella traduzione del sapere accademico in politiche e progetti di aiuto alle popolazioni locali.

From Nepal 2006

Inquadramento biogeografico

Scopo della missione pilota
Lo scopo di questa prima missione era quello di  esplorare il territorio, documentare fotograficamente le specie vegetali presenti, interagire con i FUG (Forest Users Groups), intervistare informatori e individui esperti in piante medicinali locali, creare un primo elenco di prodotti forestali non legnosi (Non Timber Forest Products – NTFP) presenti nella zona, con primo ranking delle specie più importanti, ed infine raccogliere campioni per analisi fitochimica e test di attività biologica.

La zona studiata.
Manang
Lo studio pilota si è svolto nel distretto del Manang (Distretto 28), nella zona trans-Himalayana centro-settentrionale del Nepal, tra 28o27′-28o54′ N di latitudine e 83o40′ -84o34′ E di longitudine, un’area di circa 2246 km2 all’interno della Annapurna Conservation Area. I confini amministrativi coincidono quasi perfettamente con la gli spartiacque naturali dell’Himalaya. In particolare la zona è delimitata a  sud dalla catena Himalayana principale, formata dall’Annapurna Himal e dal Lamjung Himal, ad ovest dalle catene del Damodar Himal e del Muktinath Himal, ad est dal Manaslu Himal, ed infine a nord confina con il Tibet tramite Peri, Himlung e Cheo Himal.


Più di due terzi dell’area del distretto sono occupati da montagne, interrotte dal fluire del fiume principale, il Marsyangdi che, insieme ai suoi due tributari, il Nar ed il Dudh, drena tutto il bacino, scorrendo prima da nord-ovest a sud-est, per poi piegare decisamente verso sud all’altezza di Thonje.

From Nepal 2006

A causa dell’apertura meridionale della valle del Marsyangdi, le masse umide dei monsoni estivi sono in grado di superare in parte le barriere dell’Himalaya, e questo spiega il carattere transizionale dell’area, tra l’Himalaya esterno più sensibile all’azione dei monsoni, che qui tendono a bloccarsi e a rilasciare le precipitazioni, e quindi più umido, e l’Himalaya interno e continentale, più secco.
La copertura vegetazionale si modifica in accordo con queste variazioni, passando da vegetazione subtropicale, a temperata, a xerofila ed alpina.
La popolazione è scarsa (il terreno è impervio e difficile da sfruttare) e concentrata nella valle del Marshyangdi (1600-3700 mslm).  Le variabili condizioni naturali si riflettono in una elevata diversità etnica e culturale, con almeno quattro gruppi etnici dominanti, Gurung, Gyasumdopa, Manangi e Narpa, e molti gruppi minoritari.
A causa delle differenti condizioni geologiche e climatiche, si possono osservare tre diverse tipologie di vallate lungo il corso del fiume, che caratterizzano il territorio dividendolo in tre aree facilmente identificabili, sia per le caratteristiche geomorfologiche sia per quelle di insediamento ed agricoltura, Gyasumdo, Nyeshang e Nar.
Procedendo da sud a nord, troviamo prima la valle di Gyasumdo (1600-3000 mslm), dalla caratteristica forma a V a causa dell’erosione fluviale del Marsyangdi sul mantello roccioso cristallino e molto duro; è molto rocciosa e scoscesa e poco favorevole ad agricoltura e ad insediamenti abitativi.  Dal punto di vista climatologico l’area ha carattere fortemente transizionale.
Dopo la curva verso ovest all’altezza di Thonje si entra nella valle di Nyeshang (3000-3400 mslm), nella zona ovest del distretto, che ha invece forma ad U causata dall’erosione glaciale su depositi sedimentari più morbidi. L’area è a Nord del massiccio dell’Annapurna (7.000 mslm) e quindi i monsoni arrivano qui molto attenuati e la zona è meno umida. Nonostante ciò, grazie alla forma molto più dolce della valle, essa è  molto favorevole all’agricoltura e agli insediamenti.

From Nepal 2006
From Nepal 2006

La zona di Nar (3500-4200 mslm) corrisponde alla vallata del tributario Nar, che giace nel nord del distretto e che ha il clima più rigido e secco, e gli insediamenti più elevati, Nar (4200 mslm) e Phoo (4100 mslm), entrambi sopra alla linea di vegetazione. In quest’area, che è stata l’obiettivo principale della missione pilota, il clima secco e rigido si riflette nella prevalenza di vegetazione tipica della steppa Tibetana.

From Nepal 2006

La valle di Nar-Phoo

La zona è a clima subalpino e alpino, e la tipologia floristica è tipicamente centro-asiatica con alcuni elementi sino-giapponesi. Piante tipiche dell’area sono Betula utilis D. Don, Juniperus spp., Rhododendron spp. (le specie arbustive sopra ai 4.000 mslm sono: Rhododendron anthopogon, Rhododendron lepidotum, Rhododendron setosum), Cotoneaster spp. (sopra ai 4.000 mslm), Hippophae tibetana Schltdl., Caragana brevispina Royle (sopra ai 4.000 mslm), Rosa spp., Berberis spp e Sorbus spp., con varie conifere alle altitudini minori: Pinus wallichiana A.B. Jackson, Tsuga dumosa (D. Don) Eichler, Abies spectabilis (D. Don) Mirb.

From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006

Gli insediamenti più elevati sono Nar (4200 mslm) e Phoo (3900-4100 mslm), ed esiste un insediamento per lo svernamento a 3500 mslm (Meta) che, dopo essere stato abbandonato e quasi in rovina, si sta nuovamente attrezzando per ospitare persone. La popolazione dei due villaggi, i Narpas, forma un piccolo gruppo etnico locale, che usa un linguaggio di origine tibeto-burmese molto simile al Manangi della zona di Nyeshang, ma anche il tibetano parlato e scritto.
Nelle generazioni l’attività economica della popolazione è variata molto poco. Dipende fondamentalmente ancora dall’allevamento (yak, capre, pecore, bovini, ecc.) ma coltivano anche orzo e patate in campi irrigati ed hanno una piccolo flusso di commercio ad altitudini più basse in inverno.

From Nepal 2006

A causa del clima severo invernale, a dicembre la popolazione migra con le sue piante verso insediamenti più in basso, ed alcuni individui (di solito i più giovani) si muovono da lì verso sud per commerciare e scambiare i propri prodotti (lana di yak, formaggio secco, spezie ed erbe alimentari) con riso o altri prodotti alimentari impossibili da coltivare in quest’area. A marzo gli abitanti fanno ritorno a Nar e Phoo.
L’apertura recente della valle al turismo da trekking (fino al 2005 era aperta solo per gli alpinisti che si dirigevano verso il campo base dell’Himlung) potrebbe rappresentare una ulteriore fonte di reddito, ma un utilizzo razionale e sostenibile delle risorse di NTFP e MAP rappresenterebbe una fonte di reddito più stabile, legata anche ad una rivalutazione delle tradizioni locali e a processi di stimolazione dell’autostima e della identità comunitaria che sono fondamentali per lo sviluppo delle aree montane.

From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006
From Nepal 2006

Principali piante osservate nella valle di Nar-Phoo.
Fascia sub-alpina (3.000-4.000 mslm)
Intorno al primo insediamento della valle, Meta (tra i 3300 e i 3600 mslm), vicini al limite della vegetazione forestale, la vegetazione arborea è limitata all’abete himalaiano (Abies spectabilis (D Don) Mirb.; sinonimo: A. webbiana Lindley – Pinaceae), ed a pochi esemplari di betulla (Betula utilis D. Don – Betulaceae) ed è stato possibile osservare varie specie erbacee di interesse generale:

  • Polygonatum cirrhifolium (Wall.) Royle (Convallariaceae/Liliaceae s.l.)
  • From Nepal 2006
    From Nepal 2006
  • Clematis tibetana Kuntz oppure Clematis buchananiana DC [sinonimo: C. buchaniana var. rugosa Hooker fil. & Thomson] (Ranunculaceae)
  • From Nepal 2006
  • Abies spectabilis (D Don) Mirb. (Pinaceae)
  • From Nepal 2006
  • Cotoneaster sp. Medikus (Rosaceae)
From Nepal 2006

Poco più sopra rispetto all’insediamento, lungo il sentiero per Phoo intorno ai 3650 mslm, abbiamo osservato altre due specie non incontrate ad altitudini minori, la Arnebia benthamii (G.Don f.) IM Johnston (Boraginaceae) e Allium wallichii Kunth (Alliaceae/Liliaceae, pianta a rischio), e nell’area di Kyang, a 3800 mslm, abbiamo superato l’ultima colonia di betulle (Betula utilis D. Don).

From Nepal 2006
From Nepal 2006

Superata la linea della vegetazione forestale, intorno e nell’area del villaggio di Phoo, situata a ca. 4000 mslm e caratterizzato da un clima particolarmente secco, abbiamo registrato un numero elevato di piante considerate utili dalle popolazioni locali:

  • Berberis aristata DC [sinonimo: B. ceratophylla G. Don.]
  • Pterocephalodes hookeri (C. B. Clarke) V. Mayer & Ehrendorfer (Dipsacaceae) [sinonimi: Pterocephalus hookeri (CB Clarke) Diels; Scabiosa hookeri CB Clarke]
  • Rosa sericea Lindley (e Rosa macrophylla Lindley) (Rosaceae)
  • Ajuga lupulina Maximovich (Lamiaceae)
  • From Nepal 2006
  • Aster sp. (Asteraceae)
  • From Nepal 2006
  • Dracocephalum sp. (Lamiaceae), in particolare Dracocephalum heterophyllum Benth.
  • From Nepal 2006
    From Nepal 2006
  • Geranium pratense L. (Geraniaceae)
  • Jurinea dolomiae Boissier (Asteraceae)
  • From Nepal 2006
  • Lonicera sp. (Caprifoliaceae)
  • From Nepal 2006
  • Myricaria rosea WW Smith (Tamaricaceae) [sinonimi: M. prostrata Hooker fil. & Thomson ex Benth. & Hooker fil.; M. germanica (L.) Desvaux var. prostrata (Hooker fil. & Thomson ex Bentham & Hooker fil.) T. Dyer]
  • From Nepal 2006
  • Potentilla fruticosa L. (Rosaceae)
  • From Nepal 2006
  • Ribes orientale Desf. (Rosaceae)
  • From Nepal 2006
  • Silene stracheyi Edgeworth (identificazione dubbia) (Caryophyllaceae)
  • From Nepal 2006

Prospiciente il villaggio di Phoo ha sede uno dei più importanti monasteri lamaisti della zona dell’Annapurna, con attività di studio, educazione e raccolta delle piante medicinali.

Fascia alpina (più di 4.000 mslm)
Presso l’insediamento di Nar (4200 mslm), caratterizzato da maggiori precipitazioni e da un clima meno secco di Phoo, oltre alle piante già osservate in precedenza abbiamo osservato:

  • Stellera chamaejasme L. (Thymelaceae) [sinonimo: Wikstroemia chamaejasme (L.) Domke]
  • From Nepal 2006

e presso l’ultimo campo base prima delle nevi perenni (Campo base di Kyangla 4500) le specie:

  • Bistorta macrophylla (D. Don) Soják (Polygonaceae) [basionimo: Polygonum macrophyllum D. Don.] .
  • From Nepal 2006
  • Tanacetum nubigenum Wall. ex DC (Asteraceae) [sinonimo: Dendranthema nubigenum (Wall. ex DC) Kitamura],
    From Nepal 2006

    osservato anche a Kharka.

    From Nepal 2006
  • Cremanthodium arnicoides Wall. R. Good (Asteraceae)
  • From Nepal 2006
  • Primula wigramiana ?? (Primulaceae)
  • From Nepal 2006
  • Rheum australe D. Don (Polygonaceae)
  • From Nepal 2006
  • Delphinium grandiflorum L./D. brunonianum Royle (Ranunculceae)
  • From Nepal 2006

NB: durante la missione, dopo il sopralluogo della valle di Nar-Phoo, è stata visitata anche la valle del Thorung Khola e l’area limitrofa al Campo Base del Tilicho, ad altitudini di simili a Phoo e Nar, in aree più occidentali. A causa della diversa esposizione e delle maggiori precipitazioni la flora era però caratterizzata diversamente, e le specie più presenti erano:

  • Caragana gerardiana Royle ex Benth e Caragana nepalensis Kitamura (Leguminosae/Fabaceae)
  • From Nepal 2006
  • Hippophae tibetana Schlechter [sinonimo H. rhamnoides L.] e Hippophae salicifolia D. Don (Eleagnaceae)
  • Leontopodium jacotianum P. Beauv. (Asteraceae)
  • Rosularia alpestris (Kar. & Kir.) Boriss (Crassulaceae)

Ad altitudini elevate, come al passo di Kyangla (5200-5300), abbiamo potuto registrare la presenza di:

  • Rhodiola himalensis (D. Don) S. H. Fu (Crassulaceae)
  • From Nepal 2006
    From Nepal 2006
    From Nepal 2006
    From Nepal 2006
  • Taraxacum tibetanum Hand.-Mazz (Asteraceae)
  • Elsholtzia eriostachya (Benth.) Benth. (Lamiaceae).

Gli utilizzi tradizionali
Disturbi respiratori
Le foglie dell’abete himalaiano (Abies spectabilis (D. Don) – Pinaceae) vengono usate in decotto per tosse e bronchite, e da esse viene ricavato per distillazione l’olio essenziale, usato localmente e venduto sul mercato interno. Due specie del genere Clematis importanti per i disturbi respiratori sono la lanke chanke (o shikari jhar –  Clematis buchananiana DC – Ranunculaceae) e la kreme (C. montana Buch.-Ham ex DC). Foglie e radici vengono utilizzati per tosse, raffreddore e sinusite.
I semi di thupme (Elsholtzia eriostachya (Benth.) Benth – Lamiaceae) vengono masticati  in caso di tosse e raffreddore, mentre radici e foglie secche di  tani na (Gentiana robusta King ex Hook. f.  – Gentianaceae) vengono bruciate ed i fumi inalati in caso di raffreddore. Sempre in caso di raffreddore e tosse viene usata una pianta dalle foglie coriacee ed aromatiche, la onma (Myricaria rosea WW Smith – Tamaricaceae), che viene pestata e ridotta a pasta e assunta per bocca. In altre zone (nel Rolwaling) si preferisce invece il decotto.
In tutto il distretto del Manang fiori e foglie e a volte pianta intera di panrimendo, o “fiore dei prati montani” (Pterocephalodes hookeri (C. B. Clarke) V. Mayer & Ehrendorfer – Dipsacaceae) vengono utilizzate per raffreddore, febbre e tosse.
Il succo della radice di Miahali (Rumex nepalensis Spreng – Polygonaceae), pianta usata soprattutto per i disturbi digestivi e della pelle, viene anche usato per  tosse e raffreddore.

Disturbi del tratto gastrointestinale
La Bistorta macrophylla (D. Don) Soják è usata soprattutto per dissenteria/diarrea, gastralgia. Il succo della lanke chanke (Clematis buchananiana DC) oppure della kreme (C. montana Buch.-Ham. ex DC – Ranunculaceae), pianta intera e radice, si usa per vari problemi gastrici (indigestione, ulcera peptica, ecc.)
I frutti di varie specie di Heracleum (H. nepalense D. Don; sinonimo: H. nepalense var bivittata CB Clarke – Apiaceae) vengono arrostiti e masticati per tosse, diarrea e dissenteria nel distretto. I frutti sono anche usati come spezie nel daal e nelle carni. In un altro distretto (Dhading) il succo della radice è reputato utile in caso di diarrea.
Il panrimendo (Pterocephalodes hookeri) viene usato in tutto il Manang come decotto di pianta intera in caso di diarrea.
Senza dubbio una delle piante più comunemente usate per disturbi gastrointestinali, e per un ventaglio di indicazioni molto ampio, è miahali (Rumex nepalensis Spreng – Polygonaceae). Le foglie si usano in caso di nausea e dissenteria (Nepal occidentale, Gurung), e le radici in caso di intossicazione alimentare e diarrea nei bovini, come purgante ed antidoto. Il succo della radice viene anche usato come antelmintico e la radice e le foglie vengono impiegate a livello topico per la gengivite.
Varie specie di Berberis (Berberidaceae), in particolare Berberis aristata DC (ban chutro), sono importanti come rimedi oftalmici e digestivi. Radice e fusto sono usate in caso di diarrea e dispepsie, e i frutti per diarrea e ittero. Il succo ricavato dalla corteccia viene usato in caso di ulcera peptica, alla dose di 4 cucchiaini tre volte al giorno.
Il succo della radice di tsharsin (Cotoneaster affinis Lindley – Rosaceae) si usa per trattare le indigestioni. Per la stessa indicazione si usa anche il succo della radice di un’altra Rosacea, la Potentilla fruticosa L. (teba), mentre la radice di Pleurospermum hookeri CB Clarke (Apiaceae) si usa per dispepsia, diarrea ed emorroidi.
Una pianta chiave della regione, dal punto di vista dei disturbi gastrointestinali ma anche dal punto di vista economico. è il phopri (Lindera neesiana (Wall. ex Nees) Kurz – Lauraceae). In Gyasumdo e in genere nel distretto del Manang i frutti neri vengono ingeriti in caso di problemi di stomaco (dispepsia) o flatulenza. In altre zone del Nepal vengono masticati in caso di diarrea, mal di denti, nausea e flatulenza.
Fiori e foglie di Dracocephalum sp. (Lamiaceae) vengono usate per problemi di fegato, stomaco e febbri associate.

Disturbi dell’apparato cutaneo
La radice ed il fusto di Berberis aristata (Berberidaceae) sono molto usate per disordini della pelle ed infiammazioni, grazie alle sue attività alterativa ed astringente. Nei distretti di Lamjung e di Dhading il succo della Clematis buchananiana DC (oppure C. montana Buch.-Ham. ex DC – Ranunculaceae) si applica localmente su tagli e ferite, mentre nel distretto di Chitwan la radice in pasta si applica localmente per gonfiori infiammatori.
Le foglie strizzate e stropicciate di Rumex nepalensis vengono massaggiate su gonfiori, ferite e foruncoli, mentre le foglie ed il fusto vengono impiegate a livello topico per l’eczema. In India le foglie sono usate per trattare le irritazioni da contatto con ortica. Bistorta macrophylla (D. Don) Soják è ritenuta, antisettica e vulneraria e viene usata soprattutto per trattare l’eczema.
Il succo della radice di mendosan  (Aster indamellus Grierson e Aster spp. – Asteraceae) viene usato su ferite e foruncoli, le radici essiccate e polverizzate di daurali phul (Stellera chamaejasme L. – Thymelaceae), mescolate con senape o cherosene, si applicano come antisettico topico su ferite aperte, e a Nar i fiori di Potentilla fruticosa L. (Rosaceae) vengono seccati, polverizzati, mescolati ad acqua, ed applicati alle ferite
La scabbia viene trattata con applicazioni locali di decotto di Delphinium sp. (Ranunculaceae), mentre Pleurospermum hookeri CB Clarke (Apiaceae) e Lindera neesiana sono ritenuti rimedi generici per problemi della pelle.

Disturbi e dolori osteoarticolari o muscolari
La radice di Silene stracheyi Edgeworth (Caryophyllaceae) viene applicata a slogature o lussazioni dopo essere stata ridotta a pasta; lo stesso tipo di preparazione (pasta della pianta) si usa quando si applica Ajuga lupulina Maximovicz (Lamiaceae) per trattare i gonfiori muscolari. Si utilizza invece il decotto di pakchar (Caragana gerardiana Royle ex Benth o Caragana nepalensis Kitamura (Fabaceae) per trattare i dolori articolari.
In Nyeshang la radice di komse (Polygonatum cirrhifolium (Wall.) Royle (Convallariaceae/Liliaceae s.l.) viene essiccata e spezzettata, mescolata  con olio ed altre piante ed applicata a livello topico per dolori alla schiena e al petto.
Rumex nepalensis è una pianta molto importante per i problemi muscoloscheletrici. In Nyeshang la radice si mescola insieme ad altre piante in varie formule usate per applicazioni topiche in caso di slogature e fratture, dopo che la parte da trattare è stata lavata con acqua e sale. Usi simili si riscontrano anche in Nepal occidentale, zona di Karnali (slogature) e nel Nepal centrale, a Nuwakot (fratture). Nel distretto di Sindhupalchok il Rumex viene usato per dolori e gonfiori articolari. Le foglie vengono usate nei villaggi di Chaubas e Syabru e nel distretto di Palpa per ferite e gonfiori, ed il decotto della pianta intera è usato per lavare il corpo in caso di dolori e gonfiori articolari.
Nel distretto di Jumla la radice di Stellera chamaejasme L. (Thymelaceae) viene usata per gotta e articolazioni doloranti, mentre il decotto della corteccia si usa per le slogature.
Myricaria rosea, Pleurospermum hookeri CB Clarke e Clematis tibetana Kuntz (oppure Clematis buchananiana DC) sono genericamente utilizzate in caso di disturbi muscoloscheletrici.

Altri utilizzi

Rumex nepalensis e Berberis sp., si usano a livello topico per problemi oftalmici, inclusi congiuntivite, infezioni e infiammazioni; Elsholtzia sp. si usa in caso di svenimenti; Myricaria rosea, Berberis sp. e Rumex sono piante genericamenre usate in caso di infezioni. Lindera neesiana si usa anche come antidoto contro piante velenose, ed il Polygonatum cirrhifolium si usa anche come tonico per il recupero dopo una lunga malattia. La Bistorta macrophylla (D. Don) Soják, oltre ai già citati utilizzi, viene anche indicata in caso di problemi di emorragie, diabete, ittero, gonorrea e vaginite.  Aster sp. si utilizza in caso di mal di denti e dolorazione al seno, Rumex nepalensis, Elsholtzia sp. e Cotoneaster acuminatus si usano per trattare le cefalee, e la Lindera neesiana è considerata un rimedio generico per il dolore.
Le specie appartenenti al genere Berberis, e il Rumex nepalensis sono considerati antidoti contro le intossicazioni alimentari e la diarrea nei bovini, mentre la Lindera neesiana fornisce foraggio supplementare per cavalli.
Varie piante utilizzate come aromatiche o piante da incenso, sono anche usate in caso di infestazioni: Caragana gerardiana Royle ex Benth. è usata come repellente contro le infestazioni di topi, Cotoneaster affinis come repellente per insetti e pidocchi, e le foglie di Tanacetum nubigenum Wall. ex DC (che sono fonte di incenso in inverno in Nyeshang e Nar) si usano per pediculosi e per allontanare gli insetti molesti.
I rami del Cotoneaster acuminatus servono a costruire bastoni da trekking e manici di ascia, e la Stellera chamaejasme L. serve come materiale per la costruzione dei tetti.
Potentilla fruticosa e Silene stracheyi Edgeworth conengono saponine e sono usate come detergente delicato naturale.

Conclusioni
Gli obiettivi limitati della missione pilota sono stati raggiunti, ma questi consistono prevalentemente in dati iconografici, analisi della letteratura, contatti con soggetti informati sugli utilizzi delle piante medicinali e sopralluoghi dei luoghi.

Idealmente queste informazioni dovrebbero servire a facilitare ulteriori missioni con valenza più operativa e con una maggior ricaduta sulle popolazioni, ed in particolare sugli strati più svantaggiati, attraverso la mobilitazione di risorse locali da parte dei locali, e l’acquisizione di maggior confidenza e coscienza dell’importanza delle conoscenze che le popolazioni hanno della natura nella quale sono immerse.
I possibili sviluppi sono molti, alcuni di carattere più teorico altri a vocazione più pratica:
1. Analisi delle differenze tra utilizzo delle MAP da parte della popolazione locale e utilizzo nel contesto “colto ” della medicina di origine tibetana.
2. Studio delle piante alimentari “da carestia”, del limine tra piante alimentari e medicinali, in situazione di agricoltura al limite della sussistenza nel villaggio di Phoo. Analisi delle preferenze alimentari di bambini e donne, uso di piante da “spuntino”.
3. Utilizzo dei dati raccolti in letteratura sulle piante della zona per fornire un feedback alla popolazione locale (sul modello delle indagini/feedback del TRAMIL).

Qualsiasi direzione possano prendere le fasi future del progetto, esse dovrebbe fare tesoro delle esperienza già accumulate da varie ONG nepalesi nel campo dei processi di autotrasformazione, attraverso sistemi di educazione degli adulti come REFLECT e di lavoro orientato ai processi piuttosto che agli obiettivi, di educazione alla preservazione della natura e della cultura come opportunità per lo sviluppo, del rafforzamento l’identità ed originalità etnica per prevenire la disgregazione.