Uomo e piante 6/dimoltialtri

Ritorno dopo un momentaneo ma necessario “stacco” alla mia soap su uomini e piante. Se siete ancora con me 🙂 siamo arrivato alla puntata numero 6, e le precedenti sono qui, qui, qui, qui, e qui

E’ arrivato il momento di esplicitare meglio l’ipotesi co-evolutiva della nascita della medicina, e per fare ciò è necessario fare un passo indietro per giustificare l’idea che esista una connessione significativa e preculturale tra uomo e piante.

La teoria unificata delle comunicazioni cellulari
Come ci ricorda Meinwald [1] il nostro è un modo di suoni e visioni, e tendiamo a non renderci conto degli eventi chimici che ci circondano, del fatto che tutti gli organismi emettono e rispondono a segnali di tipo chimico, formando una vasta rete di interazioni comunicative fondamentali, attrattive, difensive, associative, ecc.

Fin dalle origini della vita infatti, il problema che i primi organismi cellulari hanno dovuto risolvere è stato quello della comunicazione tra cellula ed ambiente circostante e tra cellula e cellula, ed il problema è stato risolto da tutti gli organismi nello stesso modo, attraverso il linguaggio di molecole che possono penetrare le membrane e interagire con il nucleo oppure che trovano recettori specifici sulla membrana cellulare che mediano poi dei cambiamenti interni.

Ragionando da una prospettiva abbastanza ampia è quindi ovvio che uomini e piante, anzi, animali e vegetali, debbono mostrare dei legami, non soltanto filogenetici ma di relazione, comunicativi: affinché la vita di organismi diversi, anche appartenenti a Regni differenti,  possa prosperare in uno stesso ambiente, vi sono state, e vi devono essere state, continue relazioni mediate da un linguaggio molecolare.

La “teoria unificata delle comunicazioni cellulari” vuole che queste relazioni, ed i percorsi biogenetici del metabolismo secondario che creano le molecole messaggere, siano nati molto presto nella storia dell’albero evolutivo e siano spesso comuni tra i Regni Animalia e Vegetalia. [2] Ciò significa che nonostante la distanza filogenetica tra organismi appartenenti ai due Regni, essi possano però riconoscere gli stessi messaggeri. [3] Questo dato di base spiega la possibilità delle interazioni tra piante ed animali ed il ruolo di intermediari che hanno i metaboliti secondari.

Come rispondere all’ambiente

La possibilità per una pianta di “leggere” i messaggi di altre piante le permette di rispondere a degli indizi ambientali modificando il proprio schema di risposta. Organismi animali possono usare questi indizi per riconoscere lo stato dell’ambiente esterno ed “decidere” come allocare le proprie risorse energetiche.

Un esempio di questo utilizzo dei messaggi molecolari negli animali superiori potrebbe essere legato al fenomeno della senescenza. Organismi che si siano evoluti in ambienti mutevoli possono trarre vantaggio dalla capacità di puntare su un successo riproduttivo immediato a scapito della longevità in caso di ambiente più favorevole, o di puntare sulla longevità e su una ritardata maturazione sessuale in caso di condizioni sfavorevoli. [4]

Esempi di questi percorsi di allarme comprenderebbero varie chinasi legate alla sopravvivenza delle cellule, i fattori di trascrizione NRF2 e CREB, e le deacetilasi istoniche della famiglia della sirtuina, una proteina nota come Sir2 nei lieviti e SIRT1 nell’uomo.

Le Sir2 (Silent information regulator 2), sono presenti in tutti gli organismi, dagli eubatteri agli eucarioti, compresi gli esseri umani. Svolgerebbero due funzioni primarie nei mammiferi: la prima è  coordinare gli schemi di espressione genica (ovvero decidere quali geni sono attivati e quali disattivati in ogni singola cellula, per evitare ad esempio che una cellula renale inizi ad esprimere tendenze epatiche) e mantenere la stabilità di certe regioni cromosomiche e sopprimere l’esagerata espressione di certi geni (silenziamento genico) aumentando la stabilità del genoma; la seconda è funzionare da agenti riparatori emergenziali in caso di danno al DNA. [5] Il problema sorge dal fatto che quando le sirtuine sono occupate a riparare il DNA non regolano più l’espressione dei geni. Fino a che i danni al DNA sono rari le sirtuine riescono a compiere entrambi i compiti con efficienza, ma quando questi danni aumentano (tipicamente con l’età) la de-regolazione dell’espressione genica diventa cronica, e questo sembra essere legato, nei modelli animali utilizzati, a fenotipi di senescenza. [6]

Negli ultimi decenni sono stati scoperti molti composti di origine vegetale (tre esempi sono resveratrolo, i sulforafani ed i curcuminoidi) sintetizzati in risposta a vari tipi di emergenza (siccità, radiazioni, attacchi di insetti, infezioni, ecc.) per stimolare diverse risposte adattive e la rigenerazione cellulare stimolando una maggior espressione di sirtuine ed allungando la vita media,  proteggendo le cellule da lesioni stimolando la produzione di antiossidanti, fattori neurotropici ed altre proteine correlate allo stress.

Il modello coevolutivo

Ma il legame che viene proposto va oltre al dato generalizzato della teoria unificata delle comunicazioni cellulari, anche se si fonda su di essa. Esso si basa sull’ipotesi che l’utilizzo delle piante come fonte privilegiata di nutrienti abbia plasmato la fisiologia dell’uomo.

I nostri antenati, secondo l’ipotesi antropologica attualmente più accreditata, erano onnivori-foliovori, nel senso che avevano una decisa preferenza, certamente ispirata dalla necessità, per le piante ed in particolare per le foglie. E’ molto probabile che l’uomo preferisse sempre cibo denso in energia e povero di composti tossici (carne, tuberi, frutta) piuttosto che foglie; d’altro canto tuberi e frutti non sono disponibili tutto l’anno e sono più difficili da scovare, mentre le foglie sono più facilmente sfruttabili perché sono sempre presenti su tutto il territorio antropizzato, ed è probabile che siano sempre stati parte della dieta, oltre ad essere un “salvavita” in caso d’emergenza.

Questa forzata “convivenza alimentare” con le piante ci ha costretti a confrontarsi con molteplici messaggi chimici (spesso difensivi e quindi tossici) ai quali è stato necessario fornire delle risposte, cioè adattarsi, in qualche modo co-evolversi con essi e con le piante che li contenevano.

La tesi sostenuta da un certo filone antropologico (vedi Johns [12]) è che l’adattamento abbia fatto sì che le proprietà che rendevano le piante tossiche o non commestibili (limitando le possibilità di alimentazione dell’uomo) siano le stesse che le hanno rese attive a livello farmacologico (rappresentando quindi un fattore di promozione della salute). La nostra specie, nell’adattarsi alle tossine delle piante, le ha portate ad essere una parte essenziale della nostra ecologia interna, le ha “introiettate” facendo sì che non ci danneggiassero (o almeno non ai livelli ai quali le ingeriamo) ma anzi che potessero esserci utili.

Ne consegue l’ipotesi che gli esseri umani selezionino le piante sulla base della loro composizione chimica e che l’ingestione dei composti chimici vegetali sia parte di una risposta adattiva integrata che possiede elementi biologici e culturali, e che la nostra eredità biologica, associata allo snodo essenziale costituito dalla rivoluzione neolitica (la domesticazione delle piante e la loro coltivazione), pongano le basi per la nascita dell’uso medicinale delle piante. [7]

Questa ipotesi è andata rafforzandosi nei decenni grazie ai molti studiosi che l’hanno corroborata con vari pezzi di puzzle.


Prove indirette: i nostri simili
Un supporto, seppur indiretto, alla tesi che l’utilizzo delle piante a scopo medicinale da parte dell’uomo abbia origini preculturali e coevolutive viene dagli studi sulla zoofarmacognosia, ovvero sull’automedicazione con le piante da parte degli animali non umani. [8]

Glander, Lozano, Huffman ed altri autori portano vari esempi di zoofarmacognosia, alcuni dei quali riporto di seguito. [9]

Gli elefanti malesi si cibano di una leguminosa [Entada schefferi Ridley – Fabaceae] prima di intraprendere un lungo cammino; in India i cinghiali selvatici dissotterrano e si nutrono in maniera selettiva delle radici di Boerhavia diffusa L. [Nyctaginaceae], usate anche dagli esseri umani come rimedio antelmintico, mentre i maiali si ciberebbero delle radici del melograno [Punica granatum L. — Punicaceae] per la sua tossicità sui nematodi. Gli scimpanzè maschi della Tanzania occidentale, nei periodi dell’anno nei quali aumentano le infestazioni di nematodi, utilizzano le foglie di Aspilia spp. (spesso A. mossambicensis) [Asteraceae] seguendo un rituale molto particolare e completamente diverso dalla ritualità normalmente associata all’alimentazione: arrotolano le foglie, le mettono tra lingua e guancia e poi le ingoiano senza masticarle.

Va notato che Aspilia contiene principi attivi antibatterici, antifungini e antelmintici (thiarubrina A), e che la modalità di assunzione potrebbe favorire l’assorbimento di tali composti attraverso le mucose della guancia. Gli scimpanzè mostrano altri comportamenti molto interessanti: le femmine ingeriscono foglie di Lippia plicata Bak. [Verbenaceae] (usata dagli indigeni come stomachico ed insetticida) quando sembrano avere dei disturbi gastrointestinali, e vari maschi malati sono stati notati mentre succhiavano il midollo del fusto di Vernonia amygdalina Del. [Asteraceae], una pianta molto amara (contiene lattoni sesquiterpenici amari, antelmintici e antischistosomiaci), raramente usata a scopo alimentare ma comune nella medicina tradizionale dell’Africa orientale in caso di febbri malariche, schistosomiasi, dissenteria amebica, elmintiasi, diarrea, mal di stomaco, inappetenza e scorbuto, e dagli agricoltori in caso di parassiti intestinali dei maiali.

Negli esseri umani la Vernonia è efficace contro Giardia lamblia, ossiuri e nematodi dei generi Ancylostoma, Uncinaria, Necator. E’ interessante notare come i primati utilizzino raramente le foglie e la corteccia della pianta, nonostante la maggior concentrazione in composti attivi. Il fatto che queste parti della pianta contengano anche composti tossici è una possibile spiegazione di questo comportamento. I primati utilizzano in maniera simile anche i fusti di Palisota hirsuta (Thunb.) K. Schum. [Commelinaceae] e Eremospatha macrocarpa (Mann and Wendl.) Wendl. [Palmae].

Alouatta palliata (una scimmia urlatrice) mostra una frequenza molto ridotta, rispetto agli scimpanzè, di carie o gengiviti, dato in parte spiegabile con la dieta povera in frutta zuccherina, ma forse anche con il consumo di anacardi [Anacardium occidentale L. — Anacardiaceae], frutti che contengono acido anacardico e cardolo, composti attivi contro i batteri gram-positivi tipici della carie; le stesse scimmie urlatrici sono soggette a parassitosi gastrointestinale, ma quelle di loro che si alimentano anche con frutti dei ficus [Ficus spp. — Moraceae] lo sono di meno. Dato che il latice di Ficus è antelmintico, è possibile che il consumo di foglie e frutti contribuisca ad abbassare il carico di parassiti. [10]

Uno dei primati meno comuni (Brachyteles arachnoides) è preda, come altri, di parassitosi intestinale, ma tra i gruppi che ne soffrono di meno si nota uno schema di alimentazione particolare.  All’inizio della stagione delle piogge questi individui fanno uno sforzo particolare per mangiare piante che prima non assaggiavano, in particolare le leguminose Apuleia leiocarpa (J. Vogel) J.F. Macbr. e Platypodium elegans Vogel. [Fabaceae] (ricche in composti antimicrobici e isoflavoni).

I Colobus rossi normalmente preferiscono foglie giovani, ricche in proteine e povere in tannini ed altri composti fenolici, ma di quando in quando mangiano foglie ad elevato contenuto in tannini, che potrebbero servire per detossificare gli alcaloidi e ridurre il gonfiore intestinale. [11]

I babbuini soffrono comunemente di schistomatosi, ed è stato notato, nei gruppi che vivono presso le cascate Awash (Etiopia), un comportamento particolare degli individui che ne sono affetti gravemente: essi si nutrono di foglie e frutti di Balanites aegyptiaca (L.) Del. [Zygophyllaceae], che contengono diosgenina, attiva contro Schistosoma cercariae.

Prove dirette: la fisiologia ed il comportamenti umani. [12]
Se l’ipotesi appena esposta è valida, ci deve essere rimasta qualche traccia del processo co-evolutivo nel nostro organismo, sia di tipo fisiologico che comportamentale. La difficoltà sta però nel riconoscere se e quali di queste caratteristiche siano tracce coevolutive, perché ci è dato interpretarle come tali solo a posteriori, senza il beneficio di una prova diretta, ma solo tramite inferenze.

Ad esempio, gli esseri umani hanno un intestino adatto a cibi densi di nutrienti ma mantengono una certa capacità di digerire fibre, e possono sopportare dosi relativamente elevate di composti allelopatici; l’uomo è inoltre capace di sopperire al proprio fabbisogno di acidi grassi essenziali tramite i loro precursori presenti nei vegetali.  Queste caratteristiche potrebbero indicare una consuetudine dell’uomo con le piante. Si è anche ipotizzato che la preferenza dell’uomo per il sale (di più di un ordine di magnitudo superiore al suo fabbisogno) potrebbe essere spiegato con la carenza di sodio nelle piante della savana dove Homo si è evoluto, e, come si è visto più sopra, l’incapacità di sintetizzare la vitamina C potrebbe essere spiegata con la sua ubiquità ed abbondanza nei vegetali.

La presenza nella saliva dell’uomo di proteine ricche in prolina (PRP) è un altro importante esempio: l’uomo è in grado di rispondere all’ingestione di tannini mantenendo le parotidi in uno stato di induzione, tanto che il 70% delle secrezioni salivari è del tipo PRP: queste PRP possono servire a legare i tannini presenti nel cibo e renderli meno irritanti per il tratto gastrointestinale e forse per renderli meno attivi sul cibo che ingeriamo (riducendone gli effetti antinutrizionali).

Esempi più generici del rapporto dell’uomo con sostanze velenose sono il vomito ed i sensi chimici.


Il vomito è un istintivo meccanismo di rigetto di una sostanza che si è immediatamente riconosciuta come tossica o in qualche modo non desiderata.

I sensi chimici, gusto ed olfatto mostrano di poter discriminare sostanze vegetali potenzialmente pericolose da altre potenzialmente utili (discriminando tra amaro e dolce ad esempio), e mostrano di poter attivate risposte condizionate molto potenti, in particolare quelle negative associate al cibo. Ciò significa che a seguito di un malessere gastrointestinale legato temporalmente (a prescindere dal legame causale) all’ingestione di cibo, il sapore e l’odore di quel cibo saranno legati al malessere rendendo molto difficile cibarsene ancora. Questo è un tipo di meccanismo di apprendimento, perché una sostanza che abbia provocato un malessere gastrointestinale probabilmente è tossica, o comunque dobbiamo considerarla come tale. [13]

C’è una differenza importante tra olfatto e gusto, perché il primo, essendo molto più plastico del gusto, è meno legato alla percezione negativa, mentre quest’ultimo, essendo limitato alla discriminazione di quattro o cinque sapori, è più fortemente e più meccanicamente legato alla risposta condizionata.


Altro indizio molto rilevante è la presenza di enzimi detossicanti a livello epatico (e in misura minore renale, intestinale e polmonare), enzimi che rendono meno tossiche e facilmente eliminabili varie sostanze di origine vegetale, e che non sono molto specializzati, non hanno cioè la capacità di detossificare sempre e con efficienza una sostanza particolare, ma hanno la capacità plastica di adattarsi a molti problemi diversi, e questo è un indizio che si situa bene nel quadro di una dieta umana prevalentemente onnivora-foliovora (da cui l’esistenza di enzimi che hanno come substrato delle sostanze vegetali), con fonti alimentari molto diversificate (da cui la necessità di plasticità nella risposta).

Possiamo considerare il ruolo degli enzimi detossificanti in congiunzione con la neofobia, cioè il fatto che l’uomo adulto mostri la tendenza ad esser circospetto rispetto alle sostanze che deve assumere. [14]

Dato che il meccanismo epatico esiste per detossificare una sostanza potenzialmente tossica, il fatto di assaggiare sempre piccole quantità di un cibo o di una sostanza nuova permette di non avvelenarsi accidentalmente, e di non sovraccaricare i meccanismi detossificanti. Quindi la combinazione dei due meccanismi ci può permettere di assaggiare un cibo nuovo che può essere pericoloso senza però morire dopo averlo assaggiato.

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Note al testo

[1] Eilser T, Meinwald J (1995) “Preface” in Thomas Eilser and Jerrold Meinwald (eds) Chemical ecology: The Chemistry of Biotic Interaction National Academy Press Washington, D.C. 1995

[2] Roth J., Leroith D. (1987) The Sciences, May-June:51

[3] Lamming D.W., Wood J.G., Sinclair D.A. (2004) “Small molecules that regulate lifespan: evidence for xenohormesis”. Mol Microbiol; 53(4):1003-9; Howitz, K.T., Bitterman, K.J., Cohen, H.Y., Lamming, D.W., Lavu, S., Wood, J.G., et al. (2003) “Small molecule activators of sirtuins extend Saccharomyces cerevisiae lifespan”. Nature 425: 191–196; Mattson MP, Cheng A. (2006) “Neurohormetic phytochemicals: Low-dose toxins that induce adaptive neuronal stress responses”. Trends Neurosci; 29:632–9

[4] Kuzawa C et al. (2008) “Evolution, developmental plasticity and metabolic disease” in SC Stearns and JC Koella (eds.) Evolution in health and disease 2nd edition Oxford UP; Austad SN, Finch CE (2008) “The evolutionary context of human aging and degenerative disease” in in SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.; Ackermann M e Pletchr SD (2008) “Evolutionary biology as a foundation for studying aging and origin-related disease”. In SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.

[5] Guarente, L. (2000) “Sir2 links chromatin silencing, metabolism and aging” Genes Dev 14:1021-1026

[6] Oberdoerffer et al (2008) “SIRT1 redistribution on chromatin promotes genome stability but alters gene expression during aging”; Cell 135,  6

[7] Con questo non si intende proporre l’appiattimento della cultura sulla natura, la riduzione della medicina a fatto biologico e della malattia a rapporto ecologico. Nè si suppone che l’utilità presente dei composti xenobiotici per l’organismo che li ingerisce siano in parte o del tutto riconducibili ad adattamenti passati. Una origine evolutiva, spiega bene Gould (Gould, S.J. “Darwin tra fondamentalismi e pluralismo”. In Pino Donghi (a cura di) La medicina di Darwin. Roma, Laterza, 1998) non si appiattisce su quella adattiva, perché la selezione naturale non esaurisce tutti i meccanismi evolutivi, e l’enorme chemiodiversità delle piante (che esprimono circa i 4/5 di tutti i i composti farmacologicamente attivi conosciuti) offrirebbe comunque materiale farmacologicamente attivo al di là dei rapporti ecologici animale-pianta.

[8] Nel lavoro seminale in questo campo (Rodriguez, E., R. Wrangham. H. Stafford e Downum K. eds., (1993) “Zoopharmacognosy: The use of medicinal plants by animals”. Recent advances in phytochemistry, 89-105) gli autori (responsabili anche del conio del termine zoofarmacognosi) scrivono che:

“The combination of natural products, trichomes and other leaf features are important in the fitness of wild animals,”…“the observation of animals using plants is not new since Amazonian Indians and many people of the African forests tell of how animals use plants and how they copy the animals”

[9] Glander K.E. “Nonhuman primat self-medication with wild plant foods”. In N.L., Etkin  (Ed.), 1994 op. cit. pp. 227-239; Lozano, G.A. (1998) “Parasitic stress and self-medication in wild animals” Advances in the study of behaviour. 27: 291-317; Huffman M.A. (2001) “Self-medicative behavior in the African Great Apes: An evolutionary perspective into the origins of human traditional medicine”. BioScience.; Vol. 51(8): pp. 651-661.

[10] Una ipotesi più difficile da sostanziare ma affascinante è quella che vuole che l’ingestione di piante da parte delle femmine di Alouatta serva a modificare il normale rapporto maschio/femmina della prole, Glander (1994 op. cit.) ipotizza che alcuni composti delle piante ingerite possano modificare la concentrazione ionica delle mucose vaginali delle femmine, e che questo a sua volta possa modificare selettivamente l’accesso degli spermatozoi che portano un cromosoma X rispetto a quelli a Y dato che X è elettropositivo mentre Y è elettronegativo.

[11] Lo stesso fanno altri primati ed è difficile spiegare questo comportamento senza chiamare in causa la zoofarmacognosi anche perché i tannini sono forse l’unico gruppo di composti che non sono detossificabili se non parzialmente. I tannini possono legarsi e precipitare, e quindi inattivare, le molecole azotate, come appunto gli alcaloidi. Interessante notare che i Colobus mangiano anche terre ricche in caolino (geofagia), che grazie alla loro elevata capacità di adsorbimento possono intrappolare e rendere indisponibili all’assorbimento varie tossine (e nutrienti).

[12] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press; Consiglio, C. e Siani V. (2003) Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri

[13] Le risposte condizionate positive, cioè quelle che potrebbero essere molto utili, sono invece molto meno forti, più labili, di quelle negative.

[14] Il bambino è molto meno neofobico, ed anche questo è un meccanismo evolutivo: esso deve infatti poter fare esperienza del mondo, deve poter “assaggiare” in vari modi la realtà che lo circonda. L’uomo adulto invece, raggiunto il suo bagaglio di esperienze, sta più attento.

Sudomagodo…

… di ottima salute.

Verrà pubblicato nell’edizione di agosto di Cell Metabolism uno studio su modelli animali, quindi preliminare, ma che si aggiunge a dati aneddotici e tradizionali sul ruolo che il peperoncino può avere nella riduzione della ipertensione arteriosa. Particolarmente interessante è il ruolo giocato dal recettore vanilloide vascolare nel rilascio di NO, il meccanismo proposto dagli autori per l’attività ipotensiva. Sia i recettori vanilloidi sia l’ossido nitrico sono stati studiati molto negli ultimi anni e sembrano giocare ruoli molto importanti (in particolare NO) in moltissimi scenari. Un altro piccolo tassello che lega i principi pungenti ad attività farmacologiche.

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For those with high blood pressure, chili peppers might be just what the doctor ordered, according to a study reported in the August issue of Cell Metabolism, a Cell Press publication. While the active ingredient that gives the peppers their heat—a compound known as capsaicin—might set your mouth on fire, it also leads blood vessels to relax, the research in hypertensive rats shows.

“We found that long-term dietary consumption of capsaicin, one of the most abundant components in chili peppers, could reduce blood pressure in genetically hypertensive rats,” said Zhiming Zhu of Third Military Medical University in Chongqing, China.

Those effects depend on the chronic activation of something called the transient receptor potential vanilloid 1 (TRPV1) channel found in the lining of blood vessels. Activation of the channel leads to an increase in production of nitric oxide, a gaseous molecule known to protect blood vessels against inflammation and dysfunction, Zhu explained.

The study isn’t the first to look for a molecular link between capsaicin and lower blood pressure. However, earlier studies were based on acute or short-term exposure to the chemical, with some conflicting results. Zhu says their study is the first to examine the effects of long-term treatment with capsaicin in rats with high blood pressure.

The findings in rats should be confirmed in humans through epidemiological analysis, the researchers said. In fact, there were already some clues: the prevalence of hypertension is over 20% in Northeastern China compared to 10-14% in Southwestern China, including Sichuan, Guozhuo, Yunnan, Hunan, and Chongqing, where Zhu is from.

“People in these regions like to eat hot and spicy foods with a lot of chili peppers,” Zhu says. “For example, a very famous local food in my hometown, Chongqing, is the spicy hot pot.”

It isn’t yet clear just how many capsaicin-containing chili peppers a day you’d have to eat to “keep the doctor away,” although that’s a question that should now be examined in greater detail, Zhu says.

For those who can’t tolerate spicy foods, there might still be hope. Zhu notes the existence of a mild Japanese pepper, which contains a compound called capsinoid that is closely related to capsaicin.

“Limited studies show that these capsinoids produce effects similar to capsaicin,” Zhu says. “I believe that some people can adopt this sweet pepper.”

Fitoalimurgia Chepang 2/2

Eccoci qui, quindi, alla seconda puntata.

Come argutamente notava Meristemi, non è che proprio che non abbia fatto capire la mia posizione relativamente al valore delle piante selvatiche .

Allora, nella seconda puntata mi sbilancio per dire che: si, credo che le piante appartenenti al continuum tra selvatico e non-ancora-coltivato-ma-quasi rappresentino un potenziale bacino sia di fattori nutrizionali sia di fattori non-nutrizionali ma funzionali che può fare la differenza per la sicurezza alimentare e per il mantenimento della salute.

Certamente queste piante sono un potenziale critico proprio in quelle situazioni di potenziale deficit nutrizionale che si presentano in molti paesi del sud del mondo, ma in maniera meno evidente possono giocare un ruolo simile anche nei nostri paesi di relativa opulenza alimentare [1].

Dato che il mio obiettivo al momento è molto limitato (vorrei parlare di quello che ho visto durante un viaggio) mi limito a fare alcune considerazioni ed a citare alcuni autori, certo che proprio in questo momento Meristemi sta cucinando qualcosa di succoso. Me la cavo quindi citando due volumi recenti che raccolgono molti dei dati più interessanti a questo riguardo: il volume edito da Pieroni e Price [2] ed il testo della recentemente scomparsa Nina Etkin. [3]

Proprio da quest’ultimo ricavo una citazione. Louis Grivetti [4] ricordando la sua prima esperienza sul campo, riporta che:

“(p)er più di cento anni i baTlokwa del deserto del Kalahari orientale, nel Botswana, non hanno sofferto di carestie o di ripercussioni a livello sociale a causa della siccità. Tale successo alimentare in quest’area è dovuto all’equilibrio tra offerta ambientale e decisioni culturali. Il Kalahari orientale offriva una elevata diversità di piante selvatiche eduli, ed i baTlokwa utilizzavano regolarmente tali risorse. Il messaggio più importante che emerse dopo due anni di lavoro sul campo fu che la siccità non aveva causato carestie, e che una spiegazione per il disastro del Sahel [ovvero la tremenda carestia che colpì la regione del Sahel a seguito di una lunga siccità, proprio negli anni della ricerca nel Kalahari. NdT] era l’incapacità culturale a riconoscere ed utilizzare le risorse alimentari selvatiche disponibili — cibi che in precedenza erano stati utilizzati come sostentamento durante le siccità.“

L’autore continua rimarcando il pericolo insito nella perdita di conoscenze riguardo alle piante selvatiche, perdita che si può tradurre in ridotte possibilità di sopravvivenza durante il periodo di crisi, perdita che in parte è secondaria ad un processo di trasformazione dell’agricoltura e della società più in generale, che porta al rifiuto delle pratiche tradizionali viste come primitive.

D’altro canto l’argomento è complesso, e sarebbe improvvido pensare ad un automatismo che leghi l’avanzare dell’agricoltura con la perdita in saperi o risorse. Come avverte nello stesso volume Lisa Leimar Price [5], l’allontanarsi dalla dipendenza totale dalla foresta come fonte di cibo comporta un aumento nella quantità di piante raccolte da ambienti agricoli, da ambienti disturbati dall’attività umana, dai campi, dai bordi, dai sentieri, ecc. Questo passaggio sembra portare con sè un aumento, e non una diminuzione, della diversità di piante consumate.

E spesso questa maggior diversità di piante utilizzate dipende fortemente alle donne, per il ruolo da esse svolto nelle società tradizionali, come coloro che si occupano della casa e del giardino, e quindi che sono in diretto contatto con tutte le aree transizionali tra foresta e coltivazioni. Una riduzione dei saperi sulle piante selvatiche, avverte la Price, può invece dipendere dallo stigma sociale ad esse associato, e fortemente legato al tema della povertà. [6]

Ecco allora che emergono alcuni temi che mi sono stati utili nel ripensare al mio viaggio:

  • l’importanza di riconoscere la parziale artificiosità della divisione cibo/medicina, fondamentale per valutare gli effetti sulla salute globale della popolazione dell’utilizzo delle piante selvatiche
  • evitare rigidità di pensiero rispetto alla supposta dicotomia tradizione/modernità, selvatico/agricolo
  • evitare l’associazione tra consumo di piante selvatiche ed idee di povertà, arretratezza, primitività, un tema come si vedrà centrale nel caso di studio del Nepal.

I problemi

Nel 2004 e poi nel 2009 sono stato a visitare i villaggi Chepang nella valle del Kandrang, nel VDC di Shaktikor, del Distretto del Chitwan.

La zona è caratterizzata da foresta mista dominata da Mallotus philippensis (Lamm.) Muell. Arg. (Euphorbiaceae), Schima wallichii (DC) Korth. (Theaceae), Shorea robusta Roxb. Ex Gaertner f. (Dipterocarpaceae), Bombax ceiba L. (Bombaceae), Betula alnoides Buch.-Ham. ex D.Don. (Betulaceae), e naturalmente Diploknema butyracea.

Nel 1993 un quinto delle terre di proprietà nella valle era ancora gestita a Khorya (debbio). A parte il terreno a Khorya, le comunità possiedono anche particelle minori di terra, detta bari, relativamente più fertile e produttiva del Khorya, e una parte di terreno intorno alla casa gestito come orto familiare.

Fino a 25 anni fa il periodo di maggese (Lhotse) era di 10-15 anni, e il Khorya forniva una parte minoritaria del sostentamento alimentare, ancora prevalentemente dipendente dalla foresta. Con l’aumentare della densità della popolazione il periodo di coltivazione venne allungato e quello di Lhotse accorciato fino a 1-6 anni, cosa cosa che rese il sistema sempre meno sostenibile, portò a raccolti sempre più poveri a causa della riduzione della fertilità del suolo e dei fenomeni erosivi.

A questo si sommava la riduzione della biodiversità forestale. A tutti gli effetti l’equilibrio tra raccolta di piante selvatiche nella foresta e cibo coltivato a Khorya era stato invertito, sempre più cibo proveniva dall’agricoltura e sempre meno dalla foresta, che però perdeva comunque in diversità a causa del ridotto Lhotse.

Dal punto di vista dei Chepang il sistema Khorya è una necessità, quindi insostituibile per il supporto della popolazione nel breve termine; dal punto di vista ambientale, il sistema, come è strutturato oggi, è una tragedia a lungo termine, che mette a rischio la stabilità e la fertilità del suolo, e la vera e propria esistenza della foresta, in cambio di un misero raccolto.

Il sapere tradizionale

La maggior parte dei nuclei familiari della zona (ca. Il 90%) usa le risorse forestali o non coltivate a scopo medicinale, per ricavarne dei soldi al mercato, o per sopperire ad una vera e propria mancanza di cibo (il 75% dei nuclei familiari).

Tutte le case stoccano al primo piano, oltre ai cereali coltivati, piante selvatiche, in particolare Githa (Dioscorea bulbifera L. — Dioscoreaceae) e Bhyakur (Dioscorea deltoidea Wall. ex Griseb.) e in minor misura dei germogli di bambù (Bambusa nepalensis Stapleton — Poaceae).

Quasi tutti gestiscono in qualche modo le piante selvatiche, sia attraverso una protezione in situ, sia attraverso processi preagricoli di domesticazione.

Secondo una ricerca recente relativa proprio a quest’area in generale le donne sono leggermente più competenti degli uomini rispetto alle piante selvatiche, ma la differenza non è significativa, e certamente minore rispetto a quello che mi sarei potuto aspettare sulla scorta degli studi citati precedentemente.

E’ possibile che le ridotte competenze agricole dei Chepang possano in parte spiegare questa uniformità tra uomini e donne. Non avendo sviluppato molto la coltivazione degli orti familiari, forse è venuta a mancare alle donne Chepang la possibilità di aumentare le loro competenze sulle piante degli ambienti di transizione [7].

Lo studio nota anche delle differenze genere-specifiche: gli uomini sono più competenti delle donne nel campo delle piante medicinali, probabilmente un riflesso del fatto che tradizionalmente gli sciamani Chepang (Pande) sono tutti uomini; anche la composizione etnica della popolazione si riflette sulla conoscenza delle piante: in aree abitate da soli Chepang il sapere sulle piante è maggiore che nelle aree a popolazione mista (Chepang e immigrati da altre aree), probabilmente (secondo gli autori) perché l’influenza dei non-Chepang  svalutata agli occhi dei Chepang le risorse raccolte dal selvatico, associandole ad idee di arretratezza culturale, primitività, ecc. che, come abbiamo visto, sono state (ed in parte sono ancora) associate alla comunità Chepang.

E’ anche possibile che questi contatti abbiano indirettamente ridotto le attività comunitarie, fondamentali per la trasmissione, verticale ed orizzontale, dei saperi tradizionali.

Questo trend è ravvisabile anche tra le differenti classi di età: gli individui sotto i 30 anni sono meno competenti dei più anziani, probabilmente per una riduzione del trasferimento di sapere in famiglie sempre meno multigenerazionali. [8]

Oltre al declino del sapere relativo alle piante selvatiche, la popolazione denuncia un declino nel numero e nella varietà delle piante stesse. Gli anziani tra i Chepang attribuiscono il declino a molti fattori: la deforestazione, il modificarsi del sistema di Khorya, la pressione demografica ed immigratoria, il cambiamento nei costumi alimentari (diretto verso cibi più cosmopoliti, o meno caratterizzati come Chepang), l’aumento delle monoculture, la mancanza di strategie di conservazione e di sostenibilità.

Le strategie

Vi è qui un nodo centrale: alcune pratiche tradizionali (Khorya e raccolta spontanea) sono inserite in un nuovo contesto demografico, sociale e culturale, e questo (mal)adattamento ha delle conseguenze sul germoplasma e sulla sostenibilità di tali pratiche; perché se è vero che le  piante selvatiche e non coltivate sono una risorsa culturale, alimentare e medicinale fondamentale, è necessario riconoscere che un sistema di sfruttamento tradizionale può risultare fortemente inadeguato alle nuove richieste ambientali, ed entrare in crisi.

Per fare solo alcuni esempi, al momento nell’area è del tutto impossibile anche solo pensare ad un periodo di maggese di 10-15 anni: la pressione demografica (interna ma anche esterna, se negli ultimi 45 anni l’immigrazione è aumentata molto mettendo in crisi anche I modelli culturali locali) [9] è troppo forte, ed aumenterà ancora nel futuro; le risorse forestali non possono stare al passo con questa pressione, e la riconversione del Khorya in terrazzamenti è possibile solo in minima parte a causa della natura estremamente ripida dei terreni.

Ciò che manca è una strategia per gestire questa crisi senza sacrificare i saperi tradizionali.

Considerate le condizioni del territorio in cui abitano i Chepang, le loro grandi competenze rispetto agli NTFP, la grande valenza culturale della raccolta nel selvatico e la possibilità che le specie non coltivate apportino un contributo importante alla dieta, non completamente riducibile ad apporto calorico o di macronutrienti, è razionale pensare ad un possibile spazio aperto per l’etnobotanica applicata, perché essa raccolga il sapere che sta scomparendo sulle proprietà nutrizionali e medicinali delle piante selvatiche, perché lo integri ai progetti di ricerca e sviluppo per offrire strategie percorribili ed accettabili dalle comunità locali (vedi rispetto a questo il lavoro svolto negli anni dall’International Centre for Underutilized Crops e dalla Global Facilitation Unit for Underutilized Species, recentemente accorpatesi per formare Crops for the Future)

Circa 15 anni fa gli stessi Chepang misero sul piatto diverse proposte per superare il problema della Khorya:

  1. Favorire la conoscenza di orti familiari, dove coltivare piante, ortaggi ed alberi da frutto e da foraggio: permettono raccolti maggiori e un maggior ritorno economico. Alberi “poliedrici” come il Chiuri sono particolarmente promettenti.
  2. Negli orti familiari potrebbero essere coltivati, lungo I limitari, specie ad elevato valore aggiunto come I bambù, le piante da saggina, utili per l’artigianato, in particolare per I manufatti intrecciati, attività nella quale I Chepang primeggiano.
  3. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda le piante medicinali
  4. Altrettanto importante sarebbe imparare nuove e migliori forme di gestione della foresta, per migliorare e rendere più efficiente la raccolta di piante selvatiche, e per ridurre il rischio di impoverimento del terreno.

Grazie allo sforzo di varie organizzazioni locali gli orti famigliari sono aumentati e sono di miglior qualità, ma rimangono ancora insufficienti per il sostentamento. Le piante più utilizzate sono:

Ma veniamo allora ai kandamools, ovvero alle piante selvatiche utilizzate. Non volendo allungare oltremodo il già lungo post, non elenco tutte le specie utilizzate (qui e qui potete trovare articoli che descrivono in dettaglio le specie più importanti) ma citerò solo quelle che ho visto nei viaggi, o delle quali ho parlato direttamente con un abitante della valle. Quello che presento non è che un suggerimento per ulteriori approfondimenti.

Le piante selvatiche (kandamools)

From Chepang Khilendra 2009
From Viaggio tra i Chepang di Musbang

1. Yoshi/Chiuri. Diploknema butyracea (Roxb.) H.J. Lam — Sapotaceae

Ban Yoshi: Chiuri selvatico; Rang Yoshi: Chiuri coltivato

Probabilmente la pianta più importante per I Chepang. E’ una pianta fondamentale per l’identità del gruppo: definisce la cultura Chepang, fornisce una fonte fondamentale di materiale per l’alimentazione, la cultura materiale, il sostentamento economico. Praticamente ogni parte della pianta viene sfruttata. I Chepang si tramandano una tassonomia popolare molto dettagliata sulla pianta, sulle sue varietà, sulla germinazione dei semi, sulle cure dell’albero, sulla raccolta dei frutti, del nettare, sull’estrazione del burro dei semi, ecc., e utilizzano più di 30 nomi per la pianta a seconda del periodo di fioritura; del colore dei frutti, delle foglie, sella corteccia, dei rami e dei semi; della forma del tronco; delle dimensioni, odore e sapore del frutto; della produttività.

Una racconto mitologico sull’origine dell’albero sottolinea la centralità della pianta:

“Molto tempo fa, di notte, una bufala scappò dalla stalla dove stava riposando, ed andò in un campo di miglio per mangiare fino a che non fu completamente sazia. Ma quando decise di tornare alle stalle, perse la via del ritorno a causa dell’oscurità, e cadde in un pericoloso burrone e lì rimase, incastrata a metà. Nessuno riuscì ad aiutarla a risalire, e ella morì lì. Si narra che nel medesimo luogo, fertilizzato dalla carcassa della bufala, nacque il primo albero di Chiuri”

Narra sempre il mito che è possibile leggere nel Chiuri questa lontana origine: I suoi frutti danno un succo lattiginoso (il latte della bufala) e il burro estratto dai semi è il burro di bufala. I piccoli grani neri nella polpa del frutto sono i grani di miglio che la bufala si era mangiata. Inoltre I Chepang usano ancora una frase tipica: il Chiuri è per noi come una bufala.

Usi

  • Semi: medicinali
  • Burro dei semi: cibo, olio da lampade, medicinale
  • Cake dei semi: agricoltura (come pesticida ed insetticida), pesca, foraggio (dopo la lisciviazione)
  • Frutti: cibo, medicina, Raksi
  • Fiori: nettare, apicoltura, medicina, bevande fermentate
  • Foglie: foraggio, piatti, cartine per tabacco
  • Corteccia: medicina, combustibile, pesca
  • Legno: costruzione, cultura materiale, combustibile
  • Latice: gomma da masticare, trappole per insetti ed uccelli

In particolare il burro ricavato dai semi viene utilizzato per cucinare, internamente per costipazione cronica e febbri. A livello topico per pelle infiammata, reumatismi, tenia pedis. Il burro viene usato nelle lampade dei templi perché non emette cattivi odori e brucia con fiamma luminosa, bianca e senza fumo.

Potenzialmente il burro potrebbe essere usato non solo per cucinare ma come margarina, come fonte di acido palmitico per l’industria farmaceutica, per fare delle candele, come sostituto dell’olio di cocco per fare saponi, pr fare unguenti e creme e come balsamo per i capelli mescolato a degli attar.

2. Ghitta (Dioscorea bulbifera L.), Bhyakur (D. deltoidea Wall. ex Griseb), Chunya (D. pentaphylla L.) e Bharlang (Dioscorea spp.) — Dioscoreaceae

Come in molte aree del mondo le Dioscoree rappresentano una risorsa insostituibile per il sostentamento alimentare. E come in molti casi le Dioscoree selvatiche non sono immediatamente fruibili, a causa della presenza di alcuni composti tossici. In particolare le specie utilizzate in Nepal sono caratterizzate da un contenuto in proteine e fibre più elevato delle varietà coltivate, e non sono particolarmente tossiche. Non contengono alcaloidi e quantità relativamente basse di nor-diterpeni furanoidi come la diosbulbina A ed in particolare la diosbulbina B, più composti cianogeni ben entro i limiti di sicurezza. I rari casi di infiammazione e tossicità riportati in letteratura sono più probabilmente dovuti alla presenza di cristalli di ossalato.

Per quanto poco tossiche, queste specie vengono comunque trattate in maniera complessa per eliminare la parte amara: dopo aver pelato i tuberi, questi vengono fatti a fette (eliminazione di metaboliti presenti nella corteccia) e messi a bollire con acqua e cenere (tecnica della cottura ed adsorbimento) per tre volte cambiando ogni volta l’acqua di bollitura (eliminazione dell’acqua e cenere saturate); il materiale così trattato viene poi posto per un giorno a bagno nell’acqua corrente di un torrente (lisciviazione), per poi essere trasformato in farina alimentare.

Le Dioscoree non sono importanti sono a livello alimentare: nel distretto del Gorkha vengono consumate come piante sacre durante il festival Hindu del Maghe Sankranti: il primo giorno del festival i tuberi vengono bolliti, poi fritti, e mangiati.

In altre regioni vengono anche usate come rimedi antelmintici.

3. Sisnu/Nelau (Urtica dioica L.) — Urticaceae

Certamente uno dei cibi selvatici più comuni ed utilizzati dalla gente delle colline. I germogli giovanili e le foglie primaverili vengono raccolte e cotte insieme ai germogli di bambù, usate nelle zuppe o mescolate alla polenta di mais, grano o Eleusine coracana (con aggiunta di sale e peperoncino).

La radice viene utilizzata come rimedio per tosse e raffreddore, miscelata insieme a Woodfordia fruticosa e Castanopsis indica (Roxburgh ex Lindley) A. de Candolle.

4. Rimsi & Gotsai

Rimsi/Koiralo (Bauhinia variegata L.) Fabaceae

Le giovani foglie, i fiori ed i frutti vengono fatti bollire e consumati come direttamente o conservati in salamoia e usati come achar.

Sono importanti piante medicinali: corteccia e fiori si usano per linfadenia, elmintiasi ed amebiasi, disturbi gastrici, e localmente in polvere per tagli e ferite (probabilmente grazie alla presenza importante di tannini).

5. Gotsai sag/Tanki (Bauhinia purpurea L.) — Fabaceae

I germogli floreali, le cime giovani ed i frutti acerbi vengono cotti e consumati direttamente o come achar, i semi vengono fritti e mangiati come snack, mentre le foglie adulte vengono usate come foraggio. La corteccia ricca in tannini viene usata come astringente in caso di diarrea e dissenteria, e come agente colorante.

From Dolakha 2009

6. Gaidung (Asparagus racemosus Willd.) — Asparagaceae/Liliaceae

I germogli giovanili e le foglie tenere si consumano come verdura cotta o come achar. Viene usato come rimedio insetticida e come tonico. Nel Dhading la frutta viene consumata per trattare problemi della pelle come foruncoli.

In Nepal le radici vengono arrostite sul fuoco e lasciate all’aperto per tutta la notte, quindi vengono polverizzate, mescolate con acqua e usate in caso di minzione dolorosa o urente.

In Ayurveda la radice viene considerata un rimedio Rasayana molto importante, usato in moltissime condizioni patologiche.

Nella valle del Khandrang alcuni nuclei abitativi hanno iniziato la domesticazione della pianta, in parte a causa dell’ottimo potenziale di mercato delle radici, in parte a causa del rischio di perdita di germoplasma nel selvatico (è una specie in pericolo).

7. Tama bans (Dendrocalamus hamiltonii Nees & Arnott ex Munro o Bambusa nepalensis Stapleton) — Poaceae

I germogli vengono fatti bollire o preparati per la conservazione come achar per il consumo personale; nella stagione secca (da febbraio ad aprile) vengono conservati come germogli fermentati (tama), un prodotto moto venduto nei mercati locali ed importante per il sostegno economico delle famiglie.

Il bambù adulto si usa come fonte di fibre per intrecciare cesti, stuoie e recinzioni.

8. Tore Nyuro (Thelypteris ciliata (Wallis ex Bentham) Ching e spp.) — Thelypteridaceae.

Le fronde tenere si consumano lesse o conservate come achar.

Il succo del rizoma si usa in caso di febbre, disturbi gastrici, diarrea ed indigestione.

9. Danthe Nyuro (Dryopteris cochleata (D. Don) C. Christensen) — Dryopteridaceae

Una delle felci più importanti nel distretto del Gorkha. Fronde e germogli giovanili si consumano lessi in famiglia (una volta fatti bollire si mantengono fino a 15 giorni) e vendute nei mercati locali.

Il succo delle radici si usa in caso di dissenteria e diarrea.

Sta diventando rara nel selvatico a causa dell’eccessiva raccolta (è una pianta considerata in pericolo)

10. Pani Nyuro & Chyan (Diplazium esculentum (Retzius) Swartz ex Sch. & Diplazium polypodioides Blume) — Woodsiaceae/ Dryopteridaceae

Le fronde tenere di Pani Nyuro vengono consumate lesse.

Il succo dei rizomi si usa in caso di febbri malariche, e una pasta ottenuta battendo le fronde si usa sulla pelle in caso di foruncoli o scabbia. Il succo della radice del Chyan Nyuro si applica su ferite ed abrasioni.

11. Thotne/Chaunle (Aconogonon molle (D. Don) H. Hara) – sin: Persicaria mollis; Polygonum molle) — Polygonaceae

I germogli giovanili consumati come verdura fresca o bollita, o come achar, particolarmente ricercato per il suo sapore acre.

Le foglie si usano in caso diarrea nel distretto del Manang.

Anche questa è una specie in pericolo, a causa della raccolta non sostenibile e della perdita di terreno forestale.

12. Porali/Ghiraula (Luffa cylindrica (L.) Roemer) Cucurbitaceae

Pianta già introdotta negli orti familiari. Il frutto tenero si consuma come verdura, mentre da secco viene venduto sul mercato come spugna vegetale.

I Tharu mescolano I semi macerati in acqua insieme ai semi di Zizyphus mauritiana Lam. e al succo della radice di Callicarpa macrophylla Vahl., quindi filtrano il tutto ed usano il liquido in caso di varicella, quando l’eruzione cutanea non “esce”.

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[1] The Local Food-Nutraceuticals Consortium (2005) “Understanding local Mediterranean diets: A multidisciplinary pharmacological and ethnobotanical approach” Local Food-Nutraceuticals Consortium Pharmacological Research 52 (2005) 353–366; Estruch R,et al. (2006) “PREDIMED Study Investigators Effects of a Mediterranean-style diet on cardiovascular risk factors: a randomized trial”. Ann Intern Med. 4;145(1):1-11; Salas-Salvadó J, et al. (2008) “Effect of a Mediterranean diet supplemented with nuts on metabolic syndromestatus: one-year results of the PREDIMED randomized trial” Arch Intern Med. 8;168(22):2449-58; Shai I, et al.  (2008) “Dietary Intervention Randomized Controlled Trial (DIRECT) Group. Weight loss with a low-carbohydrate, Mediterranean, or low-fat diet”. N Engl J Med. 17;359(3):229-41

[2] Pieroni A, Price LL (2006) Eating and healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[3] Etkin, N (2008) Edible medicines: an ethnopharmacology of food. University of Arizona Press

[4] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[5] Price LL (2006) “Wild food plants in farming environment”s. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[6] Price LL (2006) op cit.

[8] Rijal, Arun. (2008) “A Quantitative Assessment of Indigenous Plant Uses Among Two Chepang Communities in the Central Mid-hills of Nepal.” Methods 6: 395-404

[9] Rijal, Arun. (2008) op. cit.

[10] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu

Fitoalimurgia Chepang 1/2

In questi giorni di tribolazione per il Nepal (leggi qui e qui le cronache di Enrico Crespi), spintonato da un post di Meristemi (eccolo qui) sulla fitoalimurgia, prendo l’occasione per scrivere nuovamente di Chepang, un gruppo etnico di cui avevo già parlato in un’altra occasione, descrivendo un albero particolarmente importante nella loro cultura.

Come giustamente rimarca Meristemi, la fitoalimurgia, o più in generale lo studio del ruolo delle piante selvatiche o non coltivate nella storia dell’uomo, è particolarmente affascinante perché rappresenta una chiave di lettura poliedrica, che ci permette molteplici punti di entrata nel “discorso” piante e uomo. Inoltre è un esempio di ciò di cui parlava Andrea Pieroni in un post di qualche tempo fa, ovvero delle dimensioni pratiche ed etiche dell’etnobotanica, che diviene una attività non solo accademica ma applicata, uno strumento per modificare la realtà.

Il tema delle piante selvatiche tra cibo e medicina pone inoltre in primo piano il problema dell’articolazione tra tradizione e progresso scientifico. Mi ci hanno fatto pensare i post di Anna Meldolesi sul consumo etico, e di Bressanini sugli OGM, e non tanto per quello che hanno detto, quanto per le riflessioni che mi pareva scaturissero dai vari commenti.

Le strategie di gestione, di raccolta e di conservazione delle piante selvatiche sono pratiche tradizionali che meritano di essere studiate? O dovremmo invece pensare che siano fasi primitive, preagricole, del nostro rapporto con le piante, quindi ormai desuete e impari allo scopo? La fitoalimurgia è un campo dello scibile utile solo a survivalist che si allenano per la terza guerra mondiale, o per romantici innamorati del folklore, oppure ci possono dire qualcosa di rilevante sulle strategie di salute alimentare?

E ancora, se il dato scientifico si deve tradurre in politiche (in questo caso agricole ed alimentari) e se contesti differenti esigono risposte differenti anche a partire dagli stessi dati, le pratiche agricole tradizionali o le pratiche pre-agricole possono rappresentare parte delle politiche alimentari in determinati contesti?

Non intendo tentare di rispondere a nessuna di queste domande, almeno per il momento

I Chepang

Il caso di studio dei Chepang (che ho portato a Pollenzo, presso l’Università di Scienze Gastronomiche, su invito di Andrea Pieroni) credo possa servire proprio a vedere la complessità del problema, e di come la soluzione ai problemi di salute e sicurezza alimentare passi contemporaneamente dalla necessità:

1. di un approccio trickle-up, ovvero che parte dall’ascolto delle popolazioni locali, della loro percezione dei problemi e delle possibili soluzioni (che spesso sorprende chi parte da posizioni preconcette)

2. di un approccio scientifico allo studio dei sistemi tradizionali di gestione del territorio e della biodiversità

3. dell’inserimento della dimensione dell’identità culturale di un gruppo all’interno dell’equazione sulle possibili soluzioni.

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Rimando i lettori al post precedente per una introduzione ai Chepang. Ricordo brevemente che sono vissuti come cacciatori-raccoglitori fino a poco tempo fa, dipendendo interamente dalla foresta come fonte di radici e piante alimentari, e cacciagione,  fino a 100-150 anni fà.[1]

Più di recente sono diventati stanziali e si sono adattati ad una vita da agricoltori con la tecnica del debbio (in lingua Chepang Khorya, in inglese swidden, o slash-and-burn).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Rimangono però ancora pesantemente dipendenti dalla foresta (come d’altronde è vero, in minor misura, per molta della popolazione nepalese, che per il 90% vive in aree al limine tra foresta e campi coltivati) e dai suoi prodotti, o da piante non coltivate (ad esempio il Chiuri– Dyploknema butyracea (Roxb.) H. J. Lam — Sapotaceae, qui la monografia infoerbe) per la sussistenza alimentare, per le medicine, per la cultura materiale, per il foraggio, per il combustibile ed anche per un sostegno economico, dato che scambiano o vendono vari prodotti ai mercati locali.

Sono certamente una delle comunità più svantaggiate del Nepal dal punto di vista socio-economico, dell’accesso all’educazione e ai servizi di salute, in termini nutrizionali (soprattutto deficit proteico, mentre la dieta fortemente vegetale riduce i deficit vitaminici), in particolare tra donne e bambini (i bambini possono soffrire di malnutrizione e le donne incinte di deficienza di ferro e di proteine) (anche se negli ultimi 15 anni molte cose sono cambiate),[4] circa il 50% delle famiglie sono in situazione di debito, con un deficit di contanti molto acuto e con un surplus annuale molto basso; l’agricoltura (in particolare le coltivazioni di mais – Zea mays L. e panico indiano – Eleusine coracana (L.) Gaertner. – Poaceae) provvede sostentamento al 97% della popolazione solo per 5-6 mesi all’anno e per il resto dell’anno le famiglie devono fare ricorso alla foresta ed ai suoi prodotti. [5]

Anche se negli ultimi anni sono stati introdotti gli orti familiari, con cetrioli, pomodori, zucche e zucchine ed altri ortaggi, la maggior parte dei Chepang continua a fare affidamento più sulle piante selvatiche o non coltivate, o sulle piante coltivate con il metodo del debbio. [6]

Come è stato detto, gli alimenti principali dei Chepang sono il mais e la Eleusine coracana. Da quest’ultima si ricava il Dhindo, ovvero la polenta di miglio, e il Jand (bevanda fermentata a base di miglio e mais), la bevanda più tipica, bevuta da tutti in famiglia.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Di grande importanza, non solo alimentare ma anche culturale, sono i curry a base di larve e pupe di api e vespe, e a base di pipistrelli.

Centrale nella cosmogonia Chepang è, come si è detto, l’albero del Chiuri (Diploknema butyracea), o Yoshi in lingua Chepang, che provvede la famiglia di frutta, miele, nettare, ghee, foglie per piatti, fiori per bevande fermentate, ecc., per il consumo locale o per la vendita nei mercati a valle, vendita che fornisce fino al 60% del reddito familiare (vedi il mio precedente post per il dettaglio sull’albero).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Altri items venduti o scambiati al mercato sono i germogli fermentati di bambù, i doko (cesti di bambù), i naglo (i grandi piatti di fibre intrecciate per separare il loglio dal cereale) e le namlo (le cinghie da trasporto).

Vivono in villaggi, o meglio gruppi di case sparse sui pendii molto ripidi del gruppo del Mahabarat, nel Nepal centrale lungo i fiumi Trisuli, Narayani e Rapti e nei bacini degli affluenti (Manahari e Lothar al sud, Malekhi e Belkhu al nord) compresi nei Distretti del Dhading, Makwanpour, Chitwan e Gorkha.

Le loro case sono a tetto basso, piccole e quasi sempre ad una sola camera, con poca ventilazione. I componenti della famiglia vivono in questa unica stanza, mentre il secondo piano funge da solaio per I cereali ed altri alimenti conservati. Onnipresenti nella casa sono il ripiano di bambù sopra al fuoco per essiccare ed affumicare carne, pesce e cereali (e semi di Chiuri), e la mola (due pietre circolari per le farine di cereali), mentre subito fuori dalla porta troviamo l’attrezzo per decorticare il grano o rompere il guscio dei semi.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

A differenza di molto altri gruppi etnici nepalesi, i Chepang non danno molto rilievo alle gerarchie ed alle differenze di genere sessuale che, pur sussistendo, sono meno marcate rispetto al resto del paese. Le donne godono di maggior libertà, ed il cibo viene equamente diviso tra tutti i membri della famiglia, senza differenze di età o di genere (cosa non comune nel resto delle zone rurali del paese, dove spesso le donne devono nutrirsi dopo il resto della famiglia e con ciò che rimane, nutrendosi quindi poco e male, un dato rilevante per il problema del prolasso uterino).

Studi antropologici

Mentre i Chepang sono stati oggetto di molte ricerche ed analisi di tipo sociologico, minori e di minor qualità sono gli studi e gli interventi sullo sviluppo economico e sociale. Come lamentano gli stessi Chepang, c’è veramente poco sui Chepang che provenga dai Chepang stessi, e poco spazio è stato dato alla domanda “quale beneficio ha portato ai Chepang tutto il lavoro svolto sui Chepang?”. [7]

Fino a poco tempo fa i progetti governativi si sono poco interessati alle definizioni di sviluppo fornite dai locali, e spesso gli sforzi delle ONG sono stati trascurabili e politicamente non impegnati, evasivi, almeno fino alla metà degli anni ‘90.

Nel 1993 si è tenuto il primo “Gathering of the concerned” e nel testo che raccoglie le esperienze di questo incontro, emergono le istanze avvertite come più pressanti: [8]

1. Inferiorità, o mancanza di autostima, imposta ed istituzionalizzata. Quando CAED iniziò a lavorare con I Chepang, era comune riferirsi ad essi, anche nei documenti ufficiali, come Jungli (selvaggi/incivili) o Bankar/Banmanchhe (scimmie), ed in genere caratterizzarli come primitivi e stupidi. Questa istanza è stata infatti il primo punto di “attacco” del progetto SEACOW, la rivalutazione delle competenze e conoscenze del gruppo rispetto alle NTFP, competenze che potevano essere tradotte in riscatto sociale ed economico.

2. La cultura. Secondo Battharai le domande che è necessario porsi, prima della classica: “come facciamo a salvare la cultura dei Chepang?” sono le seguenti: “perché è necessario salvare o conservare questa cultura quando sono gli stessi Chepang a non voler essere chiamati così, a rifiutare la propria cultura? E come identifichiamo la cultura da salvare? Chi è che vuole conservarla e perché? Non si rischia un approccio tipo ‘zoo umano’?” E’ possibile raggiungere un maggior benessere senza rischiare la perdita di identità culturale?”. [9]

3. Autonomia tribale. Come si può gestire il miglioramento delle condizioni economiche vis-a-vis l’autonomia tribale e culturale, dove troviamo l’equilibrio? In particolare quale è la soluzione più desiderabile al problema della gestione della foresta? Nazionalizzazione, proprietà privata o diritti etnici collettivi?

4. Sostenibilità. L’opinione fortemente espressa dai Chepang e dalle ONG locali è che è insostenibile continuare a discutere del concetto di sostenibilità solo in termini economici. Questa tendenza ha eclissato importanti istanze, come ad esempio la necessità di rinforzare le risorse di base, la giustizia sociale e i bisogni specifici ed area-dipendenti.

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Note

[1] Bista DB (2004) People of Nepal. Ratna Pustak Bhandar

[2] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu; Marandhar NP (1989) “Medicinal plants used by Chepang tribes of Makwampur District, Nepal”. Fitoterapia Lx, Perish; Bhattrai TR (1995) “Chepangs: Status, efforts and issues; a Syo’s perspective”. In TR Bhattrai Chepang Resources and Development. SNV/SEACOW, Khatmandu; Gautam MK, Roberts EH, Singh BK (2003) “Community based leasehold approach and agroforestry technology for restoring degraded hill forest and improving rural livelihoods in Nepal”. Paper presented at the International Conference on rural livelihoods, Forest and Biodiversity, Bonn; Pandit BH (2001) “Non-timber forest products on shifting cultivation plots (Khorya): a means of improving livelihoods of Chepang Rural Hill Tribe of Nepal”. Asia-Pacific Journal of Rural Development; 11:1-14

[3] declino dovuto probabilmente ad una epidemia

[4] Kerkhoff, E. & E. Sharma. (2006) Debating Shifting Cultivation in the Eastern Himalayas: Farmers’ innovations as lessons for policy. International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD), Kathmandu

[5] Balla, M.K., K.D. Awasthi, P.K. Shrestha, D.P. Sherchan & D. Poudel. (2002) Degraded Lands in Mid-hills of Central Nepal: A GIS appraisal in quantifying and planning for sustainable rehabilitation. LI-BIRD, Pokhara, Nepal

[6] Aryal G.R. & G.S. Awasthi. (2004) “Agrarian Reform and Access to Land Resource in Nepal: Present status and future perspective/action“. ECARDS review paper (Unpublished). Environment, Culture, Agriculture, Research and Development Services (ECARDS), Kathmandu, Nepal

[7] Bhattarai, Teeka R. (1995) Chepangs, resources, and development : collection of expressions of the Gathering of the Concerned, 7-9 February 19. Kathmandu: SNV: 1995. 185 p.

[8] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

[9] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

Invito ad una moratoria su Aniba rosaeodora

Riporto paro paro da the aromaconnection questa bella notizia che riguarda due specie forestali aromatiche, Aniba rosaeodora e Bulnesia sarmientoi. L’inserimento delle due specie nell’elenco delle specie commerciabili solo se provenienti da piantagioni certificate CITES è un piccolo passo, ma io continuo ad invitare tutti ad una moratoria totale sull’utilizzo di derivati del Legno di rosa e, già che ci siamo, del legno di Sandalo!

Ma ecco le news dal CITES:

L’ Environment News Service annuncia che il 19 marzo 2010 due alberi sudamericani, sfruttati in maniera non sostenibile dai produttori/commercianti di olii essenziali per l’industria profumieristica e cosmetica, saranno immessi nell’Appendice II della Convenzione sul Commercio Internazionale (Convention in International Trade – CITES), decisione presa dal CITES a Doha, nel Qatar. I controlli sul commercio (scambi commerciali internazionali permessi esclusivamente sulla base di permessi ufficiali) verranno applicati entro 90 giorni per Aniba rosaedora (legno di rosa brasiliano), che è stato proposto per l’appendice II dal Brasile, e per Bulnesia sarmientoi (Palo Santo – da cui si ricava l’olio di guaiaco, l’olio acetilato di guaiaco e l’acetato di guaile) dalla regione del Gran Chaco in America Centrale, proposto dall’Argentina.

Cropwatch ha da lungo tempo sottolineato il declino dello status ecologico del Legno di rosa (scarica qui i files Cropwatch), e molti utenti di olii essenziali hanno indipendentemente e volontariamente deciso di smettere di acquistare l’olio essenziale. Sfortunatamente c’è sempre un elemento poco etico nel mercato che continuerà ad utilizzare specie aromatiche in pericolo di estinzione, fino al punto di farlo anche quando sia illegale.  Lo status del Palo Santo (legno di Guaiaco) nel Parco Nazionale di Gran Chaco, che si estende attraverso il Paraguay occidentale, l’Argentina settentrionale ed orientale, e la Bolivia meridionale era stato di recente analizzato da Cropwatch nella sua Updated List of Threatened Aromatic Plants Used in the Aroma & Cosmetic Industries v1.19 (scarica il pdf. qui). L’olio essenziale di Legno di Guaiacoè in realtà una pasta marroncina che si scioglie a 45ºC, e i suoi derivati acetilati hanno occupato un posto molto importante nel ventaglio aromatico profumieristico.

L’inserimento delle due specie nell’Appendice II farà la differenza? Certamente l’inserimento nell’Appendice CITES I sarebbe stata più efficace, specialmente nel caso del Legno di Rosa, il cui futuro è più di altri alberi nelle mani di commercianti illegali. Olio essenziale di Aniba rosaeodora da distillerie clandestine nel profondo della foresta  continua ad arrivare nei nostri mercati, anche se alcuni lotti si distinguono per una composizione chimica peculiare che spinge a porsi delle domande sull’origine botanica (vedi la bibliografia relativa qui). Ci si domanda se l’olio di Guaiaco continuerà ad essere disponibile legalmente, se solo quello di origine argentina verrà bandito. Anche se questo lo si potrà vedere solo nel futuro,  certamente questi inserimenti nella lista CITES II sono un passo nella giusta direzione.

Uomo e piante 3/dimoltialtri

Rieccoci qui alla serie Uomo e piante. Dopo un post introduttivo ed uno che esaminava in breve l’evoluzione delle piante dal punto di vista dei loro composti di difesa, nella terza installazione iniziamo a parlare dell’evoluzione umana in relazione in particolare alla dieta.

I primi passi dell’uomo
E’ fuor di dubbio che l’origine dell’uomo sia da ricercarsi in Africa, e che dall’Africa esso abbia poi colonizzato il resto del mondo. (5)

I dati genetici e paleontologici indicano infatti che l’antenato comune a uomini e scimpanzè viveva probabilmente nelle foreste pluviali dell’Africa centrale nutrendosi principalmente di frutta, più raramente di altre parti vegetali ed occasionalmente di carne.

Le prime specie di primati della tribù Hominini comparvero quasi sicuramente in Tanzania ed in Etiopia intorno a 6-7 milioni di anni fa, (6) e le varie specie di australopitecine (divise in “robuste” e “gracili”) si diversificarono intorno ai 4 milioni di anni fa.

Alcune di queste specie (almeno due  delle “robuste”), vissero fino ad essere contemporanee ad Homo habilis, sulla costa orientale africana dall’Etiopia al Sud Africa, in habitat sia di foresta che di savana. La loro alimentazione fu prevalentemente vegetariana, probabilmente dominata dalle foglie, per almeno tre milioni di anni, finché non si estinsero circa un milione di anni fa.(7)

Tra i 3 ed i 2 milioni di anni fa un importante cambiamento climatico e vegetazionale portò ad una progressiva estensione dei territori a savana a scapito della copertura forestale, ad una riduzione nella disponibilità dei frutti molli tipici delle foreste e ad un aumento di legumi e frutti duri, di piante erbacee e della possibilità da parte degli Ominidi di cacciare grandi erbivori.

E’ in questo contesto che si situa la comparsa del primo rappresentante del genere umano, Homo habilis, bipede abile costruttore di utensili ma dalla scatola cranica ancora piccola. Sempre in questo lasso di tempo si situa la iniziale diversificazione di Homo, che corrisponde anche al momento di maggior diversità nel genere, per il momento limitato all’Africa. E’ stato ipotizzato, infatti, che in quel periodo abbiano convissuto in Africa fino a sei specie di Ominidi, comprese tre del genere Homo (H. habilis, H. rudolfensis e H. ergaster).(8)

Il cambiamento climatico e la maggior disponibilità di erbivori di grande taglia determinò probabilmente la dieta maggiormente basata sulla carne di H. abilis (fino al 30%), che però è improbabile fosse un cacciatore attivo, ma piuttosto uno spazzino passivo, dipendente per il suo sostentamento dall’attività dei grandi carnivori come le tigri dai denti a sciabola.(9)

I dati archeologici sulla dieta degli ominidi mostrerebbero che fin da subito Homo divenne il maggior competitore delle australopitecine, a causa della sovrapposizione delle risorse alimentari dei due gruppi, specialmente per quanto riguarda le specie vegetali utilizzate. E’ possibile che in caso di difficoltà nel reperire carne gli Homo si volgessero verso cibi di riserva vegetali, entrando in forte competizione con le australopitecine, le quali avrebbero dovuto a loro volta fare affidamento su altre fonti di cibo, facili da reperire o difficili per Homo da sfruttare.

La scomparsa delle forme di Homo di statura ridotta circa 1.6 milioni di anni fa, e l’estinzione delle forme robuste delle australopitecine (dopo l’aumento progressivo delle dimensioni dei loro molari) indicherebbero che queste strategie di utilizzo degli alimenti di riserva non potevano essere mantenute facilmente di fronte ad una aumentata efficacia come cacciatori degli Homo di grandi dimensioni. (10)

E’ possibile ipotizzare che fin da questo periodo le piante ed i metaboliti contenuti in esse abbiano giocato un ruolo nell’evoluzione degli Ominidi. Secondo alcuni ricercatori il cambiamento climatico avrebbe forzato i primati, ed in particolare le femmine, ad adattarsi ad un ambiente caratterizzato da momenti di abbondanza e da altri di relativa carestia, e da un aumentato carico di metaboliti secondari.

Parte dell’adattamento potrebbe essere stato la maggior facilità di stoccare il surplus di energia sotto forma di depositi adiposi da sfruttare nei momenti di bisogno, una caratteristica che distingue nettamente gli esseri umani dagli altri primati, a parte l’orangutang, il quale vive anch’esso passaggi drammatici da abbondanza a carestia nelle foreste del Borneo.

Un altro adattamento fu forse la ricerca di nuove fonti di cibo meno tossiche e più diversificate. Secondo alcuni autori questi cambiamenti potrebbero aver segnato uno dei passaggi critici nell’evoluzione degli Homo.(11) Nuove strategie alimentari che permettessero un flusso di nutrienti più continuo durante l’anno, e l’aumentata capacità di stoccaggio potrebbero essere stati critici per l’evoluzione del cervello per almeno due ragioni strettamente collegate: la prima è che la strategia di ricerca allargata a nuovi habitat e verso molteplici fonti di cibo necessita di un cervello più plastico, potente e quindi più grande di quello di un animale che usi poche fonti di cibo; la seconda che un cervello più grande è metabolicamente molto costoso da produrre nella gestazione e da mantenere  durante la vita extrauterina, ed ha bisogno di fonti stabili di energia.(12)

E’ possibile che l’abilità di stoccare energia in maniera più efficiente, nata per rispondere ai momenti di carestia, abbia funzionato, una volta che lo sfruttamento di nuovi habitat avesse permesso un flusso di nutrienti stabile nel tempo, da esaptazione (o preadattamento) per l’abilità delle femmine di gestire la maggior crescita cerebrale del feto durante la gravidanza rispetto ad altri mammiferi, condizione che è stata definita come uno stato di “carestia accelerata” per la donna. (13)

Secondo le teorie delle migrazioni umane che hanno più supporto empirico, (14) le popolazioni originali di H. ergaster (H. erectus africanus – la specie che seguì a Homo habilis), dalle loro probabili zone di origine nella Rift Valley, si sarebbero espanse in una prima ondata prima, tra 1,5 e 1.2 milioni di anni fa, nel continente africano verso sud (Pigmei e Khoisan), verso ovest (odierni Niger e Congo) e nord, passando poi in Asia attraverso la penisola del Sinai circa 1.2 milioni di anni fa e da lì in Europa 500.000 anni fa, dove si sarebbero insediate ed evolute fino a dare origine ad una nuova specie, Homo neanderthalensis, che aveva con tutta probabilità una dieta del tutto simile a Homo erectus, ovvero fortemente carnea, in particolare a base di erbivori.(15)

Mentre in Europa faceva la sua comparsa il Neandertal, in Africa, da una piccola popolazione geograficamente separata dallo stock di H. erectus africano (H. ergaster), si sarebbe originato, meno di 200.000 anni fa, il primo nucleo di Homo sapiens (H. sapiens arcaico), che avrebbe poi iniziato a migrare verso le zone già occupate da H. erectus e H. neanderthalensis ca. 100.000 anni fa.(16)

E’ quindi ipotizzabile che tra i 50 ed i 35.000 anni fa tre specie di Homo convivessero sulla terra: H. neanderthalensis come discendente di Homo erectus in Europa, Homo erectus in Asia, e Homo sapiens nel suo continuo movimento espansionistico dall’Africa al resto del globo. Secondo la stessa logica è ipotizzabile che H. sapiens e H. neanderthalensis abbiano condiviso i territori in Europa, e forse che si siano mescolati.(17)

La dieta

Un passaggio decisivo per l’evoluzione della dieta degli ominidi fu certamente l’utilizzo del fuoco per la cottura del cibo, che con tutta probabilità appare come attività intorno a 400.000 anni fa. La cottura presentava indubbiamente dei grandi vantaggi per gli ominidi: essa infatti trasforma alcuni cibi prima indigeribili in cibi commestibili; facilita l’utilizzo dell’energia contenuta nei cibi riducendo il dispendio energetico digestivo; riduce il consumo dei denti. Inoltre un recente studio mostra che con tutta probabilità gli ominidi avevano già sviluppato una preferenza per i cibi cotti, preferenza forse spiegabile con la somiglianza tra i segnali molecolari provenienti dal cibo cotto e i segnali molecolari che aiutano l’ominide a distinguere tra cibi “buoni” e cibi “cattivi”.(18)

L’utilizzo del fuoco potrebbe aver facilitato i raccoglitori africani del Pleistocene nello sfruttamento di radici, tuberi e noci, che secondo la received view erano le risorse vegetali più importanti di Homo intorno a 100.000 anni fa, anche se l’ipotesi che la raccolta dei cereali in Africa fosse tecnicamente troppo difficile e quindi irrilevante rispetto alla raccolta delle radici, viene messa in discussione dai recenti dati provenienti dagli scavi nella caverna di Ngalue (odierno Monzambico).
Gli scavi mostrano una presenza importante di grani di amido di sorgo ed altre erbacee, suggerendo che almeno 105.000 anni fa Homo sapiens raccogliesse i semi delle graminacee per la sua sussistenza. (19)  Questa conclusione sembrerebbe supportata dallo studio sugli strumenti del sito di Kanjera in Kenya, che mostrerebbero segni inequivocabili di utilizzo per la processazione di piante erbacee (oltre che per l’apertura di noci, la pulitura di radici e il disossamento di carcasse di animali).(20)

Si situa in questo contesto temporale la prima testimonianza a noi pervenuta dell’utilizzo di piante medicinali da parte dell’uomo (di Neandertal, in questo caso). In una tomba risalente al 60.000 a.C., presso il sito archeologico Shanidar IV (in Iraq), sono stati ritrovati pollini raggruppati in maniera tale da suggerire che le piante dalle quali provenivano formassero un tappeto per il corpo del deceduto. Nonostante sia impossibile essere certi che fossero piante usate a scopo medicinale, o comunque importanti per la cultura di Shanidar IV, la maggior parte degli autori concorda con questa ipotesi. Le piante sono state identificate come appartenenti ai generi Achillea sp. [Asteraceae], Althaea sp. [Malvaceae], Muscari sp. [Liliaceae/Hyacinthaceae], Senecio sp. [Asteraceae], e alle specie Centaurea solstitialis L. [Asteraceae] ed Ephedra altissima [Ephedraceae], piante tuttora importanti nella fitoterapia irachena e presenti in altre tradizioni mediche.(21)

Muscari armeniacum

Centaurea sostitialis

Ephedra altissima

Il grande balzo

Proprio la presenza contemporanea dell’uomo di Neandertal e dei primi esemplari di Homo sapiens (Cro-Magnon) tra i 50.000 e i 35.00 anni fa in Europa coincise con due grandi eventi, uno di tipo culturale ed uno di tipo climatico.  Circa 50.000 anni fa si ha testimonianza, in Asia orientale prima e di seguito nel Vicino Oriente ed in Europa sud orientale, di un periodo di grande progresso tecnologico e comportamentale (la cosiddetta “rivoluzione umana” o “il grande balzo in avanti”).

Cambiamenti paragonabili sono avvenuti all’incirca nel periodo dell’arrivo degli Homo moderni in Europa, 40.000 anni fa, testimoniati tra e altre cose dai graffiti della grotta di Lascaux, nell’odierna Francia. In effetti in questo periodo (Paleolitico superiore) si osserva un avanzamento nella complessità tecnologica, artistica e rituale molto maggiore di quanto osservato nei periodi precedenti, come ad esempio l’uso di strumenti a lama specializzati, l’apparire dell’arte, del simbolismo, la comparsa di siti di sepoltura umana accompagnati da ornamenti complessi in osso, corno, conchiglie o oggetti d’avorio.(22)

Nello stesso periodo ci fu l’inizio delle grandi instabilità e fluttuazioni del clima dell’era glaciale, con il passaggio da climi temperati a climi estremamente rigidi e viceversa, e questi mutamenti continuarono a verificarsi alternativamente a distanza di poche migliaia di anni. In Europa questi cambiamento erano legati all’inversione della circolazione oceanica nel Nord Atlantico e potevano congelare e scongelare l’Atlantico in meno di una decade. Quindi è del tutto possibile che nell’arco della vita di un Neandertal e di un Cro-Magnon, il clima e l’ambiente animale e vegetale a cui erano abituati fosse spazzato via e sostituito da climi, specie animali e vegetali del tutto nuovi. Quando le colonie di Cro-Magnon iniziarono a convivere con i Neandertaliani, il cambiamento climatico potrebbe aver favorito i primi, che forse avevano dei vantaggi quali una rete sociale più ampia e solida, abiti e ripari più efficienti, e alla fine ciò potrebbe aver portato alla scomparsa dei Neandertal.

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Note

1. Tattersall I., Schwartz J. Extinct humans. Boulder CO; Westview Press, 2000; Johanson D., Edgar B. From Lucy to language. NY; Simon & Schuster, 1996.

2. Crowe, I (2005) “The Hunter-Gatherers”, in G. Price (ed.) The Cultural History of Plants. Routledge, New York, pp. 3-11

3. Crowe 2005 op. cit.

4. Secondo Tutin (Tutin C (1992) “Foraging profiles of sympatric lowland gorillas and chimpanzees on the Lopé game reserve, Gabon”. In E.M. Widdowson and A. Whiten (eds.) Foraging Strategies and Natural Diet of Monkeys, Apes and Humans. Oxford, Clarendon Press) è probabile che la frugivoria sia stato il primo stadio di adattamento (anche primati oggi tipicamente foliovori (come i gorilla) sarebbero comunque passati dallo stadio di frugivoria), ed il più plastico. La foliovoria sarebbe infatti in cul-de-sac evolutivo che costringe l’animale a sviluppare una flora batterica gastrica o intestinale per fermentare le fibre delle foglie e renderle assorbibili. Una volta sviluppata tale flora l’animale sarebbe comunque costretto ad alimentarsi in parte con foglie anche in periodi di abbondanza di frutti, solo per mantenere attiva la flora.

5. Diamond, J. Guns, germs, and steel: The fates of human societies. W.W. Norton & Co., 1997; Ed. italiana Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Torino, Einaudi 2000; Dawkins R. Il racconto dell’antenato. La grande storia dell’evoluzione. Mondadori, Milano, 2006; Filler A.G. (2007) “Homeotic evolution in the Mammalia: Diversification of therian axial seriation and the morphogenetic basis of human origins”. PLoS ONE 2(10): e1019. doi:10.1371/journal.pone.0001019

6. I resti di Sahelanthropus tchadensis e poi di Orrorin tugenensis si situano intorno a quell’area temporale, e poco più tardi appaiono i primi resti di Ardipithecus ramidus (5.8 milioni di anni fa) e di Kenyanthropus platyops (3.5 milioni di anni fa).

7. Gli australopitecini, differenziati in molte specie, spesso contemporanee, comprendevano almeno tre di tipo “robusto (Australopithecus aethiopicus – 2.6-2.3 milioni di anni fa; A. robustus – 2-1.5 milioni di anni fa; A. boisei – 2.1-1.1 milioni di anni fa). e tre più “gracili” (A. anamensis (4.2-3.9 milioni di anni fa), A. afariensis (3.9-3.0 milioni di anni fa), A. africanus (3-2 milioni di anni fa). Gli australopitecini robusti (per i quali alcuni autori usano ora il termine Parantrhopus perché ritengono che appartengano ad un clade unico) molto probabilmente non sono diretti antenati dell’uomo moderno, ma appartengono ad un ramo laterale del cespuglio evolutivo. Quelli più “gracili” sono invece probabilmente i nostri progenitori diretti (Gould, S.J. The structure of evolutionary theory. Belknap Press, 2002).  Rispetto agli ominidi che li avevano preceduti gli australopitecini in genere mostravano una dentatura più adatta ai cibi duri, per i quali era necessario passare da funzioni di taglio ed affettatura (tipiche dei cibi morbidi) a schiacciamento e triturazione, e ad una masticazione circolare. I denti erano situati sotto e non davanti al cranio (con riduzione quindi del prognatismo, una riduzione che si è mantenuta sino a noi), canini ridotti e cuspidi arrotondate e basse. D’altro canto secondo alcuni autori la presenza di incisivi piccoli sarebbe più indicativa di foliovorìa che di frugivorìa (Consiglio, C. e Siani V.  Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri, 2003). Consiglio e Siani stimano una percentuale dal 2 al 5%), foliovora e/o frugivora. L’ambiente forniva ampie possibilità di alimentarsi con noci (A. africanus usava ciottoli per romperle), bacche e legumi della savana, e foglie e frutti carnosi reperibili nella foresta. Più ambigui i dati sui robusti. Gli studi sulla chimica delle ossa effettuati sui fossili sono compatibili sia con una dieta prevalentemente foliovora sia con una ricca in radici e carne. La dentatura indica che erano più adatti dei gracili a mangiare cibi duri (sia che ne mangiassero maggiori quantità, sia che il cibo fosse più duro). Secondo Consiglio e Siani 2003 op. cit.  A. robustus e A. boisei potevano usare frutti di alberi della savana come Parinari excelsa, P. curattellifolia, Sclerocarya birdea, Ricinodendron rataneeni.  Da questi dati si presume una dieta prevalentemente vegetariana, foliovora e adatta a semi duri tipici delle piante della savana.

8. Gould 2002 op. cit.

9. La carnivoria sembrerebbe comprovata da vari dati, come la riduzione dello smalto dei denti, i cumuli di ossa ritrovate nei siti abitativi, i segni di arnesi da taglio su denti e sulle ossa, e le tracce indicative di alimentazione a base di pesce. E’ ipotizzabile che si fosse creata una nuova nicchia ecologica per H. abilis come spazzino delle carcasse lasciate dai carnivori meno specializzati, come la tigre dai denti a sciabola del Pliocene e Pleistocene. Può darsi che esso fosse principalmente uno spazzino passivo che si nutriva delle ossa e del loro midollo, battendo sul tempo i carnivori specializzati nell’utilizzo delle ossa. Comunque sia, la dieta conteneva carne come componente importante, ma certamente non maggioritaria (si valuta intorno al 30%). Con la scomparsa delle tigri dai denti a sciabola dall’Africa (1.7 milioni di anni fa) H. habilis ha con tutta probabilità dovuto diventare uno spazzino più attivo, che doveva competere con spazzini molto più specializzati ai quali doveva contendere i resti; alcuni autori hanno collegato questo cambiamento di modalità con l’aumento di statura che si nota nel passaggio tra H. habils e H. erectus (i cui fossili africani sono stati chiamati Homo ergaster).

10. cfr. Wood and Lieberman 2001 e Ungar PS, Grine FE, Teaford MF (2008) “Dental Microwear and Diet of the Plio-Pleistocene Hominin Paranthropus boisei“. PLoS ONE 3(4): e2044

11. Mancando, come sempre in questo caso, prove dirette di quando sia accaduto, dobbiamo avvalerci sono di dati indiretti, di inferenze. Uno studio sui lemuri del Madagascar (L. cattia) (Sauther M.L. “Wild plant use by pregnant and lactating ringtailed lemurs, with implications for early hominid foraging”. In N.L. Etkin (Ed.) 1994 op. cit. pp. 240-258). I lemuri sono un tipo di proscimmia sociale diurna che abita la foresta fluviale a mosaico del Madagascar, e l’analisi dei suoi comportamenti alimentari può essere utile per intuire alcuni passaggi cruciali che hanno portato alla divergenza dei primi ominidi. Il risultato degli studi suggerisce che un avanzamento critico che ha differenziato i preominidi dalle altre specie di primati sia stato lo sviluppo di comportamenti volti ad aumentare la possibilità di sfruttamento delle risorse ambientali. Dati i cambiamenti climatici, che hanno causato una modificazione dell’ambiente nella direzione di una bioregione di savana-mosaico, gli ominidi africani per avere successo devono avere imparato a sfruttare nuove nicchie ecologiche. Dato che le femmine incinte o che allattano sono comunque soggette, rispetto ai maschi, a maggiori restrizioni alimentari (devono evitare cibi con eccessive quantità di metaboliti tossici) e ad elevati costi (devono spostarsi di più per ricercare il cibo), è ipotizzabile che da loro sia partita la spinta alla ricerca di nuove nicchie, di nuovo strumenti per avere disponibilità di cibo tutto l’anno.

12.  Johns 1990 op. cit.

13. Ellison P.T. On fertile ground: A natural history of human reproduction. Harvard University Press, Cambridge, USA, 2001, pp. 289-294

14. Il modello della “origine africana recente” o “della sostituzione”. Cfr. White T.D., Asfaw B., DeGusta D., Gilbert H., Richards G.D., Suwa G. et al. (2003) “Pleistocene Homo sapiens from Middle Awash, Ethiopia”. Nature, 423:742-7; Stringer C.B. (2003) “Out of Ethiopia” Nature, 423:692-4; Stringer, C. (2001) “The evolution of modern humans: where are we now?” General Anthropology 7 (2): 1-5

15. I dati sulla riduzione dello smalto e della area masticatoria, i segni di coltello su ossa e denti, la presenza di strumenti da taglio come asce e coltelli di pietra, sono consistenti con un aumento della quantità di carne nella dieta di H. erectus, e che forse fosse passato ad un ruolo di scavenger più attivo (statura più elevata). La carne era quindi probabilmente una componente importante, secondo Consiglio e Siani 2003 op. cit. da situarsi in media intorno al 30% e non più del 50%. La dieta delle popolazioni insediatesi vicino a laghi, mari e corsi d’acqua era anche molto ricca in pesce. Gli scavi presso il sito di Gesher Benot Ya’aqov, sulle rive del paleo-lago Hula nel nord della Valle del Giordano, nel Rift del Mar Morto, risalgono a 790.000 anni fa, e indicano che la popolazione faceva ampio utilizzo di granchi e soprattutto pesce. Gli stessi scavi hanno consentito di verificare quali piante venissero utilizzate ed in parte anche a che scopo. Tra le piante usate a scopo non alimentare troviamo olivo, quercia, Styrax officinalis, mentre tra quelle alimentari figurano le ghiande di quercia (detossificate probabilmente tramite cottura e forse geofagia), i semi della Euryale ferox e soprattutto i frutti della Trapa natans, molto nutrienti grazie alla percentuale di amido in essi contenuta. E’ possibile che fossero consumati anche i frutti della vite selvatica (Vitis sylvestris) e dell’olivo, come anche le foglie della rapa bianca (Beta vulgaris) e del cardo mariano (Silybum marianum) (Alperson-Afil N, Sharon G, Kislev M, Melamed Y, Zohar I, Ashkenazi S, Rabinovich R, Biton R, Werker E, Hartman G, Feibel C, Goren-Inbar N. (2009) “Spatial Organization of Hominin Activities at Gesher Benot Ya’aqov, Israel”. Science 326:1677-1680)

16. Secondo una teoria alternativa, il modello multiregionale (o modello a candelabro), le tre sottopopolazioni di H. erectus migrate in Africa, Asia ed Europa si sarebbero evolute parallelamente ed indipendentemente per dare origine a Homo sapiens in tutta la sua diversità.  Stringer 2003 op. cit. propone una teoria ancora differente, secondo la quale vi sono stati vari eventi di dispersione nell’evoluzione umana negli ultimi due milioni di anni uno, particolarmente importante, sarebbe avvenuto nel Pleistocene Medio di Africa ed Europa, più di 600.000 anni fa, con l’origine e la dispersione di Homo heidelbergensis. Secondo Stringer 2003 op. cit. questa specie vide di seguito un graduale evento di speciazione circa 300.000 anni fa, dando origine a Homo sapiens neanderthalensis (o H. neandertalensis – Neandertal) al nord del Mediterraneo ed a Homo sapiens arcaico al sud, in Africa. Nel frattempo ad est continuava l’evoluzione di Homo erectus, in Cina e Giava. Queste due linee evolutive possono esseresi incontrate in aree di sovrapposizione, come ad esempio in Medio Oriente, circa 100.000 anni fa, ed in Europa 35.000 anni fa.

17. Altri autori ipotizzano modelli misti, nei quali la componente della seconda ondata migratoria si sia ibridata in parte con alcune spp. della prima ondata, come Homo neanderthalensis, cfr. Duarte C., Mauricio J., Pettitt P.B., Souto P., Trinkaus E., van der Plicht H. et al. (1999) “The early upper Paleolithic human skeleton from the Abrigo do Lagar Velho (Portugal) and modern human emergence in Iberna”. Proceedings of the National Academy of Sciences, USA, 96:7604-9.

18. Wobber V, Hare B, Wrangham R. (2008) “Great apes prefer cooked food”. J Hum Evol 55:340-348

19. Mercader J. (2009) “Mozambican grass seed consumption during the Middle Stone Age”. Science 326:1680-1683).
20. Braun DR, Plummer T, Ditchfield P, Ferraro JV, Maina D, Bishop LC, Potts R. (2008) “Oldowan behavior and raw material transport: perspectives from the Kanjera Formation”. J Archaeol Sci 35:2329-2345

21. Lietava, J. 1992 “Medicinal plants in a Middle Paleolithic grave. Shanidar IV” Journal of Ethnopharmacology 35:263-266; Leroi-Gourhan A. (1975) “The flower found with Shaidar IV, a Neandrethal burial in Iraq”. Science. 190:562-564; Solecki R.S. (1975) “Shanidar IV, a Neanderthal flower burial in Northen Iraq”. Science. 190:880-881. Per una opinione contraria sul ruolo delle piante nei riti di sepoltura di Shanidar IV, cfr, Sommer J.D. (1999) “The Shanidar IV ‘flower burial’: a re-evaluation of Neanderthal burial ritual”. Cambridge Archeological Journal 9(1):127-137

22. Diamond 1997 op. cit.

Uomo e piante 2/dimoltialtri

Continua questa serie di post sul rapporto uomo e piante nella storia. Ci eravamo lasciati qui con la promessa di dare un’occhiata più da vicino all’evoluzione delle piante e dei loro metaboliti secondari, e poi all’evoluzione dell’uomo, come preambolo prima di mescolare il tutto nel calderone :-).

Quindi eccoci qui a parlare de…

L’evoluzione delle piante – una breve descrizione
La vita ebbe inizio nelle acque. E fu vita autotrofa, pacifica, a bassa diversità. La nascita dei primi predatori fu la causa iniziale di una esplosione evolutiva che ci ha portato ai giorni nostri.

L’azione predatoria fece da stimolo ad una diversificazione degli autotrofi verso nuove nicchie ecologiche, nuovi modi di vivere negli oceani e nuove strategie per sfuggire ad una minaccia nuova. Questa diversificazione, accompagnata da una diversificazione parallela nei predatori, portò in tempi geologicamente brevi alla saturazione delle nicchie oceaniche, e quindi al tentativo di conquistare un habitat fino ad allora vergine, le terre emerse.

Ma questa conquista richiedeva modificazioni qualitativamente molto diverse rispetto a quelle precedenti: bisognava in qualche modo rendersi autonomi dall’acqua, e l’evoluzione successiva è tutta percorsa da questo tema, l’interiorizzazione dell’oceano. Ma perché questa storia potesse avere inizio erano necessarie certe condizioni di partenza, senza le quali la vita come la conosciamo non sarebbe stata in grado di conquistare i nuovi territori; esse erano: la presenza di stabili ambienti costieri, la formazione del suolo e lo sviluppo di condizioni climatiche ed atmosferiche adatte.

Colonizzazione
Le condizioni per la colonizzazione delle terre emerse da parte delle piante si presentarono nel tardo Ordoviciano, circa 458-443 milioni di anni fa. Ma le prime evidenze fossili del fatto che le piante acquatiche avessero effettivamente sviluppato delle caratteristiche compatibili con un ambiente non acquoso si situano nel primo Siluriano (ca. 470-430 milioni di anni fa). Nei fossili di questo periodo si riscontrano misure per la protezione dal disseccamento, le prime cellule specializzate per il trasporto di acqua e nutrienti, le prime strutture di supporto meccanico e modalità riproduttive che non dipendono principalmente da acqua esterna.

Le inferenze da dati scarsi sono sempre rischiose, ma sembra possibile dire che nel tardo Siluriano – primo Devoniano (ca. 430-400 Ma) dalle alghe verdi emersero le prime piante terrestri, che comprendevano piante non-vascolari (le Briofite), piante vascolari (Tracheofite) e piante con caratteristiche miste. Probabilmente le primissime piante terrestri a comparire furono quelle non vascolari, in particolare le Epatiche, seguite dai muschi, forse i più vicini, evolutivamente, alle piante vascolari.(1)

Ma torniamo alla nostra storia di colonizzazione.

Intorno al primo Devoniano (ca. 408 milioni di anni fa) avviene il primo passaggio evolutivo rivoluzionario: compaiono le prime piante vascolari, ed intorno ai 400 milioni di anni fa compaiono le Eutracheofite, il gruppo tassonomico che comprende quasi il 99% delle piante moderne. Quindi possiamo dire che molte delle caratteristiche della nostra flora si stabilirono 400 milioni di anni addietro.

Queste prime piante terrestri erano felci, licopodi e code cavalline, piccole erbacee alte al massimo un metro, che nel giro di circa 100 milioni di anni avrebbero formato completi ecosistemi forestali con alberi alti fino a 35 metri e simili alle nostre foreste attuali anche se, a vederle ora, queste foreste primordiali ci apparirebbero forse aliene.

Questa profonda e rapida trasformazione non fu dovuta soltanto a modificazioni adattive delle piante rispondenti a fattori biotici, ma anche a grandissimi cambiamenti climatici e tettonici, che compresero lo spostamento del polo Sud, tre glaciazioni e una forte riduzione dell’anidride carbonica dell’atmosfera.

Le piante svilupparono meccanismi sempre più complessi, “inventarono” radici, cortecce, foglie, legno e una vascolatura più efficiente: fino alla comparsa, circa 380 milioni di anni fa, delle prime forme arboree; e già intorno al primo Carbonifero, 350 milioni di anni fa, esistevano foreste di equiseti, licopodi, felci e pro-gimnosperme.

Ma la vera rivoluzione era ancora da venire. Tra i 290 e i 249 milioni di anni fa (Permiano), in corrispondenza di un cambiamento climatico caratterizzato da un graduale e continuo riscaldamento ed inaridimento, ed in seguito alla formazione del supercontinente Pangea (ca. 300 milioni di anni fa), emergono e si diffondono le prime piante a seme (Spermatofite), che sono piante a seme nudo (Gimnosperme). Il nuovo gruppo di piante comprende le Cycadi, le Ginkgoaceae, le Bennetite e le Pteridofite. Il seme fu una rivoluzione radicale rispetto al metodo a spore adottato da tutte le piante fino a quel momento.

Le spore, per potersi incontrare e fondersi fino a formare un nuovo individuo, avevano bisogno di essere rilasciate in un ambiente fortemente acquoso, dove potessero sopravvivere senza disidratarsi e nuotare l’una verso l’altra per potersi incontrare.

Il seme sciolse questa dipendenza. Infatti le “spore” (polline e ovuli) non vengono più rilasciate nell’ambiente: l’ovulo rimane fisso ed il polline, disperso dal vento, lo raggiunge e lo feconda. Dopo la fecondazione, inizia subito a svilupparsi il nuovo individuo, ma lo sviluppo si ferma subito e la protopiantina (l’embrione) rimane racchiusa in un ambiente ricco di acqua e nutrienti e protetta da una capsula a tempo, solida e e pronta ad aprirsi solo quando incontra le condizioni ambientali adatte: il seme.

E’ chiaro che la pianta a seme è avvantaggiata: può colonizzare ambienti nuovi, aridi, o sopravvivere nelle mutate condizioni ambientali che hanno ridotto l’ambiente tropicale (fino ad allora quasi universale sulla terra) a ridotte fasce. Inoltre arriva sul terreno in vantaggio sulle spore: la piantina è già formata, attende solo le condizioni giuste, e parte quindi in posizione di vantaggio.

Non sorprende, quindi, che, dopo la comparsa delle Conifere nel periodo subito successivo (Triassico ca. 248-206 milioni di anni fa), entro la prima parte del Giurassico (206-180 milioni di anni fa) la vegetazione globale sia ormai dominata da piante a seme ed inizi, almeno in parte, ad assomigliare alla copertura forestale attuale.

La terza grande rivoluzione (dopo le piante vascolari e le piante a seme) è quella delle piante a fiore (o piante a seme nascosto – Angiosperme), che avviene 140 milioni di anni fa, molto tardi dal punto di vista evolutivo (300 milioni di anni dopo le Tracheofite e 220 milioni di anni dopo le Spermatofite), probabilmente a partire dalle Bennettitales e/o Gnetales. La comparsa tardiva è però seguita da una rapida diversificazione a partire da 100 milioni di anni fa, diversificazione che in tempi relativamente brevi (nel Terziario tardo, ca. 65 milioni di anni fa) porta ad una dominanza globale delle Angiosperme.

Il gruppo si diversifica rapidamente sia dal punto di vista dei meccanismi riproduttivi che della morfologia: compaiono prima le dicotiledoni erbaceo-arbustive e di seguito le monocotiledoni e le strutture floreali passano da semplici fiori a simmetria radiale con molte componenti a fiori sempre più asimmetrici, con fusione di parti, fino al raggruppamento di singoli fiori in infiorescenze (come nelle Asteraceae).

L’esplosione dei metaboliti secondari – difesa e riproduzione
L’avvento delle Angiosperme porta ad un’altra rivoluzione che ci interessa molto da vicino. L’esplosione di diversità portata da questo nuovo gruppo non è limitata alle forme o alle modalità di riproduzione. Essa si esplicita anche nella produzione di una panoplia di composti chimici di difesa o di comunicazione. Le piante, come organismi sessili, non possono sfruttare le strategie di attacco e difesa dinamiche proprie degli animali: fuggire o attaccare il nemico. Esse hanno da subito dovuto utilizzare delle difese di tipo statico, per dissuadere i predatori dal mangiarle.

Le prime piante emerse usarono difese di tipo meccanico, sfruttando i meccanismi già esistenti per la costruzione delle strutture di supporto e di trasporto; usarono quindi lignina e altre sostanze per rendersi coriacee e difficili da digerire, spine, ecc.

Ma ben presto il fenomeno della coevoluzione, ovvero la rincorsa di risposte e controrisposte palleggiate tra piante e predatori le costrinse ad adottare difese più sofisticate, ovvero a sintetizzare delle tossine che in virtù della loro azione (dalla repellenza alla velenosità) dovevano in teoria servire per allontanare l’erbivoro, per ucciderlo o per fargli ricordare che era meglio non mangiare quella pianta!

Le prime briofite e gimnosperme iniziarono sviluppando tannini condensati, glicosidi cianogenici, ormoni giovanili ed ecdisoni, ma sono appunto le Angiosperme che arrivano alla più grande diversificazione produttiva, anche in risposta all’escalation messa in atto dai predatori che si adattavano alle nuove molecole (Tabella 1).

Circa 60 milioni di anni fa, con le prime angiosperme legnose, vediamo la proliferazione di metaboliti derivati da un percorso metabolico nato per la produzione di metaboliti primari come gli aminoacidi, il percorso dell’acido shikimico: quindi i primi alcaloidi (classe regina dei metaboliti bioattivi, che tanto ha segnato la storia della farmacia) e gli oli essenziali caratterizzati da fenoli e derivati; i derivati del percorso dell’acetato o misti, come isoflavoni, saponine, glicosidi cardiaci; e isotiocianati, glicosidi cianogenici. Il passaggio alle erbacee portò ad uno spostamento dal percorso dell’acido shichimico a quello dell’acido mevalonico, più duttile e con maggiori potenzialità di diversificazione. Gli oli essenziali si arricchirono in composti terpenici, meno tossici per la pianta, nacquero i lattoni mono e sesquiterpenici, gli alcaloidi steroidei, i flavonoli.

Tabella 1

Taxa

Metaboliti secondari

Gimnosperme/ Briofite Tannini condensati e glicosidi cianogenici, ormoni giovanili ed ecdisoni
Angiosperme

legnose

Alcaloidi isochinolinici ed ellagitannini
Amminoacidi non proteici, isoflavoni, glicosidi cianogenici
Saponine e isotiocianati
Glicosidi cardiaci
Angiosperme erbaceae Lattoni monoterpenici e alcaloidi steroidei
Lattoni sesquiterpenici, flavonoli e alcaloidi pirrolizidinici

Seguendo l’asse evolutivo felci-gimnosperme-angiosperme legnose-angiosperme erbacee si notano, in accordo con la teoria coevolutiva, l’aumento e la diversificazione dei deterrenti, la crescente complessità delle strutture chimiche e, di converso l’adattamento a queste strutture dei predatori più importanti: gli insetti. In effetti è avvenuto che tutte le molecole di difesa conosciute (ad esclusione dei tannini condensati) siano state utilizzate a proprio vantaggio da almeno una specie di insetto.

Uno schema molto importante per descrivere questo tipo di adattamento degli insetti alle tossine è quello dei “tre livelli trofici”. I tre livelli trofici sono quello della pianta che produce la tossina, quello dell’insetto che si adatta e gestisce la tossina (usandola a proprio beneficio), e quello dei parassiti dell’insetto sui quali agisce la tossina (uccidendoli o inibendoli) (Tabella 2).

Tabella 2

Specie vegetale Metabolita e tossicità Specie animale
Asclepiadaceae Glucosidi cardiottivi        (calotropina, pirazina) Farfalla monarca (Danaus plexippus)
Senecio spp.(S.      jacobea e S.     vulgaris) A. pirrolizidinici        (retronecina) Arctia caja e Tyria jacobea
Aristolochia sp. Acido aristolochico Battus archidanus
Cucurbita sp. Cucurbitacina D Diabrotoca balteata
Lotus cornicolatus Gl. cianogenici (linamarina) Zygaena trifolii
Brassica oleracea Glucosinolarti (sinigrina) Pieris brassicae
Plantago lanceolata Iridoidi (aucubina) Euphydryas cynthia
Zamia floridina Cicasina Eumaeus atala
Salix sp. Salicina Chrysomela aenicollis
Cytisus scoparius Alc. chinolizidinici Aphis cytisorum
Omphalea Alc. poliidrossilici Urania fulgens

Secondo questa logica, le specie vegetali evolutivamente più avanzate dovrebbero essere più facilitate delle altre nella lotta contro i predatori. In effetti, nelle ombrellifere (Apiaceae) troviamo che, ordinando le molecole di difesa secondo l’asse temporale-evolutivo, esse si distribuiscono anche secondo l’asse di tossicità e di complessità strutturale: prima le idrossicumarine, poi le furocumarine lineari, e quindi le furocumarine angolari. E in effetti le specie contenenti quest’ultimo tipo di molecola si possono difendere da un numero più elevato di predatori.

Possiamo schematizzare l’andamento dei rapporto tra pianta e predatore in questo modo:

Tabella 3: schema coevolutivo pianta-predatore

Sequenza Pianta Animale
1 Sintesi ed accumulo

tossina 1

Evitato da tutte le specie
2 Sintesi continuata Adattamento di poche specie.
3 Sopravvivenza con

predazione limitata

Tossina 1 diventa attraente per le specie adattate
4 Sopravvivenza con

predazione limitata

Aumentano le specie adattate, aumenta la pressione degli erbivori sulle piante
5 Sintesi ed accumulo

tossina 2

Evitato da tutte le specie
6 Sintesi contemporanea

tossina 1 e 2

Adattamento di poche specie, evitata da molte specie

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Note
1. Willis KJ, McElwain The evolution of plants. Oxford, Oxford University Press, 2000

Il suino in casa – 3

Oops, quasi mi ero dimenticato dei post suini, ecco quindi l’ultimo il penultimo della serie, per parlare di altre strategie (sempre vegetali) di gestione delle infezioni virali, a parte gli olii essenziali di cui si è già parlato qui e qui.

Se, come è stato detto, la strategia direttamente virucida è interessante dal punto di vista teorico ma poco praticabile in pratica, almeno per adesso, quali altre strategie abbiamo a nostra disposizione?

Per capirlo bisogna dare un’occhiata ai fattori facilitanti le infezioni per capire se possiamo modificarli. Schematizzando grandemente individuerei i seguenti punti:

  • Fattori ambientali come clima freddo, correnti d’aria improvvise ed ambienti eccessivamente riscaldati e non adeguatamente umidificati, che, attraverso un’azione riflessa del SNA (raffreddamento mani e piedi ad esempio), riducono il flusso ematico alle mucose, causano ischemia e una riduzione nella concentrazione di anticorpi e un raffreddamento delle mucose.  Questi  fattori  portano ad una temporanea riduzione dell’immunità e ad una facilitazione nella riproduzione di virus e batteri.
  • Condizioni generali del sistema respiratorio. Possibile danneggiamento e guarigione incompleta dei tessuti a causa di molteplici infezioni ed infiammazioni respiratorie
  • Trattamento antibiotico cronico e/o eccessivo, con danneggiamento della flora batterica intestinale e del sistema linfatico intestinale
  • Vita sedentaria e mancanza d’esercizio, particolarmente nei bambini iperprotetti dal freddo.

L’intervento su questi fattori é di primaria importanza in ogni approccio naturale alle infezioni, e contribuisce a limitarne la ricorrenza.  I questi casi una prescrizione automatica di un immunomodulante come l’Echinacea non e più intelligente della prescrizione di antibiotici, solo meno dannosa.  E’ inutile utilizzare immunostimolanti se prima non si e lavorato sulle condizioni più generali di salute.

Una volta presisi cura di questo aspetto, vi sono naturalmente molte piante che possono essere di grande aiuto.

Trattamento fitoterapico

Nello specifico, nel combattere un’infezione virale cercheremo le seguenti attività:

  • Immunomodulazione
  • Attività antivirale in senso lato
  • Azione troporestorativa sui tessuti interessati all’infezione
  • Miglioramento del metabolismo epatico e generale per sostenere l’organismo
  • Applicazioni topiche virucide, antinfiammatorie, analgesiche e antipruriginose.

Piante immunomodulanti

Piante che sono genericamente stimolanti per la risposta immunitaria, o usate tradizionalmente per la profilassi delle infezioni croniche.

  • Andrographis paniculata
  • Picrorrhiza kurroa
  • Echinacea spp
  • Allium sativum
  • Astragalus membranaceus
  • Eleutherococcus senticosus
  • Grifola frondosa
  • Ganoderma lucidum
  • Lentinus edodes
  • Andrographis paniculata

Piante che lavorano al livello dei recettori Toll-like (TLR)
E’ nozione generale che il sistema immunitario naturale non possa operare in maniera discriminativa ma affronti le infezioni in maniera generica o non specifica, attraverso la fagocitosi, l’espressione di citochine e la chemiotassi, e che per una risposta sistemica fosse necessario il coinvolgimento del dei leucociti B e T.  Ma le ricerche degli ultimi anni hanno mostrato che anche questo comparto possiede alcune proprietà discriminative.

La scoperta dei recettori Toll-Like (TLR) nelle membrane e nelle membrane cellulare di macrofagi e cellule dendritiche ha mostrato che essi possono mediare risposte sistemiche, riconoscendo caratteristiche specifiche di batteri, virus e funghi. Essi sembrano emergere come degli snodi importanti per l’attività immunomodulante e proinfiammatoria; dieci membri di questa classe di recettori sono stati riscontrati negli esseri umani.

Nei mammiferi questi recettori svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento di composti virali, micotici e batterici (Takeda et al. 2003; Seya et al 2006), che funziona come percorso per l’attivazione di risposte sistemiche, che prima si pensavano essere limitate al sistema immunitario specifico. E’ un sitema estremamente antico e conservato in molte linee evolutive, che una volta attivato, facilita il rilascio e la traslocazione nucleare del fattore nucleare NF-kB, che a sua volta causa una secrezione di citochine proinfiammatorie ed immunomodulanti (Oshiumi et al. 2003; Cooper 2006).

Sembra che alcune componenti delle piante medicinali (polisaccaridi) possano scatenare l’espressione di alcuni TLR ed iniziare una risposta di immunosorveglianza (Cooper 2006). Le piante a polisaccaridi che hanno mostrato attività sui TLR sono:  Astragalus membranaceus (Shao et al; 2004b), Ganoderma lucidum (Shao et al, 2004a), Panax ginseng (Nakaya; Pugh)  Panax quinquefolius (Pugh), Echinacea angustifolia e purpurea (Pugh), Eleutherococcus senticosus (Han), Platycodon grandiflorum (Yoon) e forse Spirulina (Balachandran et al. 2006).  Dato che i polisaccaridi sono insolubili in alcol, è necessario assumere queste piante in forma di polvere, infuso o decotto.

Piante che modificano l’equilibrio Th-1/Th-2
Molto si è sentito parlare negli ultimi anni dell’equilibrio tra linfociti T helper tipo 1 e tipo 2 nella genesi di problematiche autoimmuni, allergiche o in problemi di ridotta efficienza antivirale del sistema immunitario.
I linfociti Th (CD4+) sono responsabili dell’attivazione e facilitazione della risposta immunitaria cellulare ed umorale. In particolare sembra che il Th1 tenda a favorire la Immunità cellulo mediata, proinfiammatoria, mediante l’espressione di IL-2 e INF-gamma, mentre il Th2  stimola la Immunità umorale (linfociti B) tramite l’espressione di IL-4 e IL-5.

Uno sbilanciamento verso uno o l’altro polo d’attivazione potrebbe essere alla base di vari disturbi.  Ad esempio uno sbilanciamento a favore del comparto Th2, il sistema immunitario, in risposta ad una infezione virale, produce molti anticorpi ed è estremamente reattivo, ma al contempo produce poche risposte cellulomediate e quindi non riesce a gestire i virus verso cui si è allertato.

Questo può portare ad episodi d’allergia o reazione immunitaria esagerata, ed anche alla non completa risoluzione dell’infezione virale.
Sempre in via teorica, quindi, piante che fossero in grado di riportare l’equilibrio verso Th-1 potrebbero essere utili in caso di problemi virali.  Alcune di queste piante sono:

  • Allium sativum
  • Astragalus membranaceus
  • Ganoderma lucidum
  • Grifola frondosa
  • Panax ginseng

NB: Le Echinacea spp. potrebbero essere controindicate in caso di dominanza Th2, perchè aumentando rapidamente il numero di linfociti T circolanti potrebbe aggravare un preesistente disequilibrio verso Th2 (ma questa è una considerazione solo teorica).

Materia Medica Immunomodulante

1. Panax quinquefolium (Araliaceae)

Studi clinici: in alcuni studi clinici controllati il Panax quinquefolium ha ridotto l’incidenza, durata e severità di raffreddore e influenza in soggetti sani e malati. Uno studio di 4 mesi su 323 soggetti (età 18-65) ha testato 400 mg (in due dosi) di estratto di P. quinquefolium standardizzato all’80% di poli-furanosil-piranosil-saccaridi contro il placebo. Nel gruppo verum il numero di episodi di raffreddore riportati è calato del 9.2%, il rischio di contrarre un raffreddore si è ridotto del 12.8%, rispetto al gruppo placebo; inoltre la severità dei sintomi e la loro durata sono calati rispettivamente del 31% e del 34.5% rispetto al gruppo placebo (Predy et al. 2005).

In un secondo studio sono stati testati 43 anziani, con la stessa posologia (ma con estratto standardizzato differente), e per la stesso lasso di tempo. Dopo un mese tutti i soggetti hanno ricevuto il vaccino antinfluenzale. Per i primi due  mesi non sono state notate divergenze tra i due gruppi, mentre negli ultimi due mesi solo il 32% dei soggetti del gruppo verum (rispetto al 62% del gruppo placebo) ha riportato una infezione del tratto respiratorio, ed anche la durata dei sintomi è risultata più bassa (5.6 giorni contro 12.6 nel gruppo placebo) (McElhaney et al. 2006).

2. Andrographis paniculata (Burm. f.) Nees. (Acanthaceae)

Un tonico amaro con interessanti attività immunostimolanti, antipiretiche e antiinfiammatorie, con attività confermata su infezioni batteriche e virali respiratorie, enteriche e urinarie. Classificata come pianta fredda, quindi preferibile utilizzarla in caso di soggetti di costituzione calda o nelle fasi infiammatorie delle infezioni. Sconsigliata in condizioni ‘fredde’, come nel caso di una costituzione fredda oppure nel caso di ‘freddo’ di origine esterna come è spesso il caso nei primi stadi infettivi.

Farmacologia: stimola risposta immunitaria antigene specifica e non antigene specifica in modelli sperimentali, stimola la fagocitosi in vitro e in modelli animali (endovena) (Farnsworth, Bunyapraphatsara 1992; Kapoor, 1990).

Studi clinici
Immunostimolante in studi non controllati di infezioni respiratorie batteriche e virali.  In uno studio controllato in doppio cieco e randomizzato, un estratto somministrato a bambini sani per tre mesi nella stagione invernale ha diminuito in maniera significativa  l’incidenza e la severità dei sintomi del raffreddore (Bone e Mills 2000).

Una combinazione con Eleutherococcus senticosus (Andrographis (88.8 mg) + Eleutherococcus (10.0 mg) tre volte al giorno per 3-5 giorni) è risultata efficace in uno studio cinico contro antivirali classici, su 540 soggetti con influenza. Il 30.1% dei soggetti nel gruppo verum hanno sviluppato complicanze rispetto al 67.8% del gruppo placebo, e la durata dei sintomi è stata minore nel gruppo verum (Kulichenko et al. 2003).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1,5-3 gr. di pianta secca, in grado di apportare 20-40 mg di andrografolide. Ovvero 15-30 ml di TM, o 400-600 mg ES (5:1) standardizzato al 6-10% di andrografolide.

3. Echinacea angustifolia DC; E. purpurea (L.) Moench (Asteraceae)


Farmacologia: (Barret et al 1999; Bone & Mills 2000; Bergner 1997; Wagner 1997
L’estratto di E. angustifolia ha mostrato, in vitro: aumento fagocitosi degli eritrociti e dei granulociti; aumento della funzione immunitaria cellulare delle cellule mononucleate in soggetti normali e immunocompromessi.

Ciò che rende interessante la pianta è che sembrerebbe poter stimolare l’attività delle cellule NK e dei monociti, le cellule che costituiscono la prima linea di difesa dell’organismo. Questa potenzialità risulterebbe da una doppia azione: la pianta e le alchilamidi inibiscono COX e 5-LOX, riducendo i fenomeni infiammatori, ed in particolare riducendo (agendo su 5-LOX) i livelli della PGE2, una prostaglandina che sopprime l’attività delle cellule NK. Inoltre la pianta, i polisaccaridi (arabinogalattano) e le alchilamidi, stimolano in maniera non specifica i fagociti/monociti, con aumento della secrezione di beta interferone, TNF alfa e IL 1, tutte sostanze che stimolano le cellule NK, e l’attività antivirale.

Le ricerche recenti sul ruolo delle alchilamidi nell’attività immunomodulanti della pianta hanno rivelato una interessante interazione di alcune di esse con i recettori cannabinoidi. In particolare sembra che tramite l’interazione con il recettore CB2 le alchilammidi modulino l’espressione di TNF-alfa in monociti e macrofagi, e di IL-6. Ci sarebbe inoltre un effetto sulla espressione di IL-8 non mediato da CB2. Questa catena di azioni porterebbe ad un effetto analgesico, antitumorale ed antinfiammatorio.

Uno studio molto recente ed estremamente interessante è la review della Miller (2005) sugli studi del suo team su modelli murinici. Pur basato su ricerca su modelli animali, l’articolo è estremamente significativo: l’Echinacea è stata somministrata a dosaggi paragonabili a quelli umani (dosi pari a 1.3 gr di radice essiccata per un soggetto di 70 Kg) e per via orale. I risultati indicano che Echinacea sembra in grado di: stimolare la proliferazione delle cellule NK e dei monociti nel midollo di topi giovani e sani; stimolare la stessa proliferazione in caso di topi vecchi e sani, e soprattutto di riportare queste cellule  alla loro originaria funzionalità (persa nei topi a causa dell’età), attività questa non riscontrata in altri composti stimolanti le NK (indometacina e IL-2).

In nessun caso echinacea ha stimolato la proliferazione di altri comparti immunitari. Lo stesso studio mostra come questi effetti siano legati all’utilizzo della pianta in toto, piuttosto che a singole molecole isolate. Ancora più interessante il fatto che l’assunzione cronica della pianta non solo non ha mostrato di essere di detrimento, ma anzi ha mostrato un continuo effetto di profilassi. La stessa dose di echinacea orale, usata su topi leucemici ha mostrato un raddoppio del numero di cellule NK ed un aumento statisticamente significativo della sopravvivenza.

Una scoperta ancora più recente getta una luce del tutto nuova sull’echinacea ma anche su molte altre piante. Quattro studi molto recenti (Pugh et al. 2005; El-Obeid et al. 2006a; El-Obeid et al. 2006b; Sava, et al. 2001) si sono concentrati sulla melanina di origine vegetale, isolandola da Nigella sativa, Camellia sinensis, Echinacea spp., Medicago sativa ed altre piante. Secondo gli autori, la melanina sarebbe un composto particolarmente importante per l’attività immunomodulante ed antiossidante.

Questa, se confermata, sarebbe una scoperta sorprendente, dato che fino ad oggi la melanina non è mai stata considerata importante dal punto di vista farmacologica, è poco e male caratterizzata, non è un metabolita secondario, si sa poco su quali siano le migliori modalità di estrazione, e la possibilità che si creino degli artefatti sperimentali è elevata (Sava, et al. 2001).

Secondo (Pugh et al. 2005) la melanina da Echinacea e da Medicago sativa sarebbe differente dalle altre melanine vegetali, sarebbe più efficace come immunomodulante (con aumento di gamma-interferone dalla milza e di IgA ed IL-6 dalle placche di Peyer, e agirebbe tramite l’attivazione di NF-kB nei monociti attraverso un recettore Toll-like (TLR 2) (Pugh et al. 2005) o forse altri recettori. Anche gli altri studi hanno riscontrati ììo una azione a livello dei recettori Toll-Like, secondo (El-Obeid, et al. 2006a) il recettore influenzato dalla melanina da Nigella sativa sarebbe TLR4, ed essa indurrebbe l’espressione di TNF-alfa, IL-6 e VEGF dai monociti (El-Obeid, et al. 2006b).

Quale che sia la reale portata di questi studi, se la melanina vegetale è veramente importante per la immunomodulazione, è certo che essa non è presente nella maggior parte dei supplementi da estrazione, e che solo la polvere della pianta potrebbe essere usata a scopo terapeutico (la melanina sembra insolubile sotto un pH di 10).

Da questi due studi si possono estrapolare due interessanti indicazioni cliniche: la prima è che la supplementazione a lungo termine di echinacea è probabilmente di beneficio, non sopprime il sistema immunitario e migliora la funzionalità delle cellule del sistema immunitario non specifico, migliorando lo screening antitumorale. La seconda è che la pianta intera sia più efficace degli estratti o delle molecole isolate. I dosaggi di echinacea radice secca vanno da 1.5 a 3 gr per giorno, anche se il dosaggio utilizzato in Miller 2005 era vicino al termine inferiore.

Studi clinici
Una metanalisi ha valutato nove studi di trattamento e quattro studi di prevenzione, tutti controllati e randomizzati, in doppio cieco, delle malattie infettive dell’alto tratto respiratorio, e tutti, a parte uno degli studi di trattamento, hanno mostrato evidenza positiva e significativa, con  riduzione della durata della sindrome influenzale e della severità dei sintomi in pazienti già ammalati, e  riduzione della frequenza di ricorrenze di infezioni, specialmente in pazienti con particolare tendenza.

Dopo questa metanalisi, e fino al 2001, sono stati pubblicati altri 6 studi, 4 dei quali randomizzati controllati in doppio cieco. Tre dei quattro studi controllati hanno dato esito positivo, e l’unico a non avere mostrato differenze significative con il placebo ha usato estratti di bassa qualità.

Studio clinico randomizzato in doppio cieco su 48 donne per 4 settimane, con Echinacea e arabinogalattani da Larice (Kim et al. 2002); i livelli di properidina (una componente del sistema alternativo del complemento, un marker dell’arttivazione immunitaria) sono aumentati del 21% (Echinacea angustifolia ed E. purpurea) e del 18% (E. angustifolia, E. purpurea e arabinogalattani) rispetto al placebo.

Studio clinico randomizzato in doppio cieco su 282 adulti che hanno assunto  un estratto di Echinacea spp. (standardizzazione e posologia: 2.5 mg alcamidi, 25 mg acido cicorico e  250 mg polisaccaridi il primo giorno; 1 mg alcamidi, 10 mg ac. cicorico, 100 mg polisaccaridi al giorno per i seguenti 7 giorni). La severità dei sintomi è calata del 23.1% rispetto al placebo (Goel et al. 2004).

In uno studio clinico correlato al precedente su 150 pazienti con la stessa formulazione (posologia:  2 mg alcamidi, 20 mg ac. cicorico, 200 mg polisaccaridi il primo giorno; 0.75 mg alcamidi, 7.5 mg ac. cicorico e 75 mg polisaccaridi al giorno per i seguenti 7 giorni). Il gruppo verum ha mostrato una riduzione dei sintomi ed un aumento nel numero di leucociti totali, di monociti, neutrofili, e cellule NK (Goel et al 2005).

In uno studio clinico seguente, 80 soggetti hanno assunto un estratto di E. purpurea dall’inizio del raffreddore fino alla scomparsa dei sintomi. La mediana della durata del raffreddore è risultato di 6 giorni rispetto ai 9 giorni nel gruppo placebo (Schulten et al. 2001).

Altri studi hanno riportato l’assenza di miglioramenti statisticamente significativi in caso di raffreddore (Grimm, Muller 1999; Turner et al. 2005; Schwarz et al. 2005; Yale, Liu 2004).

In uno studio clinico randomizzato in doppio cieco, sono state somministrate a 148 studenti capsule da 1 gr contenenti polvere di E. purpurea herba (25%) e radix (25%) e E. angustifolia radix (50%) o placebo, sei volte al giorno il primo giorno di raffreddore e tre volte al giorno per un massimo di 10 giorni.  Nessuna differenza significativa tra gruppo verum e placebo (Barret et al. 2002).

In uno studio clinico seguente 128 adulti hanno ingerito 100 mg di E. purpurea o placebo tre volte al giorno fino alla scomparsa dei sintomi del raffreddore (max 14 giorni); nessuna differenza statistica osservata (Yale, Liu 2004).

L’echinacea stimola la fagocitosi, l’attività delle cellule NK, il numero di linfociti T, il complemento e l’espressione di qualche mediatore. La sua azione normalizzante sull’immunità cellulo-mediata è meno sicura.  Ha una chiara attività immunostimolante se assunto ai primi sintomi e per tutta la durata dell’infezione. Nonostante l’utilizzo come terapia di profilassi sia meno supportato dai dati clinici, è utilizzabile nella profilassi a breve termine (2-4 settimane).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1,5-3 gr. di pianta secca, in grado di apportare 10-15 mg di alchilammidi.  Ovvero 15-30 ml di TM, o 500 -1000 mg di ES (4:1) standardizzato rispetto alle alchilammidi. La standardizzazione ad echinacosidi è utile solo ai sensi della prevenzione delle adulterazioni, ma non ha alcun significato in termini di efficacia.  Per assicurare la non adulterazione dell’E. angustifolia bisognerebbe richiedere la garanzia di assenza di acido cicorico.

4. Astragalus membranaceus (Fisch. Ex Link) Bge. (Fabaceae)


Farmacologia: la pianta contiene polisaccaridi, flavonoidi, minerali ed amminoacidi. L’Astragalo in vitro aumenta la citotossicità delle natural killer cells e riduce la soppressione dei macrofagi, stimola l’attività fagocitica, la produzione di anticorpi ed  interleuchina 2.

Somministrato per via orale ad animali aumenta il numero e la funzionalità dei macrofagi e la loro attività fagocitaria, protegge contro le infezioni da virus (parainfluenza virus tipo I, Newcastle virus, coxsackie B2 e B3 virus, Hep B), aumentando la sopravvivenza del 30-40%, molto probabilmente non per una azione diretta ma per l’azione immunostimolante e di stimolazione di produzione di interferone (Brush et al. 2006). Aumenta la risposta dell’interferone alle infezioni virali (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987).

Studi clinici
Un decotto di Astragalo aumenta la concentrazione di IgM, IgE e cAMP e l’induzione di interferone (INF) da parte dei leucociti periferici. In soggetti predisposti al raffreddore aumenta la concentrazione di IgA e IgG dopo 60 giorni (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987)

In uno studio aperto su soggetti proni al raffreddore il trattamento è risultato profilattico per il raffreddore, con grande riduzione delle recidive. In uno studio clinico aperto randomizzato su pazienti con leucopenia si è dimostrato un aumento del numero dei leucociti (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987)

In un piccolo studio clinico controllato con placebo in doppio cieco sono stati comparati Echinacea purpurea, Astragalus membranaceus, Glycyrrhiza glabra, una combinazione delle tre piante e il placebo. L’Astragalus ha causato l’attivazione e la proliferazione più potente, in particolare dei CD8 e CD4 (Brush et al 2006)

L’Astragalo trova la sua applicazione ideale nella profilassi delle infezioni, nei primi giorni di infezione, nelle infezioni virali croniche con debilitazione e sudorazione spontanea, ma deve essere abbandonato durante gli episodi di infezione acuta.

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 2-4,5 gr di pianta secca. Ovvero 20-40 ml di TM, o 400-900 mg ES (5:1).

5. Eleutherococcus senticosus (Rupr. & Maxim.) Maxim. (Araliaceae)


Farmacologia: l’estratto ha aumentato del 30-45% la fagocitosi in vitro di Candida albicans da parte di granulociti e monociti di donatori sani. Il pre-trattamento con estratto di eleuterococco aumenta la resistenza di modelli animali alle infezioni batteriche e virali.
In uno studio in doppio cieco randomizzato l’eleuterococco ha stimolato la produzione di linfociti T helper e l’attività dei linfociti T, l’attività citostatica delle cellule NK ma non ha avuto effetti su granulociti e monociti (Boh et al 1987).

Uno studio in doppio cieco con 36 soggetti umani ha mostrato che l’estratto della pianta migliora la reattività immunitaria non specifica (Bone e Mills 2000; Bone, 1998). Vedi anche lo studio combinato con Andrographis paniculata (sopra).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1-4 gr di pianta secca. Ovvero 10-40 ml di TM, o 500-1000 mg ES (4:1) o 100-200 mg di ES (20:1), in grado di apportare 2-4 mg di eleuteroside E.

6. Baptisia tinctoria (L.) R. Br. (Fabaceae)


Farmacologia: la frazione polisaccaridica e l’estratto etanolico aumentano la produzione di anticorpi in vitro e stimolano la fagocitosi. L’estratto etanolico alza il conteggio leucocitario e migliora le reazioni di difesa endogene. Le glicoproteine hanno dimostrato di essere immunologicamente attive (Barret et al 1999; Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Henneicke-von Zepelin et al 1999).

Non esiste alcuno studio clinico effettuato su Baptisia da sola, ma esistono  studi clinici randomizzati, controllati, in doppio cieco, su tre combinazioni contenenti Baptisia. Due di questi studi sono di tipo omeopatico. L’unico ad utilizzare dosi ponderali, anche se molto ridotte, combinava Baptsia tinctoria, Echinacea spp. radice e Thuja spp. con posologia di 170 mg/die su 238 soggetti con raffreddore, con riduzione dell’intensità e della durata della sintomatologia (Henneicke-von Zepelin et al. 1999)

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1-3 gr gr di pianta secca. Ovvero 10-30 ml di TM.

7. Uncaria tomentosa (Willd. ex Schult.) (Rubiaceae)


Farmacologia
L’azione immunostimolante dell’Uncaria tomentosa è stata fino ad oggi dimostrata solo in test in vitro e su modelli animali. Stimola la secrezione di interleukina-1 e interleukina-6 in vitro, e la fagocitosi in vitro ed in modelli sperimentali.  Gli alcaloidi ossindolici pentaciclici inducono le cellule endoteliali a secernere un fattore di proliferazione dei linfociti (Bone e Mills 2000; Obregon Vilches 1995)

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 2-5 gr di pianta secca. Ovvero 20-40 ml di TM, o 450-1100 mg di ES (5:1),
Sono stati identificati due chemiotipi, quello da utilizzare è il chemiotipo ad alcaloidi ossindolici pentaciclici (POA), in particolare speciofillina, mitrafillina, pteropodina, isomitrafillina e isopteropodina; l’altro contiene, oltre ai POA, degli alcaloidi ossindolici tetraciclici (TOA) come rinchofillina e isorincofillina.  Quest’ultimo chemiotipo non deve essere usato.

8. Funghi

Il fungo Agaricus blazei Murr possiede spiccate proprietà immunostimolanti e antitumorali, comparabili a quelle dei più conosciuti Lentinus edodes, Grifola frondosa e Ganoderma spp.  Le frazioni indicate come responsabili dell’attività del fungo comprendevano vari glucani, complessi polissacaride-proteina (ATOM), complessi RNA-proteine, e glucomannano (Mizuno 2002; Mizuno et al. 1990; Wasser, Weis 1999; Ito et al. 1997; Fujimiya et al. 1998; Fujimiya et al. 2000; Cho et al. 1999), che vanno ad aggiungersi al lentinano, polisaccaride responsabile dell’attività immunostimolante del Lentinus edodes (Aoki 1984; Kanai, Kondo 1981).

In uno studio recente (Takeda e Okumura 2004) l’assunzione di estratti di Agaricus blazei e Lentinus edodes ha aumentato l’attività delle cellule NK, anche se è stato notato che la sensibilità all’estratto di Agaricus blazei era molto varia tra i soggetti, ed era correlata alla sensibilità all’estratto di Lentinus edodes.  Gli autori ipotizzando una sensibilità selettiva di alcuni individui ai composti presenti negli estratti.

Possibili meccanismi di attivazione delle cellule NK.

  1. Attivazione dei recettori Toll-like (TLR). Dieci membri di questa classe di recettori sono stati riscontrati negli esseri umani. Nei mammiferi questi recettori svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento di composti micotici e batterici (Takeda, Kaisho, Akira 2003). I TLR attivano percorsi di segnalazione come NK-κB, che risultano nella secrezione di varie citochine proinfiammatorie (Oshiumi et al. 2003). Sembra che il recettore TLR-2/6 riconosca alcune componenti dello zimosano ma non  dei β-glucani (Underhill et al. 1999; Gantner et al. 2003).
  2. Attivazione dei recettori per le lectine. Alcuni tipi di lectine possono funzionare come immunomodulanti (Hofer et al. 2001), ed è possible che l’interazione tra lectine presenti nei funghi e recettori lectinici di tipo C possa giocare un ruolo nella immunomodulazione.
  3. Attivazione dei recettori per β-glucano.  I β-glucani hanno mostrato interessanti proprietà in vivo di stimolazione delle risposte antinfettive ed antitumorali dei soggetti (Tzianabos 2000).  Sono un gruppo eterogeneo di polimeri del glucosio, costruiti da uno scheletro di unità β-D-glucopiranosil a legame β(1→3), con catene laterali  a legame β(1→6); sono una parte fondamentale della struttura delle pareti cellulari di funghi, macrofunghi, piante ed alcuni batteri, e vengono riconosciute dal sistema immunitario innato dei vertebrati (non sono presenti nei tessuti animali), esclusivamente attraverso vari recettori cellulari superficiali (Battle et al. 1998).  L’attività di questi recettori è stata individuata su leucociti di vario tipo (macrofagi, neutrofili, eosinofili e cellule NK) e cellule non immunitarie (endoteliali, epiteliali alveolari, fibroblasti).  Dei recettori individuati (Zimmerman et al. 1998; Rice et al. 2002; Brown, Gordon 2001; Taylor et al. 2002) solo uno, dectin-1 ha mostrato chiaramente di essere in grado di mediare le risposte biologiche al β-glucano  (Brown, Gordon 2003).

Uomo e piante 1/dimoltialtri

Uomo e piante

Devo soccombere alla realtà dei fatti, la sintesi non è nelle mie carte, e i post brevi ed illuminanti nemmeno :-).

Cerco di allora di illudermi con la sistematicità, ma  tendo a soccombere alla tendenza al dettaglio. Ecco quindi che mi ci è voluto un po’ per capire che dovevo pur iniziare a buttare fuori questi post dedicati al rapporto tra uomo e piante, anche se non tutti i link sono a posto ecc.

Spero nella benevolenza di chi leggerà, ed anche nelle loro indicazioni e suggerimenti per il miglioramento di quella che nelle intenzioni sarebbe una lunga serie di post.

Questo è anche un modo per trovare il tempo per rivedere le monografie di Infoerbe a poco a poco, con la scusa di linkarle qui.

Un dato incontrovertibile, ma velato dal tempo trascorso e dalla consuetudine, che serve ad inquadrare la discussione che seguirà, è l’esistenza di una relazione speciale che lega le piante all’uomo dagli albori della cultura umana e da prima ancora. Pochi sono gli aspetti della vita dell’uomo nei quali le piante non abbiano giocato in qualche epoca un ruolo importante, addirittura determinante. Allo stesso tempo le piante, in una sorta di viaggio coevolutivo, sono cambiate con l’uomo, sino a diventare in parte dei costrutti culturali.

Le piante forniscono materiale per costruire edifici, templi, vascelli; resine per impermeabilizzare i vascelli, da bruciare nei templi per onorare gli dei, da mescolare al cibo. Dalle piante si modellano strumenti, oggetti sacri ed artistici, fibre per costruire corde, tessuti da indossare e pigmenti per colorarli e per dipingere la storia dell’uomo. Le piante hanno fornito i primi inebrianti usati nei riti magico-religiosi ed i primi veleni usati nella caccia o nelle ordalie, ed entrano nei miti come “oggetti spirituali”, portatori di relazioni simboliche dell’uomo con il mondo naturale e supernaturale. Alcune piante hanno determinato il corso della storia economica e culturale fino a tempi molto recenti, come nel caso delle spezie e delle vie commerciali che furono aperte per assicurarsi il loro monopolio. (1)

Le piante, per finire, (come verrà ampiamente esposto più avanti) sono state per la maggior parte della storia umana la principale fonte di nutrimento, e la fonte più importante di farmaci in tutte le tradizioni mediche antiche ed in certa misura anche nella medicina moderna.

Per citare alcuni esempi a questo riguardo, nella più antica farmacopea occidentale che ci sia arrivata nella sua interezza, il Περὶ ὕληϛ ἰατρικῆϛ (De Materia Medica) di Pedanio Dioscoride (scritto ca. 50-68 d. C.), l’autore elenca circa 725 rimedi, dei quali più di 600 sono di origine vegetale (82-83%), 35 di origine animale (4.7-4.8%) e 90 sono minerali (12.2-12.4%);(2) nella Naturalis Historia (Storia Naturale) di Plinio il Vecchio, compilato nello stesso periodo o poco dopo, su 1693 sostanze medicamentose menzionate, 1391 (82%) sono sostanze di origine vegetale (delle quali 119 spezie o piante aromatiche), 218 (13%) sono sostanze animali e 84 (5%) sono dei minerali.(3)

Nella farmacopea cinese antica le percentuali sono simili: nello Shennong bencao jing (ca. 100 d. C.) su 365 droghe 246 (68%) sono di origine vegetale (i minerali costituiscono lo 11.5% e gli animali il 18.3%); nella raccolta del 659 d.C., il Hsin hsiu pent’sao, la percentuale di rimedi vegetali è del 64% e nel Takuan pent’sao (del 1108 d.C.) del 67.7%.

Nel Caraka Samhita, uno dei due testi più antichi della tradizione medica ayurvedica, si citano 582 rimedi, dei quali 341 (ca. 60%) di origine vegetale.(4)

Per quanto riguarda la farmacopea moderna, secondo Guerci e Lugli: “in un laboratorio farmaceutico medio oltre il 60% dei farmaci provengono, direttamente o indirettamente, dalle piante” e “un quarto delle prescrizioni rilasciate negli stati uniti d’America contiene principi attivi estratti da piante” (per una descrizione più dettagliata ed esaustiva del rapporto tra farmaci prodotti e farmaci legati in maniera più o meno diretta al mondo vegetale vedi il post di Meristemi).(5)

Alcuni di questi farmaci sono tra i più conosciuti ed utilizzati: morfina dal papavero da oppio [Papaver somniferum L. — Papaveraceae], chinino da Cinchona spp. [Rubiaceae], aspirina dalla corteccia di salice [Salix spp. — Salicaceae] e dalla regina dei prati [Filipendula ulmaria (L.) Maxim. — Rosaceae], digossina dalla digitale [Digitalis purpurea L. — Scrophulariaceae], taxolo dal tasso [Taxus brevifolia Nutt. — Taxaceae], vinblastina da Vinca [Catharanthus roseus (L.) G.Don f. — Apocinaceae].

Cibo, farmaco, uomo
Nelle società industrializzate la percezione comune individua i farmaci sia dalla loro forma (pillole o compresse, composti chimici assunti a dosi molto ridotte, nell’ordine dei micro/milligrammi), sia dalla loro funzione (hanno attività farmacologica spiccata, riducono o eliminano sintomi, curano malattie), mentre i cibi sono sostanze consumate solitamente in quantità molto maggiori e che normalmente non esercitano attività farmacologica ai dosaggi tipici dei farmaci, e neppure a quelli alimentari.

In pratica, però, nonostante l’apparenza, la distinzione tra ciò che è farmaco e ciò che è alimento non è così netta, anzi offre molti spazi di sovrapposizione, e le definizioni sono spesso normative e culturali oltre che oggettive. Le piante in particolare possono offrirci vari esempi

Le piante possono infatti essere usate sia come medicina sia come cibo, ed è difficile tracciare una separazione netta tra queste due aree: il cibo può essere medicina e viceversa. Le risorse vegetali nelle società tradizionali, in particolare le verdure selvatiche, sono spesso utilizzate contemporaneamente in diversi contesti come cibo e come medicina. La raccolta o la coltivazione, la preparazione ed il consumo di tali specie sono radicate nelle percezioni emiche (NdT: riferite al punto di vista, alle credenze, ai valori dell’attore sociale ottica) degli ambienti naturali associati alle risorse disponibili, alla cucina e alla pratica medica locale, all’apprezzamento del gusto e tradizioni culturali.(6)

Un esempio classico di questa ambiguità sono le spezie, che costituiscono un gruppo di piante anche oggi utilizzato a scopo alimentare, sempre in quantità molto ridotte; esse sono state tra le prime piante non strettamente alimentari ad essere coltivate (come ad esempio zenzero [Zingiber officinale Willd. Roscoe — Zingiberaceae] e canna da zucchero [Saccharum officinarum L. — Poaceae ], tra le prime cultivar conosciute) e tra le prime ad essere riconosciute dall’uomo come medicinali (dato suffragato dalle moderne ricerche farmacologiche – antisettica, digestiva, antispasmodica ed altre estremamente interessanti).

Tra le spezie meritano una menzione particolare due piante, l’aglio [Allium sativum L. — Alliaceae] e la curcuma [Curcuma longa L.– Zigiberaceae], perché sono due piante che nei loro rispettivi contesti geografici sono piante alimentari comunissime ed allo stesso tempo con una decisa attività di prevenzione e di trattamento delle malattie.(7)

Il caffè [Coffea arabica L.– Rubiaceae]ed il tè [Camellia sinensis (L.) Kuntze — Theaceae] sono due altri esempi tipici di piante con riconosciuta e potente attività farmacologica a dosi relativamente ridotte e che, nonostante ciò, sono, per ragioni di consuetudine e storiche, considerate degli alimenti. Questa difficoltà a distinguere tra i due campi è resa ancora maggiore (o forse è resa più esplicita (8)) dallo sviluppo della zona chiaroscurale che comprende i supplementi alimentari a scopo salutistico, i nutraceutici, gli alimenti funzionali, i cibi tossici o medicinali. (9)

Se passiamo dalle società industrializzate a realtà tribali o di comunità più ridotte e agricolo-pastorali, questa sovrapposizione tra cibo e farmaco non solo è presente, ma è comunemente accettata. Alcuni dei casi più studiati (in particolare da Timothy Johns e collaboratori) sono quelli dei Maasai, dei Batemi e di altre tribù dell’Africa Orientale, che mescolano radici e cortecce ad azione terapeutica alle zuppe a base di carne, ed dei Luo ed altre tribù di Kenya e Tanzania che usano nei pasti, in specifiche celebrazioni annuali, vegetali a foglia larga con attività farmacologia spiccata, molto amare e/o piccanti.

Questo comportamento è stato proposto come spiegazione del cosiddetto paradosso Maasai. Questo gruppo ottiene il 66% delle calorie da lipidi (pasti composti principalmente da latte e sangue), senza mostrare però la costellazione di disordini cardiovascolari che nei paesi europei e nordamericani è associata a diete ad alto tenore di grassi; nelle circa 25 piante usate nelle zuppe è stata riscontrata una elevata percentuale di  saponine, molecole in grado di legarsi al colesterolo ed ai grassi saturi alimentari e quindi potenzialmente in grado di ridurre il rischio (anche se è probabile che la differenza sia dovuta anche a fondamentali differenze di stili di vita tra società industrializzate e società pastorali). Le stesse piante usate come additivi alimentari mostrano attività antivirale contro il morbillo.(10)

In alcuni casi le piante sono un “cibo” ed una “medicina” con forte valenza simbolica: valga per tutti l’esempio del peyote [Lophophora williamsii (Salm-Dyck) J. Coulter — Cactaceae], dio, sacramento, cibo sacro, medicina.(11)

La differenza tra alimento e farmaco può risiedere non nella “natura” del materiale, ma nella modalità di scelta o nell’orizzonte culturale nel quale la scelta viene effettuata. Comunità che condividono caratteristiche simili dal punto di vista socio-economico e geografico, ma culturalmente e/o etnicamente distinte, possono utilizzare la biodiversità vegetale in maniera diversa, usando categorie diverse per determinare  l’interfaccia tra cibo e medicina.(12)

ll sapore, l’apparenza, la consistenza, l’odore, il nutrimento che possono apportare, sono tutti stimoli sensoriali e categorie che determinano la scelta di una pianta come alimento o come medicina, ma nell’equazione entrano anche altri fattori. Alcune piante medicinali, ad esempio, vengono selezionate a seconda della stagione a causa di problemi di disponibilità, quindi in certi periodi dell’anno si sovrapporranno alle piante mangerecce, soprattutto in corrispondenza di malattie stagionali come le malattie da raffreddamento, la malaria, i parassiti, i problemi digestivi. Altre volte, le piante spontanee usate come medicina diventano cibi d’emergenza in momenti di carestia, e sono sovente delle antiche cultivar (sempre più spesso dimenticate anche da quelle popolazioni che si avvantaggerebbero di più dal loro sfruttamento).(13)

Il fatto, poi, che la maggior parte delle piante usate a scopo medicinale non siano piante selvatiche che si incontrano nel profondo della foresta, bensì infestanti, ovvero quelle piante che si situano nel continuum tra selvatico e coltivato, sottolinea  la natura relazionale della polarità alimento-farmaco. La pianta è attiva farmacologicamente in virtù di sue proprietà biologiche, ma viene “costruita” come medicina nella sua relazione con l’attività e la cultura umana, visto che proprio le piante nate “intorno” all’attività agricola dell’uomo senza farne del tutto parte sono diventate il suo strumento medicinale principale. (14)

In sistemi medici colti come la medicina cinese o quella indiana, la sovrapposizione tra cibo e medicina è stata addirittura formalizzata all’interno del costrutto teorico medico. Nel Shennong pent’sao jing, quello che potrebbe essere vista come la prima raccolta sistematica della farmacopea cinese, risalente al primo secolo d.C., i farmaci vengono divisi in tre categorie, dette di grado superiore, medio ed inferiore. Tutte le droghe di livello superiore (chiamate anche rimedi imperatore) appartengono al campo dei cibi-farmaco, rimedi igienisti macrobiotici che “alleggeriscono il corpo”, “estendono gli anni di vita” ed “eliminano la vecchiaia”, dai quali non ci si aspetta una efficacia terapeutica diretta, e la cui somministrazione a lungo termine era considerata sicura, senza pericolo: ginseng [Panax ginseng C. Meyer. — Araliaceae], liquirizia [Glycyrrhiza glabra L. —  Fabaceae], Angelica sinensis [Apiaceae], piantaggine [Plantago spp. — Plantaginaceae] ecc.(15)

Simile classificazione è presente anche nella farmacopea ayurvedica, dove le piante considerate più importanti, i rimedi Rasayana, si usano per nutrire e rinforzare il “tessuto primordiale” o rasa , per ritardare l’invecchiamento, promuovere l’energia vitale e migliorare le capacità cognitive. Anche in questo caso si tratta di piante quasi alimentari, il cui consumo è possibile in grandi quantità e per lungo tempo, e la cui azione è simile ad un nutrimento terapeutico, mentre le piante più attive nel senso moderno e farmacologico del termine sono anche quelle meno importanti [Withania somnifera (L.) Dunal. — Solanaceae; Ocimum sanctum L. — Lamiaceae, Phyllanthus emblica L. — Euphorbiaceae, Asparagus racemosus Willd. — Asparagaceae (o Liliaceae)].(16)

Se poi analizziamo dal punto di vista chimico le piante usate come medicine e quelle di uso alimentare scopriamo che i medesimi composti chimici ad attività farmacologica (alcaloidi, composti amari, flavonoidi, glicosidi, in particolare cianogenici, saponine, acidi organici) sono presenti nelle due categorie, anche se in concentrazioni molto differenti.

Conclusioni
Da quanto detto discende che l’uomo ha sempre inserito nella sua dieta composti farmacologicamente attivi presenti nelle piante di cui si nutriva, anche se probabilmente con maggior frequenza nelle epoche antiche rispetto ad oggi.

Ma come è successo che le piante siano diventate un elemento così importante per gli esseri umani? Ed in particolare, perché esse sono così importanti per la medicina?
Una prima risposta generica a questi quesiti viene dalla considerazione della quantità e diversità di vita vegetale sul globo: grazie alla loro natura autotrofa, le piante superano di una magnitudo di fattore dieci tutta la biomassa di origine animale sul globo; possiedono una capacità ineguagliabile di sintetizzare ex novo composti chimici, poiché, a differenza degli animali, non possono muoversi, e per difendersi dai predatori devono sintetizzare ed utilizzare speciali composti di difesa.

L’approccio coevolutivo spiega la nascita della “pianta medicinale”, il momento aurorale della medicina, come una relazione tra uomo, pianta e patogeni, che nei milioni di anni avrebbe permesso all’uomo di adattarsi ai composti di difesa, di imparare a renderli meno tossici ed infine di utilizzarli a proprio beneficio.

Naturalmente il dato biologico adattivo può spiegare un inizio, può giustificare un ventaglio molto limitato di attività delle piante sull’uomo. Non è possibile farvi risalire direttamente le elaborazioni culturalmente mediate della medicina.(17)

Un corollario di questa tesi è che:

una delle chiavi per comprendere come questo processo sia iniziato sta nel riconoscere l’importanza del sapere tradizionale sulle piante presente in ogni cultura, e nell’identificazione degli elementi culturali e biologici del processo dinamico attraverso il quale questo sapere viene ottenuto e mantenuto in una comunità.(18)

Sarà quindi necessario valutare il ruolo giocato dalle piante all’interno delle diverse culture e dei diversi contesti storici e simbolici, e cercare uno schema che ci permetta di collegare tra di loro questi dati, per chiarire quanto essi siano generalizzabili; per chiarire cioè quanto i parallelismi di utilizzo in diverse aree geografiche dipendano dal passaggio di informazioni tra una area e l’altra  (e non siano quindi trattabili come indipendenti), e quanto invece siano indipendenti e quindi si rinforzino a vicenda.

A loro volta questo collegamenti potranno essere messi in relazione con ciò che sappiamo sulle relazioni evolutive tra uomo e piante, ed anche con ciò che sappiamo in termini di chimica delle piante, ad esempio che esistono dei cluster di attività intorno a determinati composti o gruppi chimici, e che determinati gruppi chimici mostrano la tendenza a segregarsi secondo divisioni tassonomiche.

Questi dati presi assieme e usati, per così dire, per effettuare una triangolazione, potrebbero gettare più luce sulle basi biologiche ed evolutive dell’uso delle piante come medicine da parte dell’uomo.

Prima di tentare questa analisi/descrizione è però necessario fare un passo indietro, esplorare i presupposti biologici di queste relazioni, andare a trovarne i semi nella preistoria della nostra specie o addirittura del nostro genere. Per fare questo esamineremo brevemente quali siano stati i passaggi più importanti nel mondo vegetale dalle sue prime esplorazioni delle terre emerse fino ai nostri tempi, per capire come l’evoluzione delle strategie di sopravvivenza delle piante abbia potuto poi intercalarsi con la nostra. A partire da questi dati sarà poi più semplice esaminare l’evoluzione dell’uomo, della sua dieta e della sua trasformazione nei millenni in pratica terapeutica.

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Note

1. Lewington A. Plants for People. London, The Natural History Museum, 1990. Heiser, C.B.m, Jr. Of plants and people. Norman OK, University of Oklahoma Press, 1985. Balick, M.J., Cox, PA Plants, people, and culture: The science of ethnobotany. Scientific American Library, 1996

2. Pedacii Dioscoridis de materia medica libri sex interpetre Petro Andrea Matthiolo cum eiusdem commentariis. Venezia, 1544. Collins M.  Medieval herbals: The illustrative tradition. The British Library and University of Toronto Press, 2000

3. Nei libri dal XX al XXXII. In Fabre,  La pharmacopée romaine dans l’oeuvre de Pline l’ancien. Tesi di dottorato presentata alla Sorbona (Paris IV), aprile 1998

4. Il secondo è il Susruta Samhita; di entrambi è incerto il periodo di composizione, anche se la loro presenza è certa nel primo secolo d.C., e è possibile risalgano al quarto secolo a.C. – Wujastyk, D. Indian Medicine in Bynum W.F. e Porter R. Companion encyclopedia of the history of medicine. 2 vols. London, Routledge, 1993, pp.755; cfr. Priyadaranjan Ray e Hirendra Nath Gupta Caraka Samhita (a Scientific synopsis), New Delhi, National Institute of Sciences of India, 1965, Tabelle 1-3

5. Guerci A., Lugli A. Piante medicinali del mondo, patrimonio dell’umanità: Una visione tra etnobotanica, tradizione e scienza. Planta Medica Edizioni, 2005, p. 2 e p.14; cfr. anche Foster, S. & Johnson, R. Desk Reference to Nature’s Medicine. National Geographic Society, Washington D.C, 2006.

6. Pieroni A., & Price L.L. “Introduction” in Eating and Healing: Traditional Food As Medicine, The Haworth Press, 2006

7. D’altro canto possono essere definiti farmaci i cibi assunti per curare o alleviare le malattie, e cibi i beni consumabili che tradizionalmente non sono stati considerati medicinali dai vari governi.

8. Nel senso che l’aumento delle ambiguità in questo campo non è altro, a mio parere, che  la rivelazione della artificialità della distinzione normativa, che ha voluto racchiudere la complessità in definizioni troppo stringenti. In società meno normative, questa sovrapposizione di campi non è vista come problematica.

9. Nel campo ancora giovane ed in grande sviluppo dello studio delle interrelazioni tra “alimenti” e “medicine” i termini usati per descrivere la zona di confine tra i due settori sono ancora relativamente vaghi: per “cibo funzionale” (functional food) si deve intendere, seguendo Preuss (Preuss A (1999) Zur Charakterisierung Funktioneller Lebens- mittel (Characterization of functional food) Deutsche. Lebensmittel-Rundschau 95 468-47),  un cibo che oltre agli utilizzi legati ad aspetti nutrizionali o di piacere sensoriale, mostra utilizzi legati ad effetti di altro tipo sulle funzioni dell’organismo, e che occuperebbe una posizione mediana ma in parte distinta (una terza opzione) tra cibo e medicina. Per “cibo medicinale” (medicinal food) o “medicine alimentari” (food medicines), seguendo Pieroni e Quave (Pieroni, A. e Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania” in A., Pieroni e L., Leimar Price (eds.)  (2006) Eating and Healing, Haworth Press,  p. 110) intendiamo invece quell’area di sovrapposizione tra cibo e medicina, quando una pianta viene ingerita in un “contesto alimentare” allo scopo di ottenere uno specifico effetto medicinale. Il termine “nutraceutico” (dall’inglese nutraceutic, composto di nutritional e pharmaceutic) identifica una pianta alimentare o derivato che, grazie al contenuto in metaboliti secondari (al di la quindi del puro effetto nutritivo), può modificare la fisiologia umana ed in alcuni casi i processi patologici.

10. cfr Johns, T. e Kokwaro, J.O. (1991) “Food plants of the Luo of Siaya District, Kenya”. Economic Botany 45: 103-113.; Uiso F.C.  Determination of toxicological and nutritional factors of Crotalaria species used as indigenous vegetables. M.Sc.Thesis, Mc Gill University, 1991; Johns, T.  “Plant constituents and the nutrition and health of indigenous peoples”. In V.D., Nazarea (Ed.), Ethnoecology-Situated knowledge, located lives. Tucson: University of Arizona Press, 1990;  Johns, T., Mahunnah, R.L.A., Sanaya, P.,  Chapman, L. e Ticktin, T. (1999) Saponins and phenolic content in plant dietary additives of a traditional subsistence community, the Bateni of Ngorongoro District, Tanzania. Journal of Ethnopharmacology 66: 1-10.; Johns, T., Mhoro, E.B. e Sanaya, P. (1996) Food plants and masticants of the Batemi of Ngorongoro District, Tanzania. Economic Botany 50: 115-121.; Johns, T., Mhoro, E.B. e Uiso, F.C. (1996) Edible plants of Mara Region, Tanzania. Ecology of Food and Nutrition 35: 71-80; Parker M., Chabot S., Ole Karbolo M. K., Ward B. J., Johns T. A. “Traditional dietary additives of the Maasai are antiviral against the measles virus.”  Poster alla 8th International Congress of Ethnopharmacology, 2004, Canterbury, UK.

11. cfr. Evans Schultes R., Hoffmann, A. e Ratsch, C. Plants of the Gods:  Their sacred, healing, and hallucinogenic powers. Revised and expandend edition. Healing Arts Press, Vermont, 1998, pp. 144-155

12. Quave C.L. & Pieroni A. “Traditional health care and food and medicinal plant use among historic Albanian migrants and Italians in Lucania, southern Italy”. In A. Pieroni e I. Vandebroek (eds.) Traveling cultures and plants: The ethnobiology and ethnopharmacy of human migrations. Berghahn Books, Oxford, 2007

13. Sull’area di sovrapposizione tra piante come farmaco e come alimento, sul continuum che lega le piante spontanee a quelle domesticate, e sull’importanza di queste analisi per la comprensione della transizione tra caccia e raccolta e agricoltura, vedi la bella raccolta di saggi coordinata da Lisa Etkin (Etkin, N.L. (Ed.), Eating on the wild side. Tucson: University of Arizona Press. Etkin, N.L. (1996)). Per un esempio di testo scritto allo scopo di conservare il sapere locale sulle piante selvatiche ad utilizzo alimentare cfr. Ruffo C. K., Birnie A., Tegnas B. Edible Wild Plants of Tanzania. Technical Handbook No. 27 Regional Land Management Unit, Nairobi, Kenya, 2002.

14. Traduco con infestanti il termine weed, che in inglese denota appunto le piante che si trovano nel continuum della relazione uomo-piante, tra piante spontanee e piante coltivate. In questo continuum abbiamo le piante spontanee, che crescono al di fuori dell’habitat disturbato dall’uomo e che non possono con successo invadere permanentemente habitat disturbati dall’uomo; le piante infestanti, la cui popolazione cresce completamente o in maggioranza in situazioni marcatamente disturbate dall’uomo, senza essere deliberatamente coltivate, quasi sempre erbacee e a crescita veloce; le piante coltivate, piantate intenzionalmente. Ma vi sono anche le piante domesticate accidentalmente a causa dell’attività dei cacciatori-raccoglitori, e le piante domesticate, che si sono evolute in una nuova forma a causa della continua manipolazione, tanto che possono aver perso la capacità di riprodursi da sole (cfr. Zimdahl, R.L., Fundamentals of Weed Science, 2nd ed. Academic Press, San Diego, CA., 1992, p. 172); Etkin, N.L. “The cull of the wild”. In N.L., Etkin (Ed.), 1994 op. cit.; Etkin, N.L. (1996) “Medicinal cuisines: Diet and ethnopharmacology”. International Journal of Pharmacognosy 34: 313-326. Etkin, N.L. e Ross, P.J. (1982) “Food as medicine and medicine as food: An adaptive framework for the interpretation of plant utilisation among the Hausa of northern Nigeria”. Social Science and Medicine 16: 1559-1573. Grivetti, L.E. e Ogle B.M. (2000) “Value of traditional foods in meeting macro- and micronutrients needs: The wild plant connection”. Nutrition Research Review 13: 31-46

15. Unschuld, P.U. Medicine in China: a history of pharmaceutics, Berkeley, University of California Press, 1986, p.24.  Se teniamo presente che il termine “efficacia terapeutica” (wu-tu) si traduce come “non-velenosa”, possiamo capire come questi rimedi possano ben essere esemplificati da piante alimentari con azione terapeutica (e difatti troviamo qui rimedi come il Panax ginseng o la piantaggine che mostrano attività farmacologica secondo gli standard moderni, ma che possono essere assunti anche a lungo termine senza rischi). Questo favore verso i farmaci macrobiotici è evidente anche nel primo documento esistente che parla di rimedi vegetali, nei manoscritti medici di Mawangdui, risalenti al 3 e 2 secolo a.C., dove, pur non comparendo la divisione teorica tra rimedi di grado diverso, già si parla di rimedi che allungano la vita ecc. Il manoscritto MSVI.A.9 contiene la prima descrizione di una droga effettuata da un medico, Wen Zhi, descrive il porro (jiu) come la “pianta dei mille anni” e “re delle centinaia di piante”, che concentra i vapori (qi) dei cieli e della terra (cfr. Harper, D. (trad. e comm.) Early chinese medical literature: The Mawangdui medical manuscripts. Kegan Paul International, New York, 1997, p. 106)

16. cfr. Puri, H.S. Rasayana: Ayurvedic herbs for longevity and rejuvenation. Taylor & Francis, New York, 2003

17. Per molte attività umane, “non ha senso fornire una spiegazione evolutivo-adattiva (a meno che non si parli di adattamento evolutivo in senso culturale). Non è che [le attività umane] non abbiano radici biologiche. Semplicemente ne sono troppo lontane” (Rozin P (2000) “Evolution and adaption in the understanding of behavior, culture, and mind”. American Behavioral Scientist. 6 (43):970-986). Al più possiamo proporre una feconda commistione tra presupposti biologici e sviluppi culturali, raccontare la storia di questa relazione, nella speranza che nel racconto, nel processo storico e non nelle origini, si nascondano le ragioni ultime della situazione attuale, soprattutto guardando agli enormi cambiamenti culturali avvenuti nel brevissimo periodo nel quale l’uomo ha subito una evoluzione culturale. Come scrive Rozin 2000 op. cit. : “There is no doubt that humans are primates and that human cultures have influenced humans for only a small part of their evolutionary history; there is every reason to believe that we will find the precultural primate in many human activities. But even a casual glance at human cultures today will suggest that these tens of thousands of years of human culture have vastly transformed humans and their institutions and that it would be folly to expect to trace most of what humans do now to specific primate predispositions, except in the most indirect way.”

18. cfr. Johns T. The origins of human diet and medicine. University of Arizona Press, 1999, p. 2