Nüdan/Neidan: corpo femminile e corpo maschile nella letteratura alchemica cinese

Una due-giorni sull’alchimia interna femminile nella Cina classica. Che c’entra con la medicina, o con le piante?

Beh, il blog è mio :-), e il legame tra alchimia (dall’ottimo sito di Fabrizio Pregadio) interna cinese (e vedi anche Pregadio qui) e medicina cinese è particolarmente interessante, ad esempio per esaminare le differenti prospettive sul corpo originatesi nel seno della stessa tradizione, a volte partendo dallo stesso autore, come nel caso di Sun Simo, uno dei più importanti autori classici della medicina cinese (autore dei testi classici Beiji qianjing yaofang e Qianjing yifang).
Le differenti pratiche utilizzate in alchimia interna hanno interessanti contatti con una parte della medicina tradizionale cinese, in particolare con la medicina macrobiotica, e più in generale possono chiarire la cosmologia e la fisiologia tradizionali, le differenze tra corpo maschile e corpo femminile (vedi qui il classico articolo della Despeux), e magari a demistificare un mondo, quello della tradizione cinese, che come gli altri deve essere compreso all’interno di contesti di cambiamento sociale e culturale, differenze di genere, influenze religiose, ecc.

A breve una intervista sui contenuti della conferenza.

Female Meditation Techniques in Late Imperial and Modern China

A two-day conference

Sunday, November 09, 2008
9:00 AM – 5:00 PM
10383 Bunche Hall
UCLA
Los Angeles, CA 90095

Female Alchemy (nüdan) is a branch of inner alchemy (neidan) that developed in China from the late Ming dynasty onwards. In the prefaces to texts as well as in treatises themselves, much importance is laid upon the “difference” of the female body, in terms of cosmological and physiological setup, from the male body. Male and female bodies are compared and emotions, loci, and fluids are discussed in detail. However, male/female physiological differences had always been widely acknowledged in medical and alchemical treatises. Thus the emergence of nüdan must also be closely tied to social developments, such as tensions about gender balance. As women become more and more active agents in the public space, especially in the religious arena, a safer alternative, one that could be practiced at home and did not require contact with male teachers or fellow practitioners, was offered through nüdan by male intellectuals. This is easily explained if we look at the growing concern for chastity and proper female behavior in the Qing dynasty, and is supported by extensive sections on female behavior in female alchemy treatises. This phenomenon, with its gender and social implications, is just starting to be discussed and the field is slowly growing:
Catherine Despeux was the first to identify it as a phenomenon to Western audiences in her book Les Immortelles de la Chine ancienne and in a subsequent English version, Women in Daoism, authored together with Livia Kohn. Elena Valussi wrote the first Ph.D dissertation on the nüdan tradition, it historical developments and social implication in 2003; Sara Neswald just finished writing a dissertation on nüdan and its relationship with Tantric Buddhism. Xun Liu has done extensive work on early nüdan writings and has written on gender in Daoism. Suzanne Cahill has investigated issues of gender in Daoism her whole career. Charlotte Furth has investigated visions of the female body in Chinese medicine. This workshop is the first attempt to come together and discuss this tradition from multiple angles.

The making and unmaking of the native world

Un giorno di questi in Colombia, stavo per mettermi a scrivere di Ambil e Tucupì, della discussione della loro rilevanza nella cosmologia degli indios Uitoto (Witoto) dell’amazzonia Colombiana, stavo per farlo quando ho pensato che mentre io e Rufina stavamo mettendo in atto questa attività di costruzione e ricostruzione attraverso il linguaggio, mentre discutevamo di artefatti della cultura nativa, cioè dell’attività che identifica la civiltà, la creazione, l’autoestensione attraverso la cultura materiale…

…proprio in quel momento, a pochi km di distanza, lungo la Panamericana, si metteva in scena brutalmente l’inversione di questo processo, la decostruzione di massa del linguaggio, la sua falsificazione, il disfare il mondo nativo attraverso il dolore e la guerra, la tortura e la sparizione.

Da ormai una settimana nella zona nord del Cauca, in Colombia (vedi il reportage su ACSUR), i nativi delle associazioni “Avelino Úl” e “Lorenzo Ramos”, ed i campesinos appartenenti alla “Asociaciones Pro-constitución de Zonas de Reserva Campesina” dei municipi di Miranda, Corinto e Caloto si confrontano con la polizia colombiana, bloccando la Panamericana per protestare contro il mancato ritorno delle loro terre. Il confronto ha portato ieri ad uno sciopero nazionale, ma ha anche portato a morti, feriti e desaparecidos (leggi qui un articolo de El Espectador).

Un Curry con Andrea Pieroni

Dr. Andrea Pieroni

Silphion: Allora, caro Andrea, inizierei con questa il nostro dialogo/intervista a distanza.

Mi piacerebbe iniziare da un commento che tu hai fatto durante una discussione. Se non sbaglio si stava parlando del ruolo e dello status dell’etnobotanica, e di come, a tuo parere, al giorno d’oggi essa dovesse essere pensata come una disciplina che deve accompagnarsi ad altre per avere significato, per non ridursi ad esercizio accademico e sterile: quindi etnobotanica e politiche della salute, e politiche ambientali, e conservazione e così via.

Andrea Pieroni:
Sì, secondo me la ricerca etnobotanica potrebbe (dovrebbe) avere questi possibili outputs:
1. Agro-bio diversità, prodotti tipici, sviluppo rurale
2. Ecoturismo ed ecomusealità, patrimonio culturale (tangibile e intangibile)
3. Fitoterapia, erboristeria, uso e gestione di TM (traditional medicines)
4. Etnofarmacologia
5. Public health (soprattutto per la etnobotanica dei migranti nelle società occidentali, ma non solo)

S: Questo commento mi ha fatto pensare ad alcuni argomenti, per esempio al ruolo nella comunicazione tra culture e all’esperienza dell’Albania e del Balkans Peace Park Project (BPPP). Ma adesso mi vorrei concentrare su un’altra riflessione.
Questa discussione mi aveva infatti interessato come fitoterapeuta e quindi “fruitore” di dati etnobotanici e storici. In genere aveva stimolato una riflessione sullo status dei saperi etnobotanici e storici, saperi “deboli” per i quali si parla di credenze piuttosto che di conoscenza. Insomma il problema della traducibilità/commensurabilità, della razionalità, ovvero in genere il problema del relativismo, che ha segnato in maniera importante anche la storia dell’etnobotanica.

Riporto qui un passaggio di Alsdair MacIntyre sulle filosofie del passato che mi pareva potesse estendersi alle culture “altre”: “E’ fin troppo facile rinchiudersi all’interno di questo dilemma: se si debbano leggere le filosofie del passato in modo da renderle rilevanti per i nostri problemi e progetti contemporanei, trasmutandole il più possibile in ciò che sarebbero state se fossero state parte della filosofia presente, e minimizzando o ignorando o addirittura a volte distorcendo ciò che resiste tale trasmutazione perché inestricabilmente legato a ciò che nel passato è radicalmente diverso dalla filosofia presente; oppure con grande cautela leggerle nei loro termini propri, preservando attentamente il loro carattere idiosincratico e specifico, così che esse non possano emergere nel presente se non come un set di pezzi da museo”.

AP: Il problema filosofico dei saperi popolari/indigeni più che di “culture altre” riguarda secondo me soprattutto il rapporto storico strettissimo della scienza e della medicina con la classi alte.
I saperi delle classi subalterne (mi piace usare questo termine, proprio nel senso demartiniano e della grande scuola dei fokloristi italiani di matrice marxista) non hanno mai avuto dignità, anche perché ciò avrebbe messo in crisi molti dogmi della scienza e l’avrebbe costretta forse a divenire autocritica e plurale.
Il problema della traducibilità dei saperi popolari nei saperi “alti”/scienza è tutto da fare. Cruciale è in questo a mio modesto avviso il trovare prima di tutto piattaforme comune di scambio, rispettose, paritetiche, ed intellettualmente oneste.

S: Per fare un esempio, quando ragiono dell’uso del termine “caldo” o “calore” in medicina galenica colta o anche nelle tradizioni popolari, da un lato riconosco in questo termine una generalizzabilità: è comune a moltissime tradizioni in tutto il mondo e di tutte le epoche, e si conforma in parte a descrizioni moderne, biomediche ed anche ad intuizioni comuni. Le piante calde sono spesso piante che effettivamente elicitano tale sensazione, sono degli stimolanti circolatori, ecc. Dall’altro sono cosciente del fatto che nel mondo medievale, il calore, in quanto principio cosmologico, non coincide nettamente con l’esperienza del senso comune e nemmeno con i concetti della scienza contemporanea. Il “riscaldamento” è un modello di trasformazione centrale nella teoria sulla digestione, nella trasformazione da “naturale” in “vitale” che è centrale nella teoria umorale.

AP: Sono un po’ freddino generalmente sul concetto di “caldo/freddo”, in quanto lo ritengo (dopo anni di esperienze e studi etnobotanici) una categoria molto “alta” e assai poco “popolare”, certo penetrata nei saperi
indigeni/popolari specie in Europa, nel Mediterraneo ed in Asia attraverso quelle osmosi – che specificamente nel campo medico, al contrario di molti altri campi del sapere – sono avvenute nel corso dei secoli.
Ma davvero credo che sia molto sopravvalutato.
I saperi popolari del Mediterraneo hanno ragionato anche su molte altre piste, che non sul “caldo/freddo”.

S: Questo non è un problema meramente accademico. Quando come fitoterapeuta mi accingo a ragionare sulle basi di conoscenza e sulla storia della mia pratica mi pongo il problema della gerarchia dei saperi, del loro status, mi pongo cioè il problema del significato della mia storia e delle tradizioni non occidentali a cui in qualche modo attingo. E nel fare questo devo capirne la rilevanza moderna, giostrarmi tra il rischio di ridurli a puri “pezzi da museo”, interessanti fin che si vuole ma esclusi da una definizione restrittiva di scienza e di razionalità (e quindi alla fine di rilevanza), e la tentazione (comune a mio parere in molti circoli delle c.d. medicine alternative e complementari) di decontestualizzarli per trovare in essi una fonte “originaria” (nel caso del passato) o “più vera” (nel caso di tradizioni non occidentali) di un significato perso dalla modernità, da ritrovarsi, come dice Galimberti “ripercorrendo la storia all’indietro per trovare laggiù, in scrigni ben serrati, di cui solo alcuni detengono le chiavi, quei tesori illuminanti il senso della nostra storia e della nostra vita”.

AP: In fitoterapia come in ogni altra pratica medica, penso che porsi il problema del sottofondo culturale/sociale e quindi storico sia essenziale, in questo rifuggendo dalla percezione di medicina come religione, che invece mi sembra di poter ragionevolmente dire sembri permeare al momento molti
esperienze di uso e management di CAMs nel mondo occidentale.
Le medicine popolari che ho studiato mi hanno per esempio sempre dato l’impressione di essere molto più pragmatiche di quanto spesso si creda.

S:Prendo al palla al balzo, riguardo a medicina “alta” vs medicina popolare, prima di tutto chiedendo se hai voglia di parlare di queste altre “piste” nel mediterraneo.

Certi meccanismi di inclusione/esclusione, per continuare il discorso delle classi subalterne e dell’egemonia, sono proprio trasversali. In qualche modo è quello che è successo con il processo di professionalizzazione dei fitoterapeuti britannici negli ultimi 15 anni. Come categoria siamo passati attraverso una trasformazione con corsi di laurea, ipotesi di albo statale, e “normalizzazione” dei saperi.
Questa trasformazione, e la trasformazione delle modalità di trasmissione del sapere tradizionale, la trasformazione dei luoghi di pratica, ecc. ha a poco a poco portato ad una canonizzazione, e cristallizzazione, della cosiddetta tradizione, che, per confrontarsi con l’ambito biomedico, ha scelto cosa portare con se e cosa lasciare. E guarda caso ciò che del passato è stato scelto è stato proprio il modello colto galenico umoralistico, o quelli cinese e ayurvedico, mentre ciò che non poteva entrare facilmente in questa “filosofia” è stato abbandonato oppure recuperato in senso folk. Al tempo mi venne in mente la radicale riorganizzazione del sapere della medicina cinese nel secondo dopoguerra, quando tutto ciò che non poteva essere facilmente descritto come razionale (la demonologia, la magia, le pratiche empiriche popolari) furono drasticamente eliminate dai libri di testo, che sono stati spesso riscritti per renderli più consoni ad un modello occidentale.

Mi piacerebbe anche prendere come spunti il tuo lavoro sulle piante al limine tra alimento e medicina, e quel bell’argomento delle piante medicinali come “oggetto naturale” / “oggetto culturale”, ma magari ci arriviamo dopo.

Mi parli invece un pò dell’Albania? Come è iniziato il tuo lavoro nell’area? E ritornando alla tua iniziale descrizione degli outputs etnobotanici, quali sono quelli che immagini per l’area?

AP: Nel Mediterraneo la medicina popolare ha seguito secondo me anche le percezioni sensoriali (sapore amaro, odori/aromi) e non (solo) astratti concetti di caldo/freddo. La teoria della segnatura ha poi cementato questi
muster cognitivi (cioè non è stata l’origine forse, ma ha permesso la trasmissione delle conoscenze etnobotaniche, come ha anche di recente postulato Brad Bennett) (scarica da qui).

Ben lo credo che il sistema anglosassone ha preso come modello il sistema colto galenico umoralistico, o quelli cinese e ayurvedico, in quanto in questo paese non è mai esistita una scuola (marxista o meno) che abbia dato scientemente dignità ai saperi popolari. Il folklore in Inghilterra è rimasto folklore ed il mondo contadino quello dei “peasants”.

Per questo anche oggi in Inghilterra quando si parla di etnologia europeo o demologia si studiano il De Martino, Cirese, Lombardi-Satriani (e qui…)…

L’Albania era tappa “obbligata” dopo lo studio sugli Arbereshe lucani. Ma era anche il mio sogno di bambino e di adolescente, mai realizzato (non so perché, immagino per quel non so che di “esotico” che l’Albania ha sempre ingenerato nell’immaginario dell’europeo occidentale…).

Ma è stata soprattutto la scommessa di vedere se l’etnobotanica al di là del dato di registrazione dei saperi in via di estinzione, potesse eventualmente avere qualcosa da dire – concretamente, stringentemente – per l’eco-sviluppo di una regione e della sua gente.
Al momento non vedo un punto di arrivo, ma certo l’affascinante cammino di un processo sociale ed umano innescatosi, ma non certo governabile dai “forestieri” (in questo il mio approccio è molto meno euro-centrico e “missionario” di Antonia, che infatti è inglese).
Gli Albanesi delle montagne dovranno costruire il loro futuro nelle loro montagne (o anche negarlo), e sono certo padroni della loro storia, ma io vorrei esserci in questo processo.
Nello specifico le conoscenze etnobotaniche potrebbero essere rivalutate là sotto forma di piccole trasformazioni (piante secche) da vendersi a turisti e small-scale a Scutari, e certo per rinvigorire un uso locale nella medicina che non ha mai smesso (e che anzi – ora che l’assistenza sanitaria nelle montagne non esiste più – si è ringalluzzito…)

Ora vado a mangiarmi un curry

A presto, Andrea