Indicazioni tradizionali: come valutarle, e perché?

Ha senso interrogarsi sui dati tradizionali relativi all’uso delle piante medicinali, ai dati storici ed etnobotanici? Al di là di un mero interesse antiquario o accademico, che significato ha il sapere antico e tradizionale? Quale peso dobbiamo dare alle fonti tradizionali per le nostre decisioni rispetto all’oggetto piante medicinali?

Credo che proprio chi lavora con le piante medicinali, studiandole o usandole, dovrebbe porsi queste domande e tentare di dare loro risposte serie, credibili, aumentando la qualità della riflessione teorica senza usare scorciatoie.  Il fatto che le fonti storiche ed etnobotaniche siano abbondati è contemporaneamente un punto di forza ed un punto critico, perché può sembrare che la loro mera esistenza possa bastare a giustificare l’uso delle piante medicinali, la loro sicurezza, la loro efficacia, ecc.  Non è lo scopo di questo post approfondire le molteplici ragioni per cui questo assunto metodologico sia insostenibile.  Prenderò invece come assunto proprio il fatto che, appurata l’esistenza e la consistenza delle fonti, rimane da approfondire il problema della loro valutazione, della loro significatività, della loro interpretazione.

E allora, approfittando del traino di Erba Volant, tenterei di approfondire il ruolo dei metodi quantitativi in etnobotanica ed etnofarmacologia, e di mostrare come essi possano permettere una valutazione razionale dei dati, e di usare questi dati per intervenire nel mondo, per incidere sul reale, un argomento sul quale avevo discusso tempo fa con Andrea Pieroni.

Facciamo però un passo indietro per meglio definire i termini della questione. L’etnofarmacologia è stata definita come un campo di  studio interdisciplinare che si divide tra scienze mediche, naturali e sociali, e che ha a che vedere con l’osservazione, l’identificazione, la descrizione e la sperimentazione degli ingredienti e degli effetti delle droghe indigene.  Lo scopo di queste osservazioni è ampio, ed è cambiato nel tempo, come nel tempo sono cambiati gli scopi dell’etnobotanica, ma possiamo certamente dire che due possibili obiettivi sono la generazione di predizioni su piante non studiate, e la corroborazione dei dati sull’attività di piante poco studiate.  Il filtro etnobotanico è stato certamente il primo strumento che abbiamo utilizzato per individuare rimedi interessanti: l’osservazione del comportamento dell’uomo, e in qualche caso degli animali, ha portato alla scoperta delle piante che hanno fatto la storia della farmacologia classica, le piante cosiddette eroiche (Strophantus, Datura, Atropa, Ephedra, Physostigma venenosum, Papaver somniferum, ecc.).

Ma le piante eroiche, facilmente identificabili a causa dei loro effetti drastici, costituiscono una percentuale molto ridotta delle piante medicinali, ed identificare piante ad azione meno evidente si è fatto sempre più difficile. Il migliorare della tecnologia sembrava per un certo tempo avere scalzato il metodo della bioprospezione etnobotanica: i metodi di screening high throughput permettevano di testare migliaia di estratti in poco tempo, e la chimica combinatoria permetteva di creare decine di strutture da un unico modello naturale, e la tecnica di raccolta delle piante a random diveniva in questo modo competitiva prché permetteva la raccolta di moltissimi campioni in poco tempo e senza dover coinvolge le popolazioni locali.  Questo non ha impedito che, sotto la spinta di molti etnofarmacologi, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso l’uso del dato etnobotanico sia ritornato in auge.  Questo nonostante che lo screening etnobotanico soffra di alcuni problemi legati ad una sua non economicità (necessita infatti di operatori professionali, di molto tempo e sostegno economico), e a volte alla poca applicabilità dei dati ottenuti localmente a problematiche di salute tipiche dei paesi sviluppati.

Il problema metodologico che si presentava ai ricercatori era però importante: l’etnofarmacologia moderna doveva contemporaneamente evitare di ridursi ad una serie di rassegne meramente elencatorie senza consistenza teorica, slegate le une dalle altre, ed evitare approcci ingenui. C’era cioè la sentita necessità di produrre lavori veramente transdiciplinari, di dotarsi di strumenti analitici migliori, di metodi quantitativi in grado di generare ipotesi falsificabili, riproducibili e trattabili con strumenti statistici; solo in questo modo la disciplina poteva essere in grado di intervenire nel mondo, magari proprio in quelle comunità locali che erano state fino a quel momento solo una fonte informativa.

Un articolo determinante da questo punto di vista è certamente stato quello di Browner, De Montellano e Rubel del 1988, nel quale gli autori proponevano una piattaforma metodologica che comparasse la prospettiva “emica” (cioè determinata dagli elementi interni di una cultura e dal loro funzionamento piuttosto che da schemi esterni) dell’etnomedicina e quella “etica” (di tipo generale, non strutturale, oggettiva) delle bioscienze, per generare nuove interpretazioni dei dati provenienti dalla ricerca transculturale in antropologia medica.

Gli autori identificano come un obiettivo dell’antropologia medica quello di contribuire alla “riduzione del carico mondiale di malattie, disabilità e sofferenze” , oltre ad una nuova comprensione del significato di salute e malattia. Puntualmente essi riconoscono anche che questa proposta potrebbe sembrare a molti ricercatori qualitativi di matrice eccessivamente riduzionistica, incapace di catturare i fenomeni nel loro contesto, ma ribadiscono la loro convinzione che invece sia possibile effettuare analisi etnograficamente valide, capaci di produrre dati che siano allo stesso tempo rilevanti e significativi per gli informatori, e suscettibili di comparazione e valutazione oggettiva.

Gli autori propongono uno schema di lavoro che consiste:

A) nell’identificare i fenomeni da analizzate in termini “emici” (mal di testa, indigestione, ecc.) e le piante usate per trattarli

B) nel determinare in quale misura i fenomeni descritti possano essere compresi nei termini dei metodi e dei concetti biomedici

C) nell’identificare aree di convergenza e divergenza tra i fenomeni descritti e le spiegazioni biomediche.

Una volta effettuati i vari passaggi, sarebbe teoricamente possibile assegnare ad ogni pianta un livello di evidenza, che gli autori così definiscono:

L1: rapporti di utilizzo parallelo in popolazioni tra le quali la diffusione è improbabile.
L2: evidenza L1 supportata da analisi fitochimica che verifichi la presenza di composti chimici che possono produrre un effetto terapeutico, o che risultano positivi in saggi biologici legati all’attività terapeutica.
L3: evidenza L2 supportata da una modalità di azione plausibile che produrrebbe un effetto terapeutico in un paziente.
L4: evidenza L3 supportata da studi clinici

L’approccio di Browning e collaboratori è stato fondamentale ed ha influenzato moltissimi ricercatori nel cosiddetto paradigma biocomportamentale. Uno dei problemi riscontrati è però che, a parte il primo livello di evidenza (L1), tutti gli altri si basano su dati di tipo fitochimico, farmacologico o clinico. Ma come analizzare le moltissime piante per le quali questi dati non fossero disponibili, o lo fossero in minima parte?

Negli anni vari autori si sono cimentati nel tentativo di espandere il programma di Browner e colleghi, partendo da alcuni assunti, che riassumo in questo modo: 1. le piante importanti come medicinali secondo il sapere tradizionale di un popolo non sono campionature random delle Flore totali, 2. le piante producono una ampia gamma di sostanze interessanti per la salute umana, 3. la sperimentazione e la scelta di certe piante da parte dei gruppi umani viene aiutata da caratteristiche organolettiche delle piante legate al contenuto fitochimico, 4. esiste una correlazione tra filogenesi e fitochimica, 5. popolazioni culturalmente e geograficamente distanti hanno meno probabilità di aver condiviso sapere etnobotanico.

Come vedremo, ognuno di questi punti, se esaminato nel dettaglio, presenta delle criticità.

Iniziamo ad esempio dall’assunto della distribuzione non random delle piante medicinali e del significato di questa distribuzione.  Come si quantifica la segregazione delle piante medicinali nei taxa di una Flora specifica, e come si compara tra Flore differenti?  Inoltre, secondo quali criteri vengono selezionate le piante medicinali da parte delle popolazioni umane? E infine, parlando di sapere tradizionale, come si identifica, e come lo si compara tra culture diverse?

Uno degli studi che hanno iniziato ad analizzare il problema della segregazione tassonomica delle piante è certamente quello di Moerman e collaboratori (1999), che hanno effettuato una analisi di 5 Flore distanti fra loro, domandandosi se vi fossero famiglie botaniche dove il numero di piante medicinali fosse superiore a quello che ci si poteva aspettare da una scelta casuale.  Nello studio gli autori hanno usato il metodo della regressione lineare per identificare i valori più probabili data una distribuzione casuale, ed hanno analizzato i valori che differivano dal valore aspettato (i residui). Ad un residuo positivo elevato corrispondeva una famiglia botanica con una maggior concentrazione di piante medicinali.  Raccolti i dati sui residui per le cinque flore, gli autori le hanno poi comparate a coppie usando l’indice di correlazione di Pearson ed hanno identificato tre famiglie sovrapponibili dominanti in quattro flore su cinque: Asteraceae, Apiaceae e Lamiaceae (da notare che le quattro flore congruenti appartengono tutte all’ecozona Olartica, e l’unica non congruente alla regione Neotropicale).

Sull’onda di questa prima pubblicazione, vari autori hanno applicato la regressione lineare all’analisi comparativa di varie Flore, nel tentativo di duplicare e completare il lavoro di Moerman.

Allo stesso tempo sono state avanzate delle critiche e proposti dei miglioramenti alle tecniche statistiche.  La regressione lineare ad esempio soffre di alcune debolezze: non è adatta a generare ipotesi confutabili, tende a favorire i taxa più numerosi, perché pone un limite massimo ai residui: una famiglia con 10 specie non potrà mai avere uno scarto >10, mentre una famiglia con 100 specie potrebbe avere uno scarto di 100.  Inoltre la regressione lineare presuppone che il rapporto tra  numero di specie medicinali e numero di specie totali (SM/ST) sia lineare, ma questo presupposto non è necessariamente giustificato.  Per finire, la suddivisione in taxa usata da Moerman e colleghi permette una comparazione discreta (la spp. x appartiene/non appartiene alla famiglia y) e non continua tra le specie, e in questo modo non riflette bene la prossimità filogenetica, oltre ad essere legata alla parziale convenzionalità della classificazione tassonomica, in modo che la stessa analisi darebbe risultati differenti a seconda di un approccio tassonomico da lumpers o da splitters.

Bennett e Husby nel 2008 hanno testato la resi di Moerman nella Flora equadoriana usando il metodo binomiale, metodo che a loro parere avrebbe permesso di generare dati utili per testare ipotesi, anche se considera comunque il rapporto SM/ST come lineare.  Più di recente Weckerle e colleghi nel 2011 hanno studiato la Flora medicinale campana comparando i metodi della regressione lineare e quello binomiale ad un approccio Bayesiano, che considera il rapporto SM/ST come una variabile random, e tutte i taxa sopraspecifici come pari, prescindendo dalle suddivisioni tassonomiche, evitando quindi il problema del favorire taxa più numerosi.

Altro problema, discusso da Bletter e in altri articoli, come quello ben descritto da Meristemi, è quello dell’origine dei dati tassonomici: solo un lavoro di analisi filogenetica specifico e quindi lungo e costoso, permetterebbe una comparazione basata su un rapporto continuo di vicinanza filogenetica.
Nonostante le grandi difficoltà, mi pare assodato che i dati in letteratura indicano che il clustering tassonomico esiste, e si può quantificare. Per quanto questo dato sia importante ed intrigante, ci rimane da porci una domanda ancora più rilevante per le possibili implicazioni pratiche: quali sono le ragioni per cui i gruppi umani tendono ad usare più di frequente certe specie piuttosto che altre?  La risposta non è scontata, se alcuni autori hanno risposto che i raggruppamenti rispondono solo a criteri di tipo simbolico, mentre altri propongono approcci più o meno radicalmente adattazionisti.

Secondo Moerman la segregazione in gruppi è dovuta per lo meno a due ordini di ragioni legati tra loro: il primo ha a che vedere con la   correlazione tra filogenesi e fitochimica, per cui gli esseri umani riconoscerebbero, grazie alle loro proprietà organolettiche, piante contenenti gruppi chimici specifici (in particolare composti amari, aromatici e piccanti), e quindi, grazie al fatto che i percorsi metabolici si conservano nelle linee evolutive vicine, tenderebbero a riconoscere specie appartenenti a taxa correlati.  Il secondo ordine ha a che vedere con la trasmissione del sapere etnobotanico. La proposta di Moerman è che le flore medicinali analizzate si assomigliano perché i gruppi umani, nelle loro trasmigrazioni nel corso della storia dal paleolitico in poi, hanno portato con se un sapere tradizionale che hanno trasmesso alle generazioni successive, tramandando di fatto l’utilizzo di certe specie o taxa piuttosto che altri. Leonti e colleghi hanno poi parlato di trasmissione non di un sapere definito e specifico ma della trasmissione di un set di criteri di scelta di vario tipo: organolettici, morfologici, ecologici, simbolici.

Questo set di criteri avrebbe permesso l’adattamento del sapere tradizionale all’esplorazione di nuove regioni biogeografiche dove le specie medicinali o addirittura le famiglie più usate in precedenza non fossero presenti o importanti.  Alla base del clustering tassonomico esisterebbe quindi il legame tra le capacità percettive dell’uomo, la fitochimica delle piante, il parallelismo tra filogenesi e fitochimica, oltre a vari fattori culturali e sistemi cognitivi. Le Asteraceae verrebbero scelte perché conterrebbero principi attivi amari facilmente riconoscibili al gusto.  Tutto questo non ci porta ancora alla conclusione che la selezione sia significativa dal punto di vista dell’attività biologica delle piante.  Non va poi dimenticato che altri autori ritengono questo paradigma troppo ambizino, e ritengono che le ragioni per le quali le piante vengono preferite potrebbero essere di altro ordine, ad esempio la loro disponibilità nelle vicinanze delle abitazioni. In questo senso le Asteraceae verrebbero scelte perché si adattano bene a condizioni di crescita in ambiente ruderale e sono quindi facilmente disponibili all’uso.

Nella prossima puntata vorrei concentrarmi sul problema della definizione e quantificabilità del concetto di sapere tradizionale.

Biodiversità informatica

La Encyclopedia of Life, il mega progetto di informatizzazione e coordinamento delle informazioni su tutte le forme di vita, insieme al Natural History Museum e a molte altre istituzioni ed associazioni collegate al mondo della conservazione e della ricerca sulla biodiversità, organizza presso il Centro Conferenze The Queen Elizabeth II a Londra una conferenza sull’informatica applicata allo studio della biodiversità (e-Biosphere 09 International Conference on Biodiversity Informatics)

Ecco qui il poster, e qui la possibilità di partecipare alla conferenza on-line.

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International Conference on Biodiversity Informatics

Important Dates

  • 9 February 2009: Launch of Online Conference Community (OCC)
  • 7 March 2009: Deadline for submission of poster abstracts and applications for travel bursaries.
  • 1 April 2009: Deadline for applications for exhibit space and database/software demonstrations
  • 1 April 2009: Announcement of accepted poster abstracts and awards for travel bursaries.
  • 15 April 2009: Deadline for proposals for discussion group topics and side-events.
  • 1 May 2009: Registration deadline
  • 1 May 2009: Release of abstract volume
  • 1 May 2009: Realease of Third Conference Announcement with final agenda
  • 1-3 June 2009: e-Biosphere 09 Conference

The e-Biosphere 09 International Conference on Biodiversity Informatics will bring together an exceptional array of speakers and participants to highlight the achievements in Biodiversity Informatics today and to discuss strategies for its future. This conference presents a unique opportunity for a wide range of professionals, researchers, and students to come together to help plan the future of the field.

Who Should Attend?

The Conference has been designed as a meeting-ground for researchers and users of biodiversity data, such as: content providers in fields such as taxonomy, genetics, and ecology; content aggregators; policy-makers; developers of biodiversity databases, software, and data standards; and users from diverse fields such as conservation, land use, agriculture, and sustainable development. Computer scientists and engineers interested in biodiversity informatics are encouraged to join us and share their expertise and perspectives. Participants from public research funding agencies, private foundations and donor organizations are also welcome, as they will play a key role in determining the next steps for biodiversity informatics.

An Interactive Conference

Planned with an eye towards innovation, e-Biosphere 09 aims to be interactive as well as informative. Attendees are encouraged to take a participatory role in this event by submitting a poster abstract, or suggesting a topic for Break-Out Discussion Groups. The dynamic Online Conference Community, a series of electronic discussion forums, offers researchers and users of Biodiversity Informatics the opportunity to interact and prepare for the conference.