Tidbits: cannabis

Nonostante parlare dell’utilizzo della Cannabis e dei suoi derivati come strumento per il trattamento del dolore cronico non sia più una eresia, rimane ancora difficile farlo con chiarezza e serietà e senza pregiudizi o stimmate apposte all’argomento. E’ quindi una buona notizia la pubblicazione di una review sul trattamento del dolore cronico, eseguita presso l’Università di Toronto.

La review ha considerato 18 studi clinici, diversi tipi di assunzione (cannabis fumata, estratti somministrati per via transdermica orale, analoghi del THC) e diversi tipi di dolore non legato a neoplasie (dolore neuropatico, fibromialgia, artrite reumatoide, dolore cronico di origine mista).

I risultati sono stati molto interessanti: la qualità degli studi esaminati è risultata in media eccellente (una rarità nel campo della ricerca su derivati vegetali), e 15 studi su 18 (l’83%) hanno mostrato risultati positivi per l’effetto analgesico. Un numero minore di studi ha mostrato effetti positivi sulla qualità del sonno, e comunque nessuno degli studi ha mostrato effetti collaterali particolarmente preoccupanti. I risultati migliori si sono visti con il dolore neuropatico, mentre gli effetti sono meno eclatanti per la fibromialgia e l’artrite reumatoide. Nonostante gli autori sottolineino che gli effetti, nei casi migliori, sono comunque risultati modesti, vale la pena ricordare che l’importanza di questi effetti va considerata nel contesto delle altre opzioni disponibili. Quando, come nel caso delle neuropatie, le altre opzioni (oppiacei, anestetici locali, antidepressivi) sono spesso non o poco utilizzabili o efficaci, anche una efficacia modesta è un’ottima notizia.

Rimane il fatto però che molti di coloro che utilizzano la Cannabis sativa come strumento terapeutico lo fanno non utilizzando farmaci a penetrazione transdermica orale (Sativex e simili) o i sistemi di evaporazione a basse temperature, bensì attraverso la combustione della pianta e resina secche. Di contro sono molti scarsi gli studi sugli effetti e l’efficacia della Cannabis assunta con l’inalazione del fumo.

Per questo è  interessante lo studio clinico randomizzato (e qui) sull’effetto analgesico della cannabis in casi di neuropatia cronica  eseguito da un gruppo di ricerca del McGill University Health Centre (MUHC) e della  McGill University.

I ricercatori hanno testato fumo di cannabis a tre livelli di THC: 2.5%, 6%e  9.4%. più un placebo allo 0%. I risultati sono stati anche in questo caso chiari: la dose di 25 mg al 9,4% di THC per tre volte al giorno per cinque giorni consecutivi ha portato ad una riduzione significativa dell’intensità media del dolore, la qualità del sonno è migliorata in maniera dose dipendente, l’ansia e la depressione si sono ridotte alla dose di THC pari al 9.4%

Oltre all’utilizzo della Cannabis e dei suoi derivati, i ricercatori da tempo cercano di utilizzare i cannabinoidi endogeni (endocannabinoidi), scoperti per l’appunto grazie alla ricerca sulla Cannabis, come farmaci. Il razionale è questo: lavorando sugli enzimi che degradano gli endocannabinoidi si cerca di aumentare la loro emivita aumentando quindi la loro azione ansiolitica e analgesica. Questa strategia ha funzionato per uno dei due endocannabinoidi principali, l’anandamide. Quando il suo enzima degradante, l’idrolasi delle ammidi degli acidi grassi (fatty acid amide hydrolase – FAAH) viene inibito i livelli di anandamide si elevano riducendo dolore ed infioammazione, e senza segnali di abituazione.

Diverso invece il discorso per quanto riguarda un altro endocannabinoide, il 2-arachidonilglicerolo (2AG), che sembrerebbe più promettente dell’anandamide, dato che la sua concentrazione cerebrale è naturalmente più elevata.  Infatti l’utilizzo di un bloccante selettivo dell’enzima che degrada il 2AG (la monoacilglicerolo lipasi – MAGL) porta ad un aumento dell’effetto analgesico di un fattore otto, effetto che però si riduce dopo sei giorni, e poirta a vari segnali di abituazione anche ad altre sostanze (THC e composti di sintesi con attività di legame ai recettori cannabinoidi CB1). Questi risultati implicano che a differenza dell’anandamide, il 2AG porta ad abituazione (e forse a dipendenza), probabilmente attraverso un meccanismo di downregolazione dei recettori CB1 in alcune aree del cervello.