Uomo e piante 7/dimoltialtri

Dopo un imperdonabile iato concludo la prima tranche di elucubrazioni uomo-piantesche. Potete recuperare le puntate precedenti qui, qui, qui, qui, qui, e qui.

Per approfondimenti correlati ma tangenziali consiglio i sempre ottimi post di Meristemi (aka Erba Volant) qui, qui e qui.

Alcuni testi sono stati importanti per la scrittura di questo post, e più in generale per immaginare la serie stessa: questo, questo, questo, questo e questo.

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Riprendendo le fila del discorso, nella puntata incentrata sul rapporto chemioecologico e coevolutivo tra uomo e piante avevo citato vari autori (ma ho fatto e farò principalmente riferimento a Johns)[1] secondo i quali l’individuazione da parte dell’uomo di alcune piante “specificamente” medicinali fosse da far derivare dalla combinazione di vari fattori, quali:

  • lo sviluppo di meccanismi biologici, comportamentali e tecnologici di gestione del contatto con le piante e con i compostiin esse contenuti (fuoco, meccanismi di detossificazione);
  • la possibilità, resa concreta da tali meccanismi, di avvantaggiarsi delle proprietà tossiche delle piante in senso farmacologico;
  • l’avvento della tecnologia e dell’agricoltura che, modificando gradualmente ma drasticamente, la dieta umana, resero possibile l’assunzione di maggiori quantità di proteine (derivate da piante coltivate e carne di allevamento) e di minori quantità di piante tossiche nell’alimentazione;
  • il paradossale aumento della varietà di specie vegetali non coltivate (e del lessico ad esse associato) disponibili ed utilizzate dalle popolazioni di orticultori rispetto a quelle dei cacciatori-raccoglitori (il c.d. paradosso botanico-dietetico, vedi sotto).

Secondo Johns è grazie a questi fattori che l’uomo ha potuto nutrirsi con meno rischi (sviluppando meccanismi biologici e tecniche di detossificazione, e poi selezionando piante meno ricche in metaboliti secondari) ed ha potuto iniziare a isolare le piante più ricche in composti farmacologicamente attivi da quelle coltivate a scopo alimentare, quindi a distinguere il campo “terapeutico” da quello nutrizionale,[2] permettendo l’isolamento di una nuova categoria, addirittura di un nuovo oggetto: le piante “medicinali”.[3]

Quindi la medicina, intesa come pratica culturale che comprende l’utilizzo intenzionale di sostanze farmacologicamente attive, affonderebbe le sue radici in un dato biologico evoluzionistico (che fissa diciamo le condizioni di esistenza della medicina) ma nasce nel momento in cui diviene possibile isolare esplicitamente degli elementi (e quindi degli operatori) come terapeutici.

Sembra quindi che il passaggio all’agricoltura, a cui ho accennato in questa precedente puntata, oltre ad essere stato rivoluzionario dal punto di vista alimentare, sociale e culturale, abbia giocato un ruolo cardine anche nello sviluppo della medicina. Vorrei quindi soffermarmi in questa puntata proprio sui dettagli di questo passaggio, riprendendo ed approfondendo alcuni degli argomenti affrontati nei post sulla fitoalimurgia Chepang (qui e qui).

Le conseguenze del passaggio all’agricoltura: medicine alimentari e alimenti medicinali
Il graduale passaggio dalla caccia-raccolta all’agricoltura costituisce uno snodo cruciale che ha influenzato i successivi fenomeni di utilizzo delle piante. Ha influenzato sia le competenze dei gruppi umani rispetto alle piante medicinali, sia le loro competenze alimentari, e quindi la loro possibilità di curarsi e nutrirsi.

I dati etnobotanici si possono spesso analizzare secondo due assi; uno è quello che unisce piante alimentari e piante medicinali (l’asse piante alimentari-medicinali, o asse AM) e l’altro è quello che unisce piante selvatiche e piante coltivate (l’asse piante selvatiche-coltivate, o asse SC). I punti di contatto e di sovrapposizione tra questi assi, punti di contatto e relazioni spesso complesse e soggette a fenomeni di coevoluzione biologica e culturale, sono importanti per comprendere in che modo le competenze degli uomini siano state influenzate dal passaggio all’agricoltura.

Questo tipo di analisi è complesso. La distanza temporale che ci separa dall’oggetto di studio non permette di testare direttamente le ipotesi presentate, né di sapere direttamente quale fosse il rapporto tra le popolazioni preistoriche e il mondo vegetale. Inoltre, come è già stato sottolineato, il passaggio da un tipo di rapporto alimentare ad un altro non ha seguito una traiettoria inevitabile, lineare, unidirezionale, intenzionale: “e certamente non un allontanamento “naturale” e inevitabile” dalla caccia e raccolta.[4] Lungo l’asse raccolta-agricoltura sono state possibili tutte le permutazioni, alcune di esse ancora visibili al giorno d’oggi”: caccia e raccolta, orticoltura (coltivazioni estensive, a bassa tecnologia, con orti familiari a multicoltura), debbio, agricoltura (coltivazione intensiva, ad elevata tecnologia e a monocoltura) ed agricoltura industriale.[5]

La letteratura etnobotanica ci può aiutare offrendo all’analisi le conoscenze e le competenze che caratterizzano e distinguono il rapporto con le piante proprio dei cacciatori-raccoglitori da quello degli agricoltori[6]; ci offre quindi uno strumento essenziale per avanzare delle ipotesi su come sia cambiato il rapporto con il mondo vegetale durante il neolitico, su come le conoscenze e le competenze rispetto alle piante siano cresciute e cambiate, e su come tutto questo abbia a che fare con la nascita della medicina.

Per meglio valutare il significato dei dati etnobotanici è però necessario soffermarsi sulla terminologia che utilizzeremo, e sui problemi che derivano dalla necessità di semplificare la complessità. Negli studi quantitativi in antropologia è necessario, infatti, utilizzare categorie specifiche, appunto per permettere uno studio analitico. Questa necessità si scontra però con problemi definitori e di demarcazione, in particolare su due assi, quello del continuum tra piante alimentari e piante medicinali (asse AM), e quello del continuum tra piante selvatiche e piante coltivate (asse SC).[7]

L’asse AM

Anche se è sempre possibile identificare degli esemplari delle due categorie che non lasciano spazio all’ambiguità (ad esempio grano come alimento e Atropa belladonna come medicina), i confini tra piante alimentari e medicinali non sono sempre così netti. Alcuni autori sostengono, infatti, che questa distinzione è in realtà largamente assente nelle popolazioni indigene o è comunque fortemente dipendente dal contesto.

E’ necessario quindi introdurre nuove definizioni che descrivano senza semplificare eccessivamente il continuum alimentare-medicinale. Pieroni e Quave propongono tre categorie:[8]

  1. Piante usate sia come medicine sia come cibo, ma senza alcuna correlazione tra i due usi.
  2. Piante che a parte gli scopi alimentari o edonistici hanno anche altri effetti sul corpo (depurativi, alterativi, tonici del sangue, antiossidanti, ecc.): definiti come cibi funzionali.
  3. Piante che vengono consumate chiaramente come alimento ma per ottenere effetti specificamente terapeutici: definiti come cibi medicinali o medicine alimentari.

L’asse SC.

Altrettanto complessa è la categorizzazione delle piante in base al loro rapporto con l’uomo in termini di gestione. Anche in questo caso i poli estremi sono facilmente identificabili (piante selvatiche e piante addomesticate e coltivate) ma il territorio intermedio presenta molte sfumature e sovrapposizioni. Ad esempio, ci dice la Price, le piante eduli semi-selvatiche, o selvatiche ma gestite e non addomesticate, sono una caratteristica primaria dei sistemi agricoli. Allo stesso tempo sono differenti dalle piante selvatiche dei cacciatori-raccoglitori, perché provengono molto spesso da aree di successione, ruderali, bordi stradali, ecc., piuttosto che dalla foresta.

Vari autori propongono un elenco di categorie basato sulle differenti pratiche agricole e sulla selezione che operano sulle piante:[9]

  1. Piante addomesticate: geneticamente modificate e completamente dipendenti dall’uomo.
  2. Piante semiaddomesticate: parzialmente modificate e non compeltamente dipendenti dall’uomo.
  3. Piante coltivate: introdotte in sistemi agronomici e mantenute in letti di coltivazione.
  4. Piantegestite: protette grazie all’attività umana e aiutate nella competizione con le altre piante.
  5. Piante selvatiche in senso stretto: usate ma non coltivate né gestite.

Nota Bene: le piante di cui ai punti 2, 4 e 5 possono essere definite come piante selvatiche in senso lato.

Per portare un esempio calato nella realtà, Hanazaki e collaboratori, in uno studio sulle piante alimentari e medicinali in Amazzonia, distinguono 4 tipi di rapporto con le piante:[10]

  1. Piante con nessuna o ridotta gestione umana, tutte native, raccolte nella foresta, e che costituiscono il 26% delle piante totali utilizzate.
  2. Piante facilitate dalla gestione umana, native all’80%, raccolte in molti ambienti diversi, nella foresta, nelle coltivazioni a debbio, nelle zone ruderali e nelle vicinanze delle case. Costituiscono il 12% delle piante totali utilizzate.
  3. Piante coltivate ma raramente, native solo al 20%, raccolte in molti ambienti diversi ma non nella foresta: coltivazioni a debbio, nelle zone ruderali, nelle vicinanze delle case e negli orti. Costituiscono la maggior parte (56%) delle piante utilizzate.
  4. Piante coltivate. Native solo al 20%, raccolte nelle zone di coltivazione a debbio. Costituiscono solo il 6% delle piante totali utilizzate.[11]

La formazione del sapere relativo alle piante nel passaggio all’agricoltura

Logan e Dixon, cercando di dare risposta a questa domanda, propongono che le popolazioni indigene di cacciatori-agricoltori utilizzino una percentuale limitata dei taxa disponibili, scelta tramite un processo non casuale di selezione basato su caratteristiche poco usuali che permettono di distinguere facilmente alcune piante da altre. Operando questa forte selezione, tralasciando moltissime piante e concentrandosi solo su poche specie “interessanti”, da investigare, l’uomo “trasforma un problema intrattabile in un dominio di indagine gestibile”.[12]

Nancy Turner identifica alcune caratteristiche che definiscono la “salienza percettiva”, l’ ”ovvietà”, delle piante “interessanti”:[13]

  • Essere ubiquitarie
  • Morfologia, colori, aromi, sapori rari o facilmente individuabili
  • La capacità di causare forti reazioni (ad esempio dermatite da contatto)
  • L’essere libere da infestazioni
  • Il fatto che altri animali se ne cibino,
  • Il possedere caratteristiche antropomorfe

Una volta individuate, queste caratteristiche servono come strumenti euristici per categorizzare altre piante, all’interno di una tassonomia locale trasversale alla tassonomia scientifica. Ad esempio, le piante allucinogene del genere Datura [Solanaceae] sono amare, piccanti e nauseanti, e queste caratteristiche sono state utilizzate dalle popolazioni indigene per predire proprietà allucinogene in altre specie che possedevano le stesse caratteristiche.

Le conoscenze e le tassonomie popolari sono molto più sensibili al contesto e meno generalizzabili delle tassonomie scientifiche, per cui è del tutto probabile che questi processi di acquisizione del sapere e di generalizzazione abbiano portato ad incidenti (intossicazioni o avvelenamenti), ad esempio quando spostandosi da aree conosciute a nuovi territori, con nicchie ecologiche diverse, i raccoglitori utilizzano piante che paiono sovrapponibili a quelle conosciute ma ne differiscono, a volte con risvolti tossici.[14]

Un’occhiata ai dati

Louis Grivetti, uno degli autori che più hanno contribuito a definire il campo della ricerca tra cibo e medicina, riporta i risultati di uno studio effettuato nel 1973 in Botswana, nel deserto del Kalahari, tra i popoli Tswana, ed in particolare con i baTlokwa.[15]

I baTlokwa sono coltivatori con una vasta conoscenza delle piante selvatiche commestibili (Grivetti registra più di duecento specie conosciute),[16] che servono a sostenere l’alimentazione della popolazione in tempi di scarsità, quando le cultivar alimentari tipiche scompaiono per la siccità o per una stagione particolarmente povera.

Alcune di queste piante sono semplici cibi spontanei, altre sono dei cibi-medicina, altre ancora sono delle piante consumate come cibo solo in situazioni di emergenza alimentare, i cosiddetti cibi da carestia (ad esempio i frutti ed I semi di “magabalka” [Cucumis myriocarpus Naudin — Cucurbitaceae], solitamente usati come foraggio, o le foglie di “moologa” [Croton gratissimus Burch. — Euphorbiaceae], normalmente usata come pianta magica, o la radice di “motlopi” [Boscia albitrunca (Burch.) Gilg & Benedict Capparaceae o Brassicaceae], usata al posto del sorgo [Sorghum arundinaceum (Desv.) Stapf — Graminae].

Che le piante selvatiche svolgano un ruolo importante per il sostentamento della popolazione è sottolineato, secondo l’autore, dal diverso destino delle popolazioni del Kalahari orientale e del Sahel:

“(p)er più di cento anni i baTlokwa del deserto del Kalahari orientale, nel Botswana, non hanno sofferto di carestie o di ripercussioni a livello sociale a causa della siccità. Tale successo alimentare in quest’area è dovuto all’equilibrio tra offerta ambientale e decisioni culturali. Il Kalahari orientale offriva una elevata diversità di piante selvatiche eduli, ed i baTlokwa utilizzavano regolarmente tali risorse. Il messaggio più importante che emerse dopo due anni di lavoro sul campo fu che la siccità non aveva causato carestie, e che una spiegazione per il disastro del Sahel [ovvero la tremenda carestia che colpì la regione del Sahel a seguito di una lunga siccità, proprio negli anni della ricerca nel Kalahari. NdT] era l’incapacità culturale a riconoscere ed utilizzare le risorse alimentari selvatiche disponibili — cibi che in precedenza erano stati utilizzati come sostentamento durante le siccità“.[17]

In una ricerca basata nello Swaziland gli autori notano che il 40% degli informatori usa il 50% e più di piante selvatiche per l’alimentazione, raccolte nei campi coltivati o gestite negli orti casalinghi. Gli autori scoprono altresì che i bambini mostrano maggiori competenze rispetto agli anziani, al contrario di ciò che Grivetti aveva notato nel Kalahari, e propongono che ciò sia dovuto al fatto che I bambini devono attraversare varie zone ecologiche diverse per andare a scuola, e sono quindi esposti ad una maggior diversità vegetale.[18] In Nigeria, tra gli Hausa, il 93% della popolazione gestisce e protegge le piante infestanti, ed il 50% del cibo vegetale viene raccolto nel selvatico (nello specifico 39 specie raccolte negli orti familiari, 6 specie raccolte lungo i bordi dei campi e dei sentieri, e 16 specie raccolte nei terreni a gestione comunitaria).[19] Nel Burkina Faso Smith e collaboratori riportano che il 36% dei vegetali consumati nei villaggi (ed il 20% di tutti gli alimenti) sono selvatici.[20] Vainio-Mattila osserva che tra i Sambara in Tanzania i vegetali consumati includono 73 specie di piante selvatiche, ruderali o infestanti.[21]

In Kazakistan il 25% delle famiglie raccoglie piante selvatiche (bacche, bulbi, frutta, piante medicinali e funghi).[22]

Secondo la Price in Tailandia, nei terreni coltivati a riso (ed intorno ad essi), si riconoscono e raccolgono 77 specie di piante selvatiche.[23] Inoltre quasi il 90% delle famiglie gestisce piante non domesticate negli orti familiari.

La raccolta delle piante è demandata quasi totalmente alle donne, per le quali questa attività è secondaria ad altre. Dato infatti che le donne svolgono molte attività legate alla casa, alla famiglia, al gruppo sociale, e sono per questa ragione costrette a muoversi sul territorio e a trapassare molti confini ecologici, esse entrano in contatto con molte specie diverse di piante (in maniera simile a quanto visto per i bambini nello Swaziland) che vengono raccolte “sulla via per” fare qualcosa d’altro.[24]

Nel Nepal centrale, nella comunità Chepang della zona di Shaktikhor, sul massiccio del Mahabarath, la maggior parte dei nuclei familiari (ca. il 90%) usa le risorse forestali o non coltivate a scopo medicinale, per venderle al mercato, o per sopperire ad una vera e propria mancanza di cibo (il 75% dei nuclei familiari), e gestisce in qualche modo le piante selvatiche, sia attraverso una protezione in situ, sia attraverso processi preagricoli di domesticazione. Tutte le famiglie stoccano, oltre ai cereali coltivati, piante selvatiche, in particolare Githa (Dioscorea bulbifera L. — Dioscoreaceae) e Bhyakur (Dioscorea deltoidea Wall. ex Griseb.) e in minor misura dei germogli di bambù (Bambusa nepalensis Stapleton – Poaceae).

In generale le donne Chepang sono leggermente più competenti degli uomini rispetto alle piante selvatiche, ma la differenza non è molto significativa. E’ possibile che le ridotte competenze agricole dei Chepang possano in parte spiegare questa uniformità tra uomini e donne: non avendo sviluppato molto la coltivazione degli orti familiari, forse è venuta a mancare alle donne Chepang la possibilità di aumentare le loro competenze sulle piante degli ambienti di transizione.[25]

In uno studio sulla zona amazzonica Hanazaka e collaboratori sottolineano come la foresta contribuisca solo al 28% per le specie selvatiche consumate, mentre le zone ruderali e I terreni intorno alle case contribuiscono per il 52%, e gli orti e le coltivazioni a debbio per il 20%.[26] In maniera simile Dufour e Wilson notano che il 41% delle piante eduli amazzoniche sono alberi, di cui il 50% proviene dalla coltivazione a debbio.[27] Emerge quindi l’importanza delle zone a vegetazione successionale, a crescita secondaria.[28]

A Cuba su circa 260 specie di piante medicinali e alimentari, solo 25 sono delle cultigen. Tra le non-cultigen, 82 (di cui 39 cibi-medicina) provengono da raccolta in area agricola, 36 (di cui 6 cibi-medicina) dai bordi dei campi, e 56 (di cui 16 cibi-medicina) dalle terre a gestione comunitarie.[29] La ricerca di Vandebroek e Sanca sulle Ande boliviane ha riscontrato che il 58% delle specie medicinali-alimentari è selvatica, e che le famiglie con la miglior sovapposizione tra uso medicinale ed alimentare sono Lamiaceae, Fabaceae, Asteraceae, e Solanaceae.[30]

Nello studio di Ana Ladio sull’utilizzo delle piante selvatiche in una comunità Mapuche della Patagonia nordoccidentale si evidenzia che:

  • Le piante medicinali-alimentari sono raccolte più vicino agli insediamenti
  • Viene dedicato meno tempo alla raccolta delle piante medicinali-alimentari rispetto a quelle alimentari
  • Vengono raccolte quantità minori di piante medicinali-alimentari rispetto a quelle alimentari.[31]

La stessa autrice nota una buona sovrapposizione tra piante alimentari e piante medicinali, e delle chiare differenze chemiotassonomiche tra piante medicinali-alimentari (evolutivamente più recenti) e piante esclusivamente alimentari (evolutivamente più antiche).[32]

Proprio quest’ultimo dato pare particolarmente interessante. Ritornando a quanto accennato nel capitolo sull’evoluzione dei sistemi di difesa chimici delle piante, il rapporto tra la percentuale di piante medicinali presenti in una famiglia botanica ed il livello evolutivo della famiglia stessa sembra coerente con quanto sappiamo sull’evoluzione.

Prendendo per buona questa ipotesi, il riconoscimento da parte dell’uomo di questo trend dovrebbe avere un effetto sull’evoluzione antropogenica, nel senso che la selezione da parte delle popolazioni umane delle piante “utili” tenderebbe a far risaltare maggiormente questa distinzione.

Ad esempio: “nella discussione sull’addomesticamento è di fondamentale importanza includere (nell’analisi NdT) piante con potenziale farmacologico (e non solo quelle a contenuto calorico NdT) in modo da comprendere realmente il continuum delle relazioni uomo-pianta”.[33] Nel calcolo costi/benefici della raccolta piuttosto che della coltivazione è riduttivo quindi utilizzare nell’equazione solo importi calorici senza tenere presente fattori extranutrizionali. E’ probabile che le scelte effettuate dai raccoglitori dipenderenno dalla massimizzazione delle calorie e dalla minimizzazione delle spese energetiche, ma anche dalla necessità di minimizzare gli antinutrienti e di massimizzare gli xenobiotici vantaggiosi.

Questa riflessione dovrebbe ricordarci che i processi di addomesticazione sono di natura evolutiva e mostrano molti stadi e condizioni intermedie lungo un gradiente, lungo il quale “ gli esseri umani alterano la struttura genetica delle popolazioni di piante utili, modificano la loro distribuzione ed abbondanza attraverso la gestione non agricola.[34] Questo significa che le popolazioni non modificano solo il paesaggio tramite la coltivazione ma modificano anche l’ambiente dove vivono e vengono raccote le piante spontanee gestite con modalità ‘preagricole’. In ogni momento dato l’interazione uomo-pianta è il risultato di un graduale processo di aumento dell’intensità della gestione delle piante e dell’ambiente”.[35]

Il paradosso botanico-dietetico

Nonostante comunemente si ritenga che la foresta contenga un tesoro nascosto di piante medicinali, è probabile che la maggior parte di quelle usate dai cacciatori-raccoglitori venga (ora come un tempo) dalla prateria e dai bordi forestali, e che siano le piante infestanti o ruderali a giocare il ruolo più importante.

A questa conclusione arrivano molti autori sia dopo una analisi approfondita dei testi di etnobotanica che riportano la provenienza delle piante medicinali.[36] Sia a seguito di pubblicazioni specifiche sul rapporto tra piante medicinali e infestanti. Hanazaki e collaboratori hanno ad esempio evidenziato nel loro studio sull’utilizzo delle piante alimentari e medicinali in Amazzonia, come la foresta contribuisca al 28% delle specie utilizzate, le zone ruderali e i dintorni delle case al 52%, gli orti e le coltivazioni a debbio al 20%.[37] In un altro articolo sulle piante medicinali utilizzate dai nativi americani gli autori mostrano come esista una forte preferenza per le piante infestanti: in Nord America, le infestanti rappresentano solo il 9.6% della flora, ma il 26% della flora medicinale, e in Chiapas le infestanti sono il 13% della flora ed il 34% della flora medicinale.[38]
Sette delle dodici famiglie di invasive più importanti sono famiglie molto importanti come medicinali: Asteraceae, Fabaceae, Convolvulaceae, Euphorbiaceae, Chenopodiaceae, Malvacae, e Solanaceae.[39]

Una analisi del lessico relativo al mondo vegetale rivela inoltre che spesso le società orticulturali hanno una folk taxonomy e un ventaglio di termini (su piante medicinali e malattie) in media più ricco dei cacciatori raccoglitori puri.[40] Sembrerebbe quindi, dice la Price, che l’allontanarsi dalla dipendenza totale dalla foresta come fonte di cibo comporti un aumento, e non una diminuzione, della diversità di piante consumate, che l’avvento dell’agricoltura abbia comportato certamente una perdita in biodiversità selvatica (tanto maggiore quanto più intensa/iva l’agricoltura), ma che paradossalmente in certi casi abbia aumentato la biodiversità alimentare, delle piante da carestia e delle piante cibo-medicina.[41]

Le ragioni di questo paradosso sono varie, ed includono:

1. Gli ambienti agricoli ed orticulturali hanno biodiversità comparabile o più elevata a quella della foresta.[42] L’impatto degli insediamenti umani e dell’agricoltura sul territorio avrebbe creato zone periagricole, zone di confine tra foresta e coltivazioni, e ambienti disturbati dall’attività umana, come campi, bordi, sentieri, ecc. che offrono un habitat importante per molte specie colonizzatrici, infestanti e ruderali. Questo processo avrebbe aumentato il numero di specie presenti e facilmente osservabili. Alcune di queste piante vennero addomesticate o rimasero comunque all’interno del continuum tra piante alimentari e medicinali, rivestendo ora un ruolo ora l’altro a seconda delle condizioni contingenti, andando ad arricchire il lessico delle popolazioni locali. Come ha rilevato la Price spesso la maggior diversità di piante utilizzate dipende dal fatto che le donne, per il ruolo da esse svolto nelle società tradizionali, si occupano della casa e del giardino e quindi sono in diretto contatto con tutte le aree transizionali tra foresta e coltivazioni.[43]

2. Le infestanti sono nella maggior parte dei casi piante a rapida crescita, opportunistiche, colonizzano rapidamente un’area e rapidamente muoiono. Per questa ragione esse si basano per la loro difesa sulla produzione di composti chimici qualitativi (metaboliti molto attivi e tossici come alcaloidi, terpeni, glicosidi cardiaci, ecc.) piuttosto che composti quantitativi (tannini e lignine, antinutrizionali ma non tossici), più tipici nelle piante perenni non successionali (piante da climax).[44]

3. La dieta agricola si era fortemente semplificata, passando dalle decine di piante usate come alimento dai cacciatori-raccoglitori a solo due-tre piante (a volte addirittura solo una, come nel caso del mais [Zea mays L. — Graminae] in Mesoamerica) alla base dell’alimentazione degli agricoltori.[45] Questa semplificazione portò probabilmente al desiderio di usare le piante aromatiche e resinose nella preparazione degli alimenti, per diversificare I sapori, e questo a sua volta portò ad una maggior complessità del lessico legato a sapori ed odori.

4. La conoscenza delle piante spontanee, da carestia, ecc. Funzionava da meccanismo di sicurezza in caso le coltivazioni non riuscissero a sostenere la popolazione.[46]

Conclusioni

Che conclusioni si possono trarre dai dati appena esposti?
Il concetto che la nascita dell’agricoltura e la natura ambigua delle infestanti (al limine tra alimenti o medicine) abbiano influenzato il crescere della conoscenza sulle piante sembra supportato dai dati, e permette ad alcuni autori di formulare nuove ipotesi sulla nascita di questa conoscenza, differenti da quelle unilineari che fanno dipendere la “scoperta” delle piante medicinali dal loro utilizzo come cibo. Etkin e Ross propongono ad esempio, sulla base del loro studio sulla dieta degli Hausa in Nigeria, che le piante possano essere prima identificate come portatrici di “salienza percettiva”, vengano quindi manipolate ed entrino nel continuum tra spontaneo e coltivato, vengano usate come medicine e successivamente, sotto la pressione delle emergenze, diventino anche “cibi selvatici” o “da carestia”; successive manipolazioni possono poi spostare le specie più adatte verso la domesticazione ed il passaggio a pianta decisamene alimentare.[47]

Da questa prospettiva risulta allora più chiaro il perché, ad esempio, la maggior parte delle piante con azione sulla fertilità e riproduzione umane in varie parti del mondo siano delle piante invasive, coltivate o addomesticate, ed anche perché siano spesso usate come spezie: peperoncino, menta spicata, cipolla, aglio, chiodi di garofano, noce moscata, cumino, pepe, avocado, ananas, papaia, puleggio, sesamo, agrumi.[48]

Certamente che non è possibile tracciare dei percorsi lineari nel rapporto uomo-piante. Percorrendo lo spettro tra caccia e raccolta ed agricoltura spinta, ciò che colpisce è che seppure la dieta e le competenze naturali degli agricoltori intensivi siano certamente di inferiore qualità rispetto a quella dei cacciatori-raccoglitori, in alcuni degli stadi di passaggio tra i due poli le competenze sono aumentate, e non diminuite, e probabilmente anche la dieta, fino a quando le piante selvatiche ricche in composti farmacologicamente attivi sono rimaste parte integrante della dieta, seppure iniziando a distinguersi dalle piante esclusivamente alimentari.

L’ipotesi di Johns sulla nascita della medicina grazie alla possibilità di scindere le piante alimentari da quelle medicinali sembra plausibile, ma una divisione assoluta dei due campi, anche materialmente, si avvera solo con l’agricoltura intensiva dell’epoca contemporanea, e coincide con una perdita in qualità dell’alimentazione. Nella estremizzazione dello spettro (piante solo alimentari, solo caloriche, strippate di ogni contenuto allelochimico, e farmaci estremamente attivi, monomolecolari, estremamente potenti) si sono perse (si stanno perdendo) le competenze rispetto a quel mondo ambiguo e variegato nel quale possiamo ingerire alimentandosi sostanze farmacologicamente attive. Ma durante il processo che ci ha portato qui l’uomo ha imparato a distinguere I due campi pur continuando ad utilizzare piante-medicina nell’alimentazione.


Note

[1] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press

[2] Distinzione che però si esplicita solo nell’era moderna, se è vero che per tutta l’antichità classica ed il medioevo i due campi sono ancora molto sovrapposti

[3] Johns 1990 op. cit.

[4] Sarebbe ad esempio scorretto pensare ai cacciatori-raccoglitori come a dei meri sfruttatori del territorio nel quale raccolgono il cibo; anche essi, come gli agricoltori, lo gestiscono, seppure in maniera differente. (Logan M.H., Dixon A.R. “Agricolture and the acquisition of medicinal plants knowledge”. In N.L., Etkin (ed.) (1994) Eating on the wild side: The pharmacologica, ecological, and social implications of using noncultigens pp. 25-45; Moerman D.M. “North american food and drug plants”. In N.L., Etkin (Ed.), 1994 op. cit. pp. 166-184; Diamond, Jared (1997) Guns, Germs, and Steel: the fates of human societies. W.W. Norton & Co. Ed italiana Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Torino, Einaudi 2000).  I Siona-Secoya del bacino del Rio delle Amazzoni, ad esempio, derivano il loro cibo principalmente da piante coltivate (in giardini che ricavano nell’intorno della foresta e vicino ai villaggi), da caccia e pesca, ma consumano frequentemente anche i frutti di piante spontanee (in realtà meglio descritte come “antropofite” o invasive) come le palme Ita [Mauritia flexuosa L.f.] e Tucuma [Astrocaryum tucuma C. Martius], il Tacay [Caryodendron orinocense Karsten — Euphorbiaceae], le Inga spp. [Fabaceae], lo Zapote [Quararibea spp. — Bombacaceae], Pseudolmedia laevis [Moraceae], Physalis angulata [Solanaceae] e Phytolacca rivinoides [Phytolaccaceae]. (Vickers WT (1994) “The health significance of wild plants for the Siona and Secoya”. In NL Etkin (1994) pp. 143-165)

[5] Etkin, NL (2006) Edible medicines: An ethnopharmacology of food. Arizona University Press

[6] La separazione tra i due campi non è netta, sono cioè esistiti cacciatori-raccoglitori sedentari, agricoltori non sedentari. E’ probabile che la percentuale di cacciatori-raccoglitori sedentari fosse molto più elevata 15.000 anni fa (quando tutti erano cacciatori-raccoglitori.) che in tempi moderni, perché le risorse erano maggiori

[7] Hanazaki N, Peroni N, Begossi A (2006) “Edible and healing plants in the ethnobotany of native inhabitants of the Amazon and Atlantic forest area of Brazil”. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[8] Pieroni, A. e Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania” in A., Pieroni e L., Leimar Price (eds.)  (2006) Eating and Healing, Haworth Press,  p. 110

[9] Price LL (2006) “Wild food plants in farming environment”s. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York.; Johns T (1994) Ambivalence to the palatability factors in wild foods plants. In NL Etkin (ed.) Eating on the wild side: The pharmacological, ecological, and social implications of using noncultigens. Arizona University Press, pp. 46-61e Huss-Ashmore e Johnson 1994 “Wild plants as cultural adaptations to food stres” in NL Etkin (1994) op. cit. pp.

[10] Hanazaki et al. (2006) op. cit.

[11] Si nota quindi che le piante non gestite sono tutte native e coincidono quasi perfettamente con le piante della foresta, mentre le piante coltivate sono per la maggior parte introdotte e si trovano esclusivamente nelle zone ad addebbio

[12] Logan, Dixon, 1994 op. cit.

[13] Turner N.J., (1988) “The importance of a rose: Evaluating the cultural significance of plants” American Anthropology 90:272-290

[14] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[15] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[16] L’autore nota anche una perdita di competenze da parte dei giovani a causa di un ridotto trasferimento verticale delle conoscenze tradizionali, un dato riportato da moti altri autori

[17] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) (2006) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York. Questa indagine stimola in Grivetti alcune domande centrali rispetto al ruolo delle piante selvatiche in società in transizione tra caccia-raccolta e agricoltura: le piante selvatiche eduli erano centrali o secondarie rispetto al mantenimento della qualità dell’alimentazione? Esse duplicavano o complementavano l’energia ed i nutrienti derivanti dalle piante coltivate? E’ lo stesso autore a proporre che le competenze sulle piante selvatiche abbiano rappresentato per i baTlokwa una risorsa di duttilità ed adattabilità alimentare che ha aumentato la capacità di rispondere alle emergenze e la variabilità alimentare

[18] Ogle BM e Grivetti LE (1985) “Legacy of the chamaleon. Edible wild plants in the kingdom of Swaziland, southern Africa. A cultural, ecological, nutritional study. Part 1: Introduction, objectives, methods, Swazi culture, landscape, and diet”. Ecology of Food and Nutrition 17:1-30

[19] Etkin NL, e Ross PJ (1994) “Pharmacological implications of “wild” plants in Hausa diet”. In NL Etkin (ed.) 1994 op. cit. ; Humphry C, Clegg MS, Keen C, e Grivetti LE (1993) “Food diversity and drought survival. The Hausa example”. International Journal of Food Sciences and Nutrition 44:1-16

[20] Le piante più comuni sono il baobab [Adansonia digitata L. — Bombaceae], la marula [Sclerocarya birrea (A. Rich.) Hochst. — Anacardiaceae] e il tamarindo [Tamarindus indica L. — Leguminosae]. La raccolta viene effettuata soprattutto (81%) da donne e ragazze per uso familiare, mentre gli uomini raccolgono piante solo per uso personale. cfr. Smith GC, Clegg MS, Keen CL e Grivetti LE (1995) “Mineral values of selected plant foods common to southern Burkina faso and to Niamey, Niger, West Africa”. International Journal of Food Sciences and Nutrition 47:41-43; Smith GC, Duecker SR, Clifford AJ, e Grivetti LE (1996) “Carotenoid values of selected plant foods common to southern Burkina Faso, West Africa”. Ecology of Food and Nutrition 35:43-58

[21] Vainio-Mattila K (2000) “Wild vegetables used by the Sambara in the Usambara Mountains, NE Tanzania”. Annales Botanici Fennici 37:57-67

[22] Dalsin MF, Laca EA, Abuova G, e Grivetti LE (2006) “Livestock-owning households of Kazakstan. Part 1: Food systems”. Ecology of Food and Nutrition 41:301-343

[23] Price LL (2006) op. cit.

[24] Ogle BM e Grivetti LE (1985) op. cit.

[25] Rijal, Arun. (2008) “A Quantitative Assessment of Indigenous Plant Uses Among Two Chepang Communities in the Central Mid-hills of Nepal.” Methods 6: 395-404

[26] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[27] Dufour DL e Wilson WM (1994) “Characteristics of “wild” plant foods used by indigenous populations in Amazonia”. In NL Etkin (ed.) 1994 op. cit.

[28] Vickers 1994 op. cit.

[29] Volpato G, Godìnez D (2006) “Medicinal foods in Cuba: Promoting health in the household”, in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[30] Vandebroek I e Sanca S (2006) Food medicines in the Bolivian Andes (Apillapampa, Cochabamba Department) in A. Pieroni, LL Price (eds.) op. cit.

[31] Secondo l’autrice questa differenza è spiegata dalla teoria del rapporto tra contenuto calorico della pianta ed energia spesa per ottenerla, ma la teoria non tiene conto delle possibili variabili extranutrizionali

[32] L’autrice riporta che tra le piante alimentari e medicinali (che comprendono il 63% di tutte le specie selvatiche) le famiglie botaniche più rappresentate sono le Apiaceae (con 4 specie), le Asteraceae e le Oxalidaceae (2 specie), e le Lamiacese e Caryophylaceae. Lo schema è diverso per le piante eduli: le famiglie più rappresentate sono: Araucariaceae, Berberidaceae, Rosaceae, Celastraceae, Myrtaceae, e Saxifragaceae. cfr. Ladio AH (2006) “Gathering of wild plant foods with medicinal use in a Mapuche community of Northwest Patagonia” in A. Pieroni, LL Price (eds.) op. cit.

[33] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[34] Harlan JR (1995) The living fields. Our agricoltural heritage. Cambridge, Cambridge University Press

[35] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[36] Alcorn, J.B. Huastec Maya ethnobotany. University of Texas Press, Austin, Texas, 1984, pp. 311–312.; Arvigo, R., Balick, M. Rainforest Remedies: 100 Healing Herbs of Belize. Lotus Press, Twin Lakes, Wisconsin, 1993; Caniago, I. & Siebert, S.F. (1998) “Medicinal plant ecology, knowledge and conservation in Kalimantan, Indonesia”. Econ. Botany 52:229–250; Frei, B., Sticher, O. & Heinrich, M. (2000) “Zapotec and Mixe use of tropical habitats for securing medicinal plants in Mexico”. Econ. Botany 54:73–81; Posey, D.A. “A preliminary report on diversified management of tropical forest by the Kayapó Indians of the Brazilian Amazon”. In: Prance, G.T., Kallunki, J.A. (Ed.), Ethnobotany in the Neotropics. New York Botanical Garden, New York, 1984, pp. 112–126

[37] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[38] Stepp J. R., F.S. Wyndham e R.K. Zarger (eds.) Ethnobiology and biocultural diversity.  Proceedings of the Seventh International Congress of Ethnobiology, University of Georgia Press, 2002; Moerman, D.E. (2001) “The importance of weeds in ethnopharmacology” Journal of Ethnopharmacology, 1(75): 19-23

[39] Holm L. (1978) “Some characteristics of weed problems in two worlds”. Proc. West. Soc. Weed Sci. 31:3–12

[40] Meilleur BA (1994) “In search of ‘keystone societies’ ”. In NL Etkin (1994) op. cit.

[41] Price LL (2006) op. cit. A movement away from dependance on plants from forest as food and medicine appears to be accompanied by an increase in comnsumption of plant foods and medicines gathered from the farming environment, and that this occurs as a cross-cultural phenomenon. Thus as agricolture grows and old forest growth declines and is farther and farther away from the dwellings (and gatherers) there is growing reliance on plant foods fron environments disturbed by human activitiy, individual fields, border areas, footh paths etc. Undoubtedly, species composition changes with land use change and agronomic practices. New species are brought into the diet through a process of experimentation, but not without difficulty.

[42] Conklin H (1961) “The study of shifting cultivation”. Current Anthropology 1:27-61; Kunstader P (1978) “Ecological modification and adaptation: An ethnobotanical view of Lua’swiddeners in northwesterne Thailand”. In R. Ford (Ed.) The nature and status of ethnobotany. Ann Arbor: University of Michigan Museum of Anthropology

[43] Price LL (2006) op. cit.

[44] Stepp (2002) op. cit.; Moerman (2001) op. cit.

[45] Per inciso, questa semplificazione ha in certi casi portato ad un peggioramento dello stato di salute, se è vero che, come indicano i dati sulle popolazioni di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti, gli agricoltori lavoravano di più ed erano peggio nutriti, con un minor tasso di sviluppo neonatale, un maggior tasso di malattie (di solito con maggiori infestazioni parassitarie), e minor longevità rispetto ai cacciatori-raccoglitori (probabilmente per un impoverimento della varietà di nutrienti e composti secondari ingeriti). Diamond 1997 op. cit.; Johns 1990 op. cit.; Kiple 1993 op. cit.; Vickers 1994 op. cit.

[46] Logan, Dixon, 1994 op. cit.

[47] Etkin N.L. (Ed.) 1996 op. cit.

[48] Va sottolineato che l’identificazione delle piante come medicinalmente attive da parte delle popolazioni non coincide necessariamente con una loro effettiva efficacia. L’effetto placebo e le influenze culturali sono sempre presenti.

Promozioni aromaterapiche, encore

Ci risiamo, dopo un paio di annetti sono di nuovo qui a promuovere il corso di massaggio ed aromaterapia.
Quest’anno, come CIAM, ci siamo messi in gioco con una realtà sociale, la cooperativa Azalea, con la quale abbiamo pensato di organizzare un corso annuale (con meno ore ma più compresso del corso biennale) per professionisti della cura, come infermieri, OSS, fisioterapisti, ed altre figure o persone interessate.
Rispetto al corso biennale appena terminato abbiamo ridotto la parte dedicata alla formazione di base (anatomia e fisiologia) dato che le figure professionali alle quali il corso è diretto hanno già formazione ed esperienza nel campo.
Il corso quest’anno sceglie di focalizzarsi sulla possibilità di utilizzare le tecniche di tocco e massaggio e gli olii essenziali negli ambiti di cura, ospedalieri, medicalizzati. In particolare il corso affronterà i temi della disabilità, degli anziani, dei bambini, del disturbo psichico, della lungodegenza e degli ambienti altamente medicalizzati (ad esempio le unità di terapia intensiva), e della diversità culturale, temi che individuano il campo d’intervento della cooperativa Azalea.
Rispetto all’anno scorso abbiamo anche scelto di dedicare più tempo anche alla riflessione teorica sul concetto di tocco e cura, tocco come prendersi cura, tocco come relazione, e dedicheremo a questi argomenti vari seminari.

Qui sotto il pieghevole del corso. Per ulteriori informazioni rivolgersi a Paola Vairani ed Alice Fox, presso la mail formazioneazalea@gmail.com e il numero 393 4583600.

oncovirokiller

Cosa non si impara dai virus…

Partiamo dai meccanismi di invasione e replicazione virale. I virus, per potersi replicare, hanno bisogno dell’apparato cellulare. Le nostre cellule, d’altro canto, si sacrificano per salvare l’organismo quando siano in stato di stress o pericolo. Un gene fondamentale nei processi di tumorigenesi, il gene di inattivazione tumorale TP53, si mette in movimento ed attiva la proteina p53 ed i programmi di apoptosi (suicidio programmato) quando la cellula diventi pericolosa, o perché tumorale o perché infetta.

Gli adenovirus (responsabili per il comune raffreddore) sono in grado di inattivare la p53 comprimendo e rendendo illeggibile i suoi geni, e la stessa p53 è inattivata nella maggior parte delle cellule tumorali. Come piegare a nostro vantaggio questi fenomeni?

Un team di ricerca presso il Salk Institute for Biological Studies (qui un video, e qui la press release) ha pensato che selezionando un adenovirus a cui manca una proteina fondamentale per l’inattivazione preventiva di p53 (E1B-55K), esso non sarebbe capace di replicarsi nelle cellule normodotate di p53, ma solo in quelle nelle quali p53 è inattiva, ovvero le cellule tumorali. Se questo approccio avesse successo, si tratterebbe di una terapia oncolitica molto promettente e mirata.

Quello che è successo poi è molto istruttivo. Nonostante l’esperimento non sia stato un successo, questo insuccesso ha permesso di comprendere meglio i meccanismi di inattivazione di p53. E’ quindi un caso di scuola nel quale l’insuccesso di ottenere l’effetto B agendo sul supposto agente causale semplice A permette di rendere visibile la complessità di A, di esplicitarne le articolazioni.

Gli adenovirus mancanti di E1B-55K non hanno impedito a p53 di attivarsi, ma la cellula non ha comunque attivato il processo di apoptosi. Le indagini per capire le ragioni dell’insuccesso hanno rivelato che gli adenovirus si difendono dall’apoptpsi  attraverso meccanismi multipli (almeno una seconda proteina, E4-ORF3, è implicata). Eliminare E1B-55K aveva eliminato solo la prima componente dell’agente causale. Quello che si spera è che una volta meglio compresa la complessità dei meccanismi causali sia possibile utilizzare queste conoscenze per una terapia oncolitica promettente.

A novel mechanism used by adenovirus to sidestep the cell’s suicide program, could go a long way to explain how tumor suppressor genes are silenced in tumor cells and pave the way for a new type of targeted cancer therapy, report researchers at the Salk Institute for Biological Studies in the Aug. 26, 2010 issue of Nature.

When a cell is under stress, the tumor suppressor p53 springs into action activating an army of foot soldiers that initiate a built-in “auto-destruct” mechanism that eliminates virus-infected or otherwise abnormal cells from the body. Just like tumor cells, adenoviruses, which cause upper-respiratory infections, need to get p53 out of the way to multiply successfully.

“Instead of inactivating p53 directly, adenovirus renders the ‘guardian of the genome’ powerless by targeting the genome itself,” explains Clodagh O’Shea, Ph.D., an assistant professor in the Molecular and Cell Biology Laboratory, who led the study. “It literally creates zip files of p53 target genes by compressing them till they can no longer be read.”

The p53 tumor suppressor pathway is inactivated in almost every human cancer, allowing cells to escape normal growth controls. Yet there is still no rationally designed targeted cancer therapy to treat patients based on the loss of p53.

“All of the targeted therapies we have are based on small molecules that inactivate oncogenes, but cancer is not solely caused by the gain of growth-promoting genes,” says O’Shea. “The loss of tumor suppressors is just as important. The big question is how do you target something that’s no longer there?”

Adenovirus seemed to provide the answer. It brings along a viral protein, E1B-55K, which binds and degrades p53 in infected cells. Without E1B-55K to inactivate p53, adenovirus should only be able to replicate in p53-deficient tumor cells. Then, each time it bursts open the host cell to release thousands of viral progenies, the next generation of viruses is ready to seek out remaining cancer cells while leaving normal cells unharmed.

“This makes adenovirus a perfect candidate for oncolytic cancer therapy,” says O’Shea. “Although these viruses did their job, to everybody’s surprise, the patients’ responses did not correlate with the p53 status of their tumors,” says O’Shea. Intrigued, she and her team followed up on this unexpected finding.

Conrado Soria, Ph.D., a research assistant and co-first author of the study, quickly realized that E1B-55K was only half of the story. “The inability of the E1B-55K-mutant virus to replicate in normal cells was not because the virus failed to degrade p53,” he explains.

In unstressed normal cells, p53 is only found at low levels due to rapid degradation. In response to DNA damage, the activation of oncogenes or infection by DNA viruses, p53 degradation is halted and as a result p53 protein levels accumulate. This increase activates p53 target genes, which arrest the cell cycle or induce apoptosis.

Just as predicted, p53 started to build up in normal cells that had been infected with adenovirus lacking E1B-55K but it was still unable to turn on its target genes and start the cell on the path to apoptosis. He eventually discovered why: Adenovirus brings along another protein, E4-ORF3, which neutralizes the p53 checkpoint through a completely different mechanism.

Instead of inactivating p53 directly, the tiny protein prevents the tumor suppressor from binding to its target genes in the genome by modifying chromatin, the dense histone/DNA complex that keeps everything neatly organized within the cells’ nucleus. “These modifications cause parts of chromosomes to condense into so-called heterochromatin, burying the regulatory regions of p53 target genes deep within,” says graduate student and co-first author Fanny E. Estermann. “With access denied, p53 is powerless to pull the trigger on apoptosis.”

O’Shea hopes to exploit these new insights to understand how high levels of wild type p53 might be inactivated in cancer as well as the mechanisms that induce aberrant silencing of tumor suppressor gene loci in cancer cells. “Our study really changes the longstanding definition of how p53 is inactivated in adenovirus-infected cells and will finally allow us to develop true p53 tumor selective oncolytic therapies.”

Tidbits: un gusto repellente

Un altro tassello del mosaico complesso che descrive il funzionamento ed il ruolo dei sensi chimici. Naturalmente si parla di recettori TRP (Transient Receptor Potential) descritti altre volte (qui uno recente) come importanti per la traduzione di segnali chimici alimentari in effetti fisiologici.

In due studi (uno pubblicato su Neuron ed il secondo su Current Biology) il team di Craig Montell, ha testato due repellenti per insetti (DEET e citronellale, una aldeide presente in mote spp. di Cymbopogon). In entrambi i casi la repellenza è fortemente correlata con la presenza e funzionalità dei canali TRP (ed altri), responsabili per la percezione gustativa (DEET) e olfattiva (DEET e citronellale) delle sostanze. Fondamentalmente la repellenza sarebbe una vera e propria reazione di disgusto verso il sapore e l’odore delle sostanze testate.

Three taste receptors on the insects’ tongue and elsewhere are needed to detect DEET. Citronellal detection is enabled by pore-like proteins known as TRP (pronounced “trip”) channels. When these molecular receptors are activated by exposure to DEET or citronellal, they send chemical messages to the insect brain, resulting in “an aversion response,” the researchers report.

“DEET has low potency and is not as long-lasting as desired, so finding the molecules in insects that detect repellents opens the door to identifying more effective repellents for combating insect-borne disease,” says Craig Montell, Ph.D., a professor of biological chemistry and member of Johns Hopkins’ Center for Sensory Biology.

Scientists have long known that insects could smell DEET, Montell notes, but the new study showing taste molecules also are involved suggests that the repellant deters biting and feeding because it activates taste cells that are present on the insect’s tongue, legs and wing margins.

“When a mosquito lands, it tastes your skin with its gustatory receptors, before it bites,” Montell explains. “We think that one of the reasons DEET is relatively effective is that it causes avoidance responses not only through the sense of smell but also through the sense of taste. That’s pretty important because even if a mosquito lands on you, there’s a chance it won’t bite.”

The Johns Hopkins study of the repellants, conducted on fruit flies because they are genetically easier to manipulate than mosquitoes, began with a “food choice assay.”

The team filled feeding plates with high and low concentrations of color-coded sugar water (red and blue dyes added to the sugar), allowing the flies to feed at will and taking note of what they ate by the color of their stomachs: red, blue or purple (a combination of red and blue). Wild-type (normal) flies preferred the more sugary water to the less sugary water in the absence of DEET. When various concentrations of DEET were mixed in with the more sugary water, the flies preferred the less sugary water, almost always avoiding the DEET-laced sugar water.

Flies that were genetically engineered to have abnormalities in three different taste receptors showed no aversion to the DEET-infused sugar water, indicating the receptors were necessary to detect DEET.

“We found that the insects were exquisitely sensitive to even tiny concentrations of DEET through the sense of taste,” Montell reports. “Levels of DEET as low as five hundredths of a percent reduced feeding behavior.”

To add to the evidence that three taste receptors (Gr66a, Gr33a and Gr32a) are required for DEET detection, the team attached recording electrodes to tiny taste hairs (sensilla) on the fly tongue and measured the taste-induced spikes of electrical activity resulting from nerve cells responding to DEET. Consistent with the feeding studies, DEET-induced activity was profoundly reduced in flies with abnormal or mutated versions of Gr66a, Gr33a, and Gr32a.

In the second study, Montell and colleagues focused on the repellent citronellal. To measure repulsion to the vapors it emits, they applied the botanical compound to the inside bottom of one of the two connected test tubes, and introduced about 100 flies into the tubes. After a while, the team counted the flies in the two tubes. As expected, the flies avoided citronellal.

The researchers identified two distinct types of cell surface channels that are required in olfactory neurons for avoiding citronellal vapor. The channels let calcium and other small, charged molecules into cells in response to citronellal. One type of channel, called Or83b, was known to be required for avoiding DEET. The second type is a TRP channel.

The team tested flies with mutated versions of 11 different insect TRP channels. The responses of 10 were indistinguishable from wild-type flies. However, the repellent reaction to citronellal was reduced greatly in flies lacking TRPA1. Loss of either Or83b or TRPA1 resulted in avoidance of citronellal vapor.

The team then “mosquito-ized” the fruit flies by putting into them the gene that makes the mosquito TRP channel (TRPA1) and found that the mosquito TRPA1 substituted for the fly TRPA1.

“We found that the mosquito-version of TRPA1 was directly activated by citronellal,” says Montell who discovered TRP channels in 1989 in the eyes of fruit flies and later in humans.

Montell’s lab and others have tallied 28 TRP channels in mammals and 13 in flies, broadening understanding about how animals detect a broad range of sensory stimuli, including smells and tastes.

“This discovery now raises the possibility of using TRP channels to find better insect repellants.”

There is a clear need for improved repellants, Montell says. DEET is not very potent or long-lasting except at very high concentrations, and it cannot be used in conjunction with certain types of fabrics. Additionally, some types of mosquitoes that transmit disease are not repelled effectively by DEET. Citronellal, despite being pleasant-smelling (for humans, anyway), causes a rash when it comes into contact with skin.

Corso di Erboristeria Popolare

Ricevo e con piacere pubblico il programma del corso in Erboristeria Popolare organizato e tenuto dalla Dott.ssa Ilde Piccioli, autrice tra l’altro di un bel post sulle donne nella medicina antica.

Il corso è triennale, con frequenza mensile (una domenica al mese dalle 9 alle 18) da ottobre a giugno, e si terrà a Massa. Per maggiori informazioni rivolgetevi direttamente alla Dott. Piccioli, alla mail dafne1955@libero.it

L’erboristeria è l’antica arte della conoscenza delle piante, della loro coltivazione, raccolta e conservazione a scopi terapeutici e cosmetici. Era praticata maggiormente dalle donne, che coltivavano spezie ed erbe medicinali nei loro orti o raccoglievano piante spontanee. Le usavano fresche o le conservavano seccandole o facendo delle semplici estrazioni con vino o grappa.

Programma didattico

  • Storia e tradizioni.
  • Sistemi medici tradizionali.
  • Fisionomica e teoria delle segnature, guaritori, sciamani e streghe.
  • Orti botanici ed erbari.
  • Piante medicinali, piante officinali, piante arboree.
  • Principi attivi e fitocomplesso, fitochimica classi di composti, metaboliti primari e metaboliti secondari.
  • Preparati da piante officinali, tecniche estrattive, estratti e macerati, tinture, fitogemmoterapia.
  • Forme estrattive per uso esterno, formulazioni cosmetiche.
  • Estratti secchi, molli e fluidi.
  • Principi generali di erboristeria, tisane, infusi e decotti, apparati, organi e loro funzioni.
  • Menopausa.
  • Ansia e depressione.
  • Patologie da raffreddamento.
  • Piante esotiche e piante autoctone.
  • Olismo e visione d’insieme dell’uomo.
  • Alimentazione e salute.
  • Cibo come medicina, fitoalimurgia, le spezie alimenti e farmaci.
  • Piante tossiche.
  • Preparazione erbari secche.
  • Preparazione semplici rimedi.
  • Raccolta erbe mangerecce.
  • Schede monografiche delle piante maggiormente significative.

Finalità

La scuola si propone di fornire le conoscenze di base del mondo vegetale, con particolare

riferimento alle piante officinali ed alimentari spontanee usate nella tradizione anche locale.

  1. Si forniranno le conoscenze dal punto di vista botanico, storico, chimico ed erboristico, tenendo conto anche delle varie interpretazioni popolari (etnobotanica).
  2. Si acquisiranno competenze circa il riconoscimento di specie vegetali di interesse erboristico ed alimentare, supportate anche da uscite in località di interesse naturalistico.
  3. Verranno studiate anche le essenze arboree, con particolare attenzione a quelle di interesse fitogemmoterapico.
  4. Si forniranno conoscenze di base per la preparazione di tinture, macerati, unguenti ecc. dalle piante raccolte, in modo da poter essere utilizzate per uso personale.
  5. Si stimoleranno i partecipanti a creare piccoli “orti medicinali” e a coltivare le piante che andranno poi ad utilizzare: saranno fornite nozioni di progettazione e coltivazione di piccoli spazi verdi (giardini, terrazzi e balconi)

Docenti: dott. Ilde Piccioli, e altri

Attestato rilasciato: alla fine del triennio verrà rilasciato attestato di frequenza

Costi: 650€ per ogni annualità, pagabili in due soluzioni, 350€ all’iscrizione la restante quota a febbraio. Per pagamento all’iscrizione sconto del 10%

Tidbits: eugenolo

In un ancora più recente articolo su Applied and Environmental Microbiology, si esamina l’effetto antibatterico dell’eugenolo. E’ da molto tempo noto che questo composto (presente nell’olio essenziale di chiodi di garofano, di foglia di cannella, di alcune varietà di basilico, e in molte altre piante) mostra attività antibatterica diretta, come molti dei derivati volatili del percorso dell’acido shichimico, attraverso l’interazione con la membrana e la sua destabilizzazione o lisi. In questo articolo si osserva che anche concentrazioni al di sotto del livello inibitorio agiscono sui processi patologici associati alle infezioni batteriche. In particolare l’eugenolo sembra in grado di ridurre l’espressione di varie esoproteine (due enterotossine, SEA e SEB, e la toxic shock syndrome toxin 1) mediante azione a livello dell’espressiione genica.

Eugenol, an essential oil component in plants, has been demonstrated to possess activity against both Gram-positive and Gram-negative bacteria. This study examined the influence that subinhibitory concentrations of eugenol may have on the expression of the major exotoxins produced by Staphylococcus aureus. The results from a tumor necrosis factor (TNF) release assay and a hemolysin assay indicated that S. aureus cultured with graded subinhibitory concentrations of eugenol (16 to 128 µg/ml) dose dependently decreased the TNF-inducing and hemolytic activities of culture supernatants. Western blot analysis showed that eugenol significantly reduced the production of staphylococcal enterotoxin A (SEA), SEB, and toxic shock syndrome toxin 1 (the key exotoxins to induce TNF release), as well as the expression of {alpha}-hemolysin (the major hemolysin to cause hemolysis). In addition, this suppression was also evaluated at the transcriptional level via real-time reverse transcription (RT)-PCR analysis. The transcriptional analysis indicated that 128 µg/ml of eugenol remarkably repressed the transcription of the S. aureus sea, seb, tst, and hla genes. According to these results, eugenol has the potential to be rationally applied on food products as a novel food antimicrobial agent both to inhibit the growth of bacteria and to suppress the production of exotoxins by S. aureus.

Tidbits: Vinca

Qualche breve nota su alcuni articoli sbirciati in rete:

Un articolo appena pubblicato su PNAS illustra i meccanismi di sintesi, secrezione, compartimentazione ed escrezione degli alcaloidi della Vinca (Catharanthus roseus), e descrive gli effetti che questi meccanismi hanno sulla facilità (o meno) di ottenere farmaci per il trattamento dei tumori. Infatti, mentre i farmaci derivano dall’accoppiamento dei due alcaloidi catarantina e vindolina, i percorsi metabolici ed i meccanismi di secrezioni nella pianta risultano in una compartimentazione stretta che impedisce l’accoppiamento delle due molecole nella pianta. Una di esse, la catarantina, che mostra attività antifungina ed insettorepellente, viene secreta infatti nella cera cuticolare della foglia (dove queste attività hanno più senso), mentre la vindolina è presente esclusivamente all’interno delle cellule della foglia.

The monoterpenoid indole alkaloids (MIAs) of Madagascar periwinkle (Catharanthus roseus) continue to be the most important source of natural drugs in chemotherapy treatments for a range of human cancers. These anticancer drugs are derived from the coupling of catharanthine and vindoline to yield powerful dimeric MIAs that prevent cell division. However the precise mechanisms for their assembly within plants remain obscure. Here we report that the complex development-, environment-, organ-, and cell-specific controls involved in expression of MIA pathways are coupled to secretory mechanisms that keep catharanthine and vindoline separated from each other in living plants. Although the entire production of catharanthine and vindoline occurs in young developing leaves, catharanthine accumulates in leaf wax exudates of leaves, whereas vindoline is found within leaf cells. The spatial separation of these two MIAs provides a biological explanation for the low levels of dimeric anticancer drugs found in the plant that result in their high cost of commercial production. The ability of catharanthine to inhibit the growth of fungal zoospores at physiological concentrations found on the leaf surface of Catharanthus leaves, as well as its insect toxicity, provide an additional biological role for its secretion. We anticipate that this discovery will trigger a broad search for plants that secrete alkaloids, the biological mechanisms involved in their secretion to the plant surface, and the ecological roles played by them.

Polifenoli in bottiglia

Leggendo questo lancio di agenzia sul 240 raduno nazionale della American Chemical Society mi è subito venuto in mente il bel post meristemico sul fato dei polifenoli una volta estratti nella fatidica tazza di tè verde. Nel post si spiegava in dettaglio cosa succedesse dal punto di vista chimico alla classe chimica delle catechine, ed in particolare come la loro stabilità fosse molto bassa, e variasse molto per effetto “della temperatura, del pH, dell’esposizione a luce ed ossigeno, del tempo e del tipo di acqua in cui sono solubilizzate.”

Ebbene, nel report alla American Chemical Society (qui il programma del raduno), i ricercatori Shiming Li (stipendiato dalla WellGen, Inc, una azienda di biotecnologie alimentari) e Chi-Tang Ho hanno riportato che il livello di polifenoli nei prodotti commerciali imbottigliati a base di tè (verde e nero) è estremamente basso, a volte praticamente insignificante, rispetto a quanto si potrebbe assumere bevendo una tazza di tè fresca fatta in casa. Per dare un esempio della magnitudine della differenza, una generica tazza di tè (riportano i ricercatori) può contenere da 50 a 150 mg di polifenoli. I sei tè commerciali analizzati (bottiglie da circa mezzo litro, diciamo da 3 a 4 tazze) contenevano 81, 43, 40, 13, 4, e 3 mg. di polifenoli!

Anche partendo dal livello più basso per tazza di tè (50 mg) e da quello più elevato per bottiglia (81 mg) il prodotto commerciale contiene la metà dei polifenoli del tè fatto in casa. Se prendiamo poi in esame i poli estremi, (150 mg per tazza e 3 mg per bottiglia) dovremmo bere 40 bottiglie per assorbire lo stesso ammontare di polifenoli di una tazza.

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BOSTON, Aug. 22, 2010 — The first measurements of healthful antioxidant levels in commercial bottled tea beverages has concluded that health-conscious consumers may not be getting what they pay for: healthful doses of those antioxidants, or “poylphenols,” that may ward off a range of diseases.

Scientists reported here today at the 240th National Meeting of the American Chemical Society (ACS) that many of the increasingly popular beverages included in their study, beverages that account for $1 billion in annual sales in the United States alone, contain fewer polyphenols than a single cup of home-brewed green or black tea. Some contain such small amounts that consumers would have to drink 20 bottles to get the polyphenols present in one cup of tea.

“Consumers understand very well the concept of the health benefits from drinking tea or consuming other tea products,” said Shiming Li, Ph.D., who reported on the new study with Professor Chi-Tang Ho and his colleagues. “However, there is a huge gap between the perception that tea consumption is healthy and the actual amount of the healthful nutrients — polyphenols — found in bottled tea beverages. Our analysis of tea beverages found that the polyphenol content is extremely low.”

Li pointed out that in addition to the low polyphenol content, bottled commercial tea contains other substances, including large amounts of sugar and the accompanying calories that health-conscious consumers may be trying to avoid. He is an analytical and natural product chemist at WellGen, Inc., a biotechnology company in North Brunswick, N.J., that discovers and develops medical foods for patients with diseases, including a proprietary black tea product that will be marketed for its anti-inflammatory benefits, which are due in part to a high polyphenol content.

Li and colleagues measured the level of polyphenols — a group of natural antioxidants linked to anti-cancer, anti-inflammatory, and anti-diabetic properties — of six brands of tea purchased from supermarkets. Half of them contained what Li characterized as “virtually no” antioxidants. The rest had small amounts of polyphenols that Li said probably would carry little health benefit, especially when considering the high sugar intake from tea beverages.

“Someone would have to drink bottle after bottle of these teas in some cases to receive health benefits,” he said. “I was surprised at the low polyphenol content. I didn’t expect it to be at such a low level.”

The six teas Li analyzed contained 81, 43, 40, 13, 4, and 3 milligrams (mg.) of polyphenols per 16-ounce bottle. One average cup of home-brewed green or black tea, which costs only a few cents, contains 50-150 mg. of polyphenols.

After water, tea is the world’s most widely consumed beverage. Tea sales in the United States have quadrupled since 1990 and now total about $7 billion annually. The major reason: Scientific evidence that the polyphenols and other antioxidants in tea may reduce the risk of cancer, heart disease, and other afflictions.

Li said that some manufacturers do list polyphenol content on the bottle label. But the amounts may be incorrect because there are no industry or government standards or guidelines for measuring and listing the polyphenolic compounds in a given product. A regular tea bag, for example, weighs about 2.2 grams and could contain as much as 175 mg. of polyphenols, Li said. But polyphenols degrade and disappear as the tea bag is steeped in hot water. The polyphenol content also may vary as manufacturers change their processes, including the quantity and quality of tea used to prepare a batch and the tea brewing time.

“Polyphenols are bitter and astringent, but to target as many consumers as they can, manufacturers want to keep the bitterness and astringency at a minimum,” Li explained. “The simplest way is to add less tea, which makes the tea polyphenol content low but tastes smoother and sweeter.”

Li used a standard laboratory technique, termed high-performance liquid chromatography (HPLC), to make what he described as the first measurements of polyphenols in bottled tea beverages. He hopes the research will encourage similar use of HPLC by manufacturers and others to provide consumers with better nutritional information.

Uomo e piante 6/dimoltialtri

Ritorno dopo un momentaneo ma necessario “stacco” alla mia soap su uomini e piante. Se siete ancora con me 🙂 siamo arrivato alla puntata numero 6, e le precedenti sono qui, qui, qui, qui, e qui

E’ arrivato il momento di esplicitare meglio l’ipotesi co-evolutiva della nascita della medicina, e per fare ciò è necessario fare un passo indietro per giustificare l’idea che esista una connessione significativa e preculturale tra uomo e piante.

La teoria unificata delle comunicazioni cellulari
Come ci ricorda Meinwald [1] il nostro è un modo di suoni e visioni, e tendiamo a non renderci conto degli eventi chimici che ci circondano, del fatto che tutti gli organismi emettono e rispondono a segnali di tipo chimico, formando una vasta rete di interazioni comunicative fondamentali, attrattive, difensive, associative, ecc.

Fin dalle origini della vita infatti, il problema che i primi organismi cellulari hanno dovuto risolvere è stato quello della comunicazione tra cellula ed ambiente circostante e tra cellula e cellula, ed il problema è stato risolto da tutti gli organismi nello stesso modo, attraverso il linguaggio di molecole che possono penetrare le membrane e interagire con il nucleo oppure che trovano recettori specifici sulla membrana cellulare che mediano poi dei cambiamenti interni.

Ragionando da una prospettiva abbastanza ampia è quindi ovvio che uomini e piante, anzi, animali e vegetali, debbono mostrare dei legami, non soltanto filogenetici ma di relazione, comunicativi: affinché la vita di organismi diversi, anche appartenenti a Regni differenti,  possa prosperare in uno stesso ambiente, vi sono state, e vi devono essere state, continue relazioni mediate da un linguaggio molecolare.

La “teoria unificata delle comunicazioni cellulari” vuole che queste relazioni, ed i percorsi biogenetici del metabolismo secondario che creano le molecole messaggere, siano nati molto presto nella storia dell’albero evolutivo e siano spesso comuni tra i Regni Animalia e Vegetalia. [2] Ciò significa che nonostante la distanza filogenetica tra organismi appartenenti ai due Regni, essi possano però riconoscere gli stessi messaggeri. [3] Questo dato di base spiega la possibilità delle interazioni tra piante ed animali ed il ruolo di intermediari che hanno i metaboliti secondari.

Come rispondere all’ambiente

La possibilità per una pianta di “leggere” i messaggi di altre piante le permette di rispondere a degli indizi ambientali modificando il proprio schema di risposta. Organismi animali possono usare questi indizi per riconoscere lo stato dell’ambiente esterno ed “decidere” come allocare le proprie risorse energetiche.

Un esempio di questo utilizzo dei messaggi molecolari negli animali superiori potrebbe essere legato al fenomeno della senescenza. Organismi che si siano evoluti in ambienti mutevoli possono trarre vantaggio dalla capacità di puntare su un successo riproduttivo immediato a scapito della longevità in caso di ambiente più favorevole, o di puntare sulla longevità e su una ritardata maturazione sessuale in caso di condizioni sfavorevoli. [4]

Esempi di questi percorsi di allarme comprenderebbero varie chinasi legate alla sopravvivenza delle cellule, i fattori di trascrizione NRF2 e CREB, e le deacetilasi istoniche della famiglia della sirtuina, una proteina nota come Sir2 nei lieviti e SIRT1 nell’uomo.

Le Sir2 (Silent information regulator 2), sono presenti in tutti gli organismi, dagli eubatteri agli eucarioti, compresi gli esseri umani. Svolgerebbero due funzioni primarie nei mammiferi: la prima è  coordinare gli schemi di espressione genica (ovvero decidere quali geni sono attivati e quali disattivati in ogni singola cellula, per evitare ad esempio che una cellula renale inizi ad esprimere tendenze epatiche) e mantenere la stabilità di certe regioni cromosomiche e sopprimere l’esagerata espressione di certi geni (silenziamento genico) aumentando la stabilità del genoma; la seconda è funzionare da agenti riparatori emergenziali in caso di danno al DNA. [5] Il problema sorge dal fatto che quando le sirtuine sono occupate a riparare il DNA non regolano più l’espressione dei geni. Fino a che i danni al DNA sono rari le sirtuine riescono a compiere entrambi i compiti con efficienza, ma quando questi danni aumentano (tipicamente con l’età) la de-regolazione dell’espressione genica diventa cronica, e questo sembra essere legato, nei modelli animali utilizzati, a fenotipi di senescenza. [6]

Negli ultimi decenni sono stati scoperti molti composti di origine vegetale (tre esempi sono resveratrolo, i sulforafani ed i curcuminoidi) sintetizzati in risposta a vari tipi di emergenza (siccità, radiazioni, attacchi di insetti, infezioni, ecc.) per stimolare diverse risposte adattive e la rigenerazione cellulare stimolando una maggior espressione di sirtuine ed allungando la vita media,  proteggendo le cellule da lesioni stimolando la produzione di antiossidanti, fattori neurotropici ed altre proteine correlate allo stress.

Il modello coevolutivo

Ma il legame che viene proposto va oltre al dato generalizzato della teoria unificata delle comunicazioni cellulari, anche se si fonda su di essa. Esso si basa sull’ipotesi che l’utilizzo delle piante come fonte privilegiata di nutrienti abbia plasmato la fisiologia dell’uomo.

I nostri antenati, secondo l’ipotesi antropologica attualmente più accreditata, erano onnivori-foliovori, nel senso che avevano una decisa preferenza, certamente ispirata dalla necessità, per le piante ed in particolare per le foglie. E’ molto probabile che l’uomo preferisse sempre cibo denso in energia e povero di composti tossici (carne, tuberi, frutta) piuttosto che foglie; d’altro canto tuberi e frutti non sono disponibili tutto l’anno e sono più difficili da scovare, mentre le foglie sono più facilmente sfruttabili perché sono sempre presenti su tutto il territorio antropizzato, ed è probabile che siano sempre stati parte della dieta, oltre ad essere un “salvavita” in caso d’emergenza.

Questa forzata “convivenza alimentare” con le piante ci ha costretti a confrontarsi con molteplici messaggi chimici (spesso difensivi e quindi tossici) ai quali è stato necessario fornire delle risposte, cioè adattarsi, in qualche modo co-evolversi con essi e con le piante che li contenevano.

La tesi sostenuta da un certo filone antropologico (vedi Johns [12]) è che l’adattamento abbia fatto sì che le proprietà che rendevano le piante tossiche o non commestibili (limitando le possibilità di alimentazione dell’uomo) siano le stesse che le hanno rese attive a livello farmacologico (rappresentando quindi un fattore di promozione della salute). La nostra specie, nell’adattarsi alle tossine delle piante, le ha portate ad essere una parte essenziale della nostra ecologia interna, le ha “introiettate” facendo sì che non ci danneggiassero (o almeno non ai livelli ai quali le ingeriamo) ma anzi che potessero esserci utili.

Ne consegue l’ipotesi che gli esseri umani selezionino le piante sulla base della loro composizione chimica e che l’ingestione dei composti chimici vegetali sia parte di una risposta adattiva integrata che possiede elementi biologici e culturali, e che la nostra eredità biologica, associata allo snodo essenziale costituito dalla rivoluzione neolitica (la domesticazione delle piante e la loro coltivazione), pongano le basi per la nascita dell’uso medicinale delle piante. [7]

Questa ipotesi è andata rafforzandosi nei decenni grazie ai molti studiosi che l’hanno corroborata con vari pezzi di puzzle.


Prove indirette: i nostri simili
Un supporto, seppur indiretto, alla tesi che l’utilizzo delle piante a scopo medicinale da parte dell’uomo abbia origini preculturali e coevolutive viene dagli studi sulla zoofarmacognosia, ovvero sull’automedicazione con le piante da parte degli animali non umani. [8]

Glander, Lozano, Huffman ed altri autori portano vari esempi di zoofarmacognosia, alcuni dei quali riporto di seguito. [9]

Gli elefanti malesi si cibano di una leguminosa [Entada schefferi Ridley – Fabaceae] prima di intraprendere un lungo cammino; in India i cinghiali selvatici dissotterrano e si nutrono in maniera selettiva delle radici di Boerhavia diffusa L. [Nyctaginaceae], usate anche dagli esseri umani come rimedio antelmintico, mentre i maiali si ciberebbero delle radici del melograno [Punica granatum L. — Punicaceae] per la sua tossicità sui nematodi. Gli scimpanzè maschi della Tanzania occidentale, nei periodi dell’anno nei quali aumentano le infestazioni di nematodi, utilizzano le foglie di Aspilia spp. (spesso A. mossambicensis) [Asteraceae] seguendo un rituale molto particolare e completamente diverso dalla ritualità normalmente associata all’alimentazione: arrotolano le foglie, le mettono tra lingua e guancia e poi le ingoiano senza masticarle.

Va notato che Aspilia contiene principi attivi antibatterici, antifungini e antelmintici (thiarubrina A), e che la modalità di assunzione potrebbe favorire l’assorbimento di tali composti attraverso le mucose della guancia. Gli scimpanzè mostrano altri comportamenti molto interessanti: le femmine ingeriscono foglie di Lippia plicata Bak. [Verbenaceae] (usata dagli indigeni come stomachico ed insetticida) quando sembrano avere dei disturbi gastrointestinali, e vari maschi malati sono stati notati mentre succhiavano il midollo del fusto di Vernonia amygdalina Del. [Asteraceae], una pianta molto amara (contiene lattoni sesquiterpenici amari, antelmintici e antischistosomiaci), raramente usata a scopo alimentare ma comune nella medicina tradizionale dell’Africa orientale in caso di febbri malariche, schistosomiasi, dissenteria amebica, elmintiasi, diarrea, mal di stomaco, inappetenza e scorbuto, e dagli agricoltori in caso di parassiti intestinali dei maiali.

Negli esseri umani la Vernonia è efficace contro Giardia lamblia, ossiuri e nematodi dei generi Ancylostoma, Uncinaria, Necator. E’ interessante notare come i primati utilizzino raramente le foglie e la corteccia della pianta, nonostante la maggior concentrazione in composti attivi. Il fatto che queste parti della pianta contengano anche composti tossici è una possibile spiegazione di questo comportamento. I primati utilizzano in maniera simile anche i fusti di Palisota hirsuta (Thunb.) K. Schum. [Commelinaceae] e Eremospatha macrocarpa (Mann and Wendl.) Wendl. [Palmae].

Alouatta palliata (una scimmia urlatrice) mostra una frequenza molto ridotta, rispetto agli scimpanzè, di carie o gengiviti, dato in parte spiegabile con la dieta povera in frutta zuccherina, ma forse anche con il consumo di anacardi [Anacardium occidentale L. — Anacardiaceae], frutti che contengono acido anacardico e cardolo, composti attivi contro i batteri gram-positivi tipici della carie; le stesse scimmie urlatrici sono soggette a parassitosi gastrointestinale, ma quelle di loro che si alimentano anche con frutti dei ficus [Ficus spp. — Moraceae] lo sono di meno. Dato che il latice di Ficus è antelmintico, è possibile che il consumo di foglie e frutti contribuisca ad abbassare il carico di parassiti. [10]

Uno dei primati meno comuni (Brachyteles arachnoides) è preda, come altri, di parassitosi intestinale, ma tra i gruppi che ne soffrono di meno si nota uno schema di alimentazione particolare.  All’inizio della stagione delle piogge questi individui fanno uno sforzo particolare per mangiare piante che prima non assaggiavano, in particolare le leguminose Apuleia leiocarpa (J. Vogel) J.F. Macbr. e Platypodium elegans Vogel. [Fabaceae] (ricche in composti antimicrobici e isoflavoni).

I Colobus rossi normalmente preferiscono foglie giovani, ricche in proteine e povere in tannini ed altri composti fenolici, ma di quando in quando mangiano foglie ad elevato contenuto in tannini, che potrebbero servire per detossificare gli alcaloidi e ridurre il gonfiore intestinale. [11]

I babbuini soffrono comunemente di schistomatosi, ed è stato notato, nei gruppi che vivono presso le cascate Awash (Etiopia), un comportamento particolare degli individui che ne sono affetti gravemente: essi si nutrono di foglie e frutti di Balanites aegyptiaca (L.) Del. [Zygophyllaceae], che contengono diosgenina, attiva contro Schistosoma cercariae.

Prove dirette: la fisiologia ed il comportamenti umani. [12]
Se l’ipotesi appena esposta è valida, ci deve essere rimasta qualche traccia del processo co-evolutivo nel nostro organismo, sia di tipo fisiologico che comportamentale. La difficoltà sta però nel riconoscere se e quali di queste caratteristiche siano tracce coevolutive, perché ci è dato interpretarle come tali solo a posteriori, senza il beneficio di una prova diretta, ma solo tramite inferenze.

Ad esempio, gli esseri umani hanno un intestino adatto a cibi densi di nutrienti ma mantengono una certa capacità di digerire fibre, e possono sopportare dosi relativamente elevate di composti allelopatici; l’uomo è inoltre capace di sopperire al proprio fabbisogno di acidi grassi essenziali tramite i loro precursori presenti nei vegetali.  Queste caratteristiche potrebbero indicare una consuetudine dell’uomo con le piante. Si è anche ipotizzato che la preferenza dell’uomo per il sale (di più di un ordine di magnitudo superiore al suo fabbisogno) potrebbe essere spiegato con la carenza di sodio nelle piante della savana dove Homo si è evoluto, e, come si è visto più sopra, l’incapacità di sintetizzare la vitamina C potrebbe essere spiegata con la sua ubiquità ed abbondanza nei vegetali.

La presenza nella saliva dell’uomo di proteine ricche in prolina (PRP) è un altro importante esempio: l’uomo è in grado di rispondere all’ingestione di tannini mantenendo le parotidi in uno stato di induzione, tanto che il 70% delle secrezioni salivari è del tipo PRP: queste PRP possono servire a legare i tannini presenti nel cibo e renderli meno irritanti per il tratto gastrointestinale e forse per renderli meno attivi sul cibo che ingeriamo (riducendone gli effetti antinutrizionali).

Esempi più generici del rapporto dell’uomo con sostanze velenose sono il vomito ed i sensi chimici.


Il vomito è un istintivo meccanismo di rigetto di una sostanza che si è immediatamente riconosciuta come tossica o in qualche modo non desiderata.

I sensi chimici, gusto ed olfatto mostrano di poter discriminare sostanze vegetali potenzialmente pericolose da altre potenzialmente utili (discriminando tra amaro e dolce ad esempio), e mostrano di poter attivate risposte condizionate molto potenti, in particolare quelle negative associate al cibo. Ciò significa che a seguito di un malessere gastrointestinale legato temporalmente (a prescindere dal legame causale) all’ingestione di cibo, il sapore e l’odore di quel cibo saranno legati al malessere rendendo molto difficile cibarsene ancora. Questo è un tipo di meccanismo di apprendimento, perché una sostanza che abbia provocato un malessere gastrointestinale probabilmente è tossica, o comunque dobbiamo considerarla come tale. [13]

C’è una differenza importante tra olfatto e gusto, perché il primo, essendo molto più plastico del gusto, è meno legato alla percezione negativa, mentre quest’ultimo, essendo limitato alla discriminazione di quattro o cinque sapori, è più fortemente e più meccanicamente legato alla risposta condizionata.


Altro indizio molto rilevante è la presenza di enzimi detossicanti a livello epatico (e in misura minore renale, intestinale e polmonare), enzimi che rendono meno tossiche e facilmente eliminabili varie sostanze di origine vegetale, e che non sono molto specializzati, non hanno cioè la capacità di detossificare sempre e con efficienza una sostanza particolare, ma hanno la capacità plastica di adattarsi a molti problemi diversi, e questo è un indizio che si situa bene nel quadro di una dieta umana prevalentemente onnivora-foliovora (da cui l’esistenza di enzimi che hanno come substrato delle sostanze vegetali), con fonti alimentari molto diversificate (da cui la necessità di plasticità nella risposta).

Possiamo considerare il ruolo degli enzimi detossificanti in congiunzione con la neofobia, cioè il fatto che l’uomo adulto mostri la tendenza ad esser circospetto rispetto alle sostanze che deve assumere. [14]

Dato che il meccanismo epatico esiste per detossificare una sostanza potenzialmente tossica, il fatto di assaggiare sempre piccole quantità di un cibo o di una sostanza nuova permette di non avvelenarsi accidentalmente, e di non sovraccaricare i meccanismi detossificanti. Quindi la combinazione dei due meccanismi ci può permettere di assaggiare un cibo nuovo che può essere pericoloso senza però morire dopo averlo assaggiato.

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Note al testo

[1] Eilser T, Meinwald J (1995) “Preface” in Thomas Eilser and Jerrold Meinwald (eds) Chemical ecology: The Chemistry of Biotic Interaction National Academy Press Washington, D.C. 1995

[2] Roth J., Leroith D. (1987) The Sciences, May-June:51

[3] Lamming D.W., Wood J.G., Sinclair D.A. (2004) “Small molecules that regulate lifespan: evidence for xenohormesis”. Mol Microbiol; 53(4):1003-9; Howitz, K.T., Bitterman, K.J., Cohen, H.Y., Lamming, D.W., Lavu, S., Wood, J.G., et al. (2003) “Small molecule activators of sirtuins extend Saccharomyces cerevisiae lifespan”. Nature 425: 191–196; Mattson MP, Cheng A. (2006) “Neurohormetic phytochemicals: Low-dose toxins that induce adaptive neuronal stress responses”. Trends Neurosci; 29:632–9

[4] Kuzawa C et al. (2008) “Evolution, developmental plasticity and metabolic disease” in SC Stearns and JC Koella (eds.) Evolution in health and disease 2nd edition Oxford UP; Austad SN, Finch CE (2008) “The evolutionary context of human aging and degenerative disease” in in SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.; Ackermann M e Pletchr SD (2008) “Evolutionary biology as a foundation for studying aging and origin-related disease”. In SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.

[5] Guarente, L. (2000) “Sir2 links chromatin silencing, metabolism and aging” Genes Dev 14:1021-1026

[6] Oberdoerffer et al (2008) “SIRT1 redistribution on chromatin promotes genome stability but alters gene expression during aging”; Cell 135,  6

[7] Con questo non si intende proporre l’appiattimento della cultura sulla natura, la riduzione della medicina a fatto biologico e della malattia a rapporto ecologico. Nè si suppone che l’utilità presente dei composti xenobiotici per l’organismo che li ingerisce siano in parte o del tutto riconducibili ad adattamenti passati. Una origine evolutiva, spiega bene Gould (Gould, S.J. “Darwin tra fondamentalismi e pluralismo”. In Pino Donghi (a cura di) La medicina di Darwin. Roma, Laterza, 1998) non si appiattisce su quella adattiva, perché la selezione naturale non esaurisce tutti i meccanismi evolutivi, e l’enorme chemiodiversità delle piante (che esprimono circa i 4/5 di tutti i i composti farmacologicamente attivi conosciuti) offrirebbe comunque materiale farmacologicamente attivo al di là dei rapporti ecologici animale-pianta.

[8] Nel lavoro seminale in questo campo (Rodriguez, E., R. Wrangham. H. Stafford e Downum K. eds., (1993) “Zoopharmacognosy: The use of medicinal plants by animals”. Recent advances in phytochemistry, 89-105) gli autori (responsabili anche del conio del termine zoofarmacognosi) scrivono che:

“The combination of natural products, trichomes and other leaf features are important in the fitness of wild animals,”…“the observation of animals using plants is not new since Amazonian Indians and many people of the African forests tell of how animals use plants and how they copy the animals”

[9] Glander K.E. “Nonhuman primat self-medication with wild plant foods”. In N.L., Etkin  (Ed.), 1994 op. cit. pp. 227-239; Lozano, G.A. (1998) “Parasitic stress and self-medication in wild animals” Advances in the study of behaviour. 27: 291-317; Huffman M.A. (2001) “Self-medicative behavior in the African Great Apes: An evolutionary perspective into the origins of human traditional medicine”. BioScience.; Vol. 51(8): pp. 651-661.

[10] Una ipotesi più difficile da sostanziare ma affascinante è quella che vuole che l’ingestione di piante da parte delle femmine di Alouatta serva a modificare il normale rapporto maschio/femmina della prole, Glander (1994 op. cit.) ipotizza che alcuni composti delle piante ingerite possano modificare la concentrazione ionica delle mucose vaginali delle femmine, e che questo a sua volta possa modificare selettivamente l’accesso degli spermatozoi che portano un cromosoma X rispetto a quelli a Y dato che X è elettropositivo mentre Y è elettronegativo.

[11] Lo stesso fanno altri primati ed è difficile spiegare questo comportamento senza chiamare in causa la zoofarmacognosi anche perché i tannini sono forse l’unico gruppo di composti che non sono detossificabili se non parzialmente. I tannini possono legarsi e precipitare, e quindi inattivare, le molecole azotate, come appunto gli alcaloidi. Interessante notare che i Colobus mangiano anche terre ricche in caolino (geofagia), che grazie alla loro elevata capacità di adsorbimento possono intrappolare e rendere indisponibili all’assorbimento varie tossine (e nutrienti).

[12] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press; Consiglio, C. e Siani V. (2003) Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri

[13] Le risposte condizionate positive, cioè quelle che potrebbero essere molto utili, sono invece molto meno forti, più labili, di quelle negative.

[14] Il bambino è molto meno neofobico, ed anche questo è un meccanismo evolutivo: esso deve infatti poter fare esperienza del mondo, deve poter “assaggiare” in vari modi la realtà che lo circonda. L’uomo adulto invece, raggiunto il suo bagaglio di esperienze, sta più attento.

La dose è tutto 3/3

Terzo (dopo il primo ed il secondo) problema: perché questi dosaggi?

Le posologie consigliate in molti testi di erboristeria e da molte aziende, e quindi usate da molti erboristi, sono spesso sotto il limite dell’efficacia, anche senza tenere in conto del sottodosaggio causato dall’utilizzo delle gocce come metodo di misurazione.

Per esemplificare la discrasia tra i dati tradizionali, sperimentali e clinici, e i dosaggi consigliati per le TM, vorrei brevemente mettere a confronto alcuni testi.

Per evitare da subito l’accusa di riduzionismo o di “farmacologismo”, userò come fonti attendibili sia i dati storici e etnobotanici, sia i dati clinici. Naturalmente non ambisco ad una analisi esaustiva e sistematica, e non mi nascondo i problemi relativi alla traduzione di dosaggi espressi in diverse forme galeniche. Purtuttavia, ritengo che alla fine della comparazione risalterà una differenza in dosaggi così evidente e di tale magnitudine che va ben oltre le variazioni dovute a questi problemi.

La comparazione

Per facilitare la comparazione, i vari dosaggi sono stati riportati in termini di grammi di droga secca: quindi un dosaggio giornaliero di 5-20 ml di tintura da pianta secca (1:5) è stato tradotto in un dosaggio giornaliero di 1-4 grammi di pianta secca. Questo tipo di calcolo non è naturalmente esatto né tiene conto delle differenti biodisponibilità delle diverse forme farmaceutiche, ma nonostante questa  limitazione, ritengo che il calcolo rimanga comunque valido a grandi linee, e mostra chiaramente la differenza tra i dosaggi ricavati dai testi classici e farmacologici e quelli riportati da testi più recenti della scuola delle TM.

Ho qui riportato i dati dai testi del Dott. Brigo (“L’uomo, la fitoterapia, la gemmoterapia”) e della Dott.ssa Campanini (“Dizionario di fitoterapia e piante medicinali. II ed.”) semplicemente come esempio, in effetti dosaggi molto simili si trovano nel testo di Rossi sulle TM ed in genere in certa letteratura francese. A mò di contrasto sono stati inseriti i dosaggi indicati da Pedretti in un testo chiaramente non influenzato dalla scuola delle TM (“Chimica e farmacologia delle piante medicinali”). Altri testi di riferimento sono la British Herbal Pharmacopea (BHP), il PDR for Herbal Medicines (PDR), Herbal Medicines del 2007 (HM), le monografie WHO e quelle ESCOP. Per i dosaggi in medicina cinese (MTC) mi sono affidato al testo enciclopedico di Ou Ming, al testo di Song sui liquori medicati e al classico di Bensky e Gamble
Per la medicina del 19o secolo nordamericano (USA) mi sono basato sulla Materia Medica di Felter.

Tutti i dosaggi sono espressi in grammi di pianta secca.

Pianta

TCM

USA

Pedretti

Monografie

Brigo

Campanini

Arctostaphylos uva ursi

1-4.

2-8.

PDR 12; HM 4.5-12; WHO 9-12

0.2-0.6

0,2-0,4 gr.

Crataegus spp

10-15

0,5-5

1-45

PDR 5; HM 0,64-6,3; WHO 3-6; ESCOP 2-5; BHP 1-3

0,2-0,3

Echinacea spp

1-5,5

2-4

PDR 3-4,5; HM 1-3; WHO 3; BHP 3

0,05-0,2

Ephedra sinica

3-9

3-5

HM (1,2-2,3); WHO 1999 (1-6); BHP 3-12

0,025-0,15

0,1-0,3

Ginkgo biloba

3-6

PDR, HM, OMS, ESCOP (120-240 mg ES equivalente a ca. 4-16 grammi)

0,05-0,15

Glycyrrhiza spp.

3-12

0,5-4,5

15-30

HM 3-12; WHO 5-15; BHP 2-3

0,1-0,2

0,17-0,42

Hydrastis canadesis

1-10

2-4,5

HM e WHO 1,5-3; BHP 1,5-3

0,15-0,45

Panax ginseng

5-10 decotto 1-2 polvere

0,1-4,5

0,5-2

PDR 1-2; HM 0,5-1; WHO 0,5-2; BHP 3-6

0,3

Passiflora incarnata

2-11

1

HM 1,5-8 polvere, 7,5-10 grammi in infuso; BHP 0,8-3

0,2-0,7

0,2-0,4

Rheum palmatum

3-6

0,3-2

1-4

PDR 2,3-4,5; WHO 0,5-1,5

0,1-0,4

Serenoa serrulata

2,7-10,8

PDR 1-2; HM 1,5-3; WHO 1-2; BHP 1,5-3

0,05-0,1

Silybum marianum

10-12

PDR,  HM, WHO 12-15; BHP 10-12

0,2-0,6

0,15-0,4

Taraxacum officinale

9-30

8

1-5

HM 6-24; WHO 9-12; BHP 1-5

0,1-0,6

0,2-0,5

Valeriana officinalis

2,1-6

1-4

PDR 15; HM 3-9; WHO 2-15; BHP 1-4

0,2-0,3

Zingiber officinale

3-9

0,5-1,5

PDR 2-4; HM 0,75-3; WHO 1-4

0.15-0,35

Valutazione

Nonostante questa analisi sia non sistematica e problematica a causa della traduzione imperfetta tra varie forme farmaceutiche, credo salti subito all’occhio come i dosaggi proposti dai due testi della Campanini e di Brigo siano sempre di molto inferiori ai dosaggi proposti negli altri testi, di fatto da 10 a 20 volte inferiori ai dosaggi considerati terapeutici.

Anche tendendo in considerazione le differenze dovute alle forme farmaceutiche e alle diverse biodisponibilità, i valori rimangono molto al di sotto del range efficace.

Questo dato è ancora più sorprendente se si valuta il fatto che il testo della Campanini presenta una buona analisi dei dati relativi alle piante ed ai dosaggi efficaci. Ovvero, l’utilizzo di dosi di TM così inferiori al minimo efficace non può essere fatto risalire ad una mancata o deficitaria analisi dei dati. Oltretutto questa discrasia risulta ancora più inspiegabile se si comparano i dosaggi dati in termini di altre forme galeniche (estratto fluidi, estratti secchi, ecc.) che sono di norma in linea con le valutazioni della stessa autrice nelle sezioni di farmacologia, e con i dosaggi presenti negli altri testi da me analizzati.

Come accennavo precedentemente, è come se gli autori considerassero la TM una forma galenica estremamente potente, molto di più degli estratti secchi, ad esempio, senza però portare alcuna giustificazione per questa sorprendente posizione. Ritengo che questo non sia che una rimanenza di un approccio omeopatico alla fitoterapia. Nulla ho da dire rispetto alla teoria e alla prassi dell’omeopatia, al fatto che vi sia totale consistenza interna nell’utilizzo di questi dosaggi di TM in ambito omeopatico, ma certamente questi non dovrebbero avere spazio nella fitoterapia.

Conclusioni

Da quanto visto è chiaro che per raggiungere una dose terapeutica sono necessari dosaggi ben più elevati di quelli generalmente consigliati, e che questi dosaggi sono difficilmente raggiungibili con tinture madri a titolo 1:10, sia per ragioni pratiche (sarebbe necessario consumare dai 20 ai 100 ml di tintura al giorno) che per ragioni economiche, e quindi per ragioni di compliance del paziente.

Come da molti anni vado ripetendo, ritengo che le TM siano delle preparazioni del tutto inadeguate per la fitoterapia, non necessarie, costose, sempre a rischio di sottodosaggio, e quindi sempre a rischio di svalutare agli occhi del pubblico la reale efficacia e razionalità della fitoterapia.