Gummi Myrrha

Continua con questa seconda parte il pezzo sulla mirra, che inizia qui.

Mirra oggi: definizione e descrizione

Ci sono 190 specie di Commiphora (famiglia delle Burseraceae) distribuite in Africa, India, Penisola Arabica usate tradizionalmente come incenso e medicina.  La mirra (Gummi Myrrha) è la gommo-oleoresina essiccata all’aria ottenuta dai fusti e dai rami di Commiphora myrrha (Nees) Engl.  (sinonimi Balsamea myrrha (T.Nees) Oken;B. myrrha Baill.; B. playfairii Engl.; Balsamodendrum myrrha T.Nees; Commiphora coriacea Engl.; C. cuspidata Chiov.; C. molmol (Engl.) Engl. ex Tschirch[82].

Questa specie è un albero indigeno dell’Africa Nordest (Gibuti; Etiopia; Somalia e Kenya), in particolare di Somalia ed Etiopia (e in misura minore Sudan)(CHP) e dell’Arabia meridionale (Oman; Yemen).  La droga, a volte di qualità inferiore, si ricava però anche da altre specie: Commiphora habessinica (O.Berg) Engl.; (sinonimoC. abyssinica); Commiphora schimperi (O.Bergman) Engl.; altre inferiori C. foliacea Sprague, Commiphora playfairii (Hook.f.) Engl C serrulata Engl.. Commiphora africana (A.Rich.) Endl in Etiopia e Sudan.

Commiphora myrrha3

La pianta cresce fino a 3 metri di altezza o più anche se si conoscono forme nane, e porta foglie dentate verdi. Fessure e spaccature si formano naturalmente nella corteccia dalle quali la resina essuda naturalmente dai dotti circolari del parenchima, ma la resa aumenta con le incisioni.

Commiphoram myrrha Köhler–s_Medizinal-Pflanzen-019

Nomi popolari: Myrrh, Myrrha, Myrrhe, African Myrrh, herabol Myrrh, Somali Myrrh, Smyrna, Mur, Murry, Bola o Bol, Vola, Murr, Mirra. olio di Mirra, Stacte.

Raccolta: la resina di mirra, come quella dell’incenso, viene raccolta incidendo la corteccia e lasciando che la resina fuoriesca, si raccolga e si indurisca, in due o tre settimane. A questo punto può essere staccata e raccolta. Questo metodo, ancora in uso oggi, è stato descritto per la prima volta da Teofrasto e più tardi da Erodoto.

Le masse raccolte sono rosso-marroni, vengono ammassate in sacche fatte di pelle di capra e mandate quasi esclusivamente ad Aden. La qualità di Mirra più ricercata è la “ogo”, proveniente dalle aree interne lontane dalla costa somala e da Guban[83]. Tempo addietro le masse resinose (gocce o lacrime di mirra) venivano esportate da Aden in paesi stranieri dove venivano lavorate per produrre resinoidi ed olii.

La Somalia è il più grande esportatore al mondo di Mirra, Opopanax (Commiphora kataf (Forssk.) Engl., [= C. erythraea (Ehrenb.) Engl.], Olibanum (Boswellia sacraFlueck. [=B. carteri Birdw.]) e Maidi (B. frereana Birdw.). Le specie di Commiphoraso trovano nelle località interne secche dal nord all’estremo sud, ma buona parte del materiale esportato dalla Somalia viene in realtà raccolto in Etiopia. Alla fine degli anni 80 il volume di resine di Commiphora esportato ammontava a 1000 tonnellate[84]

La gommo-resina

La sesta edizione della Farmacopea Italiana[85] distingue tra mirra eletta emirra in sorte. La prima “si presenta in grani (lagrime) od in pezzi irregolari di varia grossezza, di colore rossastro o rosso-bruno, screpolati, un po’ efflorescenti, alquanto traslucidi, fragili, di frattura lievemente granellare e lucida, con alcune vene o piccole macchie biancastre o giallicce, talore semilunari. Sapore amarognolo, odore aromatico.

La mirra in sorte è formata di masse conglomerate, brune, opache, miste a frammenti di corteccia ed a varie impurità.”

Le Monografie dell’OMS sulle piante medicinali[86] così la descrivono: “Gummi Myrrha consiste nelle oleo-gommo-resine essiccate all’aria essudate da fusti e rami della Commiphora molmol Engler (Burseraceae) ed altre specie di Commiphora correlate, incluse  C. abyssinica Engl., C. erythraea C. schimperi Engl., ma escludendo C. mukul.”  La gommo-resina si presenta come: “gocce o grumi di gocce irregolari o arrotondate di varie dimensioni, di colore da giallo-marroncino a rosso-marrone fino a quasi nero. La superficie è quasi completamente coperta di polvere grigiastra o giallognola; la superficie interna è giallastra o rosso-marrone, che a volte presenta macchie o linee bianche; la frattura è cerosa, granulare, concoidale (a superficie curva) e dà frammenti sottili e traslucenti”.

L’odore è caratteristico, caldo-balsamico, dolce e con toni speziati, aromatico e pungente quando la resina è fresca; il sapore è aromatico, amaro, aspro[87].

La gommo-resina si scioglie parzialmente in acqua, alcol ed etere.

Commiphora myrrha6

Commiphora myrrha4

Commiphora myrrha resina grani

La resina viene usata come nota di base speziata con carattere orientale, come base legnosa, di foresta, di aghi di pino.  Si associa bene a geranio, muschio, patchouli, spezie e basi floreali pesanti[88].

Prodotti derivati[89]

La distillazione in corrente di vapore della gommoresina produce il classico olio di mirra, con rese da 1,5% a 15%, ma grazie a recenti tecnologie (come ad esempio distillazione controcorrente “short-path” o “gas-swept” si producono nuove qualità con rese molto elevate.

Olio di Mirra: liquido vischioso giallo con odore caratteristico della gommoresina, cioè resinoso e dolce balsamico, ma con anche un aspetto amaro/astringente. Odore molto persistente. Nota finale debole, secca, legnosa tipo vetivert.

Resinoide di Mirra: ottenuto per estrazione della gommoresina con solventi volatili (nel passato toluene ed esano); è un solido rosso-marrone con odore dolce, balsamico, di zucchero integrale, e uno sfondo oleoso, legnoso e terpenico. La nota finale è dolce, in qualche modo caramellosa, terpenica e di muffa.

Tintura di Mirra: preparata per macerazione della mirra in polvere con alcol etilico a 80°. Appare un liquido di colore rossastro non molto intenso. Odore e sapore di mirra, reazione acida al tornasole; diluita con acqua si intorbida[90].

Composizione chimica

Come per le specie appartenenti al genere Boswellia, anche nelle specie diCommiphora l’essudato contiene polisaccaridi ed è quindi classificato come gommoresina. Una volta indurita è scura e amara al contrario della gommoresina diBoswellia che è pallida e dolce.

La gommoresina è frazionabile in tre parti, due liposolubili ed una idrosolubile:

1. Frazione volatile liposolubile, o olio essenziale (1,5-17% – forbice più comune 3-8%):  caratterizata sia dai monoterpeni sia dai sesquiterpeni. Tra i monoteropeni troviamo α-, β- e γ−bisabolene, α-pinene, dipentene e limonene, mentre tra i sesquiterpeni troviamo heerabolene, cadinene, curzerene (11.9%), curzerenone(11.7%), diidripirocurzerenone (1,1%), elemolo, beta-elemene, T-cadinolo, commiferinae vari furanosesquiterpenoidi tra i quali il furanoeudesma-1,3-diene (12.5-34.9%), il  furanodien-6-one (0.4% ), il furanoeudesma-1,4-diene-6-one, l’isofuranogermacrene, il 1,10(15)-furanodien-6-one, il 2-metossi furanodiene, illindestrene (3.5-12.9%), ecc.  Sono presenti anche composti fenolici (cinnamaldeide, cuminaldeide, eugenolo, alcol cuminico, m-cresolo), e germacrone[91] (5.8%). Secondo Burfield[92] i sesquiterpeni, ed in particolare i derivati furanoidi[93], sono icomposti più importanti per l’aroma caratteristico della mirra: furanoeudesma-1,3-diene, lindestrene, curzerenone, curzerene, cadinene, diidropirocurzerenone. Il germacrone impartirebbe l’odore caratteristico, con note erbacee.

2. Frazione non volatile liposolubile o resina (20%, massimo 40%):  acidi alfa-, beta- e gamma-commiforico, acido commiforinico, eeraboresene, alfa- e beta-eerabomirroli e commiferina, campesterolo, beta-sitosterolo, alfa-amirone, 3-epi-alfa-amirina.

3. Frazione non volatile idrosolubile o gomma (30–60%): composti che  una volta idrolizzati danno D-galattosio, 4-O-metilglucoronato, L-arabinosio in rapporto 8:7:2[94]. Presente anche dello xilosio.

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Utilizzi

Bruciata fin dall’antichità come incenso in Arabia, Somalia ed Etiopia[96]. Morton (1977) riporta che il fumo della resina bruciata veniva usato in caso di febbri e per altri disturbi[97].

Una delle droghe vegetali più antiche e apprezzate,  la mirra viene ancora usata a livello popolare, per esempio in Marocco come balsamo per disturbi nervosi e applicata durante le cerimonie di pulizia come fumigazione[98]. Viene usata in Egitto come masticatorio in caso di tosse[99]. Nel mondo arabo si usa come antinfiammatorio, antipiretico, antisettico, e stimolante, ed è un rimedio per gastropatie, indigestione, tosse, asma, bronchite, dolore artritico, lebbra e sifilide.

Mrs Grieve[100]  la considera un astringente, vulnerario, tonico e stimolante. Lo consiglia come emmenagogo e come tonico in caso di dispepsia, come espettorante in mancanza di segni di febbre, uno stimolante delle mucose, come carminativo stomachico che eccita l’appetito e il flusso di succhi gastrici e come lavaggio astringente.

Tra gli utilizzi che cita troviamo catarro cronico, tisi, clorosi, amenorrea (con Aloe), gengivite, faringite, afta, ulcere indolenti. Esternamente può essere usata per il suo effetto rubefacente.

Secondo Felter[101], la mirra è la miglior applicazione locale per gengiviti, faringiti con afte e ulcere indolenti, faringite cronica con membrane pallide e umide, tonsillite. Internamente, secondo l’autore, la mirra è uno stimolante delle mucose e non dovrebbe essere usata in condizioni infiammatorie. Piccole dosi promuoverebbero la digestione e sarebbero antisettiche, ma dosi più elevate aumentano il ritmo cardiaco e la temperatura e sono irritanti per le mucose gastriche. E’ comunque un rimedio per soggetti debilitati e condizioni croniche e atoniche, soprattutto per quanto riguarda i polmoni.

Secondo la MTC è una pianta amara e neutrale, che rafforza il sangue e riduce il dolore, riduce il gonfiore e promuove la guarigione delle ferite. E’ una pianta con azioni e indicazioni del tutto simili alla Boswellia (incenso) ed insieme ad essa viene usata per trattare i dolori derivanti da traumi e gonfiori[102]: 1. dolore causato da stagnazione del sangue (dismenorrea; mal di stomaco; dolori articolari da vento-freddo-umido; traumi; dolore da foruncoli e eruzioni); 2. foruncoli e ulcere (esternamente).

Al giorno d’oggi viene occasionalmente utilizzata internamente come carminativo, per problemi di stomaco e come espettorante, ma è usata soprattutto come astringente ed antisettico locale per disordini delle mucose orofaringee e della pelle.

Gli Arabi spalmano la resina su una tela nera che, dopo essersi indurita, viene usata per assicurare le fratture. Gli Indiani dissolvono la mirra in latte di asino o di donna e ne fanno uso come collirio; la somministrano alla donna che allatta per aumentare il flusso di latte; la mescolano con borace in caso di stomatite parassitica; mescolano la tintura di mirra con glicerina in caso di difteria; e la consigliano in forma di tintura in caso di clorosi e dismenorrea in giovani donne. In Dhofar la resina dispersa in acqua viene bevuta o spalmata sul corpo in caso di febbre.  In Libano la mirra viene usata come carminativo, fumigatorio, vulnerario, gastrite e influenza. Il fumo viene diretto sulle ferite per favorire la guarigione. In Oman la mirra calda viene applicata alle carie in caso di mal di denti. In Arabia saudita la resina viene applicata al seno delle madri che allattano per svezzare i bambini.  In Yemen la resina viene spalmata su morsi di serpente e ferite per guarirle, e sul pene come afrodisiaco[95].

Moore[103] la considera una pianta stimolante per tutti i sistemi. E particolarmente per il fegato, il sistema respiratorio, cardiovascolare, linfatico, riproduttivo e per le mucose. Ha una azione tonica sul sistema nervoso centrale e sul parasimpatico.

I prodotti a base di Mirra sono spesso stati usati a livello topico per problemi di igiene orale, una soluzione ottenuta mescolando e scuotendo fortemente la gommoresina in acqua viene usata per disinfettare le gengive, per le infiammazioni della mucosa orale e faringea e per le afte orali. L’olio di mirra è stato usato nei dentifrici. Altre applicazioni sono labbra secche, emorroidi, ferite ed abrasioni, foruncolosi, alitosi.

Resinoidi ed assolute di Mirra sono usate principalmente in fragranze orientali per impartire una nota balsamica, dolce e resinosa. Il resinoide viene usato anche in fragranze da incenso e basi di ambra dolce. Alcuni autori dichiarano che l’odore della mirra somiglierebbe a quello della traspirazione umana, ma altri autori non ritrovano un carattere fortemente animalico o sessuale.

Farmacologia

Dati sperimentali: la resina è antiossidante (scavenger dei radicali liberi), tireotropica, inibitrice delle prostaglandine, e protegge da vari agenti necrotizzanti, citotossici in topi.

Nella sperimentazione animale la resina, l’olio essenziale e i triterpeni hanno mostrato effetti antimicrobici[104]; l’estratto grezzo della gommoresina mostra attività in vitro di potenziamento dell’attività della ciprofloxacina e della tetraciclina contro S. aureus (anche resistente ai farmaci), molte varietà diSalmonella enterica e di Typhimurium e due ceppi di K. pneumoniae[105].

Altre attività provate in vitro o in vivo su modelli animali sono quelle deodorant[106]e, anti-infiammatori[107]a, antitumor[108]ale, astringente, antipiretic[109]a, ipoglicemizzant[110]e, e protettiva dalle ulcer[111]e gastriche.

La resina sembra stimolare la muscolatura liscia[112] e forse la peristalsi[113]. Stimola il tono uterino[114] e promuove il flusso ematico uterino[115].

I sesquiterpeni furanoeudesma-1,3-dieni e curzarene sono analgesici in vi[116]vosu modelli animali (bloccati da naxolone), con meccanismo forse mediato da recettori oppioidi (una spiegazione del Vinum murratum offerto a Gesù per le proprietà analgesiche?)

Cautele

In mancanza di dati completi, si sconsiglia l’utilizzo della resina di mirra in gravidanza, in allattamento e a bambini, a meno di una specifica indicazione di un professionista[117].

Dosaggio

  • Tintura di Mirra (1:5; 90% etanolo)
  • Topico
  • Tintura pura al bisogno sulla pelle o sulle mucose orali 2-3 volte al giorno
  • Colluttorio:  5–10 gocce in un bicchiere di acqua per una azione blanda, fino a 60 per attività più drastiche.
  • Dentifricio in polvere:  10% di gommo-resina polverizzata.

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[82] Secondo alcuni autori⁠ Commiphora molmol era diversa dalla mirra (veniva anche chiamata mirra africana) ma l’odore del fumo era simile e per questa ragione veniva venduta come mirra. Cfr. Tucker, A. O. 1986. Frankincense and myrrh. Economic Botany 40 (4): 425–433

[83] Burfield T. Natural aromatic material – odours & origins. The Atlantic Institute of Aromatherapy, 2000

[84] Bowen, M.R. 1990. A bibliography of forestry in Somalia and Djibuti. Edition two. Natural Resources Institute for Overseas Development Administration, UK and National Range Agency, Somalia. Somali Forestry Papers No. 3

[85] Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia, VI edizione , 1940, Roma

[86] WHO (1999) WHO monographs on selected medicinal plants Vol 3  World Health Organization, Geneva)

[87] Tucker, A. O. 1986. Op. Cit. Langenhein J.H. (2003) Op. Cit.

[88] Arctander, S (1994) Perfume and Flavor Materials of Natural Origin. Allured Publishing Corporation

[89] Burfield T. 2000 Op. Cit.

[90] Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia, Op. Cit.

[91] Brieskorn CH e Noble P (1982) “Unhaltstoffe des eterischen ols de Myrrhe II. Sesquiterpene & Furanosesquiterpene” Medica 44, 87; Olhoff G. (1990) Scents & Fragrances Springer-Verlag pp132-188. Marongiu, Bruno, Alessandra Piras, Silvia Porcedda, and Andrea Scorciapino. “Chemical Composition of the Essential Oil and Supercritical CO2 Extract of Commiphora Myrrha (Nees) Engl. and of Acorus Calamus L.” Journal of Agricultural and Food Chemistry, 2005; Rahman, M , Mark Garvey, Laura Piddock, and Simon Gibbons. “Antibacterial Terpenes from the Oleo-resin of Commiphora Molmol (Engl.).” Phytotherapy Research: PTR, 2008.  Hanus LO,  Rezanka T, Dembitsky VM, Moussaieff A (2005)  Myrrh – Commiphora chemistry. Biomed Pap Med Fac Univ Palacky Olomouc Czech Repub. 2005, 149(1):3-28;   Zhu, N, H Kikuzaki, S Sheng, S Sang, M Rafi, M Wang, N Nakatani, R DiPaola, R Rosen, and C Ho. “Furanosesquiterpenoids of Commiphora Myrrha.” Journal of Natural Products, 1, 2001

[92] Burfield T. 2000 Op. Cit.

[93] Brieskorn CH e Noble P (1982) Op. Cit.

[94] Hanus LO,  Rezanka T, Dembitsky VM, Moussaieff A (2005) Myrrh – Commiphora chemistry. Biomed Pap Med Fac Univ Palacky Olomouc Czech Repub. 2005, 149(1):3-28

[95] Duke, J.A., (2008) Op. Cit.

[96] Uphof, J. C. T. 1968. Dictionary of economic plants. New York: Verlag von J. Cramer.; Usher, G. 1974. A dictionary of plants used by man. New York: Hafner Press.

[97] Lemenih, M., T. Abebe, and M. Olsson. 2003. Gum and resin resources from some Acacia, Boswelli and Commiphora species and their economic contributions in Liban, south-east Ethiopia. Journal of Arid Environments 55 (3): 465–482.

[98] Bellakhdar, J.J. 1997. La pharmacopoée marocaine traditionelle. Médecine Arabe ancienne et savouirs populaires. Ibis Press: Paris.

[99] Sameh F. AbouZid Abdelhalim A. Mohamed (2011) Survey on medicinal plants and spices used in Beni-Sueif, Upper Egypt  Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine, 7:18

[100] Grieve, M (1971, repr. 1931) 1971 A modern herbal; the medicinal, culinary, cosmetic and economic properties, cultivation and folk-lore of herbs, grasses, New York, Dover Publications

[101] Felter, HW (1922) The Eclectic Materia Medica, Pharmacology and Therapeutics. Eclecdtics Publications, USA

[102] Miller JM, Goodell HB. (1968) Frankincense and myrrh. Surg Gynecol Obstet Aug; 127(2):360–5.  Greene DA. (1993) Gold, frankincense, myrrh, and medicine. N C Med J Dec; 54(12):620–2

[103] http://www.swsbm.com/ManualsMM/MatMed5.pdf

[104] Newall CA, Anderson LA, Philpson JD. Herbal Medicine: A Guide for Healthcare Professionals. London, UK: The Pharmaceutical Press, 1996.  The Review of Natural Products by Facts and Comparisons. St. Louis, MO: Wolters Kluwer Co., 1999

[105] Rahman, M , Mark Garvey, Laura Piddock, and Simon Gibbons. “Antibacterial Terpenes from the Oleo-resin of Commiphora Molmol (Engl.).” Phytotherapy Research: PTR, October 1, 2008. http://dx.doi.org/10.1002/ptr.2501.

[106] Wichtl MW. Herbal Drugs and Phytopharmaceuticals. Ed. N.M. Bisset. Stuttgart: Medpharm GmbH Scientific Publishers, 1994.

[107] Duwiejua M, Zeitlin IJ, Waterman PG, Chapman J, Mhango GJ, Provan GJ.  Anti-inflammatory activity of resins from some species of the plant family Burseraceae. Planta Medica, 1993, 59:12–16.  Atta AH, Alkofahi A. Anti-nociceptive and anti-inflammatory effects of some Jordanian medicinal plant extracts. Journal of Ethnopharmacology, 1998, 60:117–124.  Tariq M, Ageel AM, Al-Yahya MA, Mossa JS, Al-Said MS, Parmar NS. Anti-inflammatory activity of Commiphora molmol. Agents and Actions, 1985, 17:381–382.

[108] al-Harbi MM, Qureshi S, Raza M, Ahmed MM, Giangreco AB, Shah AH.(1994) Anticarcinogenic effect of Commiphora molmol on solid tumors induced by Ehrlich carcinoma cells in mice. Chemotherapy 1994:40:337-47.  Qureshi S, al-Harbi MM, Ahmed MM, Raza M, Giangreco AB, Shah AH. (1993) Evaluation of the genotoxic, cytotoxic, and antitumor properties of Commiphora molmol using normal and Ehrlich ascites carcinoma cell-bearing Swiss albino mice. Cancer Chemother Pharmacol. ;33(2):130-8.

[109] Tariq M et al. Anti-inflammatory activity of Commiphora molmol. Agents and Actions, 1985, 17:381–382.  Mohsin A et al. Analgesic, antipyretic activity and phytochemical screening of some plants used in traditional Arab system of medicine. Fitoterapia, 1989, 60:174–177.

  • [110] Al-Awadi FM, Gumaa KA. Studies on the activity of individual plants of an antidiabetic plant mixture. Acta Diabetologica Latina, 1987, 24:37–41.
  • Ubillas RP et al. Antihyperglycemic furanosesquiterpenes from Commiphora myrrha. Planta Medica, 1999, 65:778–779
  • [111] al-Harbi MM, Qureshi S, Raza M, et al. Gastric antiulcer and cytoprotective effect of Commiphora molmol in rats. J Ethnopharmacol 1997;55:141-50
  • [112] The Review of Natural Products by Facts and Comparisons. St. Louis, MO: Wolters Kluwer Co., 1999.   McGuffin M, Hobbs C, Upton R, Goldberg A, eds. American Herbal Products Association’s Botanical Safety Handbook. Boca Raton, FL: CRC Press, LLC 1997

[113] The Review of Natural Products by Facts and Comparisons. St. Louis, MO: Wolters Kluwer Co., 1999.

[114] McGuffin M, Hobbs C, Upton R, Goldberg A, 1997 Op. Cit.

[115] McGuffin M, Hobbs C, Upton R, Goldberg A, 1997 Op. Cit. Brinker F. Herb Contraindications and Drug Interactions. 2nd ed. Sandy, OR: Eclectic Medical Publications, 1998

[116] Dolara P et al. Characterization of the action of central opioid receptors of furaneudesma-1,3-diene, a sesquiterpene extracted from myrrh. Phytotherapy Research, 1996, 10:S81–S83.  Atta AH, Alkofahi A. Anti-nociceptive and anti-inflammatory effects of some Jordanian medicinal plant extracts. Journal of Ethnopharmacology, 1998, 60:117–124

[117] British herbal pharmacopoeia. Exeter, British Herbal Medicine Association, 1996.  Saha JC, Savini EC, Kasinathan S. Ecbolic properties of Indian medicinal plants. Part I. Indian Journal of Medical Research, 1961, 49:130–151.  Pernet R. Phytochimie des Burseraceae. [Phytochemistry of the Burseraceae.] Lloydia, 1972, 35:280–287.

Tutti i tuoi vestimenti sanno di mirra, d’aloe, di cassia

 Mirra

“Tutti i tuoi vestimenti sanno di mirra, d’aloe, di cassia;.” Salmi 45:8.

“… sei mesi per profumarsi con olio di mirra e sei mesi con aromi e altri cosmetici usati dalle donne…” Esther 2

Introduzione

Le 150-220 specie[1] appartenenti al genere Commiphora Jacq. (famiglia delle Burseraceae) sono native dell’Arabia meridionale (Oman, Yemen, isola di Socotra), dell’Africa Nord Orientale (52 specie in Somalia, alcune delle quali presenti anche in Etiopia e Sudan), e del Madagascar, ma alcune specie sono native dello Sri Lanka e altre possono crescere anche in India. Due specie meno importanti si trovano anche in Centro America[2].  Si tratta in genere di piccoli alberi dall’habitus arbustivo, spesso usati come palizzate vivente. La loro importanza nella storia dell’uomo deriva però dall’essudato gommo-resinoso da esse ottenuto, usato sin dall’Antichità come rimedio medicinale e come incenso[3]. Le gommo-resine derivanti dalle varie specie di Commiphora (e in senso più generale dalle specie appartenenti alla famiglia delle Burseraceae) mostrano tra loro una forte somiglianza fitochimica e simili applicazioni sia terapeutiche sia rituali, magico-religiose. Si tratta sempre di resine caratterizzate dalla presenza di composti terpenoidici e di intrusioni di polisaccaridi (per cui vengono classificate come gommo-resine, in alcuni testi come oleo-gommo-resine). In effetti questa somiglianza è stata riconosciuta sin dall’antichità, se già i trattati medici della tradizione Sanscrita consideravano le diverse resine come intercambiabili[4].

Myrrh

Quale specie?

A causa di una tassonomia non perfettamente chiarita, e delle ambiguità intrinseche nelle fonti storiche, non è possibile identificare con precisione l’entità tassonomica che corrisponde al materiale resinoso Mirra.  Se facciamo riferimento alle citazioni bibliche, Duke[5] argomenta che è impossibile indicare con chiarezza la specie citata nella Bibbia, ma restringe il campo a tre specie, la C. africana (A.Rich.) Engl.  (chiamata anche Bdellio o Mirra africana), la C. habessinica (O.Berg.) Engl. e la C. myrrha (Nees) Engl. (detta anche olio di Mirra o Stacte, o Mirra harobol[6])tendendo a preferire come candidata la C. habessinicasulla scorta dell’opinione di un eminente botanico biblista come Zohary[7] . A testimonianza dell’intrico tassonomico e storico, lo stesso Duke aveva, in un testo precedente, identificato la Mirra con la C. myrrha, e denominato Bdellio la C. africana[8], e in un altro testo aveva invece deciso che il candidato più probabile per la Mirra biblica fosse la C. erythraea[9] Engl. (lo Bdellio profumato o Mirra profumata dell’Antichità, detta anche Opopanax o Mirra bisabol, famosa per il suo profumo estremamente persistente).

Altri autori argomentano che Cmyrrha sarebbe la fonte della Mirra del periodo Classico, e non della Bibbia[10], che deriverebbe, come detto sopra, da C. habessinica  oppure da C. guidotii Chiov. ex Guid (detta anche Mirra profumata).

In realtà anche al giorno d’oggi la Mirra si ottiene da più di una specie botanica.  Nella discussione che segue parleremo di Mirra in senso generico per intendere la droga storicamente riconosciuta, a prescindere dall’esatta fonte botanica, e solo nell’ultima parte dell’articolo ci soffermeremo sulle caratteristiche specifiche della specie paradigmatica.

commiphora myrrha essudato 1871

Storia

Il termine italiano Mirra traduce una parola latina (Myrrha, o Murrha, o Murra) derivante dalla parola Greca múrrāa sua volta di origine semitica, con radici nell’Arabo murr, nell’Ebraico mōr e nell’Aramaico mūrā, tutte con lo stesso significato, amaro (il termine Smyrna è una forma dialettale greca derivante da Myrrha). Questo termine identifica la resina aromatica prodotta da specie diCommiphora che crescono in Arabia e in Africa orientale subtropicale, usata dagli antichi come profumo[11], per imbalsamare[12] (tanatoprassi, taxidermia), come anodino[13], e per molte altre applicazioni (vedi più sotto le Indicazioni storiche). In Antichità venivano riconosciute due varietà di mirra: la bissa bol(Bhesabol/Bysabole/Hebbakhade in Somalia), e la Mirra Araba, coltivata con Acacia, Moringa ed Euphorbia. In realtà il termine Myrrha non identificava necessariamente una specie del genere Commiphora, ma serviva a denotare qualsiasi pianta profumata; infatti una seconda traduzione dell’ebraico mor fa riferimento alla parola ebraicalot, che porta a Ladanum/Labdanum, la resina del Cistus ladanifer L. (Cistaceae).

Il più antico resoconto scritto sugli usi etnomedici della Mirra proviene dalla Mesopotamia e risale al 2.600 a.C.; in esso si descrive l’uso di migliaia di derivati dalle piante, tra i quali troviamo anche le resine/olii di Cedrus sp., di Cupressus sempevirens  L. ed anche di Mirra14], usate in casi di infiammazione.

In tutta l’Asia minore era comune il suo utilizzo per riti funerari, per ungere il capo ed il corpo delle persone, per imbalsamare i morti (il termine imbalsamare viene da in balsamum, conservare con un balsamo, termine generico che identificava qualsiasi resina abbastanza fluida[15]).

La Mirra era certamente conosciuta nell’Egitto antico, probabilmente fin dal III millennio a.C., periodo per il quale  si hanno notizie dell’utilizzo di molte sostanze aromatiche per il rito dell’imbalsamazione – una volta che il corpo era stato essiccato immergendolo nella sabbia del deserto, è possibile che venisse unto con resine o olii derivati da legno di cedro, ginepro, cannella, chiodi di garofano e noce moscata, ma soprattutto con le resine di tre specie di Commiphora: Mirra, Balsamo (Commiphora opobalsamum Engl.) e Bdellium (Commiphora mukul[16] (Hook. ex Stocks) Engl.).

Vasi ritrovati nella tomba di Tutankhamen (1.350 a.C., aperta nel 1.922 d.C.) contenevano ancora tracce d’incenso e mirra e altre piante aromatiche. Le indagini hanno chiarito che la resina fu usata nella camera mortuaria sia come agente mummificante, sia come vernice, cemento e materiale per ornamento personale[17] del faraone.

Papiri risalenti al 2.800 a.C. (regno di Khufu) riportano usi magici/medicinali di  sostanze aromatiche. I dolori muscolari erano trattati con unguenti contenenti incenso e cannella; per le malattie della pelle (forse herpes) gli unguenti utilizzati contenevano mirra, coriandolo e miele.

Secondo i documenti, in Egitto l’uso religioso dei materiali aromatici era ben strutturato: al mattino venivano bruciate delle resine, a mezzogiorno della mirra, mentre al tramonto il dio Ra veniva venerato con offerte della miscela detta Kyphi (preparazione particolarmente famosa che, secondo fonti più tarde, conteneva sedici ingredienti tra i quali materiali nativi come il ginepro, menta piperita, uva passa,ed altre piante aromatiche, mescolati a miele e vino, e materiali esotici comeincenso, mirra, e cannella[18]), utilizzata dai sacerdoti come mezzo per “trasportare” il dono dell’uomo verso gli dei. Il Kyphi non aveva solo utilizzi religiosi, serviva anche per facilitare il sonno, alleviare le ansie, aumentare i sogni, eliminare la tristezza, trattare l’asma ed agire come un antidoto generico.

Secondo Hoots[19] inizia in questo periodo il commercio su scala significativa della Mirra, proprio perché era ampiamente utilizzata come incenso nei templi, come profumazione delle mummie ed in altre applicazioni, grandi erano le quantità necessarie (alcune iscrizioni nel 2.500 a.C. parlano di 80.000 misure di mirra[20]), e in Egitto non era possibile coltivare l’albero

Hatshepsut

La prima testimonianza scritta chiara sull’uso significativo di resine esotiche in Egitto risale però al 15°secolo a.C, è relativa al suo trasporto commerciale[21], ed è contenuta in una iscrizione del tempio dedicato alla Regina Hatshepsut di Tebe. Dalle iscrizioni si legge come essa ordinò una spedizione verso il Mar Rosso, perraccogliere incenso delle terre di Punt (una zona non ben delimitata forse comprendente la costa della Somalia e una porzione della costa Araba opposta, alla bocca del mar Rosso). In quella che è stata descritta come la prima spedizione di raccolta di piante/etnobotanica, trentun alberi di incenso furono riportati indietro e piantati presso il tempio di Karnak sulle rive del Nilo superiore. Non è in realtà chiaro se si trattasse veramente di alberi di Boswellia, ed è più plausibile che si trattasse di alberi di Commiphora myrrha, dato che essa è una delle specie tipiche della Somalia.

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Terra di punt

L’antico Egitto si pose quindi come intermediario tra il Mediterraneo ed i mercanti Arabi nell’attuale Yemen, i quali a loro volta commerciavano con l’India.

Erodoto[22] nel V secolo a.C. nota l’importante ruolo della mirra per il processo di imbalsamazione in Egitto, e lo spiega raccontando una leggenda: si racconta che ogni 500 anni la fenice rinata depositasse un contenitore a forma di uovo e fatto di pura resina di mirra, racchiudesse il corpo del suo padre appena deceduto all’interno dell’uovo e lo portasse dall’Arabia in Egitto perché fosse cremato presso il tempio di Ra ad Heliopolis[23].

La resina era anche conosciuta in Israele e in Assiria dove il re Assurnasirpal II (883-859 a.C.) aveva trapiantato un albero di Mirra nei suoi giardini botanici presso Calah (la moderna Nimrud,  antica città Assira a sud di Mosul nell’Iraq del Nord).

Nelle antiche pratiche giudaiche Greche e Romane la mirra veniva usata per il culto degli dei ma anche in molte occasioni sociali, pubbliche e private. Era associata all’intimità del piacere sensuale.  Saffo[24] nel VI secolo a.C. parla delle volute di fumo di mirra, cassia e incenso durante un matrimonio.

La mirra (insieme all’incenso) è naturalmente molto presente negli scritti biblici, ci sono ventidue citazioni delle due resine tra il Vecchio e il Nuovo Testamento[25].  Il Vecchio testamento parla di unguenti medicamentosi a base di mirra, cannella, cassia, calamo aromatico, ecc., e la mirra era l’ingrediente principale dell’olio sacramentale degli ebrei nel Vecchio Testamento[26], e Gesù rifiutò “vino mescolato a mirra” (Vinum murratum) durante la crocifissione[27] facendo si che la Mirra fosse associata al suo martirio (mentre l’Incenso è associato alla sua divinità).

Anche nei testi biblici è presente l’associazione con l’intimità del piacere sensuale: nel libro ebraico dei Proverbi una adultera dice: “Ho guarnito il mio letto di morbidi tappeti, di coperte ricamate con filo d’Egitto/ l’ho profumato di mirra, d’aloe e di cinnamomo./Vieni inebriamoci d’amore fino al mattino, sollazziamoci in amorosi piaceri;” (Proverbi 7:16-18).

Viene anche citata varie volte nel Cantico dei Cantici: “… Sono entrato nel mio giardino, o mia sorella, sposa mia, ho colto la mia mirra col mio balsamo; ho mangiato il mio favo col mio miele, ho bevuto il mio vino col mio latte. Amici, mangiate, bevete; sì inebriatevi, o diletti…” (Cantico dei cantici 5:1); “L’amico mio ha passato la mano per il buco della porta, e le mie viscere si son commosse per lui. Mi son levata per aprire al mio amico, e le mie mani hanno stillato mirra, le mie dita mirra liquida, sulla maniglia della serratura” (Cantico dei Cantici 5:4-5).

Viene citata nella genesi: “Allora Israele, loro padre, disse loro: “Se così è fate questo: Prendete ne’ vostri sacchi delle cose più squisite di questo paese, e portate a quell’uomo un dono: un po’ di balsamo, un po’ di miele, degli aromi e della mirra, de’ pistacchi e delle mandorle.” (Genesi 43: 11), nell’Esodo: “Procurati balsami pregiati: mirra vergine per il peso di cinquecento sicli, cinnamòmo odorifero, la metà, cioè duecentocinquanta sicli, canna odorifera, duecentocinquanta” (Esodo 30:23) e nei Vangeli; Giovanni parla della sepoltura del Cristo: “Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre./ Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei.” (Giovanni 19: 39-40), e  nel Vangelo secondo Matteo la mirra è uno dei doni portati dai Re Magi a Gesù Bambino (Matteo 2:11).

Con il nome Myrrha o Smyrna era conosciuta dai greci nel VI secolo a.C. e in seguito Teofrasto (322-287 a.C.) fu in grado di dire qualcosa delle sue origini grazie alle notizie derivanti dalla spedizione di Alessandro il Grande in Arabia[28].  Nella Historia Plantarum egli parla di Stacte o Mirra liquida, e ne descrive l’utilizzo per speziare i vini.  Era molto usata anche in medicina, anche se il giudizio su quale fosse la miglior qualità differisce secondo gli autori: Teofrasto[29] preferisce quella invecchiata mentre Dioscoride[30] dichiara che la migliore è quella più fresca, leggera e friabile, perché più pungente e riscaldante.

Strabone (64-24 a.C.) nel suo Geografia cita il regno di Saba (la Sabaea – attuale Yemen) come fonte di balsamo, cannella, incenso e mirra.

Nel Corpus Hippocraticus è la resina citata più spesso, per ben cinquantaquattro volte,   spesso per disturbi legati agli epiteli: in “De Fistulis” si consiglia di usarla per trattare fistole anali[31], in “De haemorrhoidibus ” viene usato per curare le emorroidi al posto della cauterizzazione o dell’incisione[32], e in De Ulceribus viene descritto un lungo procedimento per la produzione di un linimento secco a base di mirra ed incenso da applicare su ulcere e piaghe, vecchie e nuove[33].

Dioscoride usa la mirra in una ricetta per il mal d’orecchi, dove l’ingrediente principale è il latice del papavero da oppio (Papaver somniferum L.), mescolato a mirra, olio di mandorle e zafferano[34].

Ma sono le fonti romane, in particolare Plinio il Vecchio, che dominano la letteratura sulla mirra. Intorno al primo secolo a.C., è infatti questo autore nella sua Naturalis Historia a raccogliere la maggior messe di dati sull’argomento[35], e a dare molti dettagli sulla pianta, sulle sue origini e sulla raccolta, e sulle sue qualità “riscaldanti, mordenti, astringenti e leggermente amare[36]“.

Ci dice Plinio che:

L’albero che produce la Mirra viene allo stesso modo inciso due volte all’anno, nella stessa stagione dell’albero dell’Incenso, ma nel suo caso le incisioni vengono effettuate  a partire dalle radici su fino ai rami forti a sufficienza.  Prima di essere inciso, l’albero essuda un succo chiamato Stacte, che è la più apprezzata di tutte le Mirre. Subito dopo di questa viene il tipo coltivato, ed anche la miglior qualità del tipo selvatico, quella raccolta in estate.

In tutta la regione viene raccolta e trasportata da persone ordinarie e messa in sacchi di cuoio. I nostri profumieri non hanno difficoltà a distinguere i differenti gradi, grazie all’evidenza dell’aroma e della consistenza. Vi è un gran numero di varietà (…).  Parlando in generale, comunque, la mirra è di buona qualità se è costituita da piccoli pezzi di forma irregolare, che si formano al solidificarsi e allo sbiancarsi del succo nel momento in cui si secca; ed anche se mostra segni bianchi, come unghie quando viene rotta, e ha un sapore leggermente amaro[37].

La sua introduzione nei riti religiosi è testimoniata da molti autori classici[38], e diventa anche protagonista di racconti mitici.  Rifacendosi allo schema di un mito narrato dallo Pseudo-Apollodoro nella Bibliotheca, Ovidio, nelle sue Metamorfosi (ma il mito, con variazioni, è raccontato anche nelle Fabulae di Igino, e nelle Metamorphoses di  Antonino Liberale), racconta della nascita dell’albero di mirra. Myrrha, la figlia del re di Cipro, Cinira,  e di Cencreide, desiderava incestuosamente il padre[39].

Myrrha Cinyras

Con l’aiuto della nutrice riuscì ad ingannare il padre per giacere con lui per varie notti, ma venne scoperta e, incinta, fuggì per salvarsi dall’ira del padre. Arrivata alla città di Saba e pronta a partorire, Myrrha confessa le sue colpe agli dei e chiede di essere bandita sia dal mondo dei vivi che da quello dei morti. Gli dei ascoltano la sua preghiera e la trasformano in un albero che stilla gocce di pianto profumato dalla corteccia. Adone, aiutato da Giunone Lucina (“colei che porta i bambini alla luce”), riuscirà a nascere dal grembo legnoso.

Adonis

La mirra è uno degli ingredienti principali della farmacopea romana con più di 200 citazioni, ed anche se non aveva la popolarità dell’Incenso, il suo prezzo era di molto superiore e per questo divenne un simbolo di status sociale ed economico, oltre che simbolo religioso e strumento terapeutico.

La mirra era una componente principale di un vino speziato molto apprezzato dai Romani, il Musulm, un aperitivo contenente forse miele, vino, radici di Sausurrea costus (Falc.) Lipsch, e Cinnamomum tamala (Buch.-Ham.) T.Nees & Eberm., oppure, secondo un’altra versione, Mirra, Cinnamomum aromaticum Nees., Sausurrea,Nardostachys jatamansi (D.Don) D.C., Pepe e Miele[40].

Le rotte commerciali

Dal 2.000 a.C. gli Arabi monopolizzano il mercato, per il momento ridotto e locale, di Boswellia e Commiphora, mercato che vedrà una prima forte accelerazione grazie alla introduzione del cammello in Arabia del Sud, domesticato nel 2.000 a.C. ma divenuto importante mezzo di trasporto solo intorno al 1.000 a.C. Questo animale velocizzerà enormemente il trasporto via terra, e permetterà di raggiungere le aree del Mediterraneo più lontane, in tempi più brevi e con carichi molto maggiori, e permetterà quindi l’incontro tra domanda e offerta in maniera più efficace. La domanda era dominata prima da Greci e in seguito Romani, che utilizzavano ampiamente gli incensi per doni e offerte agli dei, per nutrirli con l’unico cibo che l’uomo poteva offrirgli (cfr. lo stesso utilizzo dell’incenso come cibo per gli dei che si riscontra in America tra i Maya).

È proprio in questo periodo che il mercato delle spezie diventa economicamente molto importante per le terre Arabe, e questo successo commerciale raggiunge l’apice intorno al 750-500 a.C., creando la ricchezza delle terre arabe. Si hanno di questo periodo testimonianze dell’uso delle spezie per unguenti e incensi in Palestina.

E così l’aumentare dell’importanza commerciale delle resine delle due piante porta allo stabilirsi di tratte commerciali via terra sempre più stabili, all’aumentare in numero e frequenza delle carovane e quindi al crescere di agglomerati urbani intorno alle stazioni di scambio e di riposo per le stesse.

Al crescere dell’importanza delle rotte, del volume di incenso e della sicurezza rispetto ai banditi, altre merci iniziarono as essere trasportate, come ad esempio le spezie, l’avorio e la seta dall’India, e oro, legni e pellami preziosi dalla costa africana. La stessa carovana riportavano beni manifatturieri dall’Etruria, della Grecia e da Roma, aumentando la ricchezza o l’importanza dei centri commerciali in Arabia.

Questo attivo interscambio favorì la nascita delle prime città-stato dell’area araba, la più famosa delle quali è probabilmente Saba (la Sabaea).  Si narra che nel 992 a.C. la Regina di Saba portò delle spezie in dono a Re Salomone, e che la città raggiunse una tale ricchezza da poter costruire delle dighe e opere d’irrigazione e canalizzazione per migliorare l’irrigazione delle sue terre, rendere più ricca e produttiva l’agricoltura[41]. Una grande diga costruita nell’8 secolo a.C. serviva ad irrigare gli orti e i giardini della capitale Mar’ib, così famosi da essere ritenuti il giardino dell’Eden menzionati nella Bibbia e nel Corano. Mar’ib rimase un importante centro anche dopo il 5° secolo aC quando iniziarono ad emergere nuovi stati rivali

Il commercio con l’area Mediterranea crebbe sempre di più, e divenne più organizzata, almeno secondo le testimonianze a noi pervenute. Erodoto parla di un commercio molto importante intorno al 500 a.C., tale che: “tutto il paese è profumato con esse [le resine aromatiche]  ed emana un odore meravigliosamente dolce”.  Teofrasto, intorno al 300 a.C. racconta della prima testimonianza oculare degli alberi di incenso e della raccolta della resina secondo la relazione delle spedizioni di Alessandro il Grande.

La via dell’Incenso continuò a crescere di importanza nel periodo subito prima la nascita di Cristo, come testimonia la citazione di carovane di 2-3000 cammelli.

Anche se è probabile che esistesse una rotta commerciale preferenziale per l’incenso verso il Mediterraneo, che possiamo chiamare la via dell’incenso, questa aveva comunque molte varianti e alcune deviazioni.

La principale via di commercio era quella che si originava nelle regioni di Dhofar (Oman meridionale), Somalia, e dall’isola di Socotra, da dove le navi cariche di merci partivano per arrivare, dopo 800 km di navigazione, al porto di Qana (odierna al Mukalla) in Yemen. Da qui venivano trasportate per terra fino all’emporio del governatorato di Shabwah dove venivano tassate.

Rotta del Mar Rosso

Da Shabwah esse continuavano per Narib, da dove potevano prendere la via del Mar Rosso, e proseguire fino a Jeddah (dove risalivano i pellegrini provenienti dalla Mecca), Da qui le navi proseguivano verso la penisola del Sinai e Suez, e dopo 2.000 km arrivavano in Palestina, a Petra e al porto di Gaza da dove potevano partire direttamente per il resto del Mediterraneo, oppure continuavano il viaggio via terra verso Alessandria d’Egitto, da dove venivano vendute localmente e in piccole parte spedite verso Roma, Grecia e Spagna (anche se la maggior parte dell’incenso per Roma veniva processato ad Alessandria, che era il centro industriale dell’Impero Romano). Da Alessandria l’incenso faceva altri 2.100 km per mare fino a Roma (6.500 km in totale).

Rotta del Mar Rosso: Nubia-Alto Egitto-Delta del Nilo

Una rotta alternativa, più difficile e pericolosa, partiva da Port Sudan, di fronte a Jeddah. Da qui partiva una rotta desertica e difficile, con poca acqua, pochi punti di ristoro; arrivava ad Assuan, poi a Qus (dove si incontravano i flussi mercantili e dei pellegrini della Mecca), Koptos, Cenopolis, e infine Luxor, dove la mercanzia veniva caricata su barconi per discendere il corso del Nilo fino al Cairo, da dove si arrivava facilmente ad Alessandria e potevano fare scalo al porto di Sudan, di fronte a, e scaricare le merci.

Rotta Iraq-Siria-Palestina

Una via alternativa partiva da Narib per poi piegare verso il Golfo Persico, passare per Gherra (un sito di interscambio per Persia e Mesopotamia) e poi Teradon. Da qui le navi risalivano la corrente fino alla città di Bassora da dove potevano proseguire fino alla città di Bagdad oppure scendere e viaggiare via terra verso Siria ed Egitto.

Tra le vie di terra era considerata la migliore perché attraversava il territorio storico del Califfato d’Oriente, benevolo nei confronti dei commercianti arabi.  Il viaggio era intrapreso da carovane di cammelli che si fermavano per ristoro o dormire nei molti caravanserragli distribuiti lungo le piste.

La via di terra iniziava da Bagdad, dopo che le navi che avevano risalito il Tigri avevano scaricato le merci.  Il percorso si snodava verso ovest lungo il corso del Tigri, con molti caravanserragli, passava per Samarra, Tikrit, e Mosul, dove abbandonava il corso del fiume per  piegare più decisamente ad ovest, entrando in Siria, per spingersi fino ad Aleppo, vicino al porto cristiano di Antochia.  Da qui piegava a sud per Hamat, Homs e finalmente Damasco.  Le navi, per attraversare il Mediterraneo, potevano partire da Antiochia e Tiro, oppure la carovana si spingeva a Sud, passando per Gerusalemme fino ai porti di  Gaza o Alessandria.

Le rotte del Mediterraneo. Costa Nord

Se il cargo partiva da un porto cristiano come Antiochia o altri, allora avrebbe fatto scalo a Cipro, poi a  Rodi,  a Creta, per arrivare in Sicilia, passare lo stretto di Messina, passare per Cefalù, Palermo e Trapani.  Da qui la traversata fino ala Sardegna, proseguendo per Ibiza e la costa andalusa, Denia o Cartagena (dal XIII secolo, dopo la riconquista da parte dei re cristiani di queste città), oppure Malaga.

Litorale magrebino.

Se invece la nave partiva da un porto musulmano, come Alessandria, il viaggio proseguiva in direzione ovest lungo la costa nordafricana passando per Barca, Tripoli, Gabes, Tunisi e Algeri, da dove le navi attraversavano il tratto di mare che le divideva dall’Andalusia, ad Almeria oppure a Malaga.

Altre rotte

Gli incensi non venivano esportati solo verso nord, ma anche verso est, verso l’India e la Cina, insieme ad altre resine come Storace e Sangue di Drago di Socotra.  La mirra è presente nella letteratura Sanscrita dal VII secolo a.C. in avanti, mentre arriva in Cina molto più tardi, intorno al V secolo d.C.. Nel XII secolo d.C. Zhao Rugua descrive una mirra proveniente sia dall’Arabia del Sud sia dalla moderna Somalia.  Nel 1342 il Kahn del Catay manda a Papa Benedetto XII regali d’oro, argento, seta, perle, canfora, muschio, mirra e spezie[42]. Con tutta probabilità la mirra faceva un viaggio circolare con i commercianti arabi, dalla Persia alla Cina e ritorno.

Per rendersi conto del valore delle resine basti riportare la testimonianza che gli addetti alla lavorazione ad Alessandria venivano denudati e perquisiti perchè non facessero uscire nulla, e l’opinione è che l’incenso valesse più dell’oro, e fosse forse la sostanza più preziosa sulla terra intorno alla nascita di Gesù.

Secondo i calcoli di Plinio, venivano prodotti 2,5-3 milioni di kg di mirra che valeva 3 volte l’incenso (Boswellia) che però era richiesto a volumi fino a cinque volte superiori.

Anche se per molti secoli le civiltà del Mediterraneo non conobbero le aree di produzione e di provenienza degli incensi, al crescere della loro importanza economica e commerciale aumentò l’interesse dei Romani per il mercato delle spezie. Dopo il 27 a.C. (la data esatta è dibattuta[43]) Aelius Gallus, governatore d’Egitto(45 –  5 BCE ), sedotto dalla possibilità di controllare il mercato delle spezie che stava arricchendo il reame alleato di Nabatea, partì con una spedizione forte di 10.000 uomini per i deserti Arabi per trovare gli alberi di incenso. La spedizione fu un insuccesso ed i Romani dovettero ritirarsi, sconfitti dalle malattie, dalla mancanza di acqua e dalla resistenza delle tribù locali.

Per quanto un insuccesso, la spedizione rese possibile pensare alla conquista del commercio degli incensi, che si rese possibile più tardi grazie alla scoperta dei monsoni. Con questa scoperta si rese possibile dimezzare i tempi di viaggio per mare verso l’Arabia e l’India. Quindi nel 2-3° secolo d.C. i mercanti Romani riuscirono a bypassare i mediatori arabi e le tasse che pesavano sugli incensi, contribuendo, intorno al 400 d.C., al declino del commercio dell’incenso e delle città che fiorirono su esso. I flussi di resine dalle terre arabe scemarno fino a terminare, a causa anche della lenta ma continua depauperazione delle popolazioni autoctone di Boswellia e Commiphora nell’odierno Yemen, causata da una cattiva gestione e cura delle piante, da uno sfruttamento distruttivo, alla crescente pressione delle mandrie di animali (cammelli e capre) ghiotti di incenso, oltre ad un concomitante periodo di siccità, fattori che hanno portato alla scomparsa delle piante di Boswellia sacra in buona parte dell’Arabia meridionale.

Responsabile del declino fu però anche l’opposizione della chiesa cristiana.  Quando il Cristianesimo divenne religione di stato a Roma, alla fine del 4° secolo, l’imperatore Teodosio I vietò infatti l’uso delle offerte agli dei, e l’utilizzo degli incensi, visti come residui di paganesimo, anche se la chiesa stessa finirà per adottare incenso e mirra qualche secolo più tardi (intorno al 700 d.C.) all’interno della liturgia. In effetti la mirra divenne un ingrediente fondamentale di alcune versioni del Crisma battesimale. Una delle ricette pervenute a noi lo descrive così composto:

  • 500 p di mirra +
  • 250 p di cannella +
  • 250 p di calamo +
  • 500 p di Cassia +
  • Olio di oliva

Con la perdita di ricchezza conseguente al declino, Il commercio per nave si ridusse al lumicino, le popolazioni dell’area di Saba iniziarono ad abbandonare l’area e a ritirarsi sugli altipiani dello Yemen, e si formò un altro stato centralizzato, Hymar, che si sostituì a Saba nel comandare i porti sul Mar Rosso.

Nel XVI secolo entrarono in voga i “rimedi da indossare” sotto forma di polveri, guanti, collane ed altri oggetti profumati, profumi, ecc., tutti naturalmente caratterizzati da ingredienti esotici tra i quali naturalmente figurava anche la mirra[44].

Indicazioni tradizionali

Secondo gli antichi autori[45] le qualità della mirra erano: calda (calefaciens, fluxiones sistens[46]), risolutiva (“carnes rodunt[47]“, “compositio caustici[48]“, “emollientes[49]), mordente[50], astringente[51], amara[52], analgesica[53].

Vi sono molti esempi di autori antichi che hanno formulato dei rimedi comprendenti la resina di mirra

Gaio Elio Gallo (45–5 a.C. ), il prefetto romano in Egitto, protagonista della disastrosa spedizione alla conquista dell’Arabia felix, aveva anche interessi medici. Galeno[54]  cita una sua teriaca contro le punture degli scorpioni, un multifarmaco che: ” . . .Gallo portò fuori dall’Arabia e diede a Cesare [Augusto], [e] molti soldati furono curati con esso.”  Probabilmente Gallo era un Asclepiade, dato che Galeno cita un “Marco” Gallo, discepolo di Asclepio (Esculapio), come inventore di un utile aiuto preventivo (da usare prima di pasti lussuriosi), composto da semi di Giusquiamo, rose, anice,  semi di sedano, mirra vecchia e zafferano, bolliti in vino e miele[55].

Gallo inventò anche degli antidoti per la golosità, contenenti mirra ed altre spezie costose ed importate[56]. Galeno cita[57] un testo di Elio Gallo che loda l’utilità di incenso, mirra, le due cannelle ed altri ingredienti esotici nella manifattura di gocce efficaci contro la tosse  ed altre medicine utili a lenire le vie aeree.

Claudio Alcimo (Alchimione – 120 a.C.– 25 d.C.), il medico di  Tiberio o Claudio  viene citato due volte da Galeno[58]. Gli si attribuisce un trattamento emolliente composto da cera d’api, resina di Colofonia, resina di Dorema ammoniacum D.Don, galbano, mirra, incenso, opopanax (Balsamo della Mecca), propolis, aceto, feci di capra, e olio d’oliva[59].

Abascanto di Lugdunum (10 a.C. –  80 d.C.) formula un rimedio per la tisi contenente resina di mirra, Aristolochia spp. (A. clematis L.), zafferano, euforbia, genziana, Hyoscyamus niger L., Mandragora officinarum L., oppio, ecc⁠.[60], un rimedio per le coliche contenente resina di mirra, Nardostachys jatamansi, oppio, pepe, ecc. in vino cotto[61], e un antidoto: resina di mirra, castoreo (sostanza giallognola prodotta dal castoro), zafferano, Iris illyrica[62], oppio, pepe bianco, Teucrium spp. (T. chamaedrys L.), ecc., in vino[63]

Amutaone (120 a.C. –  80 d.C.) preparava unguenti contenenti Bdellio, Incenso e Galbano, in una base di trementina e cera d’api[64]; uno in particolare, che conteneva anche olio di Hennè, resina di Dorema ammoniacum e di mirra, veniva usato per dolori articolari.

Come si capisce dagli esempi sopra riportati, i campi di applicazioni proposti nel tempo per la mirra erano molti:

  • Pneumologia: l’indicazione principale della mirra. Tosse e “tracheiti[65]“, asma[66], angina[67], disfonie[68], otiti[69], broncorrea.
  • Dermatologia: dopo la penumologia è l’indicazione più comune. Ascessi, impetigine, erisipela, ulcera, “infiammazioni” locali in genere[70].
  • Apparato digerente: dolori addominali, “cholera”, “malattie del fegato”, emorroidi, fessure anali[71].
  • Ginecologia: mestruazioni irregolari[72]
  • Nefrologia: usata come diuretico[73]
  • Neurologia: spesso menzionato per il trattamento dei dolori (“acopum ad omnem contractionem nervorum[74]), in particolare delle cefalee, delle “nevralgie[75]” e dell’opistotono[76]
  • Oftalmologia: Galeno “oculorum ulcera et crassas cicatrices[77]
  • Otorinolaringoiatria: instillazioni auriculari[78], e trattamento angina.
  • Reumatologia: dolori articolari e podagra[79].
  • Stomatologia: presente in varie preparazioni per denti e gengive (“colluta dentes gingivasque[80])
  • Traumatologia: è il classico vulnerario dell’antichità.
  • Tossicologia: secondo Celso e Scribonio Largo la mirra entra a far parte di vari antidoti[81].

Le principali forme galeniche usate in antichità erano tre: resina compatta, semifluida (profumo “in lacrime”, “stakte” greca) o dissolta in vino (vino di mirra o vinum murratum utilizzato per il catarro respiratorio), olio o acqua calda.

Si usava per via interna come diuretico o stimolante, come linimento su piaghe o per dolori reumatici, come pomata oftalmologica, nelle instillazioni auricolari e come compressa di resina applicata sulle fratture.

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[1] The Plant List (2013). Version 1.1. Published on the Internet; http://www.theplantlist.org/ (visionata il 21 Gennaio 2014

[2] Mabberley DJ (1987) The Plant-Book. A portable dictionary of the higher plants. Cambridge: Cambridge University Press

[3] Langenhein J.H. (2003) Plant Resins: Chemistry, Evolution, Ecology, and Ethnobotany. Timber Press, Oregon

[4] Langenhein J.H. (2003) Op. Cit.

[5] Duke, J.A., (2008) Duke’s handbook of medicinal plants of the Bible. CRC Press Taylor & Francis, Boca Raton

[6] Fluckiger, F. & Hanbury, D. (1885) Pharmacographia – The History of the Principle Drugs of Vegetable Origin. Reprinted Delhi (1986)

[7] Zohary, M. 1982. Plants of the Bible. Cambridge University Press, New York

[8] Duke, J.A. 1983. Medicinal Plants of the Bible. Trado-Medic Books. A Division of Conch Magazine Ltd

[9] Duke, J.A. 1999. Herbs of the Bible — 2000 Years of Plant Medicine. Interweave Press, Loveland, CO

[10] Langenhein J.H. (2003) Op. Cit.

[11] Esodo 30:23; Salmi 44:9; Proverbi 7:17; Cantico dei Cantici 1:12; 5:5

[12] Giovanni 19:39

[13] Marco, xv, 23

[14] Newman, D.J., Cragg, G.M., Snader, K.M. Nat. Prod. Rep. 2000,17, 215–234

[15] Langenhein J.H. (2003) Op. Cit.

[16] Turner, J (2004) Spice: The history of a temptation. Vintage Books, Random House

[17] Turner, J (2004) Op. Cit.

[18] Dalby, A (2000) Dangerous tastes: The history of spices. University of California Press, Berkeley

[19] Hoots, C. 1993. Retracing the incense route. Mosaic 1993(Feb.): 43–45.

[20] Majino J. 1975 The healing hand: Man and wound in in the ancient world. harvard University Press

[21] Groom, N. 1981. Frankincense and Myrrh: a Study of the Arabian Incense Trade. Longman,New York.

[22] Erodoto H 2.73 in J.P.A. Gould; J.S. Romm, Herodotus (1998); BNP 6 (2005) 265–271, K. Meister; C. Dewald & J. Marincola, The Cambridge companion to Herodotus (2006).

[23] Dalby, A (2000) Op. Cit.

[24] Lobel, E  Page, D  (1955) Poetaram Lesbiorum Fragmenta,  Oxford, Clarendon. 1955; II ediz. 1963, p 44

[25] Duke, J.A., (2008) Op. Cit.

[26] Esodo, XXX,23

[27] “Gli diedero da bere vino mescolato con fiele. Egli lo assaggiò, ma non ne volle bere. (Mt 27,34)

E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. (Mt 27,48) e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. (Mc 15,23)

Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». (Mc 15,36)

Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca”. (Gv 19,29)

[28] Dalby, A (2000) Op. Cit.

[29] Plinio NH, 12.68-71

[30] Dioscoride MM 1.25

[31] De Fistulis Sez 3 e 5. In CD Adams 1868 The Genuine Works of Hippocrates. Hippocrates. New York. Dover.

[32] De haemorrhoidibus, sez 6. In CD Adams 1868 The Genuine Works of Hippocrates. Hippocrates.. New York. Dover.

[33] De Ulceribus, sez 5. In CD Adams 1868 The Genuine Works of Hippocrates. Hippocrates. New York. Dover.

[34] Scarborough, J.  (1995) The opium poppy in hellenistic and roman medicine’ in  R Porter and M Teich (eds.)  Drugs and narcotics in history.  Cambridge, New York: Cambridge University Press.

[35] Plinio NH, 12.68-71

[36] Plinio NH

[37] Plinio NH, 12.68-71

[38] Ovidio, Le metamorfosi, VI, 14. Virgilio, “Eneide”, I, 146

[39] OvidioLe metamorfosi, X 298-502

…poi, nascondendo il volto con la veste per la vergogna, sospira: “Beata te, mamma, che l’hai sposato!”. Non dice altro e geme. Un brivido di gelo corre per il corpo della nutrice, che ormai ha capito, fin dentro le ossa, e sul capo le si rizzano i capelli, arruffando tutta la canizie (OvidioLe metamorfosi, X.421-425)

[40] Dioscoride MM 1.25, 1.64, 1.64; Plinio NH, 12.68-71; Erodoto H 2.73; Saffo  44 Lobel, E e Page, D  (1955) Op. Cit. Proverb 7.17-18; Orazio Odi 3.14.21-4

[41] Langenhein J.H. (2003) Op. Cit.

[42] Yule, H. (1886)  Cathay and the Way Thither, Hacklutt Society, London, pp.357

[43] Jameson S. (1968) Chronology of the Campaigns of Aelius Gallus and C. Petronius. JRS 58 71–84

[44] Thompson, CJS (1927) The mistery and lure of perfume, London, pp-99-163; Matthews, LG (1973) The antiques of perfume London, pp.10-16

[45] Cfr. Keyser PT, Irby-Massie GL (2008) The Encyclopedia of ancient natural scientists. The Greek tradition and its many heirs. Routledge, London

[46] Dioscoride. I.77

[47] Celso.V. 6,

[48] Pelag.Veter. XXXI

[49] Galeno In Kühn C.G. (1821– 1833, ristampa 1964– 1965; 1986) Claudii Galeni Opera omnia , 20 vv. in 22 parts. Leipzig

[50] Teofrasto (Historia Plantarum)

[51] Teofrasto (Historia Plantarum)

[52] Teofrasto (Historia Plantarum)

[53] Rufus (Hipp. Affect. \\’a4 52, t. VI, p. 262), Galeno in Kühn C.G. Op. Cit.

[54] Galeno Antid . 2.17 [14.203 K.] in Kühn C.G. Op. Cit.

[55] Galeno CMLoc  8.5 [13.179– 180 K.] in Kühn C.G. Op. Cit.

[56] Galeno Antid.  2.10 [14.158– 159, 161– 162 K.] in Kühn C.G. Op. Cit.

[57] Galeno CMLoc  7.2 [13.28– 30 K.]) in Kühn C.G. Op. Cit.

[58] Galeno, CMLoc 7.2 [13.31–32 K.] e CMGen 5.12 [13.835 K.] in Kühn C.G. Op. Cit.

[59] Asklepiades Pharm., in Galeno CMGen 7.6 (13.973–974) in Kühn C.G. Op. Cit.

[60] Galeno, CMLoc 7.2 (13.71 K) in Kühn C.G. Op. Cit.

[61] Kühn C.G. Op. Cit.  De Compositione Medicamentorum secundum Locos. 9.4 (13.278)

[62] Iris pallida subsp. illyrica (Tomm. ex Vis.) K.Richt

[63] Askeliades Pharm., in Galen Antid.2.12 (14.177 K.) in Kühn C.G. Op. Cit.

[64] Asklepiades Pharm., in Galen CMGen 7.6 (13.967 K.) in Kühn C.G. Op. Cit.

[65] 30 citazioni in Scribonius Largus XCIV in Sconocchia S. (1981) Per una nuova edizione di Scribonio Largo

[66] 5 citazioni in Galeno, De Simpl. VIII.XVIII.30  in Kühn C.G. Op. Cit.

[67] 4 citazioni in Marcellus, XV. 6

[68] 3 citazioni in Dioscoride,  I. 77

[69] 2 citazioni in Marcellus,  IX. 18.

[70] cfr. Celso.V.22. 7.1

[71] Celso V.20.5

[72] Celso .V.21.1.

[73] 4 citazioni in Scribonius Largus CXXXIVT in Sconocchia S. (1981) Op. Cit.

[74] Scribonius Largus CCLXIX  In Sconocchia S. (1981) Op. Cit.

[75] Celso.V.24.1.

[76] Plinio H.N.XXVI.109

[77] De Simpl. VIII.XVIII.30

[78] Serenus Sammonicus I.11.

[79] Scribonius Largus CCLXVII  In Sconocchia S. (1981) Op. Cit.

[80] Dioscoride. I.77.

[81] Scribonius Largus. CLXXVII in  Sconocchia S. (1981) Op. Cit.

Fitoalimurgia Chepang 1/2

In questi giorni di tribolazione per il Nepal (leggi qui e qui le cronache di Enrico Crespi), spintonato da un post di Meristemi (eccolo qui) sulla fitoalimurgia, prendo l’occasione per scrivere nuovamente di Chepang, un gruppo etnico di cui avevo già parlato in un’altra occasione, descrivendo un albero particolarmente importante nella loro cultura.

Come giustamente rimarca Meristemi, la fitoalimurgia, o più in generale lo studio del ruolo delle piante selvatiche o non coltivate nella storia dell’uomo, è particolarmente affascinante perché rappresenta una chiave di lettura poliedrica, che ci permette molteplici punti di entrata nel “discorso” piante e uomo. Inoltre è un esempio di ciò di cui parlava Andrea Pieroni in un post di qualche tempo fa, ovvero delle dimensioni pratiche ed etiche dell’etnobotanica, che diviene una attività non solo accademica ma applicata, uno strumento per modificare la realtà.

Il tema delle piante selvatiche tra cibo e medicina pone inoltre in primo piano il problema dell’articolazione tra tradizione e progresso scientifico. Mi ci hanno fatto pensare i post di Anna Meldolesi sul consumo etico, e di Bressanini sugli OGM, e non tanto per quello che hanno detto, quanto per le riflessioni che mi pareva scaturissero dai vari commenti.

Le strategie di gestione, di raccolta e di conservazione delle piante selvatiche sono pratiche tradizionali che meritano di essere studiate? O dovremmo invece pensare che siano fasi primitive, preagricole, del nostro rapporto con le piante, quindi ormai desuete e impari allo scopo? La fitoalimurgia è un campo dello scibile utile solo a survivalist che si allenano per la terza guerra mondiale, o per romantici innamorati del folklore, oppure ci possono dire qualcosa di rilevante sulle strategie di salute alimentare?

E ancora, se il dato scientifico si deve tradurre in politiche (in questo caso agricole ed alimentari) e se contesti differenti esigono risposte differenti anche a partire dagli stessi dati, le pratiche agricole tradizionali o le pratiche pre-agricole possono rappresentare parte delle politiche alimentari in determinati contesti?

Non intendo tentare di rispondere a nessuna di queste domande, almeno per il momento

I Chepang

Il caso di studio dei Chepang (che ho portato a Pollenzo, presso l’Università di Scienze Gastronomiche, su invito di Andrea Pieroni) credo possa servire proprio a vedere la complessità del problema, e di come la soluzione ai problemi di salute e sicurezza alimentare passi contemporaneamente dalla necessità:

1. di un approccio trickle-up, ovvero che parte dall’ascolto delle popolazioni locali, della loro percezione dei problemi e delle possibili soluzioni (che spesso sorprende chi parte da posizioni preconcette)

2. di un approccio scientifico allo studio dei sistemi tradizionali di gestione del territorio e della biodiversità

3. dell’inserimento della dimensione dell’identità culturale di un gruppo all’interno dell’equazione sulle possibili soluzioni.

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Rimando i lettori al post precedente per una introduzione ai Chepang. Ricordo brevemente che sono vissuti come cacciatori-raccoglitori fino a poco tempo fa, dipendendo interamente dalla foresta come fonte di radici e piante alimentari, e cacciagione,  fino a 100-150 anni fà.[1]

Più di recente sono diventati stanziali e si sono adattati ad una vita da agricoltori con la tecnica del debbio (in lingua Chepang Khorya, in inglese swidden, o slash-and-burn).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Rimangono però ancora pesantemente dipendenti dalla foresta (come d’altronde è vero, in minor misura, per molta della popolazione nepalese, che per il 90% vive in aree al limine tra foresta e campi coltivati) e dai suoi prodotti, o da piante non coltivate (ad esempio il Chiuri– Dyploknema butyracea (Roxb.) H. J. Lam — Sapotaceae, qui la monografia infoerbe) per la sussistenza alimentare, per le medicine, per la cultura materiale, per il foraggio, per il combustibile ed anche per un sostegno economico, dato che scambiano o vendono vari prodotti ai mercati locali.

Sono certamente una delle comunità più svantaggiate del Nepal dal punto di vista socio-economico, dell’accesso all’educazione e ai servizi di salute, in termini nutrizionali (soprattutto deficit proteico, mentre la dieta fortemente vegetale riduce i deficit vitaminici), in particolare tra donne e bambini (i bambini possono soffrire di malnutrizione e le donne incinte di deficienza di ferro e di proteine) (anche se negli ultimi 15 anni molte cose sono cambiate),[4] circa il 50% delle famiglie sono in situazione di debito, con un deficit di contanti molto acuto e con un surplus annuale molto basso; l’agricoltura (in particolare le coltivazioni di mais – Zea mays L. e panico indiano – Eleusine coracana (L.) Gaertner. – Poaceae) provvede sostentamento al 97% della popolazione solo per 5-6 mesi all’anno e per il resto dell’anno le famiglie devono fare ricorso alla foresta ed ai suoi prodotti. [5]

Anche se negli ultimi anni sono stati introdotti gli orti familiari, con cetrioli, pomodori, zucche e zucchine ed altri ortaggi, la maggior parte dei Chepang continua a fare affidamento più sulle piante selvatiche o non coltivate, o sulle piante coltivate con il metodo del debbio. [6]

Come è stato detto, gli alimenti principali dei Chepang sono il mais e la Eleusine coracana. Da quest’ultima si ricava il Dhindo, ovvero la polenta di miglio, e il Jand (bevanda fermentata a base di miglio e mais), la bevanda più tipica, bevuta da tutti in famiglia.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Di grande importanza, non solo alimentare ma anche culturale, sono i curry a base di larve e pupe di api e vespe, e a base di pipistrelli.

Centrale nella cosmogonia Chepang è, come si è detto, l’albero del Chiuri (Diploknema butyracea), o Yoshi in lingua Chepang, che provvede la famiglia di frutta, miele, nettare, ghee, foglie per piatti, fiori per bevande fermentate, ecc., per il consumo locale o per la vendita nei mercati a valle, vendita che fornisce fino al 60% del reddito familiare (vedi il mio precedente post per il dettaglio sull’albero).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Altri items venduti o scambiati al mercato sono i germogli fermentati di bambù, i doko (cesti di bambù), i naglo (i grandi piatti di fibre intrecciate per separare il loglio dal cereale) e le namlo (le cinghie da trasporto).

Vivono in villaggi, o meglio gruppi di case sparse sui pendii molto ripidi del gruppo del Mahabarat, nel Nepal centrale lungo i fiumi Trisuli, Narayani e Rapti e nei bacini degli affluenti (Manahari e Lothar al sud, Malekhi e Belkhu al nord) compresi nei Distretti del Dhading, Makwanpour, Chitwan e Gorkha.

Le loro case sono a tetto basso, piccole e quasi sempre ad una sola camera, con poca ventilazione. I componenti della famiglia vivono in questa unica stanza, mentre il secondo piano funge da solaio per I cereali ed altri alimenti conservati. Onnipresenti nella casa sono il ripiano di bambù sopra al fuoco per essiccare ed affumicare carne, pesce e cereali (e semi di Chiuri), e la mola (due pietre circolari per le farine di cereali), mentre subito fuori dalla porta troviamo l’attrezzo per decorticare il grano o rompere il guscio dei semi.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

A differenza di molto altri gruppi etnici nepalesi, i Chepang non danno molto rilievo alle gerarchie ed alle differenze di genere sessuale che, pur sussistendo, sono meno marcate rispetto al resto del paese. Le donne godono di maggior libertà, ed il cibo viene equamente diviso tra tutti i membri della famiglia, senza differenze di età o di genere (cosa non comune nel resto delle zone rurali del paese, dove spesso le donne devono nutrirsi dopo il resto della famiglia e con ciò che rimane, nutrendosi quindi poco e male, un dato rilevante per il problema del prolasso uterino).

Studi antropologici

Mentre i Chepang sono stati oggetto di molte ricerche ed analisi di tipo sociologico, minori e di minor qualità sono gli studi e gli interventi sullo sviluppo economico e sociale. Come lamentano gli stessi Chepang, c’è veramente poco sui Chepang che provenga dai Chepang stessi, e poco spazio è stato dato alla domanda “quale beneficio ha portato ai Chepang tutto il lavoro svolto sui Chepang?”. [7]

Fino a poco tempo fa i progetti governativi si sono poco interessati alle definizioni di sviluppo fornite dai locali, e spesso gli sforzi delle ONG sono stati trascurabili e politicamente non impegnati, evasivi, almeno fino alla metà degli anni ‘90.

Nel 1993 si è tenuto il primo “Gathering of the concerned” e nel testo che raccoglie le esperienze di questo incontro, emergono le istanze avvertite come più pressanti: [8]

1. Inferiorità, o mancanza di autostima, imposta ed istituzionalizzata. Quando CAED iniziò a lavorare con I Chepang, era comune riferirsi ad essi, anche nei documenti ufficiali, come Jungli (selvaggi/incivili) o Bankar/Banmanchhe (scimmie), ed in genere caratterizzarli come primitivi e stupidi. Questa istanza è stata infatti il primo punto di “attacco” del progetto SEACOW, la rivalutazione delle competenze e conoscenze del gruppo rispetto alle NTFP, competenze che potevano essere tradotte in riscatto sociale ed economico.

2. La cultura. Secondo Battharai le domande che è necessario porsi, prima della classica: “come facciamo a salvare la cultura dei Chepang?” sono le seguenti: “perché è necessario salvare o conservare questa cultura quando sono gli stessi Chepang a non voler essere chiamati così, a rifiutare la propria cultura? E come identifichiamo la cultura da salvare? Chi è che vuole conservarla e perché? Non si rischia un approccio tipo ‘zoo umano’?” E’ possibile raggiungere un maggior benessere senza rischiare la perdita di identità culturale?”. [9]

3. Autonomia tribale. Come si può gestire il miglioramento delle condizioni economiche vis-a-vis l’autonomia tribale e culturale, dove troviamo l’equilibrio? In particolare quale è la soluzione più desiderabile al problema della gestione della foresta? Nazionalizzazione, proprietà privata o diritti etnici collettivi?

4. Sostenibilità. L’opinione fortemente espressa dai Chepang e dalle ONG locali è che è insostenibile continuare a discutere del concetto di sostenibilità solo in termini economici. Questa tendenza ha eclissato importanti istanze, come ad esempio la necessità di rinforzare le risorse di base, la giustizia sociale e i bisogni specifici ed area-dipendenti.

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Note

[1] Bista DB (2004) People of Nepal. Ratna Pustak Bhandar

[2] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu; Marandhar NP (1989) “Medicinal plants used by Chepang tribes of Makwampur District, Nepal”. Fitoterapia Lx, Perish; Bhattrai TR (1995) “Chepangs: Status, efforts and issues; a Syo’s perspective”. In TR Bhattrai Chepang Resources and Development. SNV/SEACOW, Khatmandu; Gautam MK, Roberts EH, Singh BK (2003) “Community based leasehold approach and agroforestry technology for restoring degraded hill forest and improving rural livelihoods in Nepal”. Paper presented at the International Conference on rural livelihoods, Forest and Biodiversity, Bonn; Pandit BH (2001) “Non-timber forest products on shifting cultivation plots (Khorya): a means of improving livelihoods of Chepang Rural Hill Tribe of Nepal”. Asia-Pacific Journal of Rural Development; 11:1-14

[3] declino dovuto probabilmente ad una epidemia

[4] Kerkhoff, E. & E. Sharma. (2006) Debating Shifting Cultivation in the Eastern Himalayas: Farmers’ innovations as lessons for policy. International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD), Kathmandu

[5] Balla, M.K., K.D. Awasthi, P.K. Shrestha, D.P. Sherchan & D. Poudel. (2002) Degraded Lands in Mid-hills of Central Nepal: A GIS appraisal in quantifying and planning for sustainable rehabilitation. LI-BIRD, Pokhara, Nepal

[6] Aryal G.R. & G.S. Awasthi. (2004) “Agrarian Reform and Access to Land Resource in Nepal: Present status and future perspective/action“. ECARDS review paper (Unpublished). Environment, Culture, Agriculture, Research and Development Services (ECARDS), Kathmandu, Nepal

[7] Bhattarai, Teeka R. (1995) Chepangs, resources, and development : collection of expressions of the Gathering of the Concerned, 7-9 February 19. Kathmandu: SNV: 1995. 185 p.

[8] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

[9] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

Il suino in casa – 3

Oops, quasi mi ero dimenticato dei post suini, ecco quindi l’ultimo il penultimo della serie, per parlare di altre strategie (sempre vegetali) di gestione delle infezioni virali, a parte gli olii essenziali di cui si è già parlato qui e qui.

Se, come è stato detto, la strategia direttamente virucida è interessante dal punto di vista teorico ma poco praticabile in pratica, almeno per adesso, quali altre strategie abbiamo a nostra disposizione?

Per capirlo bisogna dare un’occhiata ai fattori facilitanti le infezioni per capire se possiamo modificarli. Schematizzando grandemente individuerei i seguenti punti:

  • Fattori ambientali come clima freddo, correnti d’aria improvvise ed ambienti eccessivamente riscaldati e non adeguatamente umidificati, che, attraverso un’azione riflessa del SNA (raffreddamento mani e piedi ad esempio), riducono il flusso ematico alle mucose, causano ischemia e una riduzione nella concentrazione di anticorpi e un raffreddamento delle mucose.  Questi  fattori  portano ad una temporanea riduzione dell’immunità e ad una facilitazione nella riproduzione di virus e batteri.
  • Condizioni generali del sistema respiratorio. Possibile danneggiamento e guarigione incompleta dei tessuti a causa di molteplici infezioni ed infiammazioni respiratorie
  • Trattamento antibiotico cronico e/o eccessivo, con danneggiamento della flora batterica intestinale e del sistema linfatico intestinale
  • Vita sedentaria e mancanza d’esercizio, particolarmente nei bambini iperprotetti dal freddo.

L’intervento su questi fattori é di primaria importanza in ogni approccio naturale alle infezioni, e contribuisce a limitarne la ricorrenza.  I questi casi una prescrizione automatica di un immunomodulante come l’Echinacea non e più intelligente della prescrizione di antibiotici, solo meno dannosa.  E’ inutile utilizzare immunostimolanti se prima non si e lavorato sulle condizioni più generali di salute.

Una volta presisi cura di questo aspetto, vi sono naturalmente molte piante che possono essere di grande aiuto.

Trattamento fitoterapico

Nello specifico, nel combattere un’infezione virale cercheremo le seguenti attività:

  • Immunomodulazione
  • Attività antivirale in senso lato
  • Azione troporestorativa sui tessuti interessati all’infezione
  • Miglioramento del metabolismo epatico e generale per sostenere l’organismo
  • Applicazioni topiche virucide, antinfiammatorie, analgesiche e antipruriginose.

Piante immunomodulanti

Piante che sono genericamente stimolanti per la risposta immunitaria, o usate tradizionalmente per la profilassi delle infezioni croniche.

  • Andrographis paniculata
  • Picrorrhiza kurroa
  • Echinacea spp
  • Allium sativum
  • Astragalus membranaceus
  • Eleutherococcus senticosus
  • Grifola frondosa
  • Ganoderma lucidum
  • Lentinus edodes
  • Andrographis paniculata

Piante che lavorano al livello dei recettori Toll-like (TLR)
E’ nozione generale che il sistema immunitario naturale non possa operare in maniera discriminativa ma affronti le infezioni in maniera generica o non specifica, attraverso la fagocitosi, l’espressione di citochine e la chemiotassi, e che per una risposta sistemica fosse necessario il coinvolgimento del dei leucociti B e T.  Ma le ricerche degli ultimi anni hanno mostrato che anche questo comparto possiede alcune proprietà discriminative.

La scoperta dei recettori Toll-Like (TLR) nelle membrane e nelle membrane cellulare di macrofagi e cellule dendritiche ha mostrato che essi possono mediare risposte sistemiche, riconoscendo caratteristiche specifiche di batteri, virus e funghi. Essi sembrano emergere come degli snodi importanti per l’attività immunomodulante e proinfiammatoria; dieci membri di questa classe di recettori sono stati riscontrati negli esseri umani.

Nei mammiferi questi recettori svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento di composti virali, micotici e batterici (Takeda et al. 2003; Seya et al 2006), che funziona come percorso per l’attivazione di risposte sistemiche, che prima si pensavano essere limitate al sistema immunitario specifico. E’ un sitema estremamente antico e conservato in molte linee evolutive, che una volta attivato, facilita il rilascio e la traslocazione nucleare del fattore nucleare NF-kB, che a sua volta causa una secrezione di citochine proinfiammatorie ed immunomodulanti (Oshiumi et al. 2003; Cooper 2006).

Sembra che alcune componenti delle piante medicinali (polisaccaridi) possano scatenare l’espressione di alcuni TLR ed iniziare una risposta di immunosorveglianza (Cooper 2006). Le piante a polisaccaridi che hanno mostrato attività sui TLR sono:  Astragalus membranaceus (Shao et al; 2004b), Ganoderma lucidum (Shao et al, 2004a), Panax ginseng (Nakaya; Pugh)  Panax quinquefolius (Pugh), Echinacea angustifolia e purpurea (Pugh), Eleutherococcus senticosus (Han), Platycodon grandiflorum (Yoon) e forse Spirulina (Balachandran et al. 2006).  Dato che i polisaccaridi sono insolubili in alcol, è necessario assumere queste piante in forma di polvere, infuso o decotto.

Piante che modificano l’equilibrio Th-1/Th-2
Molto si è sentito parlare negli ultimi anni dell’equilibrio tra linfociti T helper tipo 1 e tipo 2 nella genesi di problematiche autoimmuni, allergiche o in problemi di ridotta efficienza antivirale del sistema immunitario.
I linfociti Th (CD4+) sono responsabili dell’attivazione e facilitazione della risposta immunitaria cellulare ed umorale. In particolare sembra che il Th1 tenda a favorire la Immunità cellulo mediata, proinfiammatoria, mediante l’espressione di IL-2 e INF-gamma, mentre il Th2  stimola la Immunità umorale (linfociti B) tramite l’espressione di IL-4 e IL-5.

Uno sbilanciamento verso uno o l’altro polo d’attivazione potrebbe essere alla base di vari disturbi.  Ad esempio uno sbilanciamento a favore del comparto Th2, il sistema immunitario, in risposta ad una infezione virale, produce molti anticorpi ed è estremamente reattivo, ma al contempo produce poche risposte cellulomediate e quindi non riesce a gestire i virus verso cui si è allertato.

Questo può portare ad episodi d’allergia o reazione immunitaria esagerata, ed anche alla non completa risoluzione dell’infezione virale.
Sempre in via teorica, quindi, piante che fossero in grado di riportare l’equilibrio verso Th-1 potrebbero essere utili in caso di problemi virali.  Alcune di queste piante sono:

  • Allium sativum
  • Astragalus membranaceus
  • Ganoderma lucidum
  • Grifola frondosa
  • Panax ginseng

NB: Le Echinacea spp. potrebbero essere controindicate in caso di dominanza Th2, perchè aumentando rapidamente il numero di linfociti T circolanti potrebbe aggravare un preesistente disequilibrio verso Th2 (ma questa è una considerazione solo teorica).

Materia Medica Immunomodulante

1. Panax quinquefolium (Araliaceae)

Studi clinici: in alcuni studi clinici controllati il Panax quinquefolium ha ridotto l’incidenza, durata e severità di raffreddore e influenza in soggetti sani e malati. Uno studio di 4 mesi su 323 soggetti (età 18-65) ha testato 400 mg (in due dosi) di estratto di P. quinquefolium standardizzato all’80% di poli-furanosil-piranosil-saccaridi contro il placebo. Nel gruppo verum il numero di episodi di raffreddore riportati è calato del 9.2%, il rischio di contrarre un raffreddore si è ridotto del 12.8%, rispetto al gruppo placebo; inoltre la severità dei sintomi e la loro durata sono calati rispettivamente del 31% e del 34.5% rispetto al gruppo placebo (Predy et al. 2005).

In un secondo studio sono stati testati 43 anziani, con la stessa posologia (ma con estratto standardizzato differente), e per la stesso lasso di tempo. Dopo un mese tutti i soggetti hanno ricevuto il vaccino antinfluenzale. Per i primi due  mesi non sono state notate divergenze tra i due gruppi, mentre negli ultimi due mesi solo il 32% dei soggetti del gruppo verum (rispetto al 62% del gruppo placebo) ha riportato una infezione del tratto respiratorio, ed anche la durata dei sintomi è risultata più bassa (5.6 giorni contro 12.6 nel gruppo placebo) (McElhaney et al. 2006).

2. Andrographis paniculata (Burm. f.) Nees. (Acanthaceae)

Un tonico amaro con interessanti attività immunostimolanti, antipiretiche e antiinfiammatorie, con attività confermata su infezioni batteriche e virali respiratorie, enteriche e urinarie. Classificata come pianta fredda, quindi preferibile utilizzarla in caso di soggetti di costituzione calda o nelle fasi infiammatorie delle infezioni. Sconsigliata in condizioni ‘fredde’, come nel caso di una costituzione fredda oppure nel caso di ‘freddo’ di origine esterna come è spesso il caso nei primi stadi infettivi.

Farmacologia: stimola risposta immunitaria antigene specifica e non antigene specifica in modelli sperimentali, stimola la fagocitosi in vitro e in modelli animali (endovena) (Farnsworth, Bunyapraphatsara 1992; Kapoor, 1990).

Studi clinici
Immunostimolante in studi non controllati di infezioni respiratorie batteriche e virali.  In uno studio controllato in doppio cieco e randomizzato, un estratto somministrato a bambini sani per tre mesi nella stagione invernale ha diminuito in maniera significativa  l’incidenza e la severità dei sintomi del raffreddore (Bone e Mills 2000).

Una combinazione con Eleutherococcus senticosus (Andrographis (88.8 mg) + Eleutherococcus (10.0 mg) tre volte al giorno per 3-5 giorni) è risultata efficace in uno studio cinico contro antivirali classici, su 540 soggetti con influenza. Il 30.1% dei soggetti nel gruppo verum hanno sviluppato complicanze rispetto al 67.8% del gruppo placebo, e la durata dei sintomi è stata minore nel gruppo verum (Kulichenko et al. 2003).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1,5-3 gr. di pianta secca, in grado di apportare 20-40 mg di andrografolide. Ovvero 15-30 ml di TM, o 400-600 mg ES (5:1) standardizzato al 6-10% di andrografolide.

3. Echinacea angustifolia DC; E. purpurea (L.) Moench (Asteraceae)


Farmacologia: (Barret et al 1999; Bone & Mills 2000; Bergner 1997; Wagner 1997
L’estratto di E. angustifolia ha mostrato, in vitro: aumento fagocitosi degli eritrociti e dei granulociti; aumento della funzione immunitaria cellulare delle cellule mononucleate in soggetti normali e immunocompromessi.

Ciò che rende interessante la pianta è che sembrerebbe poter stimolare l’attività delle cellule NK e dei monociti, le cellule che costituiscono la prima linea di difesa dell’organismo. Questa potenzialità risulterebbe da una doppia azione: la pianta e le alchilamidi inibiscono COX e 5-LOX, riducendo i fenomeni infiammatori, ed in particolare riducendo (agendo su 5-LOX) i livelli della PGE2, una prostaglandina che sopprime l’attività delle cellule NK. Inoltre la pianta, i polisaccaridi (arabinogalattano) e le alchilamidi, stimolano in maniera non specifica i fagociti/monociti, con aumento della secrezione di beta interferone, TNF alfa e IL 1, tutte sostanze che stimolano le cellule NK, e l’attività antivirale.

Le ricerche recenti sul ruolo delle alchilamidi nell’attività immunomodulanti della pianta hanno rivelato una interessante interazione di alcune di esse con i recettori cannabinoidi. In particolare sembra che tramite l’interazione con il recettore CB2 le alchilammidi modulino l’espressione di TNF-alfa in monociti e macrofagi, e di IL-6. Ci sarebbe inoltre un effetto sulla espressione di IL-8 non mediato da CB2. Questa catena di azioni porterebbe ad un effetto analgesico, antitumorale ed antinfiammatorio.

Uno studio molto recente ed estremamente interessante è la review della Miller (2005) sugli studi del suo team su modelli murinici. Pur basato su ricerca su modelli animali, l’articolo è estremamente significativo: l’Echinacea è stata somministrata a dosaggi paragonabili a quelli umani (dosi pari a 1.3 gr di radice essiccata per un soggetto di 70 Kg) e per via orale. I risultati indicano che Echinacea sembra in grado di: stimolare la proliferazione delle cellule NK e dei monociti nel midollo di topi giovani e sani; stimolare la stessa proliferazione in caso di topi vecchi e sani, e soprattutto di riportare queste cellule  alla loro originaria funzionalità (persa nei topi a causa dell’età), attività questa non riscontrata in altri composti stimolanti le NK (indometacina e IL-2).

In nessun caso echinacea ha stimolato la proliferazione di altri comparti immunitari. Lo stesso studio mostra come questi effetti siano legati all’utilizzo della pianta in toto, piuttosto che a singole molecole isolate. Ancora più interessante il fatto che l’assunzione cronica della pianta non solo non ha mostrato di essere di detrimento, ma anzi ha mostrato un continuo effetto di profilassi. La stessa dose di echinacea orale, usata su topi leucemici ha mostrato un raddoppio del numero di cellule NK ed un aumento statisticamente significativo della sopravvivenza.

Una scoperta ancora più recente getta una luce del tutto nuova sull’echinacea ma anche su molte altre piante. Quattro studi molto recenti (Pugh et al. 2005; El-Obeid et al. 2006a; El-Obeid et al. 2006b; Sava, et al. 2001) si sono concentrati sulla melanina di origine vegetale, isolandola da Nigella sativa, Camellia sinensis, Echinacea spp., Medicago sativa ed altre piante. Secondo gli autori, la melanina sarebbe un composto particolarmente importante per l’attività immunomodulante ed antiossidante.

Questa, se confermata, sarebbe una scoperta sorprendente, dato che fino ad oggi la melanina non è mai stata considerata importante dal punto di vista farmacologica, è poco e male caratterizzata, non è un metabolita secondario, si sa poco su quali siano le migliori modalità di estrazione, e la possibilità che si creino degli artefatti sperimentali è elevata (Sava, et al. 2001).

Secondo (Pugh et al. 2005) la melanina da Echinacea e da Medicago sativa sarebbe differente dalle altre melanine vegetali, sarebbe più efficace come immunomodulante (con aumento di gamma-interferone dalla milza e di IgA ed IL-6 dalle placche di Peyer, e agirebbe tramite l’attivazione di NF-kB nei monociti attraverso un recettore Toll-like (TLR 2) (Pugh et al. 2005) o forse altri recettori. Anche gli altri studi hanno riscontrati ììo una azione a livello dei recettori Toll-Like, secondo (El-Obeid, et al. 2006a) il recettore influenzato dalla melanina da Nigella sativa sarebbe TLR4, ed essa indurrebbe l’espressione di TNF-alfa, IL-6 e VEGF dai monociti (El-Obeid, et al. 2006b).

Quale che sia la reale portata di questi studi, se la melanina vegetale è veramente importante per la immunomodulazione, è certo che essa non è presente nella maggior parte dei supplementi da estrazione, e che solo la polvere della pianta potrebbe essere usata a scopo terapeutico (la melanina sembra insolubile sotto un pH di 10).

Da questi due studi si possono estrapolare due interessanti indicazioni cliniche: la prima è che la supplementazione a lungo termine di echinacea è probabilmente di beneficio, non sopprime il sistema immunitario e migliora la funzionalità delle cellule del sistema immunitario non specifico, migliorando lo screening antitumorale. La seconda è che la pianta intera sia più efficace degli estratti o delle molecole isolate. I dosaggi di echinacea radice secca vanno da 1.5 a 3 gr per giorno, anche se il dosaggio utilizzato in Miller 2005 era vicino al termine inferiore.

Studi clinici
Una metanalisi ha valutato nove studi di trattamento e quattro studi di prevenzione, tutti controllati e randomizzati, in doppio cieco, delle malattie infettive dell’alto tratto respiratorio, e tutti, a parte uno degli studi di trattamento, hanno mostrato evidenza positiva e significativa, con  riduzione della durata della sindrome influenzale e della severità dei sintomi in pazienti già ammalati, e  riduzione della frequenza di ricorrenze di infezioni, specialmente in pazienti con particolare tendenza.

Dopo questa metanalisi, e fino al 2001, sono stati pubblicati altri 6 studi, 4 dei quali randomizzati controllati in doppio cieco. Tre dei quattro studi controllati hanno dato esito positivo, e l’unico a non avere mostrato differenze significative con il placebo ha usato estratti di bassa qualità.

Studio clinico randomizzato in doppio cieco su 48 donne per 4 settimane, con Echinacea e arabinogalattani da Larice (Kim et al. 2002); i livelli di properidina (una componente del sistema alternativo del complemento, un marker dell’arttivazione immunitaria) sono aumentati del 21% (Echinacea angustifolia ed E. purpurea) e del 18% (E. angustifolia, E. purpurea e arabinogalattani) rispetto al placebo.

Studio clinico randomizzato in doppio cieco su 282 adulti che hanno assunto  un estratto di Echinacea spp. (standardizzazione e posologia: 2.5 mg alcamidi, 25 mg acido cicorico e  250 mg polisaccaridi il primo giorno; 1 mg alcamidi, 10 mg ac. cicorico, 100 mg polisaccaridi al giorno per i seguenti 7 giorni). La severità dei sintomi è calata del 23.1% rispetto al placebo (Goel et al. 2004).

In uno studio clinico correlato al precedente su 150 pazienti con la stessa formulazione (posologia:  2 mg alcamidi, 20 mg ac. cicorico, 200 mg polisaccaridi il primo giorno; 0.75 mg alcamidi, 7.5 mg ac. cicorico e 75 mg polisaccaridi al giorno per i seguenti 7 giorni). Il gruppo verum ha mostrato una riduzione dei sintomi ed un aumento nel numero di leucociti totali, di monociti, neutrofili, e cellule NK (Goel et al 2005).

In uno studio clinico seguente, 80 soggetti hanno assunto un estratto di E. purpurea dall’inizio del raffreddore fino alla scomparsa dei sintomi. La mediana della durata del raffreddore è risultato di 6 giorni rispetto ai 9 giorni nel gruppo placebo (Schulten et al. 2001).

Altri studi hanno riportato l’assenza di miglioramenti statisticamente significativi in caso di raffreddore (Grimm, Muller 1999; Turner et al. 2005; Schwarz et al. 2005; Yale, Liu 2004).

In uno studio clinico randomizzato in doppio cieco, sono state somministrate a 148 studenti capsule da 1 gr contenenti polvere di E. purpurea herba (25%) e radix (25%) e E. angustifolia radix (50%) o placebo, sei volte al giorno il primo giorno di raffreddore e tre volte al giorno per un massimo di 10 giorni.  Nessuna differenza significativa tra gruppo verum e placebo (Barret et al. 2002).

In uno studio clinico seguente 128 adulti hanno ingerito 100 mg di E. purpurea o placebo tre volte al giorno fino alla scomparsa dei sintomi del raffreddore (max 14 giorni); nessuna differenza statistica osservata (Yale, Liu 2004).

L’echinacea stimola la fagocitosi, l’attività delle cellule NK, il numero di linfociti T, il complemento e l’espressione di qualche mediatore. La sua azione normalizzante sull’immunità cellulo-mediata è meno sicura.  Ha una chiara attività immunostimolante se assunto ai primi sintomi e per tutta la durata dell’infezione. Nonostante l’utilizzo come terapia di profilassi sia meno supportato dai dati clinici, è utilizzabile nella profilassi a breve termine (2-4 settimane).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1,5-3 gr. di pianta secca, in grado di apportare 10-15 mg di alchilammidi.  Ovvero 15-30 ml di TM, o 500 -1000 mg di ES (4:1) standardizzato rispetto alle alchilammidi. La standardizzazione ad echinacosidi è utile solo ai sensi della prevenzione delle adulterazioni, ma non ha alcun significato in termini di efficacia.  Per assicurare la non adulterazione dell’E. angustifolia bisognerebbe richiedere la garanzia di assenza di acido cicorico.

4. Astragalus membranaceus (Fisch. Ex Link) Bge. (Fabaceae)


Farmacologia: la pianta contiene polisaccaridi, flavonoidi, minerali ed amminoacidi. L’Astragalo in vitro aumenta la citotossicità delle natural killer cells e riduce la soppressione dei macrofagi, stimola l’attività fagocitica, la produzione di anticorpi ed  interleuchina 2.

Somministrato per via orale ad animali aumenta il numero e la funzionalità dei macrofagi e la loro attività fagocitaria, protegge contro le infezioni da virus (parainfluenza virus tipo I, Newcastle virus, coxsackie B2 e B3 virus, Hep B), aumentando la sopravvivenza del 30-40%, molto probabilmente non per una azione diretta ma per l’azione immunostimolante e di stimolazione di produzione di interferone (Brush et al. 2006). Aumenta la risposta dell’interferone alle infezioni virali (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987).

Studi clinici
Un decotto di Astragalo aumenta la concentrazione di IgM, IgE e cAMP e l’induzione di interferone (INF) da parte dei leucociti periferici. In soggetti predisposti al raffreddore aumenta la concentrazione di IgA e IgG dopo 60 giorni (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987)

In uno studio aperto su soggetti proni al raffreddore il trattamento è risultato profilattico per il raffreddore, con grande riduzione delle recidive. In uno studio clinico aperto randomizzato su pazienti con leucopenia si è dimostrato un aumento del numero dei leucociti (Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Chang, But 1987)

In un piccolo studio clinico controllato con placebo in doppio cieco sono stati comparati Echinacea purpurea, Astragalus membranaceus, Glycyrrhiza glabra, una combinazione delle tre piante e il placebo. L’Astragalus ha causato l’attivazione e la proliferazione più potente, in particolare dei CD8 e CD4 (Brush et al 2006)

L’Astragalo trova la sua applicazione ideale nella profilassi delle infezioni, nei primi giorni di infezione, nelle infezioni virali croniche con debilitazione e sudorazione spontanea, ma deve essere abbandonato durante gli episodi di infezione acuta.

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 2-4,5 gr di pianta secca. Ovvero 20-40 ml di TM, o 400-900 mg ES (5:1).

5. Eleutherococcus senticosus (Rupr. & Maxim.) Maxim. (Araliaceae)


Farmacologia: l’estratto ha aumentato del 30-45% la fagocitosi in vitro di Candida albicans da parte di granulociti e monociti di donatori sani. Il pre-trattamento con estratto di eleuterococco aumenta la resistenza di modelli animali alle infezioni batteriche e virali.
In uno studio in doppio cieco randomizzato l’eleuterococco ha stimolato la produzione di linfociti T helper e l’attività dei linfociti T, l’attività citostatica delle cellule NK ma non ha avuto effetti su granulociti e monociti (Boh et al 1987).

Uno studio in doppio cieco con 36 soggetti umani ha mostrato che l’estratto della pianta migliora la reattività immunitaria non specifica (Bone e Mills 2000; Bone, 1998). Vedi anche lo studio combinato con Andrographis paniculata (sopra).

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1-4 gr di pianta secca. Ovvero 10-40 ml di TM, o 500-1000 mg ES (4:1) o 100-200 mg di ES (20:1), in grado di apportare 2-4 mg di eleuteroside E.

6. Baptisia tinctoria (L.) R. Br. (Fabaceae)


Farmacologia: la frazione polisaccaridica e l’estratto etanolico aumentano la produzione di anticorpi in vitro e stimolano la fagocitosi. L’estratto etanolico alza il conteggio leucocitario e migliora le reazioni di difesa endogene. Le glicoproteine hanno dimostrato di essere immunologicamente attive (Barret et al 1999; Bone e Mills 2000; Bone, 1998; Henneicke-von Zepelin et al 1999).

Non esiste alcuno studio clinico effettuato su Baptisia da sola, ma esistono  studi clinici randomizzati, controllati, in doppio cieco, su tre combinazioni contenenti Baptisia. Due di questi studi sono di tipo omeopatico. L’unico ad utilizzare dosi ponderali, anche se molto ridotte, combinava Baptsia tinctoria, Echinacea spp. radice e Thuja spp. con posologia di 170 mg/die su 238 soggetti con raffreddore, con riduzione dell’intensità e della durata della sintomatologia (Henneicke-von Zepelin et al. 1999)

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 1-3 gr gr di pianta secca. Ovvero 10-30 ml di TM.

7. Uncaria tomentosa (Willd. ex Schult.) (Rubiaceae)


Farmacologia
L’azione immunostimolante dell’Uncaria tomentosa è stata fino ad oggi dimostrata solo in test in vitro e su modelli animali. Stimola la secrezione di interleukina-1 e interleukina-6 in vitro, e la fagocitosi in vitro ed in modelli sperimentali.  Gli alcaloidi ossindolici pentaciclici inducono le cellule endoteliali a secernere un fattore di proliferazione dei linfociti (Bone e Mills 2000; Obregon Vilches 1995)

Dosaggio: dose giornaliera pari o equivalente a 2-5 gr di pianta secca. Ovvero 20-40 ml di TM, o 450-1100 mg di ES (5:1),
Sono stati identificati due chemiotipi, quello da utilizzare è il chemiotipo ad alcaloidi ossindolici pentaciclici (POA), in particolare speciofillina, mitrafillina, pteropodina, isomitrafillina e isopteropodina; l’altro contiene, oltre ai POA, degli alcaloidi ossindolici tetraciclici (TOA) come rinchofillina e isorincofillina.  Quest’ultimo chemiotipo non deve essere usato.

8. Funghi

Il fungo Agaricus blazei Murr possiede spiccate proprietà immunostimolanti e antitumorali, comparabili a quelle dei più conosciuti Lentinus edodes, Grifola frondosa e Ganoderma spp.  Le frazioni indicate come responsabili dell’attività del fungo comprendevano vari glucani, complessi polissacaride-proteina (ATOM), complessi RNA-proteine, e glucomannano (Mizuno 2002; Mizuno et al. 1990; Wasser, Weis 1999; Ito et al. 1997; Fujimiya et al. 1998; Fujimiya et al. 2000; Cho et al. 1999), che vanno ad aggiungersi al lentinano, polisaccaride responsabile dell’attività immunostimolante del Lentinus edodes (Aoki 1984; Kanai, Kondo 1981).

In uno studio recente (Takeda e Okumura 2004) l’assunzione di estratti di Agaricus blazei e Lentinus edodes ha aumentato l’attività delle cellule NK, anche se è stato notato che la sensibilità all’estratto di Agaricus blazei era molto varia tra i soggetti, ed era correlata alla sensibilità all’estratto di Lentinus edodes.  Gli autori ipotizzando una sensibilità selettiva di alcuni individui ai composti presenti negli estratti.

Possibili meccanismi di attivazione delle cellule NK.

  1. Attivazione dei recettori Toll-like (TLR). Dieci membri di questa classe di recettori sono stati riscontrati negli esseri umani. Nei mammiferi questi recettori svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento di composti micotici e batterici (Takeda, Kaisho, Akira 2003). I TLR attivano percorsi di segnalazione come NK-κB, che risultano nella secrezione di varie citochine proinfiammatorie (Oshiumi et al. 2003). Sembra che il recettore TLR-2/6 riconosca alcune componenti dello zimosano ma non  dei β-glucani (Underhill et al. 1999; Gantner et al. 2003).
  2. Attivazione dei recettori per le lectine. Alcuni tipi di lectine possono funzionare come immunomodulanti (Hofer et al. 2001), ed è possible che l’interazione tra lectine presenti nei funghi e recettori lectinici di tipo C possa giocare un ruolo nella immunomodulazione.
  3. Attivazione dei recettori per β-glucano.  I β-glucani hanno mostrato interessanti proprietà in vivo di stimolazione delle risposte antinfettive ed antitumorali dei soggetti (Tzianabos 2000).  Sono un gruppo eterogeneo di polimeri del glucosio, costruiti da uno scheletro di unità β-D-glucopiranosil a legame β(1→3), con catene laterali  a legame β(1→6); sono una parte fondamentale della struttura delle pareti cellulari di funghi, macrofunghi, piante ed alcuni batteri, e vengono riconosciute dal sistema immunitario innato dei vertebrati (non sono presenti nei tessuti animali), esclusivamente attraverso vari recettori cellulari superficiali (Battle et al. 1998).  L’attività di questi recettori è stata individuata su leucociti di vario tipo (macrofagi, neutrofili, eosinofili e cellule NK) e cellule non immunitarie (endoteliali, epiteliali alveolari, fibroblasti).  Dei recettori individuati (Zimmerman et al. 1998; Rice et al. 2002; Brown, Gordon 2001; Taylor et al. 2002) solo uno, dectin-1 ha mostrato chiaramente di essere in grado di mediare le risposte biologiche al β-glucano  (Brown, Gordon 2003).

I frutti aromatici del Siltimur

Una delle conseguenze pratiche della mia seconda puntata in Nepal, nel 2006, nella valle di Nar-Phoo, è stata la raccolta di vari campioni di piante aromatiche con l’intenzione di distillarne l’olio essenziale a Kathmandu. Una delle piante che ci avevano più interessato anche come possibili antivirali era stato il Siltimur, Lindera neesiana, ed in particolare ci interessavano i frutti, usati come rimedio per dolori di stomaco e tosse, e più commestibili delle foglie o della corteccia, e quindi dei possibili candidati per la categoria piante medicinali/alimentari.

Non si riuscì in quella occasione a distillare i frutti della pianta, ma il buon Khilendra aveva effettuato l’anno prima una distillazione di prova, ed aveva conservato bene il campione…

From Nepal 2006

… che io diligentemente portai in Italia per affidarlo alle cure dell’equipe dell’Università Patavina, che già altre volte aveva collaborato a queste mie impromptu missioni.

Dopo un po’ di attesa, ecco finalmente che esce l’articolo relativo ad analisi e attività biologica dell’olio stesso, nel primo numero del 2010 di Fitoterapia, con il titolo “Essential oil of Lindera neesiana fruit: Chemical analysis and its potential use in topical applications” e l’autorship di Comaia, Dall’Acqua, Grillo, Castagliuolo, il buon Khilendra Gurung, e la professoressa Innocenti.

Oltre ad essere una interessante esemplificazione dell’utilità di accoppiare la  tecnica della Gas cromatografia (GC-MS)  alla risonanza magnetica (NMR), l’articolo aggiunge alcuni tasselli importanti relativi alla composizione chimica della frazione aromatica dei frutti della pianta, e sembrerebbe supportare l’idea che i citrali (nerale e geraniale) siano importanti per spiegare l’attività antimicrobica degli OE.

Vediamo allora cosa sappiamo su questa pianta alla luce di questi nuovi dati.

Cosa è?

La Lindera neesiana (Wallich ex Nees) Kurz è un arbusto o piccolo albero deciduo alto fino a 4-5 metri, con foglie picciolate, molto varie in dimensioni, lunghe da 3 a 20cm. e larghe da 1 a 10 cm.,ovali e glabre. I bei fiori gialli sono disposti in ombrelle, e i frutti sono globosi.

From Nepal 2006
From Nepal 2006

La pianta appartiene alle Lauraceae, uno dei più antichi gruppi di angiosperme, parte del primitivo gruppo delle Laurales, che insieme alle Magnoliales fa parte dei Magnoliidi; in letteratura si può trovare anche con i binomiali Tetranthera neesiana Wallich, Aperula neesiana (Wallich ex Nees) Blume e Benzoin neesianum Wall. ex Nees (che è il suo basionimo).

In Nepal centro-orientale la pianta cresce nella zona Himalayana temperata e subtropicale, tra 1800 e 2600 mslm, in aperture lungo le gole profonde nelle foreste.  Fiorisce tra ottobre  e novembre e fruttifica tra marzo e giugno.

Ha vari nomi: in lingua nepalese si chiama per l’appunto 
siltimur; in lingua gurung si chiama katu, gutung, kutung o siltimuri; in lingua Nyeshang phopri
.

Come viene usata?

I vari gruppi etnici nepalesi utilizzano i frutti maturi (neri) e aromatici sia marinati come alimento sia freschi o essiccati come rimedio per mal di stomaco dovuto ad indigestione, come antelmintici e in caso di flatulenza (in Manang – Gyasumdo).

In altre zone vengono masticati in caso di diarrea, mal di denti, nausea, flatulenza, o usati a livello topico per foruncoli e scabbia, malattie della pelle, o internamente per parassiti intestinali; sono considerati un antidoto per animali e uomini in caso di ingestione di piante velenose (Pohle, 1990 Manandhar 2002; Rajbhandari 2001; Joshi 2001).

Le foglie e i ramoscelli sono anch’essi aromatici se vengono spezzati, e vengono usate per malattie della pelle. Sono inoltre una buona fonte di foraggio per bestiame bovino e caprino (Manandhar 2002; Rajbhandari 2001).

La radice e la corteccia, una volta polverizzate, sono usate internamente in caso di dolori (Manandhar 2002; Rajbhandari 2001).

Cosa contiene e come funziona?

L’appartenenza della pianta a Magnoliidi suggerirebbe la presenza di neolignani ad azione antinfiammatoria, comuni a questo gruppo, e la presenza, nell’OE, di derivati del percorso biogenetico dello shikimato (le Lauraceae sono ricche in fenilpropanoidi come eteri fenolici e fenoli, ad attività biologica elevata ma con profilo tossicologico spesso importante).

In effetti frutti, foglie e corteccia di Lindera neesiana contengono olio essenziale, circa l’1% distillabile dai frutti secchi (Gurung, Khilendra: comunicazione personale), l’1.3% dalle foglie fresche e lo 0,5% dai ramoscelli (Singh et al. 1995).

L’OE di foglia, (come previsto dall’appartenenza alle Lauraceae) è caratterizzato da una massiccia percentuale di metil cavicolo (83.76%) e safrolo (11.86%), mentre miristicina  (69.99%) e1,8-cineolo (17.97%) caratterizzano l’OE di ramoscelli (Singh et al. 1995). La presenza di metil cavicolo e safrolo, due molecole a sospetta attività epatotossica ed epatocarcinogenica (sono dei procarcinogeni attivabili dai sistemi de detossificazione epatica) suggerisce che l’OE di foglia sia potenzialmente tossico.

L’articolo di prossima pubblicazione rileva quanto invece sia differente l’OE dei frutti. I principali composti isolati dall’OE sono risultati i citrali (Z-citrale 15.08%, E-citrale 11.89%), l’1,8-cineolo (8.75%), il citronellale (6.72%), e α- e β-pineni (rispettivamente 6.63% e 5.61%). I composti che caratterizzavano gli OE di foglia e ramoscelli sono presenti nel frutto a percentuali molto minori ma non minime: miristicina (4,41%) e metil
eugenolo (ca. 2%). Altri composti identificati a percentuali significative sono: geraniolo, citronellolo,  elemicina, ossido di cariofillene, spatulenolo, nerolo, 6-metil-5-epten-2-one, linalolo ed α-terpineolo.

From Nepal 2006

Infine, i composti presenti in percentuali minime o in tracce sono: α-tujene, camfene, verbenene, mircene, α-fellandrene, p-cimene, cis-ocimene,
 trans-ocimene, 2, 6-dimetil-5-eptanale, γ-terpinene, cis-sabinene, cis-linalolo ossido, trans-linalolo ossido, α-
camfolenale, canfora, terpinen-4-olo, mirtenale, S-(-)-verbenone, trans-carveolo, geranil formiato, β-elemene, trans-cariofillene, β-bisabolene, geranil acetato, e geranil propionato.

Non ci sono molti studi sulle attività biologiche della Lindera neesiana, ma lo studio italiano evidenzia l’attività dell’OE da frutto sullo Staphylococcus aureus (un batterio Gram-positivo) a concentrazione (IC50) di ca. 100 microgrammi per mL, sul lievito Candida albicans a IC50 di ca. 276 microgrammi per mL, ed infine sulla Pseudomonas aeruginosa (un Gram-negativo) a IC50 di 13 570 microgrammi per mL.

Le attività sui patogeni sono state confrontate con quelle di un controllo negativo (DMSO, il solvente usato per solubilizzare gli OE, da solo) e di tre controlli positivi (due antibiotici: ampicillina e  kanamicina, ed un antimicotico, la nistatina). In nessun caso l’OE è risultato efficace quanto le molecole di sintesi, e solo l’attività su Staphylococcus aureus merita a mio parere ulteriori attenzioni.

La bassa efficacia sulla Pseudomonas non dovrebbe stupire, in genere tutti gli olii essenziali hanno attività meno spiccata nei confronti dei G-negativi, a causa della componente lipopolisaccaridica  della loro membrana, che riduce la capacità di penetrazione degli OE, notoriamente lipofili.

(Mi) Stupisce di più la bassa attività su Candida spp., visto il contenuto in citrali mi sarei aspettato di più, comunque sempre meglio dell’azione sui G-. Positiva invece l’assenza di attività citotossica a livelli di attività.

Cosa sarebbe interessante studiare per il futuro? Vista la probabile facilità con la quale i citrali formano legami con i gruppi azotati delle proteine, sarebbe interessante vedere se la loro presenza in un olio essenziale facilita la permanenza dello stesso olio essenziale sul derma, o se miscele di OE a citrali con OE ad elevata volatilità riduce quest’ultima.

Inoltre altrettanto interessante sarebbe vedere se c’è un ruolo per l’utilizzo di questi frutti nell’alimentazione da carestia. Chi lo sa?

Curcuma, curcuminoidi e tumori

Prendendo idealmente lo spunto dal post di Meristemi, e approfittando della necessità di (ogni tanto) mettere mano alle monografie del buon vecchio infoerbe, ecco una breve rivista delle novità sulle influenze della Curcuma sui processi tumorali.

Buona lettura!

Dati sperimentali
La curcuma (ed i curcuminoidi) mostrano una serie di attività che li rendono molto interessanti come potenziali rimedi antitumorali, sia in senso chemiopreventivo che in senso direttamente terapeutico: attività antiossidante, antinfiammatoria, proapoptotica e antiangiogenetica (Iqbal et al. 2003).

Sembra che la curcumina agisca come antiniziatore ma in qualche caso agisce come antipromotore, ed ha mostrato queste attività in modelli carcinogenici preclinici di tumore del colon, del duodeno, dello stomaco, del seno, orale and sebaceo. Nonostante i risultati siano stati ottenuti su modelli animali, la curcumina è attiva in molti modelli diversi tra di loro e i dosaggi sono paragonabili a quelli utilizzati dagli esseri umani, per cui i risultati sono probabilmente ad un livello di generalizzabilità abbastanza buono, e certamente questi risultati costituiscono una euristica molto forte.

Metabolismo epatico

La curcumina inibisce l’iniziazione tumorale degli epatotossici e dei carcinogeni in vari modelli animali; diminuisce in vitro la mutagenicità della capsaicina e degli estratti del Peperoncino in maniera dose-dipendente (pari alla Vit. E), inibisce l’iniziazione tumorale indotta dai prodotti di condensazione, del tabacco, del benzo[a]pirene e dal 7,12 dimetilbenz[a]antracene (Huang et al 1992), e la promozione indotta dagli esteri del forbolo (Conney et al 1991; Huang et al 1998). Questo in presenza di omogenato di fegato, mentre in assenza dell’omogenato non riduce la mutagenicità della streptozocina.
La pianta è detossificante epatica e chemiopreventiva della carcinogenesi mediante alterazione dei processi di attivazione e/o detossificazione nel metabolismo dei carcinogeni. I curcuminoidi prevengono i metaboliti del benzo-alfa-pirene dal formare addotti con il DNA e inibiscono la tossicità epatica indotta dalle aflatossine (Bengmark 2006; Nishino et al 2004; Maheshwari et al 2006).

Potenzialmente la curcumina può interferire con tutte e tre le fasi del metabolismo dei farmaci. Dosaggi orali di Curcuma (come anche la curcumina per via orale) in modelli animali causano:

Fase I: inibizione da debole a moderata della induzione e della attività degli isoenzimi del P450 1B1, 1B2 e 2E1, e inibizione più potente di 1A1 e 1A2, tutti isoenzimi collegati al metabolismo dei carcinogeni, inclusi gli idrocarburi policiclici aromatici (Thapliyal et al. 2001; Thapliyal et al. 2001; Oetari et al. 1996). In uno studio (Raucy 2003) su epatociti umani la curcuma non ha mostrato alcuna influenza sul P450 3A4, suggerendo che siano molto ridotti i rischi di interazione con i molto farmaci substrato di questo isoenzima.

Fase II: induzione della GST (glutatione-S-transferasi) ed aumento del glutatione ridotto intracellulare.

Rinaldi et al (Rinaldi et al. 2002) hanno testato la curcumina sulle cellule della mucosa orale umana e su cellule di carcinoma a cellule squamose orale ha mostrato la traslocazione nucleare del recettore aril idrocarburo (AhR), un processo che porta all’attivazione degli enzimi di Fase I e II, sensibili a AhR, metabolizzanti i carcinogeni, e alla riduzione della bioattivazione dei carcinogeni.

Fase III: effetti inibitori sulla glicoproteina-P (P-gp) in varie linee cellulari (Zhou et al. 2004; Nabekura et al. 2005) Secondo Anuchapreeda et al (Anuchapreeda et al. 2002) il pretrattamento con Curcumina-I di cellule di carcinoma ella cervice umane (KB-VI) fino a 72 ore ha ridsotto l’espressione del gene MDR1. La curcumina-I ha anche ridotto l’efflusso della rodamina-123 da queste cellule, ma non ha avuto effetto sulle cellule wild-type (KB-3) che non esprimono livelli esagerati di P-gp. La sensibilità alla vinblastina (Chearwae et al. 2004) e della daunorubicina (Venkatesan et al. 1997) della linea cellulare omologa ma resistente ai farmaci KN-VI è stata aumentata dalla curcumina-I.

I dati in vitro sono di difficile valutazione e generalizzazione anche a causa della bassa biodisponibilità della curcuma.

Azione protettiva
La curcumina protegge dal danno al DNA dei leucociti causato dai gas di scarico. L’1% nella dieta riduce l’incidenza dei tumori allo stomaco BAP-indotti e dei tumori spontanei alla mammella. Non ha invece effetto sulla frequenza delle irregolarità mitotiche in cellule invase da virus né inibisce il danno nucleare indotto da BAP a livello intestinale.

La somministrazione orale ad ratti e topi ha inibito la carcinogenesi cutanea, orale, duodenale, del colon e della lingua (Azuin, Bhide 1992; Azuine, Bhide 1994; Huang et al. 1994; Rao et al. 1995). La curcumina ha anche dimostrato di ridurre i livelli di mutageni urinari.

A livello topico, la curcumina diminuisce la promozione tumorale di TPA sulla pelle, come si poteva sospettare vista la sua attività antiinfiammatoria e anti LOX/COX.
Ha attività antiangiogenetica e proapoptotica (Duvoix 2005, Aggarwal 2003; Hemaiswarya 2006; D’Incalci et al. 2005).
La curcumina e soprattutto i suoi vari analoghi di sintesi mostrano una interessante attività contro i recettori degli androgeni nel tessuto prostatico, suggerendo una possibile attività sul tumore alla prostata.

La combinazione di cisplatina e curcumina su preparazioni di fegato e rene di ratti con fibrosarcoma sperimentalmente indotto è stata più efficace nel ridurre i marker tumorali rispetto alla cisplartina da sola, ed il pretrattamento con curcumina di una linea cellulare di carcinoma epatocellulare che esprime esageratamente Nf-kB ha aumentato l’effetto della cisplatina sull’apoptosi (Navis et al. 1999).

Meccanismi ipotizzati
I curcuminoidi mostrano di esercitare la loro azione su molteplici target attraverso molteplici meccanismi di azione (Duvoix et al. 2005; Aggarwal et al 2003; Hemaiswarya, Doble 2006), insomma di essere un rimedio multitasking che agisce ai vari livelli di iniziazione, promozione, progressione e disseminazione tumorale (Duvoix et al 2005). Per la curcumina vale forse la pena di usare il termine di xenormetico pleiotropico, che sembrerebbe agire contemporaneamente riducendo l’infiammazione cronica (rapporto NF-kN e Nrf2), inibendo la neoangiogenesi, inducendo l’apoptosi o più in generale la morte cellulare, ed agendo direttamente ed indirettamente (metabolismo carcinogeni) sui carcinogeni.

Riassumendo (Aggarwal et al. 2003), la curcumina:

  • downregola i fattori di trascrizione che coordinano la crescita cellulare, la proliferazione, la differenziazione, i processi infiammatori ed angiogenetici e l’apoptosi: in particolare il Nrf2 (nuclear factor-erythroid-2-related factor 2), il mediatore dell’induzione dei geni che codificano per molti enzimi di risposta allo stress e citoprotettivi, e che regolano la detossificazione di Fase II e i meccanismi antiossiodanti, il fattore nucleare kB (NF-kB) legato ai processi infiammatori e la proteina attivante 1 (AP-1) (Aggarwal et al. 2005; Chainani-Wu 2003; Aggarwal et al. 2004).
  • downregola c-Jun N-terminal chinasi, PTK e PKC
  • downregola i recettori dei fattori di crescita endoteliale VEGF, EGFR e HER2
  • downregola l’espressione di LOX e COX-2, della iNOS, della MMP 9 (metalloproteinasi di matrice 9), CSA, TNF-alfa, varie chemochine, ciclina D1, dell’attivatore del plasmogeno tipo urochinasi (uPA), le molecole di adesione superficiale (cell surface adhesion molecules)
  • induce la detossificazione di Fase I (P450), di Fase II (induzione GST) e di Fase III (induzione P-gp)
  • Previene gli addotti del DNA e l’epatotossicità aflatossine

Angiogenesi (Yance, Sagar 2006, e questo, e anche questo)
Il microtumore esprime vari fattori proangiogenetici in direzione della rete capillare; questi fattori contribuiscono alla dissoluzione della membrana basale del vaso più vicino, ed inducono la creazione di nuovi abbozzi di vasi nella direzione del tumore (fattori di chemiotassi), la formazione di un lume e quindi la vascolarizzazione interna del microtumore.

Poter intervenire su questo passaggio riveste quindi importanza terapeutica (nel senso che possiamo bloccare i passaggi di progressione tumorale) ma anche preventiva, perchè vari fattori proangiogenetici sono legati a processi infiammatori che sono anche protumorali.

I meccanismi responsabili per l’angiogenesi tumorale non sono ancora stati delucidati completamente, ma si propone uno schema semplificativo.

Le cellule endoteliali giocano un ruolo importante nella neovascolarizzazione dei tumori indotta dai microtumori. Da questo punto di vista il fattore prossimale più importante per l’angiogenesi è il fattore di crescita endoteliale vascolare [vascular entothelial growth factor (VEGF)]. Il VEGF è un dei fattori di aumento della permeabilità vascolare e della promozione della metastasi più importanti e potenti. Su di esso agiscono vari fattori proinfiammatori e proangiogenetici come il NO e le prostaglandine, ma anche il TNF-α.
La stabilità e coerenza della matrice extracellulare è un’altro dei fattori fondamentali di controllo dell’angiogenesi, dato che per poter vascolarizzare un tumore è necessario che la matrice extracellulare perda di coerenza e permetta la diffusione di vari fattori e la crescita del nuovo vaso.
Anche le condizioni di ipossia sono favorevoli al processo di angiogenesi. In condizioni di normossia il fattore inducibile da ipossia [Hypoxia-inducible Factor 1 (HIF-1)] viene degradato, ma in condizioni di ipossia viene degradato di meno ed è quindi libero di interagire con altri cofattori e stimolare l’angiogenesi. Dato che il microtumore è, prima della vascolarizzazione, ipossico, in esso vengono espressi vari cofattori angiogenetici.

Uno dei punto di snodo fondamentali che unisce questi processi sono le attività del fattore nucleare kappa B (NF-kB) e della proteina attivatrice-1 (AP-1), due fattori di trascrizione genica (sempre in eccesso nelle cellule tumorali) fondamentali nella risposta proinfiammatoria LPS-indotta. Essi controllano molte attività cellulari: l’NF-kB media l’attività immunitaria, l’infiammazione, le collagenasi e la proliferazione cellulare, e l’AP-1 soprattutto la proliferazione cellulare. Di particolare interesse il legame tra NF-kB ed infiammazione, perchè questa facilita l’angiogenesi, l’invasione e le metastasi, e d’altro canto è un importante fattore protumorale.

A loro volta NF-kB e AP-1 mediano l’espressione di iNOS (e quindi la produzione di NO), di COX (e quindi le prostaglandine) ed il TNF-α. Questi fattori proinfiammatori, sommati all’azione dell’ipossia tramite HIF-1 e AP-1 e vari altri cofattori, inducono l’espressione di VEGF e aumentano l’infiammazione. La VEGF a sua volta, causa una cascata metabolica che porta ad una degradrazione della matrice extracellulare, alla proliferazione endoteliale ed in definitiva all’angiogenesi.

La curcuma ed i curcuminoidi agiscono sul processo di angiogenesi tumorale tramite processi multipli ed interdipendenti. Esaminati secondo lo schema proposto, essi includono:

  1. azione a livello dei fattori di trascrizione Nf-kB (fattore nucleare kB) e della AP-1 (proteina attivatrice-1), legati ai processi infiammatori, e l’Egr-1 (questa azione ha attenuato l’espressione della IL-8 in linee cellulari ed ha evitato l’induzione della sintesi di VEGF)
  2. inibizione dell’angiogenesi mediata dall’ossido nitrico e dall’iNOS
  3. inibizione dell’espressione di COX-2 e LOX
  4. azione a livello di fattori angiogenetici: il fattore di crescita endoteliale vascolare [VEGF], principale fattore di migrazione, gemmazione, sopravvivenza, e proliferazione durante l’angiogenesi, e il fattore di crescita basilare dei fibroblasti [bFGF]
  5. azione a livello della stabilità e della coerenza della matrice extracellulare (ECM), con downregolazione della MMP2 (metalloproteinasi-2 di matrice) e della MMP9, e upregolazione della TIMP1 (inibitore tessutale della metalloproteinasi-1). Interferisce inoltre con il rilascio di fattori angiogenetici stoccati nella ECM
  6. Legame e blocco di una metalloproteinasi (CD13/aminopeptidasi N = APN) attiva ed importante per l’invasione tumorale e la neovascolarizzazione.


Morte cellulare
La curcumina indice la morte cellulare in numerose linee cellulari animali ed umane, come quelle della leucemia, del melanoma, dei carcinomi a seno, polmoni, colon, rene, epatocellulari e ovarici (Karunagaran, Rashmi, Kumar 2005; Rashmi, Kumar, Karunagaran 2004). Seguendo la review di Salvioli et al. (Salvioli et al. 2007) possiamo distinguere vari meccanismi di morte cellulare.
Apoptosi
La curcumina sembra agire con meccanismi sia caspase-dipendenti sia indipendenti (mitocondriali), sia legati alla presenza di p53 sia in sua assenza. Il ruolo delle ROS è controverso poiché la curcumina mostra ben note attività antiossidanti ma al contempo lega la sua attività antitumorale alla generazione di ROS. Questa ambiguità sui meccanismi e sui target deriva probabilmente dalla natura pleiotropica della curcumina che possiede molteplici target cellulari sui quali agisce contemporaneamente: inibisce i fattori di trascrizione AP-1 e Nf-kB (coinvolti in apoptosi, proliferazione e sopravvivenza cellulare); inibisce la proteina p300, un coattivatore trascrizionale coinvolto in apoptosi, ciclo cellulare, differenziazione.
Esistono inoltre vari problemi metodologici rispetto alla definizione di apoptosi che possono spiegare le ambiguità di azione (Salvioli et al 2007). Esistono però anche esistono dati a supporto di una azione bifasica della curcumina. Sembrerebbe infatti che la curcumina agisca sui proteasomi in maniera bifasica, con una attivazione a dosaggi ridotti, ed una inibizione a dosaggi più elevati. Dato che l’inibizione dei proteasomi porta ad apoptosi, e la sua stimolazione porta alla sopravvivenza cellulare, è possibile che la curcuma causi apoptosi o sopravvivenza a seconda del dosaggio utilizzato. Inoltre la curcuma a dosaggi differenti può influenzare anche il tipo di morte cellulare: sembrerebbe infatti che dosaggi bassi portino a stress ossidativo e morte per apoptosi, mentre dosaggi più elevati porterebbero a ridotta produzione di ROS, riduzione di ATP e morte per necrosi. Un altro possibile meccanismo bifasico è legato alla durata del trattamento e all’effetto su Nf-kB: Notarbartolo et al. riportano un aumento di Nf-kB dopo 8 ore di trattamento ed una riduzione dopo 16 ore.

Catastrofe mitotica
La curcumina sembra anche in grado di causare la morte cellulare anche di varie linee cellulari resistenti all’apoptosi, probabilmente attivando meccanismi di morte cellulare diversi dall’apoptosi. Uno di questo meccanismi non-apoptotici è la cd. catastrofe mitotica, caratterizzata da mitosi aberrante, formazione di cellule giganti e multinucleate. La catastrofe mitotica scatenata dalla curcumina sarebbe legata alla riduzione dell’espressione genica di vari inibitori delle proteine apoptotiche (IAP), in particolare della Survivina.

Altri meccanismi
Altri possibili meccanismi di morte cellulare sono: la inibizione della hTERT, la subunità attiva della telomerase, la cui inibizione permette l’apoptosi; l’inibizione della fosforilazione di mTOR, un regolatore della morte cellulare autofagica; lo stress sul reticolo endoplasmatico.

Dati clinici ed epidemiologici (curcumina-I)

  • RCT: riduce mutageni urinari fumatori cronici (1,5 gr/die per 30 gg); riduce danno citogenetico in linfociti e in altre cellule  (3 gr/die ES +/- 600 mg/die OE per 90 gg)
  • RT: miglioramento sintomatico lesioni cancerose cutanee (ES + unguento)
  • Vari CT Fase I:  la curcumina (8 gr/die) è ben tollerata dagli esseri umani (Cheng et al 2001; Hsu et al. 2002; Sharma et al. 2004; Bemis et al 2006), è non tossica e che è un potenziale chemiopreventivo in soggetti con lesioni ad alto rischio o premaligne.

Il National Cancer Institute sta conducendo studi clinici di Fase I sulla curcumina come agente chemiopreventivo per il cancro al colon, ed altri studi clinici in vari stadi di avanzamento comprendono studi su mieloma multiplo, cancro al pancreas, sindromi mielodisplastiche.

Posologia

Interazioni
Vista la potenziale attività di curcumina su vari fattori legati alla angiogenesi, tra i quali il VEGF,  è ipotizzabile (ma a livello per il momento del tutto speculativo) una interazione (forse positiva) con i nuovi farmaci antiangiogentici come Avastin (Yoysungnoen et al. 2006; Hemaiswarya, Doble 2006).  Allo stesso livello speculativo sta la possibile interazione positiva (sinergia) con la genisteina (Verma, Goldin 2003; Santibanez et al. 2000; Verma et al.1997). Un gruppo di ricerca ha messo in guardia dall’utilizzare la curcuma insieme a farmaci alchilanti come la ciclofosfamide, che inducono l’apoptosi attraverso l’attivazione della Janus chinasi, che potrebbe essere inibita dalla curcumina (Somasundaram et al. 2002). Lo stesso gruppo di ricerca ha suggerito che potrebbe essere sconsigliabile usare la curcuma con chemioterapici che agiscano attivando la Nf-kB.  Anche se la inibizione della Nf-kB potrebbe giocare un ruolo nel moderare la resistenza ai farmaci indotta dalla Nf-kB, l’attivazione di Nf-kB potrebbe essere uno dei meccanismi di azione del chemioterapico (come la doxorubicina). Lo studio è stato però criticato (Mitchell 2003).

Dettagli delle interazioni
Bleomicina e antibiotici citotossici.
La pianta potrebbe ridurre la tossicità polmonare (fibrosi) indotta dal farmaco. La rilevanza clinica non è però chiara. Possibile considerare la cosomministrazione come protettivo/coadiuvante solo sotto supervisione specialistica (protocollo ABVD) (Venkatesan, Punithavathi, Chandrakasan 1997; Punithavathi, Venkatesa, Babu 2000).

Cisplatin e composti chemioterapici a base di platino
La pianta potrebbe ridurre la tossicità renale e la neurotossicità indotte dal farmaco. La rilevanza clinica non è però chiara. Possibile considerare la cosomministrazione solo sotto supervisione specialistica (Navis, Sriganth, Premalatha 1999; Notarbartolo et al. 2005)

Ciclofosfamide e agenti alchilanti
La pianta potrebbe ridurre la tossicità indotta dal farmaco ma potrebbe anche ridurne l’efficacia. I dati sono conflittuali e la rilevanza clinica non è chiara. Evitare la cosomministrazione fino a che non si rendano disponibili maggiori dati (Venkatesan, Chandrakasan 1995, Somasundaram et al. 2002; Mitchell 2003)

Doxorubicina e chemioterapia antraciclinica
La pianta protegge da e riduce la cardiotossicità indotta dal farmaco e potrebbe ridurre la resistenza indotta dal farmaco. L’effetto sull’efficacia del farmaco è controverso e la rilevanza clinica non è chiara. Evitare la cosomministrazione fino a che non si rendano disponibili maggiori dati. Possibile considerare la somministrazione prima e dopo la chemioterapia. (Venkatesan 1998, Venkatesan, Punithavathi, Arumugam 2000, Chuang et al. 2002, Harbottle et al. 2001, Somasundaram et al. 2002; Mitchell 2003, Venkatesan, Chandrakasan 1995)

Paclitaxel e taxani
La pianta potrebbe sensibilizzare le cellule tumorali al farmaco. La rilevanza clinica non è chiara. Possibile considerare la cosomministrazione solo sotto supervisione specialistica (Bava et al. 2005)

Vinblastina e alcaloidi della Vinca
La pianta potrebbe ridurre al resistenza al farmaco inibendo meccanismi di effliusso Possibile considerare la cosomministrazione solo sotto supervisione specialistica (Anuchapreeda et al. 2002, Chearwae et al. 2004).

Bibliografia

Goethe ci parla del Kava

Sembrerebbe che le cose si stiano muovendo per il kava. Da mesi si parla della possibilità di superare il bando della vendita del Piper methysticum nella UE (in atto dal 2002), e sembrerebbe che le consultazioni tra l’International Kava Executive Council, gli ambasciatori delle Isole del Pacifico (i maggiori produttori di kava) e i rappresentanti della Commissione Europea.

Leggendo il poco a disposizione (la notizia non è confermata da siti autorevoli) sembrerebbe in realtà che ciò che è stato ottenuto dai coltivatori di kava sia il diritto di registrare il kava come farmaco tradizionale in Europa, e l’assicurazione che il WTO sarebbe intervenuto per difendere i diritti commerciali dei coltivatori a non vedersi esclusi dal mercato europeo.

Nulla sarebbe ancora cambiato però dal punto di vista della valutazione della tossicità della pianta, per cui il commercio dei prodotti a base di kava sarebbe comunque ancora vietato. Ma questo passaggio sembrerebbe una premessa ad passo ulteriore, ovvero al riconoscimento della sicurezza della pianta, anche alla luce (finalmente!) degli studi che si sono accumulati negli ultimi anni.

Per rinfrescarci la memoria sul kava, sfogliamo la recente review sulla epatotossicità del Piper methysticum pubblicata sullo European Journal of Gastroenterology & Hepatology da ricercatori della Università Goethe di Francoforte sul Meno, una review che, insieme ad una seconda pubblicata dal The New Zealand Medical Journal dà ragione a chi negli anni ha denunciato l’eccesso di sensazionalismo nella discussione sulla tossicità delle piante medicinali.

Riassumendo…

In tutto ci sono stati 83 casi riportati di reazioni avverse (ADR) al kava dal 1990 a metà 2002, a fronte di 295 milioni di dosi giornaliere vendute nello stesso arco di tempo.

Se assumiamo per vera la valutazione precedente, allora l’incidenza di ADR per Kava è di 0,01 per milione di dosi; se invece assumiamo una valutazione molto conservativa di 50 casi di epatotossicità probabile, l’incidenza di reazioni avverse per Kava è di 0,24 per milione di dosi.

A mò di confronto, l’incidenza di ADR per le benzodiazepine varia da 0,9 (bromazepam) a 2,12 (diazepam); in genere, per la maggior parte dei farmaci, il rischio di epatotossicità è di 1 a 10 ogni 100.000 soggetti esposti.

Tra i vari casi di epatotossicità grave, ci sono 4 casi di aumento degli enzimi epatici, 5 casi di epatite colestatica, 5 casi di disfunzione delle cellule epatiche, 5 casi di insufficienza epatica, 3 dei quali fulminanti con necrosi e trapianto:  una donna di 60 anni che ha assunto fino a  480 mg di kavalattoni al giorno per un anno; una donna di 22 anni che ha assunto 240 mg di kavalattoni al giorno per 4 mesi; una donna di 50 anni che ha assunto 60 mg di kavalattoni per 7 mesi.

Un caso di decesso: una donna di 81 anni che aveva assunto 120 mg al giorno di kavalattoni per 9 mesi.  Solo 3 soggetti non stavano assumendo altri farmaci.

Fino ad ora i casi di epatotossicità grave imputati all’utilizzo di “estratti” di vario tipo di Piper methysticum comprendevano 26 casi nei quali il legame causale è stato valutato come Poco probabile, 32 casi Non verificabili, 18 casi di legame Possibile,  3 casi di legame Probabile (2 dei quali con estratti acetonici, molto selettivi), 3 casi cinsiderati irrilevanti, e zero casi con legame causale certo. In tre casi i soggetti hanno assunto kavaina sintetica e in un caso kavaina sintetica con estratto.

Goethe

La review dei ricercatori dell’Università Goethe ha rianalizzato l’epatotossicità associata al kava in 26 pazienti, ed ha concluso che:

  • in 16 pazienti non è stato possibile legare l’assunzione di kava all’epatotossicità (i pazienti non hanno in realtà assunto kava, oppure l’anno assunto ma la cosomministrazione di altri farmaci non permette un quandro clinico e tossicologico chiaro)
  • in 2 casi la probabilità di un legame causale era così bassa da non suggerire alcun legame
  • Dei rimanenti 8 casi di legame causale confermato, in uno solo l’epatotossicità è stata collegata all’assunzione di kava alle dosi e per i periodi consigliati (non più di 120 mg di kavapironi al giorno per non più di tre mesi). Tre pazienti hanno sofferto di epatotossicità dopo aver assunto kava in dosi troppo elevate o per un periodo troppo prolungato ed i rimanenti hanno sofferto di lesioni epatiche per l’assunzione di kava in concomitanza con altri farmaci epatotossici.

Questa review non fa che confermare che il kava causa rare reazioni epatotossiche se assunto correttamente, e che la sua tossicità è legata ad overdose, periodi di assunzione troppo prolungati o cosomministrazione con certi farmaci

La Commissione E, l’ESCOP e il prof. Ernst condividono l’opinione che il ritiro del Kava sia ingiustificato alla luce dei dati sopraesposti, e che il rapporto rischio/beneficio della pianta sia buono, e sempre migliore dei farmaci di sintesi di riferimento.