Fitoalimurgia Chepang 1/2

In questi giorni di tribolazione per il Nepal (leggi qui e qui le cronache di Enrico Crespi), spintonato da un post di Meristemi (eccolo qui) sulla fitoalimurgia, prendo l’occasione per scrivere nuovamente di Chepang, un gruppo etnico di cui avevo già parlato in un’altra occasione, descrivendo un albero particolarmente importante nella loro cultura.

Come giustamente rimarca Meristemi, la fitoalimurgia, o più in generale lo studio del ruolo delle piante selvatiche o non coltivate nella storia dell’uomo, è particolarmente affascinante perché rappresenta una chiave di lettura poliedrica, che ci permette molteplici punti di entrata nel “discorso” piante e uomo. Inoltre è un esempio di ciò di cui parlava Andrea Pieroni in un post di qualche tempo fa, ovvero delle dimensioni pratiche ed etiche dell’etnobotanica, che diviene una attività non solo accademica ma applicata, uno strumento per modificare la realtà.

Il tema delle piante selvatiche tra cibo e medicina pone inoltre in primo piano il problema dell’articolazione tra tradizione e progresso scientifico. Mi ci hanno fatto pensare i post di Anna Meldolesi sul consumo etico, e di Bressanini sugli OGM, e non tanto per quello che hanno detto, quanto per le riflessioni che mi pareva scaturissero dai vari commenti.

Le strategie di gestione, di raccolta e di conservazione delle piante selvatiche sono pratiche tradizionali che meritano di essere studiate? O dovremmo invece pensare che siano fasi primitive, preagricole, del nostro rapporto con le piante, quindi ormai desuete e impari allo scopo? La fitoalimurgia è un campo dello scibile utile solo a survivalist che si allenano per la terza guerra mondiale, o per romantici innamorati del folklore, oppure ci possono dire qualcosa di rilevante sulle strategie di salute alimentare?

E ancora, se il dato scientifico si deve tradurre in politiche (in questo caso agricole ed alimentari) e se contesti differenti esigono risposte differenti anche a partire dagli stessi dati, le pratiche agricole tradizionali o le pratiche pre-agricole possono rappresentare parte delle politiche alimentari in determinati contesti?

Non intendo tentare di rispondere a nessuna di queste domande, almeno per il momento

I Chepang

Il caso di studio dei Chepang (che ho portato a Pollenzo, presso l’Università di Scienze Gastronomiche, su invito di Andrea Pieroni) credo possa servire proprio a vedere la complessità del problema, e di come la soluzione ai problemi di salute e sicurezza alimentare passi contemporaneamente dalla necessità:

1. di un approccio trickle-up, ovvero che parte dall’ascolto delle popolazioni locali, della loro percezione dei problemi e delle possibili soluzioni (che spesso sorprende chi parte da posizioni preconcette)

2. di un approccio scientifico allo studio dei sistemi tradizionali di gestione del territorio e della biodiversità

3. dell’inserimento della dimensione dell’identità culturale di un gruppo all’interno dell’equazione sulle possibili soluzioni.

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Rimando i lettori al post precedente per una introduzione ai Chepang. Ricordo brevemente che sono vissuti come cacciatori-raccoglitori fino a poco tempo fa, dipendendo interamente dalla foresta come fonte di radici e piante alimentari, e cacciagione,  fino a 100-150 anni fà.[1]

Più di recente sono diventati stanziali e si sono adattati ad una vita da agricoltori con la tecnica del debbio (in lingua Chepang Khorya, in inglese swidden, o slash-and-burn).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Rimangono però ancora pesantemente dipendenti dalla foresta (come d’altronde è vero, in minor misura, per molta della popolazione nepalese, che per il 90% vive in aree al limine tra foresta e campi coltivati) e dai suoi prodotti, o da piante non coltivate (ad esempio il Chiuri– Dyploknema butyracea (Roxb.) H. J. Lam — Sapotaceae, qui la monografia infoerbe) per la sussistenza alimentare, per le medicine, per la cultura materiale, per il foraggio, per il combustibile ed anche per un sostegno economico, dato che scambiano o vendono vari prodotti ai mercati locali.

Sono certamente una delle comunità più svantaggiate del Nepal dal punto di vista socio-economico, dell’accesso all’educazione e ai servizi di salute, in termini nutrizionali (soprattutto deficit proteico, mentre la dieta fortemente vegetale riduce i deficit vitaminici), in particolare tra donne e bambini (i bambini possono soffrire di malnutrizione e le donne incinte di deficienza di ferro e di proteine) (anche se negli ultimi 15 anni molte cose sono cambiate),[4] circa il 50% delle famiglie sono in situazione di debito, con un deficit di contanti molto acuto e con un surplus annuale molto basso; l’agricoltura (in particolare le coltivazioni di mais – Zea mays L. e panico indiano – Eleusine coracana (L.) Gaertner. – Poaceae) provvede sostentamento al 97% della popolazione solo per 5-6 mesi all’anno e per il resto dell’anno le famiglie devono fare ricorso alla foresta ed ai suoi prodotti. [5]

Anche se negli ultimi anni sono stati introdotti gli orti familiari, con cetrioli, pomodori, zucche e zucchine ed altri ortaggi, la maggior parte dei Chepang continua a fare affidamento più sulle piante selvatiche o non coltivate, o sulle piante coltivate con il metodo del debbio. [6]

Come è stato detto, gli alimenti principali dei Chepang sono il mais e la Eleusine coracana. Da quest’ultima si ricava il Dhindo, ovvero la polenta di miglio, e il Jand (bevanda fermentata a base di miglio e mais), la bevanda più tipica, bevuta da tutti in famiglia.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Di grande importanza, non solo alimentare ma anche culturale, sono i curry a base di larve e pupe di api e vespe, e a base di pipistrelli.

Centrale nella cosmogonia Chepang è, come si è detto, l’albero del Chiuri (Diploknema butyracea), o Yoshi in lingua Chepang, che provvede la famiglia di frutta, miele, nettare, ghee, foglie per piatti, fiori per bevande fermentate, ecc., per il consumo locale o per la vendita nei mercati a valle, vendita che fornisce fino al 60% del reddito familiare (vedi il mio precedente post per il dettaglio sull’albero).

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

Altri items venduti o scambiati al mercato sono i germogli fermentati di bambù, i doko (cesti di bambù), i naglo (i grandi piatti di fibre intrecciate per separare il loglio dal cereale) e le namlo (le cinghie da trasporto).

Vivono in villaggi, o meglio gruppi di case sparse sui pendii molto ripidi del gruppo del Mahabarat, nel Nepal centrale lungo i fiumi Trisuli, Narayani e Rapti e nei bacini degli affluenti (Manahari e Lothar al sud, Malekhi e Belkhu al nord) compresi nei Distretti del Dhading, Makwanpour, Chitwan e Gorkha.

Le loro case sono a tetto basso, piccole e quasi sempre ad una sola camera, con poca ventilazione. I componenti della famiglia vivono in questa unica stanza, mentre il secondo piano funge da solaio per I cereali ed altri alimenti conservati. Onnipresenti nella casa sono il ripiano di bambù sopra al fuoco per essiccare ed affumicare carne, pesce e cereali (e semi di Chiuri), e la mola (due pietre circolari per le farine di cereali), mentre subito fuori dalla porta troviamo l’attrezzo per decorticare il grano o rompere il guscio dei semi.

From Viaggio tra i Chepang di Musbang

A differenza di molto altri gruppi etnici nepalesi, i Chepang non danno molto rilievo alle gerarchie ed alle differenze di genere sessuale che, pur sussistendo, sono meno marcate rispetto al resto del paese. Le donne godono di maggior libertà, ed il cibo viene equamente diviso tra tutti i membri della famiglia, senza differenze di età o di genere (cosa non comune nel resto delle zone rurali del paese, dove spesso le donne devono nutrirsi dopo il resto della famiglia e con ciò che rimane, nutrendosi quindi poco e male, un dato rilevante per il problema del prolasso uterino).

Studi antropologici

Mentre i Chepang sono stati oggetto di molte ricerche ed analisi di tipo sociologico, minori e di minor qualità sono gli studi e gli interventi sullo sviluppo economico e sociale. Come lamentano gli stessi Chepang, c’è veramente poco sui Chepang che provenga dai Chepang stessi, e poco spazio è stato dato alla domanda “quale beneficio ha portato ai Chepang tutto il lavoro svolto sui Chepang?”. [7]

Fino a poco tempo fa i progetti governativi si sono poco interessati alle definizioni di sviluppo fornite dai locali, e spesso gli sforzi delle ONG sono stati trascurabili e politicamente non impegnati, evasivi, almeno fino alla metà degli anni ‘90.

Nel 1993 si è tenuto il primo “Gathering of the concerned” e nel testo che raccoglie le esperienze di questo incontro, emergono le istanze avvertite come più pressanti: [8]

1. Inferiorità, o mancanza di autostima, imposta ed istituzionalizzata. Quando CAED iniziò a lavorare con I Chepang, era comune riferirsi ad essi, anche nei documenti ufficiali, come Jungli (selvaggi/incivili) o Bankar/Banmanchhe (scimmie), ed in genere caratterizzarli come primitivi e stupidi. Questa istanza è stata infatti il primo punto di “attacco” del progetto SEACOW, la rivalutazione delle competenze e conoscenze del gruppo rispetto alle NTFP, competenze che potevano essere tradotte in riscatto sociale ed economico.

2. La cultura. Secondo Battharai le domande che è necessario porsi, prima della classica: “come facciamo a salvare la cultura dei Chepang?” sono le seguenti: “perché è necessario salvare o conservare questa cultura quando sono gli stessi Chepang a non voler essere chiamati così, a rifiutare la propria cultura? E come identifichiamo la cultura da salvare? Chi è che vuole conservarla e perché? Non si rischia un approccio tipo ‘zoo umano’?” E’ possibile raggiungere un maggior benessere senza rischiare la perdita di identità culturale?”. [9]

3. Autonomia tribale. Come si può gestire il miglioramento delle condizioni economiche vis-a-vis l’autonomia tribale e culturale, dove troviamo l’equilibrio? In particolare quale è la soluzione più desiderabile al problema della gestione della foresta? Nazionalizzazione, proprietà privata o diritti etnici collettivi?

4. Sostenibilità. L’opinione fortemente espressa dai Chepang e dalle ONG locali è che è insostenibile continuare a discutere del concetto di sostenibilità solo in termini economici. Questa tendenza ha eclissato importanti istanze, come ad esempio la necessità di rinforzare le risorse di base, la giustizia sociale e i bisogni specifici ed area-dipendenti.

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Note

[1] Bista DB (2004) People of Nepal. Ratna Pustak Bhandar

[2] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu; Marandhar NP (1989) “Medicinal plants used by Chepang tribes of Makwampur District, Nepal”. Fitoterapia Lx, Perish; Bhattrai TR (1995) “Chepangs: Status, efforts and issues; a Syo’s perspective”. In TR Bhattrai Chepang Resources and Development. SNV/SEACOW, Khatmandu; Gautam MK, Roberts EH, Singh BK (2003) “Community based leasehold approach and agroforestry technology for restoring degraded hill forest and improving rural livelihoods in Nepal”. Paper presented at the International Conference on rural livelihoods, Forest and Biodiversity, Bonn; Pandit BH (2001) “Non-timber forest products on shifting cultivation plots (Khorya): a means of improving livelihoods of Chepang Rural Hill Tribe of Nepal”. Asia-Pacific Journal of Rural Development; 11:1-14

[3] declino dovuto probabilmente ad una epidemia

[4] Kerkhoff, E. & E. Sharma. (2006) Debating Shifting Cultivation in the Eastern Himalayas: Farmers’ innovations as lessons for policy. International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD), Kathmandu

[5] Balla, M.K., K.D. Awasthi, P.K. Shrestha, D.P. Sherchan & D. Poudel. (2002) Degraded Lands in Mid-hills of Central Nepal: A GIS appraisal in quantifying and planning for sustainable rehabilitation. LI-BIRD, Pokhara, Nepal

[6] Aryal G.R. & G.S. Awasthi. (2004) “Agrarian Reform and Access to Land Resource in Nepal: Present status and future perspective/action“. ECARDS review paper (Unpublished). Environment, Culture, Agriculture, Research and Development Services (ECARDS), Kathmandu, Nepal

[7] Bhattarai, Teeka R. (1995) Chepangs, resources, and development : collection of expressions of the Gathering of the Concerned, 7-9 February 19. Kathmandu: SNV: 1995. 185 p.

[8] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

[9] Bhattarai, Teeka R. (1995) Op. Cit.

Uomo e piante 5/dimoltialtri

Ed eccoci all’ultima puntata della sezione introduttiva della serie uomo/piante, dove cercherò di sintetizzare i dati principali relativi alla nascita dell’agricoltura, in quanto evento importante nell’articolazione del rapporto tra piante e uomo. Le puntate precedenti si trovano qui, qui, qui, e qui.

L’agricoltura
Gli antecedenti
Il passaggio da caccia-raccolta ad agricoltura, (la cosiddetta “rivoluzione neolitica“), non fu netto e puntuale, nè avvenne ovunque, nè si presentò con le stesse modalità. Fu lento, graduale, non lineare, avvenne indipendentemente in molti luoghi. Come nota Diamond, l’agricoltura non fu una scoperta o una invenzione, bensì una “evoluzione che prese il via come sottoprodotto di scelte spesso inconsce”. (30)

E’ ipotizzabile che le prime esperienze di coltivazione avvennero all’interno delle foreste pluviali, dove a causa della forte competizione per la luce la copertura forestale non permette la crescita del sottobosco. Solo la casuale caduta di alcuni alberi, creando delle radure naturali dove penetra il sole, permette la germinazione dei semi rimasti dormienti e la crescita di varie specie diverse.

I gruppi umani che abitavano la foresta, insediandosi nelle vicinanze di tali radure, ebbero l’opportunità di osservare la crescita di questi “giardini” spontanei.  In più, le deiezioni del gruppo arricchivano il terreno di composti azotati e di semi delle piante alimentari favorite dal gruppo stesso. In questo modo il gruppo avrebbe potuto osservare le fasi di crescita proprio delle piante alimentari a lui utili, e con il tempo avrebbe portato al costume di facilitare la crescita di tali piante  migliorando le condizioni, eliminando la competizione di altre piante, fino alla creazioni di radure artificiali mediante l’abbattimento di alberi di piccola taglia, ovvero avviandosi verso la coltivazione e la addomesticazione con la tecnica del debbio (anche addebbiatura, o taglia-e-brucia, dal termine inglese slash-and-burn: il taglio della vegetazione, il suo essiccamento e combustione per creare piccoli appezzamenti da coltivare a maggese).

Il passaggio dalla coltivazione pre-agricola (intesa come il complesso delle operazioni di semina o impianto, di cura e di raccolta delle piante selvatiche o addomesticate, con o senza aratura del terreno) all’agricoltura (intesa come la coltivazione di piante addomesticate con aratura sistematica del terreno), (31) avviene in maniera indipendente in vari siti, nell’arco di tempo che va da ca. 10.000 anni fa a 3.500 anni fa.

La nascita dell’agricoltura
Medio Oriente
In Medio Oriente l’evidenza archeobotanica sulla nascita dell’agricoltura si concentra nell’area intorno alle pianure fertili della Mesopotamia dal levante meridionale alle colline meridionali ai piedi dei Monti Zagros.

Secondo l’ipotesi ricevuta sulla nascita dell’agricoltura in Medio Oriente, basata soprattutto sui lavori di Hillman (incentrati sui ritrovamenti presso il sito di Tell Abu Hureyra, sulle rive dell’Eufrate in Siria), la coltivazione dei cereali iniziò in risposta ad un improvviso cambiamento climatico avvenuto tra 11.000 e 10.000 anni C14 fa (nel cosiddetto stadiale del Dryas recente). Il passaggio, sempre secondo questa ipotesi, avvenne in tempi relativamente brevi ed in maniera puntuale, e le cultivar sviluppate in questo periodo di tempo viaggiarono dalla loro zona di origine in tutta Europa insieme agli agricoltori migranti, ed insieme ai loro idiomi di tipo Indo-Europeo (secondo la cosiddetta Ipotesi Anatolica o Teoria della Discontinuità Neolitica di Renfrew). (32)

Secondo la teoria corrente, questo passaggio climatico, che portò a condizioni più fredde e secche, spinse verso il declino varie specie selvatiche meno adattate al clima arido, in primis le lenticchie [Lens spp. — Fabaceae] ed altri legumi, in seguito le forme selvatiche del Triticum (il farro selvatico – Triticum dicoccoides (Korn. ex Asch. & Graebn.) Schweinf. e il piccolo farro selvatico – Triticum boeoticum Boiss., (33) di Secale spp., poi Stipa spp., Stipagrostis spp., Scirpus spp., e per ultime le specie più resistenti alla siccità, le Chenopodiaceae.

Lenticchie

Segale

Questo declino spinse probabilmente le popolazioni umane a coltivare alcune specie più produttive per sopravvivere al periodo di carestia. I frutti del farro selvatico erano abbastanza grossi da essere sfruttati per sopperire alla riduzione della vegetazione. Una successiva ibridazione del farro aumentò l’eterozigosi, causando la scompare in alcuni individui del rachide fragile che aiuta la disseminazione anemofila ma rende difficile la raccolta.

Un recente studio (34) mette però in dubbio sia la data di inizio dei primi “esperimenti” agricoli, che verrebbe anticipata di molto, sia i tempi brevi per la stabilizzazione delle cultivar (che avrebbero invece avuto bisogno di millenni per diventare stabili). La scoperta di più di 90.000 frammenti vegetali presso il sito archeologico di Ohalo II in Siria, risalenti a 23.000 anni fà, indicherebbe la raccolta di cereali selvatici 10.000 anni prima del periodo previsto dalla teoria corrente, e certamente prima del Dryas.

Inoltre, lo studio delle frequenze di individui con mutazione del rachide (la forma rigida che riduce la dispersione dei frutti) mostra che tra il momento della sua prima apparizione (9.250 anni fà) e la sua fissazione (ovvero con la stabilizzazione della mutazione nella popolazione, che diventa monofiletica) passarono ben 3.000 anni, quando già la dispersione dell’agricoltura era iniziata, in tempi quindi molto più lunghi di quelli previsti dalla teoria ricevuta. Per finire, il modello matematico proposto supporta una origine delle piante coltivate attraverso processi più complessi, di inter-ibridazione tra varie specie, e in vari tentativi di addomesticazione.

Quale che sia stato l’esatto momento e l’esatto meccanismo che permise la selezione di piante con caratteristiche genetiche particolari, la selezione di questa caratteristica favorevole per l’uomo rese possibile raccolti più ricchi in meno tempo e con meno perdite, capaci di sostenere popolazioni umane più dense. L’ibrido venne coltivato insieme al piccolo farro selvatico e all’orzo spontaneo [Hordeum spontaneum K. Koch o H. vulgare subsp. spontaneum (K.Koch) Thell.].

Orzo selvatico

A partire dal Neolitico preceramico A (PPNA – ca. 10.300 anni fa) il clima tornò più caldo e umido facilitando così l’espansione delle coltivazioni. Le tre specie di cereali summenzionate passarono, in un lungo processo di interazione con l’uomo, dallo stadio selvatico a quello di “coltivazione incipiente” e di “addomesticazione”, passano cioè attraverso la trasformazione genetica verso forme addomesticate grazie all’azione di popolazioni sempre più sedentarie, fino ad arrivare ad una vera e propria fase di agricoltura a livello di villaggio. Questo stadio viene anche definito come stadio della coltivazione incipiente e della addomesticazione, durante il quale iniziano quei processi di modificazione genetica delle piante che portano verso la addomesticazione, e dove le popolazioni passano da sostentamento grazie a raccolta semisedentaria all’agricoltura.

L’evidenza più ampia di uno stile di vita schiettamente agropastorale si ha però solo per il periodo PPNB (da 9 500 a 7 500 anni fa), detto anche stadio dell’agricoltura piena.
E’ a questo periodo che fanno riferimento le evidenze archeobotaniche sulla presenza di tutte le principali specie agricole: orzo [Hordeum vulgare tetrastico e distico], piccolo farro [T. monococcum, forma coltivata di T. boeoticum] e farro [T. dicoccum forma coltivata di T. dicoccoides], lenticchie [Lens culinaris Medik — Fabaceae], piselli [Pisum sativum L.– Fabaceae], ceci [Cicer arietinum L.– Fabaceae], lino [Linum usitatissimum — Linaceae] e Vicia ervilia (L.) Willd. [Fabaceae].

Alla fine del PPNB l’agricoltura viene praticata in tutto il Sud Est asiatico e si sposta ad Ovest verso Cipro, attraverso l’Anatolia verso l’Europa, a Sud Est verso l’Egitto e ad Est verso l’Asia Centrale e Meridionale.
Tra 7000 e 5000 anni fa le coltivazioni vengono portate nelle pianure aride tra il Tigri e l’Eufrate, dove inizia la coltivazione intensiva supportata dall’irrigazione, e la parallela nascita delle prime città e dei primi piccoli templi Sumeri. (35)

Asia
Non esistono dati archeobotanici di questo tipo, a questo livello di dettaglio, per l’Asia.

I dati permettono solo di dire che in Cina centro orientale, nell’area dello Huang-ho (Fiume Giallo) tra 8.000 e 6.000 anni fa, nel Primo Paleolitico, esistevano degli insediamenti umani che praticavano la coltivazione del riso e di due specie di miglio [Panicum miliaceum L. — Poaceae; Setaria italica (L.) P. Beauv — Poaceae] (più dubbia è invece la presenza di coltivazioni di soia [Glycine max (L.) Merr. — Fabaceae]).

Riso

Miglio

Da quest’area il riso viaggiò con l’uomo verso Nord in Corea, dove era certamente coltivato 3200 anni fa, e forse verso ovest, in India settentrionale, anche se la presenza del cereale nel subcontinente 4500 anni fa potrebbe anche essere dovuta ad una addomesticazione indipendente.

Il viaggio del riso fu fermato dal clima equatoriale in Indonesia, da dove l’agricoltura si espande (verso ad esempio la Nuova Guinea) con un modello alternativo di agricoltura incipiente, basato su radici e tuberi come l’igname [Dioscorea alata L. e D. esculenta (Lour.) Burkill. — Dioscoreaceae], e il taro [Colocasia esculenta (L.) Schott — Araceae], piuttosto che su cereali (secondo alcuni autori le prime coltivazioni sono proprio state quelle di radici e tuberi nelle foreste tropicali).

Africa
Contrariamente a quanto solitamente ritenuto, è probabile che l’agricoltura si sia sviluppata in maniera indipendente anche nell’Africa tropicale nord, a sud del Sahara, seguendo in questo caso un modello “misto”: nei climi più secchi del Nord utilizzo e addomesticazione di cereali come il sorgo [Sorghum bicolor (L.) Moench.] e il miglio perla [Pennisetum glaucum — (L.) R. Br.] insieme a legumi quali Vigna unguiculata (L.) Walp. (fagiolo dell’occhio), V. subterranea (L.) Verdc. (pisello di terra) e Macrotyloma geocarpum (Harms) Maréchal & Baudet, e all’albero del Karitè [Vitellaria paradoxa C. F. Gaertn. — Sapotaceae]; nel Sud più umido radici e tuberi [Dioscorea spp.], riso africano [Oryza glaberrima Steud.] e olio da palma [Elaeis guineensis Jacq. — Arecaceae].

Sorgo

Fagiolo dell’occhio

Comunque sia, in tutti questi siti si può parlare di modello agropastorale perché la coltivazione di cereali e legumi va sempre di pari passo all’allevamento di animali da carne e latte, come capre, pecore, ecc.

Le Americhe
Molto diversa è la situazione del continente Americano.
Anche qui abbiamo evidenza, per quanto scarsa e poco organica, della addomesticazione e coltivazione di piante, ma i dati archeologici indicano che non si arrivò se non molto tardi all’allevamento degli animali, per cui la dieta si basò per molto tempo quasi totalmente sulle specie vegetali coltivate o raccolte spontanee, con risultante deficit di proteine e grassi animali.

Vengono solitamente identificate tre aree principali di sviluppo: Mesoamerica (odierno Messico e Centro America), le Ande, e l’Amazzonia.

Mesoamerica
Le principali specie addomesticate in Mesoamerica furono il mais [Zea mays L. — Poaceae], i fagioli [Phaseolus vulgaris L.; P. coccineus L.; P. acutifolius A. Gray– Fabaceae], e le zucchine [Cucurbita pepo L.; C. mixta Pangalo– Cucurbitaceae], ma vengono raccolti e consumati molti frutti, come l’avocado [Persea americana Mill. — Lauraceae], la papaya [Carica papaya L. — Caricaceae], la guava [Psidium guajava L. — Myrtaceae], il sapote blanco [Casimiroa edulis La Llave & Lex. — Rutaceae] e negro [Diospyros digyna Jacq. — Ebenaceae], il peperoncino piccante [Capsicum spp. — Solanaceae] e la ciruela [Spondias mombin L. — Anacardiaceae].

Riguardo all’origine dell’agricoltura, i dati sono molto scarsi. Le evidenze archeologiche indicano che le foreste tropicali a stagione secca dei neotropici furono centri importanti di insediamento umano e coltivazione, coinvolgenti piccoli gruppi di coltivatori che si spostavano al cambiare delle stagioni

Con tutta probabilità la zucchina fu addomesticata ca. 10000 anni fa, ed uno studio recentissimo indicherebbe che il mais fu addomesticato ca. 8700 anni fà, a partire da una pianta selvatica denominata teosinte, nelle foreste tropicali dell’odierno Messico sudorientale, nella valle del Rìo Balsas, e che viaggiò con l’uomo fino a Panama ca. 7600 anni fà, fino ad essere coltivato nell’area settentrionale dell’America del Sud ca. 6000 anni fà. (36)

L’evidenza però suggerisce che le tre specie principali iniziarono ad essere coltivate insieme come sistema agronomico solo 3-4000 anni fa.

Teosinte

Ande
Le specie addomesticate sugli altopiani Andini erano due Chenopodiaceae [Chenopodium quinoa Willd. e Chenopodium pallidicaule Aellen.], i fagioli Lima [Phaseolus lunatus L.], la patata [Solanum tuberosum L. — Solanaceae], delle zucchine locali [Cucurbita moschata Duchesne, e C. ficifolia Bouche] e due camelidi, lama [Lama glama] ed alpaca [Vicugna pacos], almeno 5000 anni fa. Ma le popolazioni non svilupparono mai il sistema agropastorale tipico della mezzaluna fertile.

Amazzonia
In Amazzonia le specie addomesticate furono, come nei tropici asiatici, radici e tuberi, in particolare la manioca o cassava [Manihot esculenta Crantz. — Euphorbiaceae] e le arachidi [Arachis hypogaea L. — Fabaceae]-

Il passaggio all’agricoltura non avvenne invece mai in molte altre aree a clima comparabile come la California, l’Australia sud-ovest, l’Africa meridionale). (37)

Le conseguenze
In quasi tutte le aree di passaggio all’agricoltura la fonte primaria di cibo si ritrova nella combinazione tra uno o più cereali e uno o più legumi, che supplementavano la dieta con olii e amminoacidi assenti nei cereali, come la lisina.

Il passaggio ha probabilmente risposto a pressioni ed esigenze di equilibri energetici, di convenienza e di previsione del futuro, è stata una risposta al declino delle risorse (ad esempio la riduzione nel numero dei grandi mammiferi), alla maggior disponibilità di specie addomesticabili rispetto a quelle spontanee a causa dei cambi climatici della fine del pleistocene in Medio Oriente, ed inoltre ai progressi delle tecniche di stoccaggio del cibo. (38)

Lo spostamento di sempre maggiori settori della popolazione verso l’agricoltura e l’allevamento, porta ad un aumento della sedentarietà ed anche ad un aumento della disponibilità di cibo dal punto di vista quantitativo, mentre dal punto di vista della scelta porta forse ad una riduzione della diversità alimentare. Certamente rende possibile la vita ordinata secondo  stratificazioni sociali in comunità stabili. (39)

L’aumento delle calorie consumate può aver portato ad una iniziale minor morbilità, ma anche ad un aumento della fertilità e della densità abitativa, con conseguente aumento dei rifiuti, concentrati in zone specifiche, delle latrine, e degli allevamenti, tre fattori favorevoli all’insorgere di nuove malattie e di nuovi vettori di malattie: ratti, mosche, zanzare, topi, zecche. (40)

Gli stessi animali allevati divennero con tempo nuovi vettori di malattie, i maiali portarono ad esempio all’infezione da Ascaris, ed i bovini alla tubercolosi. Le feci accumulate favorirono il propagarsi degli elminti, le acqua sporche alla febbre tifoide.
Inoltre le modificazioni dell’ambiente richieste dall’agricoltura facilitarono il diffondersi di altre malattie per via oro-fecale; le opere di irrigazione e l’utilizzo di tecniche tipiche dell’agricoltura mobile come il debbio nelle foreste favorirono malaria, schistosomiasi e febbre gialla in Egitto, Mesopotamia ed India.

Se il peggioramento della qualità dell’alimentazione (e quindi delle capacità di resistenza dell’organismo) è andata parallela all’aumento delle fonti di infezione, è probabile che in tempi non troppo lunghi si sarà osservata una selezione degli individui più deboli o sotto stress maggiore (quindi un aumento della mortalità infantile), e la costruzione dell’immunità nei soggetti sopravvissuti. Quindi, col tempo, si sarà giunti al punto di equilibrio tra ospite e patogeno, punto al quale la maggior parte degli ospiti sopravvive e passa l’infezione, rendendo possibile la sopravvivenza del patogeno.

Dal punto di vista della struttura sociale e della gestione della salute e della malattia, una società agricola, che prevede un modello produttivo molto più spinto per sostenere la crescita demografica, prevede anche una stratificazione ed una gerarchizzazione, dove alcuni membri del gruppo avranno più potere, più ricchezza e maggior capacità decisionale di altri; la divisione del lavoro avrà portato individui e famiglie a specializzarsi in alcuni campi del sapere, tra i quali per l’appunto la medicina.

E’ probabile che le nuove malattie derivanti dall’aumento della densità e dalla sedentarizzazione abbiano messo in crisi e screditato i vecchi modi di gestire le malattie, i vecchi rimedi, aprendo la possibilità di nuove concettualizzazioni, più sofisticate ed elaborate. Tutto ciò crea un contrasto tra sapere medico popolare (il sapere precedente, che permane come “prima linea” di soccorso per il malato) e il “nuovo” sapere medico, colto ed arcano. La cura è più concentrata sul paziente, gestita agli inizi dal gruppo dei pari o dalla famiglia, passando poi per figure intermedie fino al trattamento da parte degli specialisti. (41)

La stratificazione favorisce quindi un maggior pluralismo di forme di cura ed un maggior scetticismo.
L’aumento del carico di lavoro spinge probabilmente alla ricerca/offerta di rimedi tonici (fisici, psicologici, sessuali). I gruppi che avevano maggiori conoscenze di zone ad elevata biodiversità vegetale avevano probabilmente maggior conoscenza delle piante medicinali, ma questa non era una conoscenza fortemente iniziatica, visto che per tutti era possibile avere esperienza delle piante. E’ probabile che alcune conoscenze fossero più iniziatiche, in particolare quelle legate agli uomini, che, non dovendo lavorare i campi e rimanendo sempre nello stesso luogo, visitavano di più la foresta e passavano ai figli i segreti delle piante, mentre le donne conoscevano molto bene le piante della zona di passaggio dalla foresta al coltivato, e si passavano le conoscenze quando (come succede in molte società) passavano dal loro villaggio a quello dell’uomo che sposavano.

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Note

30. Diamond, op.cit. p.78

31. Le due definizioni sono prese da: Harris DR (2005) “Origins and spread of Agricolture” in G. Price (ed.) The Cultural History of Plants. Routledge, New York pp.13-26

32. cfr. Hillman, G.C. (1996) “Late Pleistocene changes in wild plant-foods available to hunter-gatherers of the northern Fertile Crescent: Possible preludes to cereal cultivation”. In D.R. Harris (ed.) The Origins and Spread of Agriculture and Pastoralism in Eurasia, London: UCL Press and Washington, DC: Smithsonian Institution Press, ma cfr. anche il recente lavoro di Abbo S et al (2010) “Yield stability: an agronomic perspective on the origin of Near Eastern Agriculture”. Vegetation History and Archaeobotany; DOI 10.1007/ s00334-009-0233-7, dove si mette in dubbio l’importanza dei cambiamenti climatici per lo sviluppo dell’agricoltura. In effetti gli autori sostengono che, al contrario, è la stabilità climatica il fattore necessario per una agricoltura sostenibile e per l’introduzione di nuove coltivazioni. Recenti studi sul DNA mitocondriale sembrano dare un colpo molto serio alla teoria Anatolica, dato che sembra da questi dati che i primi contadini europei non siano legati strettamente ai cacciatori-raccoglitori, nè ai primi agricoltori medio orientali (Renfrew C. (2010) Archaeogenetics — towards a ‘New Synthesis’? Curr Biol 20: R162-R165)

33. Alcuni autori riclassificano i due farri in maniera differente, rispettivamente come Triticum turgidum subsp. dicoccoides (Korn. ex Asch. & Graebn.) Thell. e Triticum monococcum L. subsp. aegilopoides (Link) Thell.

34. Robin G. Allaby, Dorian Q. Fuller, Terence A. Brown (2008) “The genetic expectations of a protracted model for the origins of domesticated crops” PNAS, 105 (37): 13982–13986

35. Nel tardo periodo di Ubaid e di Uruk (IV millennio a.C.) i sumeri avevano quasi il monopolio del grano ma a causa di eccessi e di errori di irrigazione e della progressiva salinizzazione del terreno il grano crebbe sempre meno facilmente e la specie più tollerante del sale, l’orzo, arrivò a predominare.
Per queste ragioni nel 3000 a.C. si avviano vie di scambio tra le zone dell’altipiano iraniano e la Mesopotamia, e poi tra la Mesopotamia del Sud e Valle dell’Indo.

36. Piperno RD, Ranere AJ, Holst I, Iriarte J, and Dickau R (2009) “Starch grain and phytolith evidence for early ninth millennium B.P. maize from the Cenral Balsas River Valley, Mexico” PNAS 106 (13): 5019-5024

37. Johns 1990 op. cit.; Diamond 1997 op. cit.; Harris DR (2005) “Origins and spread of Agricolture” in G. Price (ed.) The Cultural History of Plants. Routledge, New York

38. Hillman, G.C. (2000) “The plant food economy of Abu Hureyra 1: the Epipalaeolithic”. In A.M.T. Moore, G.C. Hillman, and A.J. Legge (eds.) Village on the Euphrates: From Foraging to Farming at Abu Hureyra, New York: Oxford University Press, 327-399.  Hillman, G.C., Hedges, R., Moore, A., Colledge S., and Pettitt, P. (2001) “New evidence for late glacial cereal cultivation at Abu Hureyra on the Euphrates”. The Holocene 11, 383-393.

39. Diamond 1997 op. cit. Emboden WA Jr. (1995) “Art and artifact as ethnobotanical tools in the ancient near east with emphasis on psychoactive plants”. In R. E. Schultes, Siri Von Reis (ed.) Ethnobotany: Evolution of a discipline, New York: Chapman & Hall: pp. 93-107

40. cfr. Kiple 1993 op. cit. L’aumento delle calorie disponibili potrebbe aver portato ad un aumento della percentuale di adipe, che nelle donne, potrebbe avere portato ad un aumento della fertilità.

41. Kleinmann, A. Patients and healers in the context of culture.  Berkeley; University of California Press, 1980

Uomo e piante 4/dimoltialtri

Il rapporto con i patogeni
Se l’Africa è il luogo di origine e della prima evoluzione del genere Homo, per comprendere i rapporti coevolutivi tra Homo e patogeni è necessario approfondire l’argomento della distribuzione dei patogeni nel mondo, per capire se le malattie infettive siano distribuite a random o se esistano delle differenze  caratterizzanti il continente africano.

Dato che l’indagine archeologica è impossibile per l’assenza di resti analizzabili, una conferma diretta sulla distribuzione dei patogeni nel periodo di interesse non è possibile, ma secondo Guegan e collaboratori (23)  le inferenze dalle attuali distribuzioni permettono di dire che:

  1. la diversità delle specie patogene per l’uomo era ed è massima nelle zone tropicali e subtropicali.
  2. le specie di patogeni endemiche nelle zone temperate del mondo sono molto poche, mentre nelle zone tropicali sono presenti sia i patogeni endemici (patogeni, spesso zoonosi,  con stadi esterni legati a vettori o a riserve, come gli elminti) sia quelli a distribuzione globale (di solito virus, batteri e funghi trasmessi direttamente, adattati alle popolazioni umane, con ciclo vitale interno all’uomo e quindi poco sensibili all’ambiente).

Ciò significa che le diverse popolazioni umane non sono state esposte allo stesso carico di malattie infettive, e che le popolazioni africane hanno avuto (e hanno) a che fare con una maggior diversità di patogeni.

I Cro Magnon erano probabilmente organizzati in piccoli gruppi egalitari di cacciatori e raccoglitori e, a differenza di H. neanderthalensis, avevano una dieta dominata dagli alimenti di origine vegetale. (24)

Come tutti gli ominidi, essi convivevano con parassiti con i quali si erano evoluti in Africa (dai macroparassiti come Enterobius, Ancylostoma, Uncinaria, Necator, ai microparassiti come Plasmodium responsabile della malaria e Flavivirus della febbre gialla) ed anche con parassiti di altri animali, ad esempio il Trypanosoma brucei rhodesiense della tripanosomiasi africana, il Leptospira della leptospirosi, la Brucella della brucellosi, la Salmonella della salmonellosi, lo Schistosoma della schistosomiasi, la Amoeba della dissenteria amebica, il Treponema pertenue, proveniente da animali o carne decomposta, che causa la framboesia, la Borrelia che porta la borreliosi, e la Yersinia pestis.

E’ probabile che, se non esenti da malattie, i primi Homo sapiens fossero comunque poco colpiti da malattie infettive, e soffrissero prevalentemente di ferite, traumi e di infezioni croniche a bassa intensità della pelle e del tratto gastrointestinale, le uniche che potevano mantenersi attive in popolazioni numericamente esigue, o perché duravano a lungo (dissenteria amebica) o perché potevano alternarsi tra ospiti diversi (schistosomiasi).(25)

Certamente non soffrivano di infezioni acute come morbillo o varicella, infezioni virali che o uccidono o rendono immuni e necessitano quindi di grandi numeri per mantenersi attive. Inoltre la maggior parte dei gruppi umani erano sempre in movimento, quindi non esistevano quelle riserve di focolai infettivi tipici degli insediamenti stabili che sono le latrine, la spazzatura e gli allevamenti.

Un caso di studio: la malaria
L’analisi delle frequenze di alcune malattie a base genetica ha dato indizi molto importanti proprio sul fondamentale ruolo selettivo/evolutivo delle malattie infettive. L’esempio più studiato è certamente quello del rapporto tra disordini dell’emoglobina e la malaria, che mostra come nonostante i fattori stocastici impliciti nella trasmissione della malaria, il rischio di infezione dipenda in buona parte da fattori predeterminati a livello genetico. (26)

L’anemia falciforme risulta da una modificazione della subunità di tipo beta dell’emoglobina con formazione della emoglobina S (HbS) invece che la forma normale A (HbA). Negli omozigoti HbSS la HbS, quando viene ossidata, tende a precipitare e ad alterare la forma degli eritrociti, che divengono rigidi e distorti a falce (drepanociti), fragili, proni ad emolisi. I soggetti soffrono una elevata morbosità e mortalità, hanno aspettative di vita basse e raramente si riproducono.

L’allele modificato dovrebbe quindi essere estremamente raro o già scomparso, mentre si osservano frequenze molto elevate (più del 20%) nella fascia dell’Africa tropicale e frequenze meno elevate ma ancora superiori a quanto ci si aspetterebbe in Grecia, Turchia, India, Sicilia, ecc., mentre l’allele è assente in Nord America, Nord Europa, Australia.

Questa persistenza si potrebbe spiegare con una frequenza molto elevata di mutazione ricorrente, ma è più probabile che l’eterozigote HbAS abbia un vantaggio selettivo sugli individui “sani” HbAA. Questo vantaggio selettivo risulta evidente sovrapponendo le aree di persistenza dell’allele con quelle della distribuzione della malaria, aree che combaciano molto bene. Ed infatti si è scoperto che gli eterozigoti hanno ridotta prevalenza ed intensità della malaria rispetto agli omozigoti HbAA.

I parassiti della malaria (Plasmodium spp.) hanno più difficoltà a sopravvivere all’interno degli eritrociti anemici, probabilmente perché la loro azione pro-ossidante danneggia più facilmente l’eritrocita, causa una sua morte precoce e un rilascio di forme parassitarie immature che non sopravvivono all’esterno della cellula.

La stessa ipotesi di un vantaggio selettivo è stata avanzata anche per altre modificazioni patologiche dell’emoglobina, come alfa- e beta-talassemie, o per disfunzioni eritrocitarie, come ad esempio per il favismo, ovvero la deficienza dell’enzima Glucosio-6-fosfato deidrogenasi (G6PD). La deficienza di questo enzima chiave causa una reazione avversa a farmaci pro-ossidanti (l’emoglobina si ossida molto più facilmente, precipita e causa lisi dell’eritrocita) che si manifesta come una eccessiva distruzione di eritrociti. La ridotta capacità della cellula nel resistere allo stress ossidativo starebbe però alla base dell’effetto protettivo dalla mortalità da Plasmodium falciparum.

Come ha ben esposto Nina Etkin in un suo recente articolo la coscienza di questi legami evolutivi non è interessante solo dal punto di vista accademico, ma può funzionare come sapere applicato.(27) Comparare questi adattamenti biologici alla malaria agli adattamenti culturali, ad esempio la scelta delle piante medicinali o i comportamenti alimentari, ci può aiutare a spiegare perché tali adattamenti si siano presentati, e ci può aiutare a usare il dato etnobotanico come filtro per la ricerca di nuove piante utili.

L’autrice usa la pianta al momento più interessante per il trattamento della malaria, la Artemisia annua e la molecola artemisinina, mostrando come l’azione antimalarica derivi dal potenziale proossidante della molecola, che agisce sull’eritrocita e sul plasmodio, mimando in questo l’effetto di sensibilizzazione all’ossidazione delle anemie emolitiche.

L’autrice indica anche altri  comportamenti come probabili adattamenti culturali di fronte alla malaria, come la tradizione est africana di fermentare la birra in recipienti ferrosi. La birra così ottenuta sarebbe carica di ferro, un fattore chiave nei processi ossidativi che faciliterebbe la lesione ossidativa agli eritrociti.

L’espansione

Con l’espandersi verso le nuove aree temperate, H. erectus e le altre specie di Homo si lasciarono indietro (in Africa) tutte le malattie con vettori o ospiti intermediari speciali e specifici del continente (tripanosoma, arborvirus, ecc.), mentre il clima più mite riduceva il carico di patogeni; se a queste differenze sommiamo il disgelo seguito all’ultima glaciazione (10.000 anni fa), si spiega forse la crescita demografica e la conseguente aumentata necessità di cibo che spinse verso la domesticazione degli animali e verso l’agricoltura. (28)

In questo quadro assume particolare rilevanza sanitaria il fatto che queste popolazioni assumessero sempre una grande varietà di cibi vegetali, ricchi di una grande diversità di nutrienti e di tossine vegetali, responsabili, come vedremo più avanti, della riduzione delle infezioni enteriche. (29)

Sempre questo quadro suggerisce che fosse ancora assente la figura dell’esperto guaritore, dell’esperto di piante medicinali e di riti, e che la gestione della salute ed il trattamento della malattia (vista ancora come un evento che si originava all’esterno del corpo, biologico e sociale) fosse collettivo e non segreto, folklorico e comunque comprendente un complesso di terapie razionali, sia chirurgiche sia erboristiche, usate per curare malattie semplici (diarrea, costipazione, ferite, ecc.) più un uso di tonici primaverili o altro che forse apportavano nutrienti. (30)

Come si vedrà più avanti, la “scoperta” dell’agricoltura, con la possibilità di discriminare tra piante spontanee e piante coltivate, piante alimentari e piante medicinali, permette la individuazione di soggetti esperti e di conoscenze segrete, limitate agli esperti, esoteriche.

La conquista del mondo
I movimenti migratori che hanno portato H. sapiens a conquistare il mondo sono conosciuti nelle loro linee più generali.

Nell’arco temporale del “grande balzo in avanti”, dopo la conquista dell’Eurasia meridionale, H. sapiens arriva in Australia e Nuova Guinea (unite al tempo a causa della glaciazione) tra i 30.000 e i 40.000 anni fa (iniziando l’estinzione della megafauna australasiana), con quello che è stato probabilmente il primo utilizzo di imbarcazioni per superare grandi distanze (intorno agli 80 km). Circa 20.000 anni fa l’uomo conquista le terre fredde della Siberia, probabilmente contribuendo all’estinzione del Mammut e del rinoceronte lanoso. E’ probabile che solo le maggiori capacità di H. sapiens rispetto ad H. erectus e H. neanderthalensis abbiano permesso questo passaggio.

L’ultima grande massa continentale ad essere conquistata è stata l’America. Approfittando di favorevoli condizioni climatiche, è probabile che intorno a 12-000 anni fa i primi coloni siano arrivati in Alaska, e che nel giro di mille anni queste popolazioni siano arrivate in Patagonia. La Groenlandia dovrà aspettare il 2000 a.C. (31)

Se la parte principale della dieta di Homo sapiens arcaico era costituita dai vegetali (lo indicherebbero le strie dei denti comparabili a quelle dei vegetariani contemporanei, i cestini per la raccolta di vegetali nel tardo Paleolitico, i fitoliti indicanti uso di cereali, il rapporto Stronzio/Calcio delle ossa che si innalza nel Mesolitico), con il passare del tempo egli diviene sempre più attivo nel procacciarsi la carne, passando da scavenger passivo a scavenger attivo e cacciatore, e gli strumenti, specie quelli utilizzati per la macellazione delle carcasse animali, si fanno più sofisticati a mano a mano che cresce la competizione con i grossi carnivori.

Certamente l’utilizzo più massiccio della carne come alimento energetico facilita l’apporto di principi nutritivi atti a sostenere l’encefalizzazione e quindi l’ominazione.

A questo periodo risalgono altri importanti ritrovamenti di indizi sull’uso delle piante da parte dell’uomo. I resti trovati nei siti Neolitici degli abitanti dei laghi dell’Europa centrale indicano coltivazione o raccolta di ca. 200 specie diverse di piante (ad es. papavero da oppio, Papaverum somniferum L. — Papaveraceae).

Il maggior consumo di cibi ad elevata densità e d’origine animale ha probabilmente migliorato lo status nutrizionale di Homo sapiens ma ha anche cambiato il suo rapporto con foglie e composti allelopatici, ed è probabile che questi cambiamenti abbiano avuto un effetto sull’equilibrio tra status nutritivo, organismi patogeni e proprietà positive e negative dei composti attivi. Il cambiamento di dieta, infatti, potrebbe aver reso da un lato meno necessario l’utilizzo di foglie (energeticamente povere) e dall’altro aver reso possibile un loro consumo più elevato in caso di necessità (perché un organismo ben nutrito detossifica più facilmente gli xenobiotici, ovvero i composti chimici farmacologicamente attivi esogeni introdotti con la dieta).

Forse è qui, con lo sganciamento parziale dell’uomo dalla necessità di ingerire piante tossiche, e con l’inizio del lungo processo che avrebbe portato alla domesticazione di alcune piante, che si ha per la prima volta la possibilità di parlare di medicina e non solo di comportamenti di automedicazione. Perché il disaccoppiamento della frazione nutritiva da quella tossica permette di individuare due soggetti fino a questo momento fortemente sovrapposti: le piante alimentari e le piante medicinali, ed è possibile ingerire, coscientemente, composti allelopatici a scopo curativo.

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Note

23. Guegan J-F, Prugnolle F, Thomas F (2008) “Global spatial patterns of infectuous diseases and human evolution”. In S.C. Stearns & J.C. Koella (eds.) Evolution in Health and Disease. Second Edition. Oxford University Press

24. Kiple K.F. “The ecology of disease”. in W.F. Bynum e R. Porter 1993 op. cit. pp. 357-381. Anche se la presenza di asce e coltelli di pietra e di segni da taglio sui denti indicano un utilizzo di carne, le strie sui denti e la loro qualità estremamente simile a quelle dei vegetariani odierni indica una dieta prevalentemente vegetariana (Consiglio e Siani 2003 op. cit. )

25. In mancanza di dati archeologici, la fonte più importante di inferenze sul passato sono le condizioni di vita odierne delle ultime popolazioni di cacciatori raccoglitori; essi sono ben nutriti rispetto ai vicini coltivatori, e di solito in salute (Vickers W.T. “The health significance of wild plants for the Siona and Secoya”. In Etkin, N.L. (Ed.), 1994 op. cit. pp. 143-165), ed i loro problemi parassitari ed infettivi sono probabilmente in equilibrio con la popolazione (Kiple 1993 op. cit. ).

26. Ma, come hanno mostrato Mackinnon MJ, Mwangi TW, Snow RW, Marsh K, Williams TN (2005) “Heritability of malaria in Africa”. PLoS Med 2(12): e340,  i fattori genetici dell’ospite sembrano contare per il 25-33% della variabilità totale nella suscettibilità, e solo una piccola percentuale di questa variazione sembra legata ai geni più conosciuti e studiati, rafforzando l’ipotesi che la suscettibilità alla malaria sia sotto il controllo di molti geni differenti, e di fattori non genetici sempre predeterminati, che si articolano in maniera complessa con i fattori genetici.

27. Etkin, N (2003) “The co-evolution of people, plants, and parasites: biological and cultural adaptations to malaria”. Proceedings of the Nutrition Society, 62:311-317

28. Diamond 1997 op. cit.

29.  Johns 1990 op. cit.;  Vickers 1994 op. cit. ; Kiple 1993 op. cit.

30. Anche in questo caso ci si rifa ai agli studi effettuati sulle ultime popolazioni di cacciatori raccoglitori, che utilizzano rimedi per molti problemi: ferite, fratture, slogature, dolore, problemi di pelle, febbre, raffreddore, tosse, diarrea, mal di testa, ecc. Le piante venivano e vengono consumate come infusi, forse ancora prima come pianta fresca o secca ingerita tal quale.

31. Diamond 1997 op. cit.

Uomo e piante 3/dimoltialtri

Rieccoci qui alla serie Uomo e piante. Dopo un post introduttivo ed uno che esaminava in breve l’evoluzione delle piante dal punto di vista dei loro composti di difesa, nella terza installazione iniziamo a parlare dell’evoluzione umana in relazione in particolare alla dieta.

I primi passi dell’uomo
E’ fuor di dubbio che l’origine dell’uomo sia da ricercarsi in Africa, e che dall’Africa esso abbia poi colonizzato il resto del mondo. (5)

I dati genetici e paleontologici indicano infatti che l’antenato comune a uomini e scimpanzè viveva probabilmente nelle foreste pluviali dell’Africa centrale nutrendosi principalmente di frutta, più raramente di altre parti vegetali ed occasionalmente di carne.

Le prime specie di primati della tribù Hominini comparvero quasi sicuramente in Tanzania ed in Etiopia intorno a 6-7 milioni di anni fa, (6) e le varie specie di australopitecine (divise in “robuste” e “gracili”) si diversificarono intorno ai 4 milioni di anni fa.

Alcune di queste specie (almeno due  delle “robuste”), vissero fino ad essere contemporanee ad Homo habilis, sulla costa orientale africana dall’Etiopia al Sud Africa, in habitat sia di foresta che di savana. La loro alimentazione fu prevalentemente vegetariana, probabilmente dominata dalle foglie, per almeno tre milioni di anni, finché non si estinsero circa un milione di anni fa.(7)

Tra i 3 ed i 2 milioni di anni fa un importante cambiamento climatico e vegetazionale portò ad una progressiva estensione dei territori a savana a scapito della copertura forestale, ad una riduzione nella disponibilità dei frutti molli tipici delle foreste e ad un aumento di legumi e frutti duri, di piante erbacee e della possibilità da parte degli Ominidi di cacciare grandi erbivori.

E’ in questo contesto che si situa la comparsa del primo rappresentante del genere umano, Homo habilis, bipede abile costruttore di utensili ma dalla scatola cranica ancora piccola. Sempre in questo lasso di tempo si situa la iniziale diversificazione di Homo, che corrisponde anche al momento di maggior diversità nel genere, per il momento limitato all’Africa. E’ stato ipotizzato, infatti, che in quel periodo abbiano convissuto in Africa fino a sei specie di Ominidi, comprese tre del genere Homo (H. habilis, H. rudolfensis e H. ergaster).(8)

Il cambiamento climatico e la maggior disponibilità di erbivori di grande taglia determinò probabilmente la dieta maggiormente basata sulla carne di H. abilis (fino al 30%), che però è improbabile fosse un cacciatore attivo, ma piuttosto uno spazzino passivo, dipendente per il suo sostentamento dall’attività dei grandi carnivori come le tigri dai denti a sciabola.(9)

I dati archeologici sulla dieta degli ominidi mostrerebbero che fin da subito Homo divenne il maggior competitore delle australopitecine, a causa della sovrapposizione delle risorse alimentari dei due gruppi, specialmente per quanto riguarda le specie vegetali utilizzate. E’ possibile che in caso di difficoltà nel reperire carne gli Homo si volgessero verso cibi di riserva vegetali, entrando in forte competizione con le australopitecine, le quali avrebbero dovuto a loro volta fare affidamento su altre fonti di cibo, facili da reperire o difficili per Homo da sfruttare.

La scomparsa delle forme di Homo di statura ridotta circa 1.6 milioni di anni fa, e l’estinzione delle forme robuste delle australopitecine (dopo l’aumento progressivo delle dimensioni dei loro molari) indicherebbero che queste strategie di utilizzo degli alimenti di riserva non potevano essere mantenute facilmente di fronte ad una aumentata efficacia come cacciatori degli Homo di grandi dimensioni. (10)

E’ possibile ipotizzare che fin da questo periodo le piante ed i metaboliti contenuti in esse abbiano giocato un ruolo nell’evoluzione degli Ominidi. Secondo alcuni ricercatori il cambiamento climatico avrebbe forzato i primati, ed in particolare le femmine, ad adattarsi ad un ambiente caratterizzato da momenti di abbondanza e da altri di relativa carestia, e da un aumentato carico di metaboliti secondari.

Parte dell’adattamento potrebbe essere stato la maggior facilità di stoccare il surplus di energia sotto forma di depositi adiposi da sfruttare nei momenti di bisogno, una caratteristica che distingue nettamente gli esseri umani dagli altri primati, a parte l’orangutang, il quale vive anch’esso passaggi drammatici da abbondanza a carestia nelle foreste del Borneo.

Un altro adattamento fu forse la ricerca di nuove fonti di cibo meno tossiche e più diversificate. Secondo alcuni autori questi cambiamenti potrebbero aver segnato uno dei passaggi critici nell’evoluzione degli Homo.(11) Nuove strategie alimentari che permettessero un flusso di nutrienti più continuo durante l’anno, e l’aumentata capacità di stoccaggio potrebbero essere stati critici per l’evoluzione del cervello per almeno due ragioni strettamente collegate: la prima è che la strategia di ricerca allargata a nuovi habitat e verso molteplici fonti di cibo necessita di un cervello più plastico, potente e quindi più grande di quello di un animale che usi poche fonti di cibo; la seconda che un cervello più grande è metabolicamente molto costoso da produrre nella gestazione e da mantenere  durante la vita extrauterina, ed ha bisogno di fonti stabili di energia.(12)

E’ possibile che l’abilità di stoccare energia in maniera più efficiente, nata per rispondere ai momenti di carestia, abbia funzionato, una volta che lo sfruttamento di nuovi habitat avesse permesso un flusso di nutrienti stabile nel tempo, da esaptazione (o preadattamento) per l’abilità delle femmine di gestire la maggior crescita cerebrale del feto durante la gravidanza rispetto ad altri mammiferi, condizione che è stata definita come uno stato di “carestia accelerata” per la donna. (13)

Secondo le teorie delle migrazioni umane che hanno più supporto empirico, (14) le popolazioni originali di H. ergaster (H. erectus africanus – la specie che seguì a Homo habilis), dalle loro probabili zone di origine nella Rift Valley, si sarebbero espanse in una prima ondata prima, tra 1,5 e 1.2 milioni di anni fa, nel continente africano verso sud (Pigmei e Khoisan), verso ovest (odierni Niger e Congo) e nord, passando poi in Asia attraverso la penisola del Sinai circa 1.2 milioni di anni fa e da lì in Europa 500.000 anni fa, dove si sarebbero insediate ed evolute fino a dare origine ad una nuova specie, Homo neanderthalensis, che aveva con tutta probabilità una dieta del tutto simile a Homo erectus, ovvero fortemente carnea, in particolare a base di erbivori.(15)

Mentre in Europa faceva la sua comparsa il Neandertal, in Africa, da una piccola popolazione geograficamente separata dallo stock di H. erectus africano (H. ergaster), si sarebbe originato, meno di 200.000 anni fa, il primo nucleo di Homo sapiens (H. sapiens arcaico), che avrebbe poi iniziato a migrare verso le zone già occupate da H. erectus e H. neanderthalensis ca. 100.000 anni fa.(16)

E’ quindi ipotizzabile che tra i 50 ed i 35.000 anni fa tre specie di Homo convivessero sulla terra: H. neanderthalensis come discendente di Homo erectus in Europa, Homo erectus in Asia, e Homo sapiens nel suo continuo movimento espansionistico dall’Africa al resto del globo. Secondo la stessa logica è ipotizzabile che H. sapiens e H. neanderthalensis abbiano condiviso i territori in Europa, e forse che si siano mescolati.(17)

La dieta

Un passaggio decisivo per l’evoluzione della dieta degli ominidi fu certamente l’utilizzo del fuoco per la cottura del cibo, che con tutta probabilità appare come attività intorno a 400.000 anni fa. La cottura presentava indubbiamente dei grandi vantaggi per gli ominidi: essa infatti trasforma alcuni cibi prima indigeribili in cibi commestibili; facilita l’utilizzo dell’energia contenuta nei cibi riducendo il dispendio energetico digestivo; riduce il consumo dei denti. Inoltre un recente studio mostra che con tutta probabilità gli ominidi avevano già sviluppato una preferenza per i cibi cotti, preferenza forse spiegabile con la somiglianza tra i segnali molecolari provenienti dal cibo cotto e i segnali molecolari che aiutano l’ominide a distinguere tra cibi “buoni” e cibi “cattivi”.(18)

L’utilizzo del fuoco potrebbe aver facilitato i raccoglitori africani del Pleistocene nello sfruttamento di radici, tuberi e noci, che secondo la received view erano le risorse vegetali più importanti di Homo intorno a 100.000 anni fa, anche se l’ipotesi che la raccolta dei cereali in Africa fosse tecnicamente troppo difficile e quindi irrilevante rispetto alla raccolta delle radici, viene messa in discussione dai recenti dati provenienti dagli scavi nella caverna di Ngalue (odierno Monzambico).
Gli scavi mostrano una presenza importante di grani di amido di sorgo ed altre erbacee, suggerendo che almeno 105.000 anni fa Homo sapiens raccogliesse i semi delle graminacee per la sua sussistenza. (19)  Questa conclusione sembrerebbe supportata dallo studio sugli strumenti del sito di Kanjera in Kenya, che mostrerebbero segni inequivocabili di utilizzo per la processazione di piante erbacee (oltre che per l’apertura di noci, la pulitura di radici e il disossamento di carcasse di animali).(20)

Si situa in questo contesto temporale la prima testimonianza a noi pervenuta dell’utilizzo di piante medicinali da parte dell’uomo (di Neandertal, in questo caso). In una tomba risalente al 60.000 a.C., presso il sito archeologico Shanidar IV (in Iraq), sono stati ritrovati pollini raggruppati in maniera tale da suggerire che le piante dalle quali provenivano formassero un tappeto per il corpo del deceduto. Nonostante sia impossibile essere certi che fossero piante usate a scopo medicinale, o comunque importanti per la cultura di Shanidar IV, la maggior parte degli autori concorda con questa ipotesi. Le piante sono state identificate come appartenenti ai generi Achillea sp. [Asteraceae], Althaea sp. [Malvaceae], Muscari sp. [Liliaceae/Hyacinthaceae], Senecio sp. [Asteraceae], e alle specie Centaurea solstitialis L. [Asteraceae] ed Ephedra altissima [Ephedraceae], piante tuttora importanti nella fitoterapia irachena e presenti in altre tradizioni mediche.(21)

Muscari armeniacum

Centaurea sostitialis

Ephedra altissima

Il grande balzo

Proprio la presenza contemporanea dell’uomo di Neandertal e dei primi esemplari di Homo sapiens (Cro-Magnon) tra i 50.000 e i 35.00 anni fa in Europa coincise con due grandi eventi, uno di tipo culturale ed uno di tipo climatico.  Circa 50.000 anni fa si ha testimonianza, in Asia orientale prima e di seguito nel Vicino Oriente ed in Europa sud orientale, di un periodo di grande progresso tecnologico e comportamentale (la cosiddetta “rivoluzione umana” o “il grande balzo in avanti”).

Cambiamenti paragonabili sono avvenuti all’incirca nel periodo dell’arrivo degli Homo moderni in Europa, 40.000 anni fa, testimoniati tra e altre cose dai graffiti della grotta di Lascaux, nell’odierna Francia. In effetti in questo periodo (Paleolitico superiore) si osserva un avanzamento nella complessità tecnologica, artistica e rituale molto maggiore di quanto osservato nei periodi precedenti, come ad esempio l’uso di strumenti a lama specializzati, l’apparire dell’arte, del simbolismo, la comparsa di siti di sepoltura umana accompagnati da ornamenti complessi in osso, corno, conchiglie o oggetti d’avorio.(22)

Nello stesso periodo ci fu l’inizio delle grandi instabilità e fluttuazioni del clima dell’era glaciale, con il passaggio da climi temperati a climi estremamente rigidi e viceversa, e questi mutamenti continuarono a verificarsi alternativamente a distanza di poche migliaia di anni. In Europa questi cambiamento erano legati all’inversione della circolazione oceanica nel Nord Atlantico e potevano congelare e scongelare l’Atlantico in meno di una decade. Quindi è del tutto possibile che nell’arco della vita di un Neandertal e di un Cro-Magnon, il clima e l’ambiente animale e vegetale a cui erano abituati fosse spazzato via e sostituito da climi, specie animali e vegetali del tutto nuovi. Quando le colonie di Cro-Magnon iniziarono a convivere con i Neandertaliani, il cambiamento climatico potrebbe aver favorito i primi, che forse avevano dei vantaggi quali una rete sociale più ampia e solida, abiti e ripari più efficienti, e alla fine ciò potrebbe aver portato alla scomparsa dei Neandertal.

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Note

1. Tattersall I., Schwartz J. Extinct humans. Boulder CO; Westview Press, 2000; Johanson D., Edgar B. From Lucy to language. NY; Simon & Schuster, 1996.

2. Crowe, I (2005) “The Hunter-Gatherers”, in G. Price (ed.) The Cultural History of Plants. Routledge, New York, pp. 3-11

3. Crowe 2005 op. cit.

4. Secondo Tutin (Tutin C (1992) “Foraging profiles of sympatric lowland gorillas and chimpanzees on the Lopé game reserve, Gabon”. In E.M. Widdowson and A. Whiten (eds.) Foraging Strategies and Natural Diet of Monkeys, Apes and Humans. Oxford, Clarendon Press) è probabile che la frugivoria sia stato il primo stadio di adattamento (anche primati oggi tipicamente foliovori (come i gorilla) sarebbero comunque passati dallo stadio di frugivoria), ed il più plastico. La foliovoria sarebbe infatti in cul-de-sac evolutivo che costringe l’animale a sviluppare una flora batterica gastrica o intestinale per fermentare le fibre delle foglie e renderle assorbibili. Una volta sviluppata tale flora l’animale sarebbe comunque costretto ad alimentarsi in parte con foglie anche in periodi di abbondanza di frutti, solo per mantenere attiva la flora.

5. Diamond, J. Guns, germs, and steel: The fates of human societies. W.W. Norton & Co., 1997; Ed. italiana Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Torino, Einaudi 2000; Dawkins R. Il racconto dell’antenato. La grande storia dell’evoluzione. Mondadori, Milano, 2006; Filler A.G. (2007) “Homeotic evolution in the Mammalia: Diversification of therian axial seriation and the morphogenetic basis of human origins”. PLoS ONE 2(10): e1019. doi:10.1371/journal.pone.0001019

6. I resti di Sahelanthropus tchadensis e poi di Orrorin tugenensis si situano intorno a quell’area temporale, e poco più tardi appaiono i primi resti di Ardipithecus ramidus (5.8 milioni di anni fa) e di Kenyanthropus platyops (3.5 milioni di anni fa).

7. Gli australopitecini, differenziati in molte specie, spesso contemporanee, comprendevano almeno tre di tipo “robusto (Australopithecus aethiopicus – 2.6-2.3 milioni di anni fa; A. robustus – 2-1.5 milioni di anni fa; A. boisei – 2.1-1.1 milioni di anni fa). e tre più “gracili” (A. anamensis (4.2-3.9 milioni di anni fa), A. afariensis (3.9-3.0 milioni di anni fa), A. africanus (3-2 milioni di anni fa). Gli australopitecini robusti (per i quali alcuni autori usano ora il termine Parantrhopus perché ritengono che appartengano ad un clade unico) molto probabilmente non sono diretti antenati dell’uomo moderno, ma appartengono ad un ramo laterale del cespuglio evolutivo. Quelli più “gracili” sono invece probabilmente i nostri progenitori diretti (Gould, S.J. The structure of evolutionary theory. Belknap Press, 2002).  Rispetto agli ominidi che li avevano preceduti gli australopitecini in genere mostravano una dentatura più adatta ai cibi duri, per i quali era necessario passare da funzioni di taglio ed affettatura (tipiche dei cibi morbidi) a schiacciamento e triturazione, e ad una masticazione circolare. I denti erano situati sotto e non davanti al cranio (con riduzione quindi del prognatismo, una riduzione che si è mantenuta sino a noi), canini ridotti e cuspidi arrotondate e basse. D’altro canto secondo alcuni autori la presenza di incisivi piccoli sarebbe più indicativa di foliovorìa che di frugivorìa (Consiglio, C. e Siani V.  Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri, 2003). Consiglio e Siani stimano una percentuale dal 2 al 5%), foliovora e/o frugivora. L’ambiente forniva ampie possibilità di alimentarsi con noci (A. africanus usava ciottoli per romperle), bacche e legumi della savana, e foglie e frutti carnosi reperibili nella foresta. Più ambigui i dati sui robusti. Gli studi sulla chimica delle ossa effettuati sui fossili sono compatibili sia con una dieta prevalentemente foliovora sia con una ricca in radici e carne. La dentatura indica che erano più adatti dei gracili a mangiare cibi duri (sia che ne mangiassero maggiori quantità, sia che il cibo fosse più duro). Secondo Consiglio e Siani 2003 op. cit.  A. robustus e A. boisei potevano usare frutti di alberi della savana come Parinari excelsa, P. curattellifolia, Sclerocarya birdea, Ricinodendron rataneeni.  Da questi dati si presume una dieta prevalentemente vegetariana, foliovora e adatta a semi duri tipici delle piante della savana.

8. Gould 2002 op. cit.

9. La carnivoria sembrerebbe comprovata da vari dati, come la riduzione dello smalto dei denti, i cumuli di ossa ritrovate nei siti abitativi, i segni di arnesi da taglio su denti e sulle ossa, e le tracce indicative di alimentazione a base di pesce. E’ ipotizzabile che si fosse creata una nuova nicchia ecologica per H. abilis come spazzino delle carcasse lasciate dai carnivori meno specializzati, come la tigre dai denti a sciabola del Pliocene e Pleistocene. Può darsi che esso fosse principalmente uno spazzino passivo che si nutriva delle ossa e del loro midollo, battendo sul tempo i carnivori specializzati nell’utilizzo delle ossa. Comunque sia, la dieta conteneva carne come componente importante, ma certamente non maggioritaria (si valuta intorno al 30%). Con la scomparsa delle tigri dai denti a sciabola dall’Africa (1.7 milioni di anni fa) H. habilis ha con tutta probabilità dovuto diventare uno spazzino più attivo, che doveva competere con spazzini molto più specializzati ai quali doveva contendere i resti; alcuni autori hanno collegato questo cambiamento di modalità con l’aumento di statura che si nota nel passaggio tra H. habils e H. erectus (i cui fossili africani sono stati chiamati Homo ergaster).

10. cfr. Wood and Lieberman 2001 e Ungar PS, Grine FE, Teaford MF (2008) “Dental Microwear and Diet of the Plio-Pleistocene Hominin Paranthropus boisei“. PLoS ONE 3(4): e2044

11. Mancando, come sempre in questo caso, prove dirette di quando sia accaduto, dobbiamo avvalerci sono di dati indiretti, di inferenze. Uno studio sui lemuri del Madagascar (L. cattia) (Sauther M.L. “Wild plant use by pregnant and lactating ringtailed lemurs, with implications for early hominid foraging”. In N.L. Etkin (Ed.) 1994 op. cit. pp. 240-258). I lemuri sono un tipo di proscimmia sociale diurna che abita la foresta fluviale a mosaico del Madagascar, e l’analisi dei suoi comportamenti alimentari può essere utile per intuire alcuni passaggi cruciali che hanno portato alla divergenza dei primi ominidi. Il risultato degli studi suggerisce che un avanzamento critico che ha differenziato i preominidi dalle altre specie di primati sia stato lo sviluppo di comportamenti volti ad aumentare la possibilità di sfruttamento delle risorse ambientali. Dati i cambiamenti climatici, che hanno causato una modificazione dell’ambiente nella direzione di una bioregione di savana-mosaico, gli ominidi africani per avere successo devono avere imparato a sfruttare nuove nicchie ecologiche. Dato che le femmine incinte o che allattano sono comunque soggette, rispetto ai maschi, a maggiori restrizioni alimentari (devono evitare cibi con eccessive quantità di metaboliti tossici) e ad elevati costi (devono spostarsi di più per ricercare il cibo), è ipotizzabile che da loro sia partita la spinta alla ricerca di nuove nicchie, di nuovo strumenti per avere disponibilità di cibo tutto l’anno.

12.  Johns 1990 op. cit.

13. Ellison P.T. On fertile ground: A natural history of human reproduction. Harvard University Press, Cambridge, USA, 2001, pp. 289-294

14. Il modello della “origine africana recente” o “della sostituzione”. Cfr. White T.D., Asfaw B., DeGusta D., Gilbert H., Richards G.D., Suwa G. et al. (2003) “Pleistocene Homo sapiens from Middle Awash, Ethiopia”. Nature, 423:742-7; Stringer C.B. (2003) “Out of Ethiopia” Nature, 423:692-4; Stringer, C. (2001) “The evolution of modern humans: where are we now?” General Anthropology 7 (2): 1-5

15. I dati sulla riduzione dello smalto e della area masticatoria, i segni di coltello su ossa e denti, la presenza di strumenti da taglio come asce e coltelli di pietra, sono consistenti con un aumento della quantità di carne nella dieta di H. erectus, e che forse fosse passato ad un ruolo di scavenger più attivo (statura più elevata). La carne era quindi probabilmente una componente importante, secondo Consiglio e Siani 2003 op. cit. da situarsi in media intorno al 30% e non più del 50%. La dieta delle popolazioni insediatesi vicino a laghi, mari e corsi d’acqua era anche molto ricca in pesce. Gli scavi presso il sito di Gesher Benot Ya’aqov, sulle rive del paleo-lago Hula nel nord della Valle del Giordano, nel Rift del Mar Morto, risalgono a 790.000 anni fa, e indicano che la popolazione faceva ampio utilizzo di granchi e soprattutto pesce. Gli stessi scavi hanno consentito di verificare quali piante venissero utilizzate ed in parte anche a che scopo. Tra le piante usate a scopo non alimentare troviamo olivo, quercia, Styrax officinalis, mentre tra quelle alimentari figurano le ghiande di quercia (detossificate probabilmente tramite cottura e forse geofagia), i semi della Euryale ferox e soprattutto i frutti della Trapa natans, molto nutrienti grazie alla percentuale di amido in essi contenuta. E’ possibile che fossero consumati anche i frutti della vite selvatica (Vitis sylvestris) e dell’olivo, come anche le foglie della rapa bianca (Beta vulgaris) e del cardo mariano (Silybum marianum) (Alperson-Afil N, Sharon G, Kislev M, Melamed Y, Zohar I, Ashkenazi S, Rabinovich R, Biton R, Werker E, Hartman G, Feibel C, Goren-Inbar N. (2009) “Spatial Organization of Hominin Activities at Gesher Benot Ya’aqov, Israel”. Science 326:1677-1680)

16. Secondo una teoria alternativa, il modello multiregionale (o modello a candelabro), le tre sottopopolazioni di H. erectus migrate in Africa, Asia ed Europa si sarebbero evolute parallelamente ed indipendentemente per dare origine a Homo sapiens in tutta la sua diversità.  Stringer 2003 op. cit. propone una teoria ancora differente, secondo la quale vi sono stati vari eventi di dispersione nell’evoluzione umana negli ultimi due milioni di anni uno, particolarmente importante, sarebbe avvenuto nel Pleistocene Medio di Africa ed Europa, più di 600.000 anni fa, con l’origine e la dispersione di Homo heidelbergensis. Secondo Stringer 2003 op. cit. questa specie vide di seguito un graduale evento di speciazione circa 300.000 anni fa, dando origine a Homo sapiens neanderthalensis (o H. neandertalensis – Neandertal) al nord del Mediterraneo ed a Homo sapiens arcaico al sud, in Africa. Nel frattempo ad est continuava l’evoluzione di Homo erectus, in Cina e Giava. Queste due linee evolutive possono esseresi incontrate in aree di sovrapposizione, come ad esempio in Medio Oriente, circa 100.000 anni fa, ed in Europa 35.000 anni fa.

17. Altri autori ipotizzano modelli misti, nei quali la componente della seconda ondata migratoria si sia ibridata in parte con alcune spp. della prima ondata, come Homo neanderthalensis, cfr. Duarte C., Mauricio J., Pettitt P.B., Souto P., Trinkaus E., van der Plicht H. et al. (1999) “The early upper Paleolithic human skeleton from the Abrigo do Lagar Velho (Portugal) and modern human emergence in Iberna”. Proceedings of the National Academy of Sciences, USA, 96:7604-9.

18. Wobber V, Hare B, Wrangham R. (2008) “Great apes prefer cooked food”. J Hum Evol 55:340-348

19. Mercader J. (2009) “Mozambican grass seed consumption during the Middle Stone Age”. Science 326:1680-1683).
20. Braun DR, Plummer T, Ditchfield P, Ferraro JV, Maina D, Bishop LC, Potts R. (2008) “Oldowan behavior and raw material transport: perspectives from the Kanjera Formation”. J Archaeol Sci 35:2329-2345

21. Lietava, J. 1992 “Medicinal plants in a Middle Paleolithic grave. Shanidar IV” Journal of Ethnopharmacology 35:263-266; Leroi-Gourhan A. (1975) “The flower found with Shaidar IV, a Neandrethal burial in Iraq”. Science. 190:562-564; Solecki R.S. (1975) “Shanidar IV, a Neanderthal flower burial in Northen Iraq”. Science. 190:880-881. Per una opinione contraria sul ruolo delle piante nei riti di sepoltura di Shanidar IV, cfr, Sommer J.D. (1999) “The Shanidar IV ‘flower burial’: a re-evaluation of Neanderthal burial ritual”. Cambridge Archeological Journal 9(1):127-137

22. Diamond 1997 op. cit.

Uomo e piante 1/dimoltialtri

Uomo e piante

Devo soccombere alla realtà dei fatti, la sintesi non è nelle mie carte, e i post brevi ed illuminanti nemmeno :-).

Cerco di allora di illudermi con la sistematicità, ma  tendo a soccombere alla tendenza al dettaglio. Ecco quindi che mi ci è voluto un po’ per capire che dovevo pur iniziare a buttare fuori questi post dedicati al rapporto tra uomo e piante, anche se non tutti i link sono a posto ecc.

Spero nella benevolenza di chi leggerà, ed anche nelle loro indicazioni e suggerimenti per il miglioramento di quella che nelle intenzioni sarebbe una lunga serie di post.

Questo è anche un modo per trovare il tempo per rivedere le monografie di Infoerbe a poco a poco, con la scusa di linkarle qui.

Un dato incontrovertibile, ma velato dal tempo trascorso e dalla consuetudine, che serve ad inquadrare la discussione che seguirà, è l’esistenza di una relazione speciale che lega le piante all’uomo dagli albori della cultura umana e da prima ancora. Pochi sono gli aspetti della vita dell’uomo nei quali le piante non abbiano giocato in qualche epoca un ruolo importante, addirittura determinante. Allo stesso tempo le piante, in una sorta di viaggio coevolutivo, sono cambiate con l’uomo, sino a diventare in parte dei costrutti culturali.

Le piante forniscono materiale per costruire edifici, templi, vascelli; resine per impermeabilizzare i vascelli, da bruciare nei templi per onorare gli dei, da mescolare al cibo. Dalle piante si modellano strumenti, oggetti sacri ed artistici, fibre per costruire corde, tessuti da indossare e pigmenti per colorarli e per dipingere la storia dell’uomo. Le piante hanno fornito i primi inebrianti usati nei riti magico-religiosi ed i primi veleni usati nella caccia o nelle ordalie, ed entrano nei miti come “oggetti spirituali”, portatori di relazioni simboliche dell’uomo con il mondo naturale e supernaturale. Alcune piante hanno determinato il corso della storia economica e culturale fino a tempi molto recenti, come nel caso delle spezie e delle vie commerciali che furono aperte per assicurarsi il loro monopolio. (1)

Le piante, per finire, (come verrà ampiamente esposto più avanti) sono state per la maggior parte della storia umana la principale fonte di nutrimento, e la fonte più importante di farmaci in tutte le tradizioni mediche antiche ed in certa misura anche nella medicina moderna.

Per citare alcuni esempi a questo riguardo, nella più antica farmacopea occidentale che ci sia arrivata nella sua interezza, il Περὶ ὕληϛ ἰατρικῆϛ (De Materia Medica) di Pedanio Dioscoride (scritto ca. 50-68 d. C.), l’autore elenca circa 725 rimedi, dei quali più di 600 sono di origine vegetale (82-83%), 35 di origine animale (4.7-4.8%) e 90 sono minerali (12.2-12.4%);(2) nella Naturalis Historia (Storia Naturale) di Plinio il Vecchio, compilato nello stesso periodo o poco dopo, su 1693 sostanze medicamentose menzionate, 1391 (82%) sono sostanze di origine vegetale (delle quali 119 spezie o piante aromatiche), 218 (13%) sono sostanze animali e 84 (5%) sono dei minerali.(3)

Nella farmacopea cinese antica le percentuali sono simili: nello Shennong bencao jing (ca. 100 d. C.) su 365 droghe 246 (68%) sono di origine vegetale (i minerali costituiscono lo 11.5% e gli animali il 18.3%); nella raccolta del 659 d.C., il Hsin hsiu pent’sao, la percentuale di rimedi vegetali è del 64% e nel Takuan pent’sao (del 1108 d.C.) del 67.7%.

Nel Caraka Samhita, uno dei due testi più antichi della tradizione medica ayurvedica, si citano 582 rimedi, dei quali 341 (ca. 60%) di origine vegetale.(4)

Per quanto riguarda la farmacopea moderna, secondo Guerci e Lugli: “in un laboratorio farmaceutico medio oltre il 60% dei farmaci provengono, direttamente o indirettamente, dalle piante” e “un quarto delle prescrizioni rilasciate negli stati uniti d’America contiene principi attivi estratti da piante” (per una descrizione più dettagliata ed esaustiva del rapporto tra farmaci prodotti e farmaci legati in maniera più o meno diretta al mondo vegetale vedi il post di Meristemi).(5)

Alcuni di questi farmaci sono tra i più conosciuti ed utilizzati: morfina dal papavero da oppio [Papaver somniferum L. — Papaveraceae], chinino da Cinchona spp. [Rubiaceae], aspirina dalla corteccia di salice [Salix spp. — Salicaceae] e dalla regina dei prati [Filipendula ulmaria (L.) Maxim. — Rosaceae], digossina dalla digitale [Digitalis purpurea L. — Scrophulariaceae], taxolo dal tasso [Taxus brevifolia Nutt. — Taxaceae], vinblastina da Vinca [Catharanthus roseus (L.) G.Don f. — Apocinaceae].

Cibo, farmaco, uomo
Nelle società industrializzate la percezione comune individua i farmaci sia dalla loro forma (pillole o compresse, composti chimici assunti a dosi molto ridotte, nell’ordine dei micro/milligrammi), sia dalla loro funzione (hanno attività farmacologica spiccata, riducono o eliminano sintomi, curano malattie), mentre i cibi sono sostanze consumate solitamente in quantità molto maggiori e che normalmente non esercitano attività farmacologica ai dosaggi tipici dei farmaci, e neppure a quelli alimentari.

In pratica, però, nonostante l’apparenza, la distinzione tra ciò che è farmaco e ciò che è alimento non è così netta, anzi offre molti spazi di sovrapposizione, e le definizioni sono spesso normative e culturali oltre che oggettive. Le piante in particolare possono offrirci vari esempi

Le piante possono infatti essere usate sia come medicina sia come cibo, ed è difficile tracciare una separazione netta tra queste due aree: il cibo può essere medicina e viceversa. Le risorse vegetali nelle società tradizionali, in particolare le verdure selvatiche, sono spesso utilizzate contemporaneamente in diversi contesti come cibo e come medicina. La raccolta o la coltivazione, la preparazione ed il consumo di tali specie sono radicate nelle percezioni emiche (NdT: riferite al punto di vista, alle credenze, ai valori dell’attore sociale ottica) degli ambienti naturali associati alle risorse disponibili, alla cucina e alla pratica medica locale, all’apprezzamento del gusto e tradizioni culturali.(6)

Un esempio classico di questa ambiguità sono le spezie, che costituiscono un gruppo di piante anche oggi utilizzato a scopo alimentare, sempre in quantità molto ridotte; esse sono state tra le prime piante non strettamente alimentari ad essere coltivate (come ad esempio zenzero [Zingiber officinale Willd. Roscoe — Zingiberaceae] e canna da zucchero [Saccharum officinarum L. — Poaceae ], tra le prime cultivar conosciute) e tra le prime ad essere riconosciute dall’uomo come medicinali (dato suffragato dalle moderne ricerche farmacologiche – antisettica, digestiva, antispasmodica ed altre estremamente interessanti).

Tra le spezie meritano una menzione particolare due piante, l’aglio [Allium sativum L. — Alliaceae] e la curcuma [Curcuma longa L.– Zigiberaceae], perché sono due piante che nei loro rispettivi contesti geografici sono piante alimentari comunissime ed allo stesso tempo con una decisa attività di prevenzione e di trattamento delle malattie.(7)

Il caffè [Coffea arabica L.– Rubiaceae]ed il tè [Camellia sinensis (L.) Kuntze — Theaceae] sono due altri esempi tipici di piante con riconosciuta e potente attività farmacologica a dosi relativamente ridotte e che, nonostante ciò, sono, per ragioni di consuetudine e storiche, considerate degli alimenti. Questa difficoltà a distinguere tra i due campi è resa ancora maggiore (o forse è resa più esplicita (8)) dallo sviluppo della zona chiaroscurale che comprende i supplementi alimentari a scopo salutistico, i nutraceutici, gli alimenti funzionali, i cibi tossici o medicinali. (9)

Se passiamo dalle società industrializzate a realtà tribali o di comunità più ridotte e agricolo-pastorali, questa sovrapposizione tra cibo e farmaco non solo è presente, ma è comunemente accettata. Alcuni dei casi più studiati (in particolare da Timothy Johns e collaboratori) sono quelli dei Maasai, dei Batemi e di altre tribù dell’Africa Orientale, che mescolano radici e cortecce ad azione terapeutica alle zuppe a base di carne, ed dei Luo ed altre tribù di Kenya e Tanzania che usano nei pasti, in specifiche celebrazioni annuali, vegetali a foglia larga con attività farmacologia spiccata, molto amare e/o piccanti.

Questo comportamento è stato proposto come spiegazione del cosiddetto paradosso Maasai. Questo gruppo ottiene il 66% delle calorie da lipidi (pasti composti principalmente da latte e sangue), senza mostrare però la costellazione di disordini cardiovascolari che nei paesi europei e nordamericani è associata a diete ad alto tenore di grassi; nelle circa 25 piante usate nelle zuppe è stata riscontrata una elevata percentuale di  saponine, molecole in grado di legarsi al colesterolo ed ai grassi saturi alimentari e quindi potenzialmente in grado di ridurre il rischio (anche se è probabile che la differenza sia dovuta anche a fondamentali differenze di stili di vita tra società industrializzate e società pastorali). Le stesse piante usate come additivi alimentari mostrano attività antivirale contro il morbillo.(10)

In alcuni casi le piante sono un “cibo” ed una “medicina” con forte valenza simbolica: valga per tutti l’esempio del peyote [Lophophora williamsii (Salm-Dyck) J. Coulter — Cactaceae], dio, sacramento, cibo sacro, medicina.(11)

La differenza tra alimento e farmaco può risiedere non nella “natura” del materiale, ma nella modalità di scelta o nell’orizzonte culturale nel quale la scelta viene effettuata. Comunità che condividono caratteristiche simili dal punto di vista socio-economico e geografico, ma culturalmente e/o etnicamente distinte, possono utilizzare la biodiversità vegetale in maniera diversa, usando categorie diverse per determinare  l’interfaccia tra cibo e medicina.(12)

ll sapore, l’apparenza, la consistenza, l’odore, il nutrimento che possono apportare, sono tutti stimoli sensoriali e categorie che determinano la scelta di una pianta come alimento o come medicina, ma nell’equazione entrano anche altri fattori. Alcune piante medicinali, ad esempio, vengono selezionate a seconda della stagione a causa di problemi di disponibilità, quindi in certi periodi dell’anno si sovrapporranno alle piante mangerecce, soprattutto in corrispondenza di malattie stagionali come le malattie da raffreddamento, la malaria, i parassiti, i problemi digestivi. Altre volte, le piante spontanee usate come medicina diventano cibi d’emergenza in momenti di carestia, e sono sovente delle antiche cultivar (sempre più spesso dimenticate anche da quelle popolazioni che si avvantaggerebbero di più dal loro sfruttamento).(13)

Il fatto, poi, che la maggior parte delle piante usate a scopo medicinale non siano piante selvatiche che si incontrano nel profondo della foresta, bensì infestanti, ovvero quelle piante che si situano nel continuum tra selvatico e coltivato, sottolinea  la natura relazionale della polarità alimento-farmaco. La pianta è attiva farmacologicamente in virtù di sue proprietà biologiche, ma viene “costruita” come medicina nella sua relazione con l’attività e la cultura umana, visto che proprio le piante nate “intorno” all’attività agricola dell’uomo senza farne del tutto parte sono diventate il suo strumento medicinale principale. (14)

In sistemi medici colti come la medicina cinese o quella indiana, la sovrapposizione tra cibo e medicina è stata addirittura formalizzata all’interno del costrutto teorico medico. Nel Shennong pent’sao jing, quello che potrebbe essere vista come la prima raccolta sistematica della farmacopea cinese, risalente al primo secolo d.C., i farmaci vengono divisi in tre categorie, dette di grado superiore, medio ed inferiore. Tutte le droghe di livello superiore (chiamate anche rimedi imperatore) appartengono al campo dei cibi-farmaco, rimedi igienisti macrobiotici che “alleggeriscono il corpo”, “estendono gli anni di vita” ed “eliminano la vecchiaia”, dai quali non ci si aspetta una efficacia terapeutica diretta, e la cui somministrazione a lungo termine era considerata sicura, senza pericolo: ginseng [Panax ginseng C. Meyer. — Araliaceae], liquirizia [Glycyrrhiza glabra L. —  Fabaceae], Angelica sinensis [Apiaceae], piantaggine [Plantago spp. — Plantaginaceae] ecc.(15)

Simile classificazione è presente anche nella farmacopea ayurvedica, dove le piante considerate più importanti, i rimedi Rasayana, si usano per nutrire e rinforzare il “tessuto primordiale” o rasa , per ritardare l’invecchiamento, promuovere l’energia vitale e migliorare le capacità cognitive. Anche in questo caso si tratta di piante quasi alimentari, il cui consumo è possibile in grandi quantità e per lungo tempo, e la cui azione è simile ad un nutrimento terapeutico, mentre le piante più attive nel senso moderno e farmacologico del termine sono anche quelle meno importanti [Withania somnifera (L.) Dunal. — Solanaceae; Ocimum sanctum L. — Lamiaceae, Phyllanthus emblica L. — Euphorbiaceae, Asparagus racemosus Willd. — Asparagaceae (o Liliaceae)].(16)

Se poi analizziamo dal punto di vista chimico le piante usate come medicine e quelle di uso alimentare scopriamo che i medesimi composti chimici ad attività farmacologica (alcaloidi, composti amari, flavonoidi, glicosidi, in particolare cianogenici, saponine, acidi organici) sono presenti nelle due categorie, anche se in concentrazioni molto differenti.

Conclusioni
Da quanto detto discende che l’uomo ha sempre inserito nella sua dieta composti farmacologicamente attivi presenti nelle piante di cui si nutriva, anche se probabilmente con maggior frequenza nelle epoche antiche rispetto ad oggi.

Ma come è successo che le piante siano diventate un elemento così importante per gli esseri umani? Ed in particolare, perché esse sono così importanti per la medicina?
Una prima risposta generica a questi quesiti viene dalla considerazione della quantità e diversità di vita vegetale sul globo: grazie alla loro natura autotrofa, le piante superano di una magnitudo di fattore dieci tutta la biomassa di origine animale sul globo; possiedono una capacità ineguagliabile di sintetizzare ex novo composti chimici, poiché, a differenza degli animali, non possono muoversi, e per difendersi dai predatori devono sintetizzare ed utilizzare speciali composti di difesa.

L’approccio coevolutivo spiega la nascita della “pianta medicinale”, il momento aurorale della medicina, come una relazione tra uomo, pianta e patogeni, che nei milioni di anni avrebbe permesso all’uomo di adattarsi ai composti di difesa, di imparare a renderli meno tossici ed infine di utilizzarli a proprio beneficio.

Naturalmente il dato biologico adattivo può spiegare un inizio, può giustificare un ventaglio molto limitato di attività delle piante sull’uomo. Non è possibile farvi risalire direttamente le elaborazioni culturalmente mediate della medicina.(17)

Un corollario di questa tesi è che:

una delle chiavi per comprendere come questo processo sia iniziato sta nel riconoscere l’importanza del sapere tradizionale sulle piante presente in ogni cultura, e nell’identificazione degli elementi culturali e biologici del processo dinamico attraverso il quale questo sapere viene ottenuto e mantenuto in una comunità.(18)

Sarà quindi necessario valutare il ruolo giocato dalle piante all’interno delle diverse culture e dei diversi contesti storici e simbolici, e cercare uno schema che ci permetta di collegare tra di loro questi dati, per chiarire quanto essi siano generalizzabili; per chiarire cioè quanto i parallelismi di utilizzo in diverse aree geografiche dipendano dal passaggio di informazioni tra una area e l’altra  (e non siano quindi trattabili come indipendenti), e quanto invece siano indipendenti e quindi si rinforzino a vicenda.

A loro volta questo collegamenti potranno essere messi in relazione con ciò che sappiamo sulle relazioni evolutive tra uomo e piante, ed anche con ciò che sappiamo in termini di chimica delle piante, ad esempio che esistono dei cluster di attività intorno a determinati composti o gruppi chimici, e che determinati gruppi chimici mostrano la tendenza a segregarsi secondo divisioni tassonomiche.

Questi dati presi assieme e usati, per così dire, per effettuare una triangolazione, potrebbero gettare più luce sulle basi biologiche ed evolutive dell’uso delle piante come medicine da parte dell’uomo.

Prima di tentare questa analisi/descrizione è però necessario fare un passo indietro, esplorare i presupposti biologici di queste relazioni, andare a trovarne i semi nella preistoria della nostra specie o addirittura del nostro genere. Per fare questo esamineremo brevemente quali siano stati i passaggi più importanti nel mondo vegetale dalle sue prime esplorazioni delle terre emerse fino ai nostri tempi, per capire come l’evoluzione delle strategie di sopravvivenza delle piante abbia potuto poi intercalarsi con la nostra. A partire da questi dati sarà poi più semplice esaminare l’evoluzione dell’uomo, della sua dieta e della sua trasformazione nei millenni in pratica terapeutica.

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Note

1. Lewington A. Plants for People. London, The Natural History Museum, 1990. Heiser, C.B.m, Jr. Of plants and people. Norman OK, University of Oklahoma Press, 1985. Balick, M.J., Cox, PA Plants, people, and culture: The science of ethnobotany. Scientific American Library, 1996

2. Pedacii Dioscoridis de materia medica libri sex interpetre Petro Andrea Matthiolo cum eiusdem commentariis. Venezia, 1544. Collins M.  Medieval herbals: The illustrative tradition. The British Library and University of Toronto Press, 2000

3. Nei libri dal XX al XXXII. In Fabre,  La pharmacopée romaine dans l’oeuvre de Pline l’ancien. Tesi di dottorato presentata alla Sorbona (Paris IV), aprile 1998

4. Il secondo è il Susruta Samhita; di entrambi è incerto il periodo di composizione, anche se la loro presenza è certa nel primo secolo d.C., e è possibile risalgano al quarto secolo a.C. – Wujastyk, D. Indian Medicine in Bynum W.F. e Porter R. Companion encyclopedia of the history of medicine. 2 vols. London, Routledge, 1993, pp.755; cfr. Priyadaranjan Ray e Hirendra Nath Gupta Caraka Samhita (a Scientific synopsis), New Delhi, National Institute of Sciences of India, 1965, Tabelle 1-3

5. Guerci A., Lugli A. Piante medicinali del mondo, patrimonio dell’umanità: Una visione tra etnobotanica, tradizione e scienza. Planta Medica Edizioni, 2005, p. 2 e p.14; cfr. anche Foster, S. & Johnson, R. Desk Reference to Nature’s Medicine. National Geographic Society, Washington D.C, 2006.

6. Pieroni A., & Price L.L. “Introduction” in Eating and Healing: Traditional Food As Medicine, The Haworth Press, 2006

7. D’altro canto possono essere definiti farmaci i cibi assunti per curare o alleviare le malattie, e cibi i beni consumabili che tradizionalmente non sono stati considerati medicinali dai vari governi.

8. Nel senso che l’aumento delle ambiguità in questo campo non è altro, a mio parere, che  la rivelazione della artificialità della distinzione normativa, che ha voluto racchiudere la complessità in definizioni troppo stringenti. In società meno normative, questa sovrapposizione di campi non è vista come problematica.

9. Nel campo ancora giovane ed in grande sviluppo dello studio delle interrelazioni tra “alimenti” e “medicine” i termini usati per descrivere la zona di confine tra i due settori sono ancora relativamente vaghi: per “cibo funzionale” (functional food) si deve intendere, seguendo Preuss (Preuss A (1999) Zur Charakterisierung Funktioneller Lebens- mittel (Characterization of functional food) Deutsche. Lebensmittel-Rundschau 95 468-47),  un cibo che oltre agli utilizzi legati ad aspetti nutrizionali o di piacere sensoriale, mostra utilizzi legati ad effetti di altro tipo sulle funzioni dell’organismo, e che occuperebbe una posizione mediana ma in parte distinta (una terza opzione) tra cibo e medicina. Per “cibo medicinale” (medicinal food) o “medicine alimentari” (food medicines), seguendo Pieroni e Quave (Pieroni, A. e Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania” in A., Pieroni e L., Leimar Price (eds.)  (2006) Eating and Healing, Haworth Press,  p. 110) intendiamo invece quell’area di sovrapposizione tra cibo e medicina, quando una pianta viene ingerita in un “contesto alimentare” allo scopo di ottenere uno specifico effetto medicinale. Il termine “nutraceutico” (dall’inglese nutraceutic, composto di nutritional e pharmaceutic) identifica una pianta alimentare o derivato che, grazie al contenuto in metaboliti secondari (al di la quindi del puro effetto nutritivo), può modificare la fisiologia umana ed in alcuni casi i processi patologici.

10. cfr Johns, T. e Kokwaro, J.O. (1991) “Food plants of the Luo of Siaya District, Kenya”. Economic Botany 45: 103-113.; Uiso F.C.  Determination of toxicological and nutritional factors of Crotalaria species used as indigenous vegetables. M.Sc.Thesis, Mc Gill University, 1991; Johns, T.  “Plant constituents and the nutrition and health of indigenous peoples”. In V.D., Nazarea (Ed.), Ethnoecology-Situated knowledge, located lives. Tucson: University of Arizona Press, 1990;  Johns, T., Mahunnah, R.L.A., Sanaya, P.,  Chapman, L. e Ticktin, T. (1999) Saponins and phenolic content in plant dietary additives of a traditional subsistence community, the Bateni of Ngorongoro District, Tanzania. Journal of Ethnopharmacology 66: 1-10.; Johns, T., Mhoro, E.B. e Sanaya, P. (1996) Food plants and masticants of the Batemi of Ngorongoro District, Tanzania. Economic Botany 50: 115-121.; Johns, T., Mhoro, E.B. e Uiso, F.C. (1996) Edible plants of Mara Region, Tanzania. Ecology of Food and Nutrition 35: 71-80; Parker M., Chabot S., Ole Karbolo M. K., Ward B. J., Johns T. A. “Traditional dietary additives of the Maasai are antiviral against the measles virus.”  Poster alla 8th International Congress of Ethnopharmacology, 2004, Canterbury, UK.

11. cfr. Evans Schultes R., Hoffmann, A. e Ratsch, C. Plants of the Gods:  Their sacred, healing, and hallucinogenic powers. Revised and expandend edition. Healing Arts Press, Vermont, 1998, pp. 144-155

12. Quave C.L. & Pieroni A. “Traditional health care and food and medicinal plant use among historic Albanian migrants and Italians in Lucania, southern Italy”. In A. Pieroni e I. Vandebroek (eds.) Traveling cultures and plants: The ethnobiology and ethnopharmacy of human migrations. Berghahn Books, Oxford, 2007

13. Sull’area di sovrapposizione tra piante come farmaco e come alimento, sul continuum che lega le piante spontanee a quelle domesticate, e sull’importanza di queste analisi per la comprensione della transizione tra caccia e raccolta e agricoltura, vedi la bella raccolta di saggi coordinata da Lisa Etkin (Etkin, N.L. (Ed.), Eating on the wild side. Tucson: University of Arizona Press. Etkin, N.L. (1996)). Per un esempio di testo scritto allo scopo di conservare il sapere locale sulle piante selvatiche ad utilizzo alimentare cfr. Ruffo C. K., Birnie A., Tegnas B. Edible Wild Plants of Tanzania. Technical Handbook No. 27 Regional Land Management Unit, Nairobi, Kenya, 2002.

14. Traduco con infestanti il termine weed, che in inglese denota appunto le piante che si trovano nel continuum della relazione uomo-piante, tra piante spontanee e piante coltivate. In questo continuum abbiamo le piante spontanee, che crescono al di fuori dell’habitat disturbato dall’uomo e che non possono con successo invadere permanentemente habitat disturbati dall’uomo; le piante infestanti, la cui popolazione cresce completamente o in maggioranza in situazioni marcatamente disturbate dall’uomo, senza essere deliberatamente coltivate, quasi sempre erbacee e a crescita veloce; le piante coltivate, piantate intenzionalmente. Ma vi sono anche le piante domesticate accidentalmente a causa dell’attività dei cacciatori-raccoglitori, e le piante domesticate, che si sono evolute in una nuova forma a causa della continua manipolazione, tanto che possono aver perso la capacità di riprodursi da sole (cfr. Zimdahl, R.L., Fundamentals of Weed Science, 2nd ed. Academic Press, San Diego, CA., 1992, p. 172); Etkin, N.L. “The cull of the wild”. In N.L., Etkin (Ed.), 1994 op. cit.; Etkin, N.L. (1996) “Medicinal cuisines: Diet and ethnopharmacology”. International Journal of Pharmacognosy 34: 313-326. Etkin, N.L. e Ross, P.J. (1982) “Food as medicine and medicine as food: An adaptive framework for the interpretation of plant utilisation among the Hausa of northern Nigeria”. Social Science and Medicine 16: 1559-1573. Grivetti, L.E. e Ogle B.M. (2000) “Value of traditional foods in meeting macro- and micronutrients needs: The wild plant connection”. Nutrition Research Review 13: 31-46

15. Unschuld, P.U. Medicine in China: a history of pharmaceutics, Berkeley, University of California Press, 1986, p.24.  Se teniamo presente che il termine “efficacia terapeutica” (wu-tu) si traduce come “non-velenosa”, possiamo capire come questi rimedi possano ben essere esemplificati da piante alimentari con azione terapeutica (e difatti troviamo qui rimedi come il Panax ginseng o la piantaggine che mostrano attività farmacologica secondo gli standard moderni, ma che possono essere assunti anche a lungo termine senza rischi). Questo favore verso i farmaci macrobiotici è evidente anche nel primo documento esistente che parla di rimedi vegetali, nei manoscritti medici di Mawangdui, risalenti al 3 e 2 secolo a.C., dove, pur non comparendo la divisione teorica tra rimedi di grado diverso, già si parla di rimedi che allungano la vita ecc. Il manoscritto MSVI.A.9 contiene la prima descrizione di una droga effettuata da un medico, Wen Zhi, descrive il porro (jiu) come la “pianta dei mille anni” e “re delle centinaia di piante”, che concentra i vapori (qi) dei cieli e della terra (cfr. Harper, D. (trad. e comm.) Early chinese medical literature: The Mawangdui medical manuscripts. Kegan Paul International, New York, 1997, p. 106)

16. cfr. Puri, H.S. Rasayana: Ayurvedic herbs for longevity and rejuvenation. Taylor & Francis, New York, 2003

17. Per molte attività umane, “non ha senso fornire una spiegazione evolutivo-adattiva (a meno che non si parli di adattamento evolutivo in senso culturale). Non è che [le attività umane] non abbiano radici biologiche. Semplicemente ne sono troppo lontane” (Rozin P (2000) “Evolution and adaption in the understanding of behavior, culture, and mind”. American Behavioral Scientist. 6 (43):970-986). Al più possiamo proporre una feconda commistione tra presupposti biologici e sviluppi culturali, raccontare la storia di questa relazione, nella speranza che nel racconto, nel processo storico e non nelle origini, si nascondano le ragioni ultime della situazione attuale, soprattutto guardando agli enormi cambiamenti culturali avvenuti nel brevissimo periodo nel quale l’uomo ha subito una evoluzione culturale. Come scrive Rozin 2000 op. cit. : “There is no doubt that humans are primates and that human cultures have influenced humans for only a small part of their evolutionary history; there is every reason to believe that we will find the precultural primate in many human activities. But even a casual glance at human cultures today will suggest that these tens of thousands of years of human culture have vastly transformed humans and their institutions and that it would be folly to expect to trace most of what humans do now to specific primate predispositions, except in the most indirect way.”

18. cfr. Johns T. The origins of human diet and medicine. University of Arizona Press, 1999, p. 2

Guerra

Nelle ultime settimane uno dei miei blogger scientifici preferiti, Revere (nome collettivo) di Effect Measure (un ottimo blog di epidemiologia), ha postato a giorni alterni video musicali come commenti sulla guerra in Afghanistan, a seguito delle dichiarazioni di Obama sulla strategia per uscire (?) dal paese e dalla guerra.

In genere mi colpisce il fatto che buona parte della rettorica (non in senso negativo) anti-war che origina dagli States si concentri sui soldati americani morti e non su tutti gli altri morti, ma l’ultimo video pubblicato amplia lo sguardo e lo rende più comprensivo, e per questo mi piace linkarlo, non solo per il fatto che condivido la stance del blogger sulla guerra.

Più in generale ripensando alla facilità con la quale ai tempi della guerra nella ex Jugoslavia certuni parlavano di realpolitik, si stupivano della mia indignazione dicendo “ma non lo sapevi che la guerra era così?” , sottointendendo una ingenuità e distanza dalla realtà di chi alla guerra si oppone, mi sovviene il bel saggio di Elaine Scarry: “The body in pain“, (nota 1) ed in particolare il capitolo “The structure of war: the juxtaposition of Injured Bodies and Unanchored Issues”, che ci ricorda l’importanza di affacciarsi sul mondo e toccare la realtà della guerra, ovvero del corpo aperto, lacerato, lesionato, mutilato, morto…

Che ci ricorda che è proprio del discorso sulla guerra (e non necessariamente del discorso dei guerrafondai) il mascheramento, la sparizione, l’obliterazione del nucleo fondamentale della guerra stessa: la ferita, la morte, il danneggiamento e la distruzione di corpi, la creazione di dolore.

E questo mascheramento impedisce di guardare in faccia la realtà, e quindi di indignarsi, di abbassare l’etica dalla testa alla pancia (nota 2).

Offro qui dei lacerti dal capitolo 2 per una meditazione:

“War and torture have the same two targets, a people and its civilization…When Berlin is bombed, when Dresden is burned, there is a decostruction not only of a particular ideology but of the primary evidence of the capacity for self-extension itself: one does not in bombing Berlin destroy only objects, gestures, and thoughts that are culturally stipulated but objects, gestures, and thoughts that are human, not Dresden buildings or German architecture but human shelter.”

“…while torture relies much more heavily on overt drama than does war, war too … has within it a large element of the symbolic and it is ultimately, like torture, based on a simple and startling blend of the real and the fictional. In each, the incontestable reality of the body – the body in pain, the body maimed, the body dead and hard to dispose of – is separated from its sources and conferred on  an ideology or issue or instance of political authority impatient of, or deserted by, bening sources of substantiation.

There is no advantage to settling an international dispute by means of war rather than by a song contest or a chess game except that in the moment when the contestants step out of the song contest, it is immediately apparent that the outcome was arrived at by  a series of rules that were agreed to  and that can now be disagreed to, a series of rules whose force of reality cannot survive the end of the contest because that reality was brought about human acts of participation and  is dispelled when participation ceases.

The rules of war are equally arbitrary and again depend on convention, agreement and participation; but the legitimacy of the outcomes outlives the end of the contest because so many of its participants  are frozen in a permanent act of participation: that is, the winning issue or ideology achieve for a time the force and status of material “fact” by the sheer weight  of the multitudes of damaged and opened human bodies”

“The essential structure of war, its juxtaposition of the extreme facts of body and voice, resides in … the relation between  the collective casualities that occur within war, and the verbal issues (freedom, national sovereignity, the right to a disputed ground, the extraterritorial authority of a particular ideology) that stand outside the war, that are there before the act of war begins and after it ends, that are understood by a warring population as the motive and justification and will again be recognised after the war as the thing substantiated … by war’s activity. “

“The main purpose and outcome of war is injuring. Though this fact is too self-evident and massive ever to be directly contested, it can be indirectly contested by many means and … (t)he centrality of the act of injuring in war may disappear – the centrality of the human body can be disowned – by any of six paths.

First, it may be omitted from both formal and casual accounts of war.

Second, it may instead be redescribed and hence be as invisible as if omitted: live tissue may become minimally animate (vegetable) or inanimate (metal) material, exempt from the suffering that live sentient tissue must bear; or the conflation of animate and inanimate vocabularies may allow alterations in the metal to appropriate all attention …; or the concept of injury may be altered by relocating the injury to the imaginary body of a colossus.

Third, it may be neither omitted nor redescribed and insted aknowledges to be actual injury occuring in the sentient tissue of the human body, but now held in a visible but marginal position by four metaphors that designate it the by-products, or something on the road to a goal, or something continually folded into itself as in the cost vocabulary, or something extended as a prolongation of some other more benign occurrence”

——————————–
Nota 1
Riguardo alla più generale posizione della Scarry sul dolore, cioè che esso sia ciò che in maniera assoluta e universale definisce la realtà, e alla differenza con altre concezioni, più storicizzare e relativizzate di dolore, vedi il testo di David Morris The Culture of Pain, ed il testo classico di Eric Cassell, The Nature of Suffering and the Goals of Medicine

Nota 2
In parallelo con la necessità di smascherare i metodi di allevamento intensivo per trasformare una astratta idea di giustizia per gli animali in una sentita etica animalista.

Dialoghi etnobotanici due

Riprendiamo il filo di una bella discussione che ha segnato il primo post di questo blog. Il dialogo riprende con Andrea Pieroni, che fino a poco tempo fà era Senior Lecturer presso la Division of Pharmacy Practice/Medical Biosciences Research Focus Group, dell’Università di Bradford, GB, mentre ora è professore onorario di Botanica presso l’Università delle Scienze Gastronomiche di Bra.

Rimane comunque membro della Linnean Society di Londra e della Royal Society of Medicine, Presidente della International Society for Ethnopharmacology, Editor-in-Chief del Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine (Editor-in-Chief) e membro del board di Journal of Ethnopharmacology, Journal of Ethnobiology e Food and Foodways.

Silphion: allora, caro Andrea, per riprendere le fila del discorso, dato che sono un tipo cocciuto ritornerei su di un argomento che a te pareva mal posto, cioè traditional knowledge (TK) vs. Evidence Based Medicine (EBM) [un argomento che fa parte di una più ampia discussione che presenterò in futuro intervistando Sue Evans, una erbalista che ha scritto un recente articolo proprio su questa contrapposizione], ma dato che sono anche un tipo educato te lo ripropongo in maniera diversa 🙂
Prima di tutto ti chiederei di chiarire, se vuoi, il significato della tua risposta di allora, cioè:

“si tratta di due concetti assai sghembi, sarebbe come relazionare banane e zibetti.  Perfino nella fitoterapia tradizionale ho problemi a intravvedervi folk knowledge, nel senso che la fitoterapia tradizionale è certo stata toccata dalla folk knowledge, ma come anche la medicina ufficiale, la chirurgia, il gioco degli scacchi, l’aranciata, la Coca-cola, ed i fast food.”

Pieroni: Il significato di quello che volevo dire è che le medicine tradizionali non hanno molto a che vedere con la folk knowledge, che è generalmente trasmessa oralmente. Infatti si parla sempre distintamente, in inglese almeno, di TMs e Folk Medicines, che sono le medicine che si basano sulla folk knowledge.
Le TMs (che hanno codificazioni consistenti) hanno poco di “folk”. Ciò non significa ovviamente che questo sia un male.

Si.: azzardo una riflessione. E’ un fatto che un settore delle cosiddette CAM, in particolare i fitoterapeuti di scuola tradizionale (tra i quali ci metto quelli appartenenti alla mia tradizione, britannica), dà per scontato il rapporto diretto tra folk knowledge e moderna fitoterapia tradizionale, una connessione originaria, più intima e vera, della fitoterapia con la tradizione. Mentre è ancora poco approfondita la riflessione su cosa significhi “rifarsi” alla tradizione, ed anche il riconoscimento del carattere “costruito” della tradizione.

Saltando di palo in frasca, riprendo un tuo commento nella discussione precedente, quando parlavi della rilevanza dell’etnobotanica e “di popoli che costruiscono il loro futuro”. Ti chiedo questo: nella natura composita dell’etnobotanica, c’è una tensione tra questa dimensione di cui tu parli, del fare parte di un processo dinamico, quindi di cambiamento, e la dimensione conservativa, sia nel senso biologico sia culturale?

P.: Sì c’è questa tensione, in coloro che ci riflettono. Ma l’etnobotanica dei migranti è un esempio molto bello di superamento del conflitto. Ovviamente sono ancora tanti gli etnobotanici che pensano che la “tradizione” sia statica e sia di per sé sempre bella e virtuosa. E quindi vedono in termine astorici le cose, perché “conservare” fino in fondo non è mai possibile (meno male!).

Si.: C’è il rischio dell’idealizzazione delle radici e delle tradizioni?  E d’altro canto non è in fondo questo un ruolo fondamentale, la difesa dall’erosione da parte della modernità? Anni fa ad un convegno IASTAM (International Association for the Study of Traditional Asian Medicine) si parlava appunto del destino della tradizione ayurvedica cannibalizzata dall’ayurveda americano “di ritorno”, new age. Naturalmente a prima vista era chiaro con chi stare, i predicatori americani dell’ayurveda “a la page” non erano simpatici. D’altro canto questo ritorno portava linfa, interessi e soldi alle università tradizionali ayurvediche che rischiavano di svanire.  Ma questo ritorno portava anche ad una grande semplificazione, le pratiche più “popolari” e meno esportabili sparivano a favore di quelle più “canoniche”.

P.: In qualsiasi “migrazione”, c’è da fare i conti con l’”adattamento culturale”, e soprattutto con negoziazioni culturali sempre dinamiche.
Direi che la virtù forse stia nel vedere con più curiosità ed empatia ciò che succede durante queste “migrazioni”, di capire cosa avviene, invece di dare giudizi.
Forse anche gli ayurvedici americani hanno aiutato gli ayurvedici “puristi” a “vedere” nuove cose. Non è il succo della vita quello di imparare sempre da un “incontro”?
Qualsiasi pratica medica – per lo parlare della ”scienza” – avrebbero molto da dare e ricevere se si facessero aperta alle osmosi con l’”altro da sé”.

Si.: Allora prendo questo spunto, perché mi pare molto interessante parlare di etnobotanica dei migranti. Mi pare un buon esempio dell’evoluzione dell’etnobotanica, e anche un esempio antiromantico, lontano dallo stereotipo tipico che vuole l’etnobotanica sempre esotica, avventurosa, legata alla scoperta di piante utili per la farmacologia moderna, legata all’antico o al “primitivo”, comunque legata al tradizionale.

Vuoi spendere due parole sull’etnobotanica dei migranti? Ritornando al testo di cui sei coeditor (con Ina Vandebroek: Traveling cultures and plants: the ethnobiology and ethnopharmacy of human migration) sbaglio se vedo in questi saggi da una parte un approccio cognitivista (comparazione di differenti tassonomie folk, di differenti saperi e classificazioni), e dall’altro un forte interesse per i risvolti di salute pubblica e di diritti alla salute delle comunità immigrate, l’uso dell’etnobotnica come chiave di lettura per gli studi sull’identità culturale? Mi pare un campo affascinante perché svela il carattere complesso delle relazioni piante-uomini, una complessità che forse rimane più nascosta, mascherata dall’immaginario romantico-avventuroso, negli studi o nelle divulgazioni sull”etnobotanica classica”.

P.: Gli studi sull’etnobotanica dei migranti ci permetterebbero di analizzare molto bene come la TK legata alle piante cambia nel tempo e nello spazio.
È questione non da poco in termini scientifici.
E‘ vero: il lato di public health c‘è sempre (e ci dovrebbe sempre essere) dietro una ricerca etnobotanica, ma certo nelle società occidentali urbane  risalta molto di più, perché l’agenda dei public health services mette al primo posto il discorso sulla salute dei migranti.
Penso che paradossalmente da questi studi possano arrivare di ritorno anche spunti ed idee per l’etnobotanica “classica”, spesso impantanata tra studio del folklore, romantica osservazione di un presupposto equilibrio società umane-natura, ed un pizzico di esotismo.
C’è il lato del public health, ma anche quello della public nutrition, dell’organizzazione e percezioni degli spazi verdi urbani in contesti multi-culturali, della sostenibilità ambientale e sociale di pratiche ed esperienze urbane.

Si.: Saltando ad un’altra frasca, ho pensato a te l’altro giorno quando un professore di farmacologia mi ha chiesto: “oltre alla medicina cinese e quella ayurvedica, non ce ne sono altre di medicine tradizionali che ci dicono ancora qualcosa, no?”. Pensavo a come è forte lo stereotipo che comunque reitera sempre la stessa cesura tra medicina alta, colta e medicina popolare, per cui anche un rappresentante della biomedicina si troverà a suo agio con le medicine alternative ma solo se sono canonizzate.

P.: Sì questa è la classica fata morgana per cui  un codice standardizzato di per sé significhi “poter dire qualcosa”… In realtà tutto ha da dirci qualcosa, e “ci parla”, anche le culture orali, non codificate, ed in fondo ogni esperienza umana.
Abbiamo ancora tantissimo da imparare (o ri-imparare) sulla dignità dei saperi tradizionali manuali ad esempio, che hanno “fatto” le medicine popolari e le TMs per molti secoli.
Ma per questo bisogna ripensare le cose su piccola scala, ed avere altri “modelli di sviluppo”, come li chiamavamo una volta.
Il collasso economico di oggi è un’opportunità straordinaria per cominciare a praticare sul serio la sostenibilità ambientale, sociale ed economica…

Si.: Finirei chiedendoti del panorama dell’etnobotanica in Italia, sia dal punto di vista delle aree di ricerca che a tuo parere meriterebbero attenzione, sia dal punto di vista formativo: se cioè un giovane studente desiderasse avvicinarsi a questo campo, cosa deve aspettarsi? Che percorsi può/deve fare (a parte andare in Germania o GB)?

P.: Non è possibile “studiare” etnobotanica in Italia, e nemmeno in Europa, né a livello di Laurea, né a livello di Master  vero e proprio (a parte un piccolo Master in Etnobotanica della durata di 12 mesi all’Università di
Kent a Canterbury, però molto focalizzato su aspetti antropologici).
Ma ci sono certo piccoli gruppi di ricerca nelle università italiane che hanno cominciato anche seriamente ad occuparsi anche un pochino di ricerca etnobotanica, ed a cui potenziali laureandi potrebbero afferire:

a Firenze i Proff. Signorini e Bruschi (Agraria) e la Prof.ssa Giusti (Lettere/Antropologia Culturale);

a Pisa il Prof. Tomei (Agraria);

a RomaTre la Prof.ssa Caneva (Biologia); a Roma/La Sapienza la Prof.ssa Leporatti (Farmacia);

a Milano la Prof.ssa Fico (Farmacia);

a Genova il Prof. Mariotti (Biologia);

a Cagliari i Proff. Maxia e Ballero (Farmacia);

a Sassari il Prof. Camarda (Agraria);

a Palermo la Prof.ssa Lentini (Farmacia);

a Catania la Prof.ssa Napoli (Biologia).

Ed infine il sottoscritto a Bra (Scienze Gastronomiche).

Per aspetti invece strettamente e fitoetnolinguistici:i Proff. Trumper e Maddalon (Univ. della Calabria a Cosenza) e il Prof. Sanga (Venezia/Ca’ Foscari), tutti a Lettere.

Si: bene, come sempre, grazie mille, e a presto

Una visita a Nar-Phoo

Nella seconda puntata dedicata al Nepal (un paese vicino al mio cuore per varie ragioni, di cui ho parlato anche qui) vorrei parlare di un viaggio effettuato nell’estate del 2006 insieme a quattro colleghi nepalesi.

From Nepal 2006

Si trattava di una missione di ricognizione etnobotanica nella valle di Naar-Phoo, nel distretto di Manang, il cui scopo era visitare alcune zone di particolare interesse per la flora medicinale nepalese, poco visitate e studiate fino a quel momento. La missione si inseriva in un progetto di più ampio respiro sulla documentazione delle pratiche mediche tradizionali del distretto del Manang, e sulla documentazione fitochimica delle piante più interessanti.

Il successo di questa missione e il rapporto che è stato compilato in seguito è il risultato del lavoro congiunto mio e di Khilendra Gurung, un amico e botanico nepalese, fortemente impegnato nello studio della botanica e dell’etnobotanica himalayana, e nella traduzione del sapere accademico in politiche e progetti di aiuto alle popolazioni locali.

From Nepal 2006

Inquadramento biogeografico

Scopo della missione pilota
Lo scopo di questa prima missione era quello di  esplorare il territorio, documentare fotograficamente le specie vegetali presenti, interagire con i FUG (Forest Users Groups), intervistare informatori e individui esperti in piante medicinali locali, creare un primo elenco di prodotti forestali non legnosi (Non Timber Forest Products – NTFP) presenti nella zona, con primo ranking delle specie più importanti, ed infine raccogliere campioni per analisi fitochimica e test di attività biologica.

La zona studiata.
Manang
Lo studio pilota si è svolto nel distretto del Manang (Distretto 28), nella zona trans-Himalayana centro-settentrionale del Nepal, tra 28o27′-28o54′ N di latitudine e 83o40′ -84o34′ E di longitudine, un’area di circa 2246 km2 all’interno della Annapurna Conservation Area. I confini amministrativi coincidono quasi perfettamente con la gli spartiacque naturali dell’Himalaya. In particolare la zona è delimitata a  sud dalla catena Himalayana principale, formata dall’Annapurna Himal e dal Lamjung Himal, ad ovest dalle catene del Damodar Himal e del Muktinath Himal, ad est dal Manaslu Himal, ed infine a nord confina con il Tibet tramite Peri, Himlung e Cheo Himal.


Più di due terzi dell’area del distretto sono occupati da montagne, interrotte dal fluire del fiume principale, il Marsyangdi che, insieme ai suoi due tributari, il Nar ed il Dudh, drena tutto il bacino, scorrendo prima da nord-ovest a sud-est, per poi piegare decisamente verso sud all’altezza di Thonje.

From Nepal 2006

A causa dell’apertura meridionale della valle del Marsyangdi, le masse umide dei monsoni estivi sono in grado di superare in parte le barriere dell’Himalaya, e questo spiega il carattere transizionale dell’area, tra l’Himalaya esterno più sensibile all’azione dei monsoni, che qui tendono a bloccarsi e a rilasciare le precipitazioni, e quindi più umido, e l’Himalaya interno e continentale, più secco.
La copertura vegetazionale si modifica in accordo con queste variazioni, passando da vegetazione subtropicale, a temperata, a xerofila ed alpina.
La popolazione è scarsa (il terreno è impervio e difficile da sfruttare) e concentrata nella valle del Marshyangdi (1600-3700 mslm).  Le variabili condizioni naturali si riflettono in una elevata diversità etnica e culturale, con almeno quattro gruppi etnici dominanti, Gurung, Gyasumdopa, Manangi e Narpa, e molti gruppi minoritari.
A causa delle differenti condizioni geologiche e climatiche, si possono osservare tre diverse tipologie di vallate lungo il corso del fiume, che caratterizzano il territorio dividendolo in tre aree facilmente identificabili, sia per le caratteristiche geomorfologiche sia per quelle di insediamento ed agricoltura, Gyasumdo, Nyeshang e Nar.
Procedendo da sud a nord, troviamo prima la valle di Gyasumdo (1600-3000 mslm), dalla caratteristica forma a V a causa dell’erosione fluviale del Marsyangdi sul mantello roccioso cristallino e molto duro; è molto rocciosa e scoscesa e poco favorevole ad agricoltura e ad insediamenti abitativi.  Dal punto di vista climatologico l’area ha carattere fortemente transizionale.
Dopo la curva verso ovest all’altezza di Thonje si entra nella valle di Nyeshang (3000-3400 mslm), nella zona ovest del distretto, che ha invece forma ad U causata dall’erosione glaciale su depositi sedimentari più morbidi. L’area è a Nord del massiccio dell’Annapurna (7.000 mslm) e quindi i monsoni arrivano qui molto attenuati e la zona è meno umida. Nonostante ciò, grazie alla forma molto più dolce della valle, essa è  molto favorevole all’agricoltura e agli insediamenti.

From Nepal 2006
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La zona di Nar (3500-4200 mslm) corrisponde alla vallata del tributario Nar, che giace nel nord del distretto e che ha il clima più rigido e secco, e gli insediamenti più elevati, Nar (4200 mslm) e Phoo (4100 mslm), entrambi sopra alla linea di vegetazione. In quest’area, che è stata l’obiettivo principale della missione pilota, il clima secco e rigido si riflette nella prevalenza di vegetazione tipica della steppa Tibetana.

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La valle di Nar-Phoo

La zona è a clima subalpino e alpino, e la tipologia floristica è tipicamente centro-asiatica con alcuni elementi sino-giapponesi. Piante tipiche dell’area sono Betula utilis D. Don, Juniperus spp., Rhododendron spp. (le specie arbustive sopra ai 4.000 mslm sono: Rhododendron anthopogon, Rhododendron lepidotum, Rhododendron setosum), Cotoneaster spp. (sopra ai 4.000 mslm), Hippophae tibetana Schltdl., Caragana brevispina Royle (sopra ai 4.000 mslm), Rosa spp., Berberis spp e Sorbus spp., con varie conifere alle altitudini minori: Pinus wallichiana A.B. Jackson, Tsuga dumosa (D. Don) Eichler, Abies spectabilis (D. Don) Mirb.

From Nepal 2006
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Gli insediamenti più elevati sono Nar (4200 mslm) e Phoo (3900-4100 mslm), ed esiste un insediamento per lo svernamento a 3500 mslm (Meta) che, dopo essere stato abbandonato e quasi in rovina, si sta nuovamente attrezzando per ospitare persone. La popolazione dei due villaggi, i Narpas, forma un piccolo gruppo etnico locale, che usa un linguaggio di origine tibeto-burmese molto simile al Manangi della zona di Nyeshang, ma anche il tibetano parlato e scritto.
Nelle generazioni l’attività economica della popolazione è variata molto poco. Dipende fondamentalmente ancora dall’allevamento (yak, capre, pecore, bovini, ecc.) ma coltivano anche orzo e patate in campi irrigati ed hanno una piccolo flusso di commercio ad altitudini più basse in inverno.

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A causa del clima severo invernale, a dicembre la popolazione migra con le sue piante verso insediamenti più in basso, ed alcuni individui (di solito i più giovani) si muovono da lì verso sud per commerciare e scambiare i propri prodotti (lana di yak, formaggio secco, spezie ed erbe alimentari) con riso o altri prodotti alimentari impossibili da coltivare in quest’area. A marzo gli abitanti fanno ritorno a Nar e Phoo.
L’apertura recente della valle al turismo da trekking (fino al 2005 era aperta solo per gli alpinisti che si dirigevano verso il campo base dell’Himlung) potrebbe rappresentare una ulteriore fonte di reddito, ma un utilizzo razionale e sostenibile delle risorse di NTFP e MAP rappresenterebbe una fonte di reddito più stabile, legata anche ad una rivalutazione delle tradizioni locali e a processi di stimolazione dell’autostima e della identità comunitaria che sono fondamentali per lo sviluppo delle aree montane.

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Principali piante osservate nella valle di Nar-Phoo.
Fascia sub-alpina (3.000-4.000 mslm)
Intorno al primo insediamento della valle, Meta (tra i 3300 e i 3600 mslm), vicini al limite della vegetazione forestale, la vegetazione arborea è limitata all’abete himalaiano (Abies spectabilis (D Don) Mirb.; sinonimo: A. webbiana Lindley – Pinaceae), ed a pochi esemplari di betulla (Betula utilis D. Don – Betulaceae) ed è stato possibile osservare varie specie erbacee di interesse generale:

  • Polygonatum cirrhifolium (Wall.) Royle (Convallariaceae/Liliaceae s.l.)
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  • Clematis tibetana Kuntz oppure Clematis buchananiana DC [sinonimo: C. buchaniana var. rugosa Hooker fil. & Thomson] (Ranunculaceae)
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  • Abies spectabilis (D Don) Mirb. (Pinaceae)
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  • Cotoneaster sp. Medikus (Rosaceae)
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Poco più sopra rispetto all’insediamento, lungo il sentiero per Phoo intorno ai 3650 mslm, abbiamo osservato altre due specie non incontrate ad altitudini minori, la Arnebia benthamii (G.Don f.) IM Johnston (Boraginaceae) e Allium wallichii Kunth (Alliaceae/Liliaceae, pianta a rischio), e nell’area di Kyang, a 3800 mslm, abbiamo superato l’ultima colonia di betulle (Betula utilis D. Don).

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Superata la linea della vegetazione forestale, intorno e nell’area del villaggio di Phoo, situata a ca. 4000 mslm e caratterizzato da un clima particolarmente secco, abbiamo registrato un numero elevato di piante considerate utili dalle popolazioni locali:

  • Berberis aristata DC [sinonimo: B. ceratophylla G. Don.]
  • Pterocephalodes hookeri (C. B. Clarke) V. Mayer & Ehrendorfer (Dipsacaceae) [sinonimi: Pterocephalus hookeri (CB Clarke) Diels; Scabiosa hookeri CB Clarke]
  • Rosa sericea Lindley (e Rosa macrophylla Lindley) (Rosaceae)
  • Ajuga lupulina Maximovich (Lamiaceae)
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  • Aster sp. (Asteraceae)
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  • Dracocephalum sp. (Lamiaceae), in particolare Dracocephalum heterophyllum Benth.
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  • Geranium pratense L. (Geraniaceae)
  • Jurinea dolomiae Boissier (Asteraceae)
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  • Lonicera sp. (Caprifoliaceae)
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  • Myricaria rosea WW Smith (Tamaricaceae) [sinonimi: M. prostrata Hooker fil. & Thomson ex Benth. & Hooker fil.; M. germanica (L.) Desvaux var. prostrata (Hooker fil. & Thomson ex Bentham & Hooker fil.) T. Dyer]
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  • Potentilla fruticosa L. (Rosaceae)
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  • Ribes orientale Desf. (Rosaceae)
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  • Silene stracheyi Edgeworth (identificazione dubbia) (Caryophyllaceae)
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Prospiciente il villaggio di Phoo ha sede uno dei più importanti monasteri lamaisti della zona dell’Annapurna, con attività di studio, educazione e raccolta delle piante medicinali.

Fascia alpina (più di 4.000 mslm)
Presso l’insediamento di Nar (4200 mslm), caratterizzato da maggiori precipitazioni e da un clima meno secco di Phoo, oltre alle piante già osservate in precedenza abbiamo osservato:

  • Stellera chamaejasme L. (Thymelaceae) [sinonimo: Wikstroemia chamaejasme (L.) Domke]
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e presso l’ultimo campo base prima delle nevi perenni (Campo base di Kyangla 4500) le specie:

  • Bistorta macrophylla (D. Don) Soják (Polygonaceae) [basionimo: Polygonum macrophyllum D. Don.] .
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  • Tanacetum nubigenum Wall. ex DC (Asteraceae) [sinonimo: Dendranthema nubigenum (Wall. ex DC) Kitamura],
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    osservato anche a Kharka.

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  • Cremanthodium arnicoides Wall. R. Good (Asteraceae)
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  • Primula wigramiana ?? (Primulaceae)
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  • Rheum australe D. Don (Polygonaceae)
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  • Delphinium grandiflorum L./D. brunonianum Royle (Ranunculceae)
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NB: durante la missione, dopo il sopralluogo della valle di Nar-Phoo, è stata visitata anche la valle del Thorung Khola e l’area limitrofa al Campo Base del Tilicho, ad altitudini di simili a Phoo e Nar, in aree più occidentali. A causa della diversa esposizione e delle maggiori precipitazioni la flora era però caratterizzata diversamente, e le specie più presenti erano:

  • Caragana gerardiana Royle ex Benth e Caragana nepalensis Kitamura (Leguminosae/Fabaceae)
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  • Hippophae tibetana Schlechter [sinonimo H. rhamnoides L.] e Hippophae salicifolia D. Don (Eleagnaceae)
  • Leontopodium jacotianum P. Beauv. (Asteraceae)
  • Rosularia alpestris (Kar. & Kir.) Boriss (Crassulaceae)

Ad altitudini elevate, come al passo di Kyangla (5200-5300), abbiamo potuto registrare la presenza di:

  • Rhodiola himalensis (D. Don) S. H. Fu (Crassulaceae)
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  • Taraxacum tibetanum Hand.-Mazz (Asteraceae)
  • Elsholtzia eriostachya (Benth.) Benth. (Lamiaceae).

Gli utilizzi tradizionali
Disturbi respiratori
Le foglie dell’abete himalaiano (Abies spectabilis (D. Don) – Pinaceae) vengono usate in decotto per tosse e bronchite, e da esse viene ricavato per distillazione l’olio essenziale, usato localmente e venduto sul mercato interno. Due specie del genere Clematis importanti per i disturbi respiratori sono la lanke chanke (o shikari jhar –  Clematis buchananiana DC – Ranunculaceae) e la kreme (C. montana Buch.-Ham ex DC). Foglie e radici vengono utilizzati per tosse, raffreddore e sinusite.
I semi di thupme (Elsholtzia eriostachya (Benth.) Benth – Lamiaceae) vengono masticati  in caso di tosse e raffreddore, mentre radici e foglie secche di  tani na (Gentiana robusta King ex Hook. f.  – Gentianaceae) vengono bruciate ed i fumi inalati in caso di raffreddore. Sempre in caso di raffreddore e tosse viene usata una pianta dalle foglie coriacee ed aromatiche, la onma (Myricaria rosea WW Smith – Tamaricaceae), che viene pestata e ridotta a pasta e assunta per bocca. In altre zone (nel Rolwaling) si preferisce invece il decotto.
In tutto il distretto del Manang fiori e foglie e a volte pianta intera di panrimendo, o “fiore dei prati montani” (Pterocephalodes hookeri (C. B. Clarke) V. Mayer & Ehrendorfer – Dipsacaceae) vengono utilizzate per raffreddore, febbre e tosse.
Il succo della radice di Miahali (Rumex nepalensis Spreng – Polygonaceae), pianta usata soprattutto per i disturbi digestivi e della pelle, viene anche usato per  tosse e raffreddore.

Disturbi del tratto gastrointestinale
La Bistorta macrophylla (D. Don) Soják è usata soprattutto per dissenteria/diarrea, gastralgia. Il succo della lanke chanke (Clematis buchananiana DC) oppure della kreme (C. montana Buch.-Ham. ex DC – Ranunculaceae), pianta intera e radice, si usa per vari problemi gastrici (indigestione, ulcera peptica, ecc.)
I frutti di varie specie di Heracleum (H. nepalense D. Don; sinonimo: H. nepalense var bivittata CB Clarke – Apiaceae) vengono arrostiti e masticati per tosse, diarrea e dissenteria nel distretto. I frutti sono anche usati come spezie nel daal e nelle carni. In un altro distretto (Dhading) il succo della radice è reputato utile in caso di diarrea.
Il panrimendo (Pterocephalodes hookeri) viene usato in tutto il Manang come decotto di pianta intera in caso di diarrea.
Senza dubbio una delle piante più comunemente usate per disturbi gastrointestinali, e per un ventaglio di indicazioni molto ampio, è miahali (Rumex nepalensis Spreng – Polygonaceae). Le foglie si usano in caso di nausea e dissenteria (Nepal occidentale, Gurung), e le radici in caso di intossicazione alimentare e diarrea nei bovini, come purgante ed antidoto. Il succo della radice viene anche usato come antelmintico e la radice e le foglie vengono impiegate a livello topico per la gengivite.
Varie specie di Berberis (Berberidaceae), in particolare Berberis aristata DC (ban chutro), sono importanti come rimedi oftalmici e digestivi. Radice e fusto sono usate in caso di diarrea e dispepsie, e i frutti per diarrea e ittero. Il succo ricavato dalla corteccia viene usato in caso di ulcera peptica, alla dose di 4 cucchiaini tre volte al giorno.
Il succo della radice di tsharsin (Cotoneaster affinis Lindley – Rosaceae) si usa per trattare le indigestioni. Per la stessa indicazione si usa anche il succo della radice di un’altra Rosacea, la Potentilla fruticosa L. (teba), mentre la radice di Pleurospermum hookeri CB Clarke (Apiaceae) si usa per dispepsia, diarrea ed emorroidi.
Una pianta chiave della regione, dal punto di vista dei disturbi gastrointestinali ma anche dal punto di vista economico. è il phopri (Lindera neesiana (Wall. ex Nees) Kurz – Lauraceae). In Gyasumdo e in genere nel distretto del Manang i frutti neri vengono ingeriti in caso di problemi di stomaco (dispepsia) o flatulenza. In altre zone del Nepal vengono masticati in caso di diarrea, mal di denti, nausea e flatulenza.
Fiori e foglie di Dracocephalum sp. (Lamiaceae) vengono usate per problemi di fegato, stomaco e febbri associate.

Disturbi dell’apparato cutaneo
La radice ed il fusto di Berberis aristata (Berberidaceae) sono molto usate per disordini della pelle ed infiammazioni, grazie alle sue attività alterativa ed astringente. Nei distretti di Lamjung e di Dhading il succo della Clematis buchananiana DC (oppure C. montana Buch.-Ham. ex DC – Ranunculaceae) si applica localmente su tagli e ferite, mentre nel distretto di Chitwan la radice in pasta si applica localmente per gonfiori infiammatori.
Le foglie strizzate e stropicciate di Rumex nepalensis vengono massaggiate su gonfiori, ferite e foruncoli, mentre le foglie ed il fusto vengono impiegate a livello topico per l’eczema. In India le foglie sono usate per trattare le irritazioni da contatto con ortica. Bistorta macrophylla (D. Don) Soják è ritenuta, antisettica e vulneraria e viene usata soprattutto per trattare l’eczema.
Il succo della radice di mendosan  (Aster indamellus Grierson e Aster spp. – Asteraceae) viene usato su ferite e foruncoli, le radici essiccate e polverizzate di daurali phul (Stellera chamaejasme L. – Thymelaceae), mescolate con senape o cherosene, si applicano come antisettico topico su ferite aperte, e a Nar i fiori di Potentilla fruticosa L. (Rosaceae) vengono seccati, polverizzati, mescolati ad acqua, ed applicati alle ferite
La scabbia viene trattata con applicazioni locali di decotto di Delphinium sp. (Ranunculaceae), mentre Pleurospermum hookeri CB Clarke (Apiaceae) e Lindera neesiana sono ritenuti rimedi generici per problemi della pelle.

Disturbi e dolori osteoarticolari o muscolari
La radice di Silene stracheyi Edgeworth (Caryophyllaceae) viene applicata a slogature o lussazioni dopo essere stata ridotta a pasta; lo stesso tipo di preparazione (pasta della pianta) si usa quando si applica Ajuga lupulina Maximovicz (Lamiaceae) per trattare i gonfiori muscolari. Si utilizza invece il decotto di pakchar (Caragana gerardiana Royle ex Benth o Caragana nepalensis Kitamura (Fabaceae) per trattare i dolori articolari.
In Nyeshang la radice di komse (Polygonatum cirrhifolium (Wall.) Royle (Convallariaceae/Liliaceae s.l.) viene essiccata e spezzettata, mescolata  con olio ed altre piante ed applicata a livello topico per dolori alla schiena e al petto.
Rumex nepalensis è una pianta molto importante per i problemi muscoloscheletrici. In Nyeshang la radice si mescola insieme ad altre piante in varie formule usate per applicazioni topiche in caso di slogature e fratture, dopo che la parte da trattare è stata lavata con acqua e sale. Usi simili si riscontrano anche in Nepal occidentale, zona di Karnali (slogature) e nel Nepal centrale, a Nuwakot (fratture). Nel distretto di Sindhupalchok il Rumex viene usato per dolori e gonfiori articolari. Le foglie vengono usate nei villaggi di Chaubas e Syabru e nel distretto di Palpa per ferite e gonfiori, ed il decotto della pianta intera è usato per lavare il corpo in caso di dolori e gonfiori articolari.
Nel distretto di Jumla la radice di Stellera chamaejasme L. (Thymelaceae) viene usata per gotta e articolazioni doloranti, mentre il decotto della corteccia si usa per le slogature.
Myricaria rosea, Pleurospermum hookeri CB Clarke e Clematis tibetana Kuntz (oppure Clematis buchananiana DC) sono genericamente utilizzate in caso di disturbi muscoloscheletrici.

Altri utilizzi

Rumex nepalensis e Berberis sp., si usano a livello topico per problemi oftalmici, inclusi congiuntivite, infezioni e infiammazioni; Elsholtzia sp. si usa in caso di svenimenti; Myricaria rosea, Berberis sp. e Rumex sono piante genericamenre usate in caso di infezioni. Lindera neesiana si usa anche come antidoto contro piante velenose, ed il Polygonatum cirrhifolium si usa anche come tonico per il recupero dopo una lunga malattia. La Bistorta macrophylla (D. Don) Soják, oltre ai già citati utilizzi, viene anche indicata in caso di problemi di emorragie, diabete, ittero, gonorrea e vaginite.  Aster sp. si utilizza in caso di mal di denti e dolorazione al seno, Rumex nepalensis, Elsholtzia sp. e Cotoneaster acuminatus si usano per trattare le cefalee, e la Lindera neesiana è considerata un rimedio generico per il dolore.
Le specie appartenenti al genere Berberis, e il Rumex nepalensis sono considerati antidoti contro le intossicazioni alimentari e la diarrea nei bovini, mentre la Lindera neesiana fornisce foraggio supplementare per cavalli.
Varie piante utilizzate come aromatiche o piante da incenso, sono anche usate in caso di infestazioni: Caragana gerardiana Royle ex Benth. è usata come repellente contro le infestazioni di topi, Cotoneaster affinis come repellente per insetti e pidocchi, e le foglie di Tanacetum nubigenum Wall. ex DC (che sono fonte di incenso in inverno in Nyeshang e Nar) si usano per pediculosi e per allontanare gli insetti molesti.
I rami del Cotoneaster acuminatus servono a costruire bastoni da trekking e manici di ascia, e la Stellera chamaejasme L. serve come materiale per la costruzione dei tetti.
Potentilla fruticosa e Silene stracheyi Edgeworth conengono saponine e sono usate come detergente delicato naturale.

Conclusioni
Gli obiettivi limitati della missione pilota sono stati raggiunti, ma questi consistono prevalentemente in dati iconografici, analisi della letteratura, contatti con soggetti informati sugli utilizzi delle piante medicinali e sopralluoghi dei luoghi.

Idealmente queste informazioni dovrebbero servire a facilitare ulteriori missioni con valenza più operativa e con una maggior ricaduta sulle popolazioni, ed in particolare sugli strati più svantaggiati, attraverso la mobilitazione di risorse locali da parte dei locali, e l’acquisizione di maggior confidenza e coscienza dell’importanza delle conoscenze che le popolazioni hanno della natura nella quale sono immerse.
I possibili sviluppi sono molti, alcuni di carattere più teorico altri a vocazione più pratica:
1. Analisi delle differenze tra utilizzo delle MAP da parte della popolazione locale e utilizzo nel contesto “colto ” della medicina di origine tibetana.
2. Studio delle piante alimentari “da carestia”, del limine tra piante alimentari e medicinali, in situazione di agricoltura al limite della sussistenza nel villaggio di Phoo. Analisi delle preferenze alimentari di bambini e donne, uso di piante da “spuntino”.
3. Utilizzo dei dati raccolti in letteratura sulle piante della zona per fornire un feedback alla popolazione locale (sul modello delle indagini/feedback del TRAMIL).

Qualsiasi direzione possano prendere le fasi future del progetto, esse dovrebbe fare tesoro delle esperienza già accumulate da varie ONG nepalesi nel campo dei processi di autotrasformazione, attraverso sistemi di educazione degli adulti come REFLECT e di lavoro orientato ai processi piuttosto che agli obiettivi, di educazione alla preservazione della natura e della cultura come opportunità per lo sviluppo, del rafforzamento l’identità ed originalità etnica per prevenire la disgregazione.

L’albero dei Chepang

Un bell’articolo sull’etnobotanica dei Chepang (Arun Rijal (2008) “Living knowledge of the healing plants: Ethno-phytotherapy in the Chepang communities from the Mid-Hills of Nepal” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine, 4:23) mi da lo spunto per parlare della mia breve ma bella esperienza con questo gruppo etnico nepalese, uno dei gruppi più svantaggiati e più poveri del Nepal, che possiede una vasta conoscenza tradizionale del territorio e della sua gestione, e che grazie al lavoro di alcune ONG nepalesi sta riconquistando la propria autostima e la coscienza dell’importanza del sapere locale.

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I Chepang, ufficialmente conosciuti come Praja, fanno parte di uno dei 61 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dal governo nepalese (ce ne sono in realtà più di 80), uno dei più piccoli (rappresentano lo 0,25% della popolazione nepalese) e uno dei più poveri e marginalizzati.
Fisicamente si distinguono per avere delle caratteristiche tipicamente mongoloidi ed il loro linguaggio deriva da dialetti Tibeto-Burmani.

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Vivono in villaggi, o meglio gruppi di nuclei familiari, sparsi sulle colline delle montagne del Mahabharat, nel Nepal centrale, soprattutto nei distretti di Makwanpur, Dhading, Chitwan e Gorkha.   I loro antenati sono stati cacciatori-raccoglitori fino a 100-150 anni fa, e coltivatori con tecnica slash-and-burn.

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Dipendono ancora molto dalla foresta (in particolare dall’albero del Chiuri) per ricavare cibo, materiale ed introiti; la loro dipendenza da una agricoltura più complessa è molto recente.

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Riescono mediamente ad ottenere dalla coltivazione il necessario per sostenersi per 6-8 mesi, mentre per il resto dell’anno (da febbraio a giugno) devono arrangiarsi con la raccolta nel selvatico oppure indebitarsi.  Nel 1999 il 50% della popolazione risultava indebitato, e il reddito pro-capite annuo era al di sotto dei 130 dollari.

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La vendita di prodotti forestali non legnosi (Non Timber Forest Products – NTFPs) rappresenta una fonte di reddito importante che ha molti margini di aumento, che permette un recupero delle tradizioni popolari ed un aumento dell’autostima di questa popolazione che per secoli è stata vista (e si è vista) come retrograda, incapace, primitiva.

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In lavoro di molte ONG nepalesi, ed in particolare del progetto SEACOW (School for Ecology, Agriculture and Community Work) sulle pratiche agricole e produttive ecologiche, si è per l’appunto concentrato sulla capacità di utilizzare il sapere tradizionale e i secoli di rapporto con la foresta per modificare l’immagine di sé di questi gruppi e per demistificare i processi economico-produttivi, in modo che la popolazione stessa possa trarre vantaggio economico e sociale dalle proprie conoscenze.

Parte integrante di questo progetto è lo studio delle piante medicinali della zona.
Le principali piante medicinali tradizionalmente usate dalla comunità Chepag nella zona del Mahabharat sono:
•    Chebulic myrobalan (Terminalia chebula)
•    Belleric myrobalan (Terminalia bellirica)
•    Emblic myrobalan (Phyllanthus emblica)
•    Asparagus racemosus
•    Gurjo (Tinospora cordifolia)
•    Jasminum officinale
•    Castanopsis indica
•    Dioscorea alata
•    Cinnamomum tamala fol.
•    Chiuri (Diploknema butyracea)

L’albero del Chiuri

I Chepang hanno un rapporto particolarmente stretto con l’albero del Chiuri (da loro chiamato Yoshi).  Una famiglia è considerata più o meno ricca a seconda di quanti alberi possiede, e il sapere tradizionale sulle tecniche di semina, raccolta dei vari frutti e derivati e loro utilizzo è di grande interesse perché estremamente specializzato e caratterizzato culturalmente.  Si può senza dubbio dire che la cultura Chepang sia strettamente associata al Chiuri.

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Narra una leggenda Chepang che: “molto tempo fa, una bufala scappò dalla propria stalla di notte e andò a mangiare nel campo di miglio finché non fu completamente satolla.  Ma al momento di tornare, dato che era buio, la bufala non riuscì a ritrovare la strada e cadde in un pericoloso precipizio, e vi rimase incastrata a metà strada.  Nessuno riuscì ad estrarre la bufala, e quindi ella lì morì.  Nello stesso luogo, fertilizzato dalla carcassa, nacque il primo albero di Chiuri”.
Secondo questa leggenda, si possono leggere nel Chiuri le tracce della sua origine: il frutto del Chiuri dà un succo bianco, che è il latte della bufala, e l’olio ottenuto dai semi è il burro di bufala.  I piccoli granelli neri che si trovano nel frutto sono il miglio mangiato dalla bufala durante la notte.  Ancora oggi i Chepang dicono che il Chiuri è come una “bufala da latte per noi”.

Botanica sistematica

  • Nome scientifico: Diploknema butyracea (Roxb.) H. J. Lam
  • Famiglia: Sapotaceae  Juss.  Composta da 800 specie tropicali suddivise in 35-75 generi mal definiti.
  • Sinonimi: Bassia butyracea Roxburgh; Madhuca butyracea (Roxb.) J. F. Macbride; Aesandra butyracea (Roxb.) Baheni

Nomi locali

  • Uttar Pradesh – Chiura, Bhalel
  • Hindi – Phalwara, Phulvara, Phulwa
  • Chepang: Yoshi (Ban Yoshi se l’albero è selvatico e Rang Yoshi se è coltivato).

A dimostrazione della profonda conoscenza che i Chepang hanno del Chiuri, basti sottolineare come essi usino almeno 32 nomi diversi per descrivere l’albero a seconda del tempo di fioritura, del colore del frutto, delle foglie, del tronco, dei rami e dei semi, della forma del tronco e dei rami, della dimensione della consistenza, del sapore e dell’odore del frutto, della produttività ed infine della posizione dell’albero stesso nel territorio.

Descrizione botanica
L’albero del Chiuri è un sempreverde di media grandezza (da 3 a 10 metri in altezza) che necessità di una buona insolazione ed ha una certa tolleranza al freddo. (Jackson 1987, Campbell 1983).

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Ecologia e distribuzione

Nel subcontinente indiano si trova nel tratto sub-himalayano, da Dehra Dun al Buthan, tra i 400 e i 1400 m, ma alcuni esemplari sono stati identificati a 4500 m

In India si trova soprattutto nel Sikkim e nell’Uttar Pradesh (distretto di Pithoragarh) al confine con il Nepal (tra 600 e 1000 m), e nelle colline del Kumaon e del Gharnal.  E’ presente anche sull’oceano indiano, ad Andaman e Nicobar

In Nepal si trova nella zona sub-himalayana, su pendii scoscesi, terreni rovinosi e precipizi, soprattutto nelle foreste dei distretti di Chitwan, Gorkha, Dhading, Rolpa, Argha, Khanchi e Makwampur.  In particolare vi è una grande concentrazione nelle colline del Mahabharat, tra i 500 e i 1400 m.
Si pianta con successo su terreni poveri e sassosi e la germinazione dei semi è di meno di tre settimane.

Importanza del Chiuri
Quali sono i punti di interesse del Chiuri nell’ambito di un progetto di sviluppo?

•    Importanza economica per i contadini poveri.
•    Sostenibilità ecologica: è adattato a terreni non coltivabili e migliora la qualità del suolo.
•    Potenziale economico per l’industria nepalese.
•    Importanza socioculturale per i Chepang.

Il Chiuri rappresenta ancora una fonte di reddito non secondaria per i Chepang (ed altre popolazioni).  E’ normale per ogni famiglia possedere almeno alcuni alberi di Chiuri, da 5 a 10-20 per le famiglie più ricche.  Il possesso dell’albero è slegato dal possesso della terra; una famiglia può possedere degli alberi in terreni non propri; questo possesso le dà il diritto di sfruttare per prima gli alberi per la raccolta dei frutti e dei semi, ecc., fino al mese di Saun masanta (metà di luglio), dopo il quale l’albero diviene di proprietà comune e chiunque può sfruttarlo, anche se di solito vi sono accordi interfamigliari per regolare lo sfruttamento (questo tipo di gestione comune dei beni e di modificazione della proprietà è tipico dei Chepang che si distinguono dal resto delle popolazioni nepalesi anche per un ridotto divario tra uomo e donna rispetto ai diritti).  L’albero è trattato come un membro della famiglia, e gli alberi della famiglia sono ereditati e divisi in parti uguali tra i membri della famiglia stessa.  Il legame con questa pianta è così forte che, quando un albero è malato, viene curato dal guaritore locale proprio come curerebbe un essere umano.

Il ghee derivato dai semi rappresenta la principale fonte di sussistenza per molti Chepang; esso costituisce la principale fonte di grasso alimentare, ed i Chepang preferiscono famiglie numerose anche perché queste significano più mano d’opera per la raccolta dei frutti. La produzione varia da 15 a 60 kg di ghee all’anno, dei quali 3-10 vengono venduti al mercato.  La vendita del ghee rappresenta una fonte di sussistenza potenzialmente molto importante per i Chepang.  De la Court (1995) ha infatti calcolato che vendendo il ghee la popolazione riuscirebbe a comprare 4 volte la quantità di cereali coltivabili nello stesso tempo.  Il problema è che mentre offerta e richiesta di ghee sono sufficienti, i mediatori hanno per molti anni approfittato dell’ingenuità dei coltivatori per aumentare il loro profitto.  E’ necessario quindi creare nuove opportunità di incontro saltando i mediatori.  E’ inoltre necessario risolvere alcuni gravi problemi legati all’albero stesso.

Problemi
In alcune zone del Nepal la produzione di frutti è andata declinando fino ad essere al giorno d’oggi il 20-30% della produzione di dieci anni fa.  Questa riduzione è dovuta ad un aumento della caduta di frutti immaturi, per cause non chiare, ma probabilmente legate a cambiamenti climatici regionali o globali (riduzione delle precipitazioni invernali, erosione del suolo, attacchi di insetti).
Uno dei compiti futuri sarà quello di studiare a fondo le ragioni della caduta dei frutti immaturi, le migliori condizioni pedo-climatiche per l’albero ed eventualmente la selezione di genotipi più resistenti.

Il seme
Il seme costituisce l’11-15% del peso del frutto fresco.

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Composizione
1. Proteine 5-8%

2. Saponine 12-15%
Dalle saponine, dopo l’idrolisi, si ottengono β-D-glucoside del β-sitosterolo e vari diterpenoidi, tra cui acido bassico, acido protobassico e acido idrossiprotobassico.

3. Grassi 41-48% (60-70% del seme decorticato)
Acidi grassi

  • Acido palmitico    50-65%
  • Acido stearico    3-5%
  • Acido oleico        25-36%
  • Acido linoleico    3-4%
  • Acido miristico    0,3%

Trigliceridi

  • Tripalmitina    7,7-10%
  • Oleodipalmitina    54-62%
  • Palmitooleostearina    7-8,6%
  • Palmitodioleina    14,4-23%
  • Oleodistearina    0-0,4%
  • Stereodioleina    0-1,2%
  • Altri    0-13%

4. Carboidrati totali 30%
Zuccheri tra i quali:

  • Glucosio
  • Arabinosio
  • Xilosio
  • Ramnosio

Il guscio del seme (19-30% del peso del seme fresco) contiene flavonoidi tra i quali lo 0,2% di quercetina e 1,75% di diidroquercetina, cosa quest’ultima piuttosto rara.

Grasso
Il grasso ricavato dal seme quando è puro è bianco, di odore e sapore buoni e non irrancidisce facilmente.

Processo di estrazione
•    Raccolta dei frutti maturi
•    Eliminazione polpa e lavaggio dei semi
•    Essiccazione dei semi al sole
•    Contusione e polverizzazione del seme in un piccolo mulino detto dhiki
•    Separazione della farina del seme dal guscio
•    “Cottura” a vapore della farina (contenente il 52% di grasso)
•    La farina viene posta in un cesto di bambù detto pyar , e viene estratta per compressione grazie alla chepuwa, un attrezzo composto di due assi di legno (dette kole) che comprimono il pyar.
•    Dalla prima compressione si ricava il 27% dell’olio; il residuo viene nuovamente estratto ottenendo il 10% di grasso.
•    Una volta estratto il grasso si raffredda e solidifica
•    Il cake (pina) residuo contiene ancora il 15% di grasso.

From Nepal 2004

Essicazione dei semi al sole e contusione dei semi

From Nepal 2004
From Nepal 2004

Setacciatura e separazione dei gusci

From Nepal 2004

“Cottura” dei semi

From Nepal 2004
From Nepal 2004

I semi “cotti” vengono inseriti in una pressa idraulica e pressati

From Nepal 2004

Il Ghee di Chiuri assume la sua forma solida dopo essersi raffreddato

Il metodo d’estrazione tradizionale, dal punto di vista occidentale, è poco efficiente, dato che lascia nel residuo dei semi circa il 14% del grasso estraibile.  Un’ovvia proposta è stata quella di utilizzare dei metodi di spremitura più potenti.  Ma la soluzione non è cosi semplice.  Una pressione più elevata estrae una maggior quantità di grassi, ma anche una elevata percentuale di saponine, rendendo il grasso non commestibile, di odore molto sgradevole e di colore dal verde al marrone.  E’ quindi necessario ripartire dai metodi tradizionali e trovare un compromesso.  La spremitura con pressa idraulica può andare bene per la produzione di grasso destinato a successive purificazioni per la fabbricazione di saponi o creme.

Dati fisico-chimici

  • Punto di fusione    47-49° C
  • Sp gr 15° C    0,856-0,870
  • nD 40° C    1,4552-1,4659
  • Acidità    0,5-14,5
  • Saponificazione    170-200
  • Valore dello iodio    40-51
  • Acetyl value    605
  • RM value    0,4-4,3
  • Hehuer value    96,2
  • Polenske value    0,65
  • Non saponificabili    1,4-5% (di solito 2-2,8%)

Cake

Composti           Grezzo*    Processato**
Saponine           15-27%     0%
Proteine            25-37%     18-34%
Grassi               29%           0,25%
Carboidrati       17%           40%
Fibre                4,5%          8,9%

* Dopo la normale estrazione del grasso mediante compressione
** Dopo l’estrazione completa di saponine e grassi

Utilizzo
Semi interi
I semi sono considerati galattogoghi

Grasso

Usi tradizionali
•    Alimentare: usato in cucina in svariati modi, è il grasso più economico sul mercato
•    Medicinale: internamente per costipazione cronica e febbre biliare. Rimedio topico per reumatismi, pelle infiammata e secca, lesionata, tenia pedis.
•    Combustibile per lampade a burro a scopo religioso: non crea fumo od odori cattivi, la sua luce è molto brillante e la fiamma è di lunga durata.

Usi possibili
•    Margarina
•    Buona fonte di acido palmitico per l’industria farmaceutica
•    Candele
•    Saponi, usato al posto dell’olio di cocco
•    Creme ed unguenti medicali
•    Unito all’Attar per ungere i capelli

Cake

Il cake grezzo è usato come:
•    Concime con proprietà pesticide (date dalle saponine), usato per i campi di riso e per le coltivazioni di banani.  E’  però molto povero in azoto (< 4%-5,5%).
•    Sostituto del sapone, soprattutto per il lavaggio del bucato.
•    Vermicida, nematocida, molluschicida, rodenticida ed insetticida
•    Veleno per la pesca, meno tossico dei normali pesticidi utilizzati
•    Veleno per lombrichi per prati e campi da golf
•    Come componente di mix insetticidi.
•    Lozione per capelli in combinazione con Acacia cananna
•    Dopo la rimozione delle saponine si utilizza come mangime per bestiame bovino e polli.

Altre parti del Chiuri utilizzate dai Chepang

Fiori

Composizione chimica

•    Molibdeno    0,95 ppm
•    Zinco    13,95 ppm
•    Zuccheri tra i quali:
•    Arabinosio
•    Ramnosio
•    Fruttosio
•    Glucosio
•    Saccarosio
•    Maltosio
•    Levulosio
•    Destrosio
•    Pentosi
•    Grassi        0,6%
•    Fibre        1,7%
•    Vitamine, tra le quali:
•    Vitamina A
•    Vitamina C
•    Tiamina
•    Acido nicotinico
•    Riboflavina
•    Acido folico
•    Biotina

Il Saccharomyces cervisia è presente naturalmente nei fiori e li rende un ottimo materiale grezzo pronto per la fermentazione alcolica.

I fiori sono inoltre ricchissimi di nettare, che è usato dalle popolazioni locali per fare uno sciroppo molto apprezzato.
E’ una pianta mellifera e le api producono da questi fiori un miele di ottima qualità, usato anche a scopo medicinale per il trattamento dei disturbi dell’occhio.

Usi medicinali
•    Sono considerati rinfrescanti, afrodisiaci, galattogoghi, espettoranti, carminativi.  Usati per disordini cardiaci, pirosi, biliosità, disordini dell’orecchio.
•    Secchi si usano sotto forma di fomente calde per l’orchite
•    Fritti nel ghee si usano per le emorroidi
•    Il liquore ricavato dai fiori viene descritto nell’Ayurveda come: caldo, astringente e tonico

Frutto

Composizione

Parte    % del peso fresco
Buccia    25,3
Seme    18,2
Polpa    5605

La polpa contiene:
•    Acqua    87,5%
•    Fibre    5,56%
•    Zuccheri    6,47%, di cui 3,8% zuccheri riducenti e 3,39% zuccheri non riducenti
•    Pectina    0,289%
•    Vitamina C    3,21 mg su 100 gr
•    Acetato di α-amirina
•    Acetato di β-amirina
•    Palmitato dell’acido oleanolico
•    Eritrodiol-3-caprilato
•    Eritrodiol-3-palmitato
•    D-glucosidi dell’α-spinaserolo e del β-spinasterolo
•    Olio essenziale contenente: etilcinnamato, α-terpineolo e vari sesquiterpeni

Usi
Alimentari: sciroppo per addolcire il tabacco; liquore fermentato; succo di frutta oppure frutto fresco
Medicinali: bronchite, disordini del sangue, consunzione

Foglia

Composizione chimica

•    Entriacontano
•    Esacosanolo
•    Acetato di β-amirina
•    α-spinasterone
•    α-spinasterolo
•    Miricetina-3-O-L-ramnoside
•    Saponine, tra le quali acido protobassico e acido epiprotobassico
•    Glucosio
•    Arabinosio
•    Xilosio
•    Ramnosio

Corteccia

Composizione chimica

•    Tannini (17%)
•    Glicosidi, tra le quali: bassianina a, b e c
•    Vari agliconi polimerici di leucocianidine associati a R-O-xilosio-O-arabinosio-O-ramnosio-O-ramnosio-O-glucosio
•    Acetato di α-amirina
•    Acetato di β-amirina
•    Eritrodiol-3-palmitato
•    Palmitato dell’acido betulinico
•    Friedlina
•    D-glucosidi dell’α-spinasterolo e dell’β-spinasterolo

Usi
Rimedio per reumatismi, ulcera, prurito, gengivite sanguinante, tonsillite, lebbra e diabete
Veleno per pesci

Utilizzo del Chiuri da parte dei Chepang.

  • Tronco: pali e travi, manici di attrezzi agricoli
  • Rami: legna da ardere, manici di attrezzi agricoli
  • Foglia verde: mangime, piatti
  • Foglia secca: ‘cartina’ per tabacco
  • Corteccia: legna da ardere, farmaco veterinario, rimedio medicinale, veleno per pesci
  • Frutto: alimento, sciroppo per tabacco, liquore fermentato, bronchite, disordini del sangue, consunzione
  • Fiore: nettare alimentare, uso medicinale interno ed esterno del fiore e del liquore di fiori.
  • ‘Burro’ dai semi: alimentare, medicinale, combustibile per lampade a burro, fonte di acido palmitico, candele, saponi, creme ed unguenti medicali
  • Cake dei semi: concime, pesticida, sostituto del sapone, veleno per pesci, lozione per capelli, mangime dopo la rimozione delle saponine
  • Lattice: per intrappolare insetti ed uccelli, gomma da masticare

Bibliografia

Medicina Cinese e medicina Umorale

Scrivendo questo pezzo avevo in mente due esigenze di chiarezza.

Una, più contingente, riguarda una tendenza nell’ambito degli autori di “medicina naturale” ad un sincretismo che vorrebbe unire la più importante tradizione medica orientale (medicina cinese) e la tradizione medica greco-romana (scarica il classico sulla medicina Ippocratica qui).

La seconda, di carattere più generale, riguarda il discorso sulla comparabilità di sistemi diversi, distanti nel tempo e/o nello spazio (fisico e culturale), e quindi sulla linearità ed ineluttabilità (secondo alcuni) del progresso scientifico. In questo articolo cercherò di dimostrare qualcosa sul problema specifico (rapporto medicina cinese – medicina greco-romana) e di mostrare la rilevanza del caso specifico per il problema più generale.
Dati i limiti di spazio non sarà possibile esaminare in maniera esaustiva il problema, ma cercherò di dare degli spunti di riflessione e dei riferimenti grazie ai quali il lettore potrà iniziare un proprio percorso critico. Sempre per ragioni di spazio limiterò l’analisi al periodo classico, non considerando quindi la Medicina Tradizionale Cinese post-rivoluzione culturale (un soggetto molto differente dalla medicina cinese classica) o il Galenismo nei suoi sviluppi e intersezioni medievali e l’apporto degli enciclopedisti islamici.

Dirò subito che questa ridotta analisi si basa su tre testi a mio parere fondamentali per il soggetto in questione, testi che vedono come autore sempre (a parte l’ultimo) GER Lloyd.
In questi di tre volumi Lloyd ha lavorato verso quella che lui stesso chiama il “deparochialising of the history of ancient science”, in particolare attraverso la comparazione sistematica dello sviluppo della scienza in Cina e Grecia tra il 300 aC ed il 3200 dC. La sua tesi fondamentale è che, al di là di conclusioni definitive sul lavoro comparativo, questo lavoro sia necessario per evitare facili presunzioni sulla inevitabilità dei percorsi della scienza in una o l’altra cultura.

GER Lloyd. Adversaries and authorities : investigations into ancient Greek and Chinese science


GER Lloyd. The Ambitions of Curiosity: Understanding the World in Ancient Greece and China (Ideas in Context)


GER Loyd e N Sivin. The Way and the Word: Science and Medicine in Early China and Greece


Introduzione al problema: medicina cinese e tradizione greco-romana
L’idea di sovrapponibilità dei due sistemi medici é a mio parere il risultato di un campanilismo che in fondo nega l’originalità all’uno o all’altro dei sistemi, ed obbedisce ad una idea di universalismo che si vuole naturale conseguenza di un processo unilineare della storia della scienza .

Ciò che intendo suggerire é invece che il processo scientifico non va in direzioni particolari, ed ogni cultura inizia il processo a suo modo e si sviluppa secondo le sue regole. Per questo uno studio comparativo é utile: guardare oltre ai confini culturali ci aiuta a capire quanto sia sbagliato ragionare in termini di inevitabilità.
Certamente nel caso in questione ci possono colpire alcune innegabili somiglianze tra le due civilizzazioni. Lloyd e Sivin (2002) le riassumono così:

  1. l’elaborazione di culture complesse con linguaggi e strutture concettuali astratte che possono essere usate per esplorare ogni aspetto dell’esperienza individuale e collettiva
  2. il bisogno espresso di porsi delle domande riguardo a questa esperienza
  3. la presenza di gruppi di specialisti che si sono messi alla guida del percorso di studio, acquistando autorità e prestigio, e che hanno gestito ed interpretato il sapere
  4. la convinzione che lo studio fosse necessario per capire il posto dell’uomo nello schema universale delle cose e per organizzare gli affari umani.

Ma queste somiglianze non ci devono far dimenticare che si può condividere il desiderio di conoscere ma differire grandemente sui metodi usati.
Secondo le moderne teorie del linguaggio il ruolo di una sentenza, parola o concetto dipende dalla loro posizione relativa nella rete di un linguaggio; quindi per comparare sentenze, parole o concetti che appartengono a linguaggi differenti abbiamo bisogno di comparare le reti ad essi associate.
“Una comparazione valida e feconda del passato con il presente deve iniziare con una comprensione integrale del passato nella sua concretezza, con la ricostruzione dell’intera crisi della conoscenza che un pensatore ha dovuto affrontare, e con l’interezza della sua risposta, osservata con le sua articolazioni intatte. Guardare solo alla risposta – o peggio, solo alla parte superficiale e, a nostro giudizio, moderna – rischia di portarci ad una circolarità viziosa nella comparazione finale.” (Sivin 1968).
Per comparare i due sistemi non possiamo quindi limitarci a domande superficiali come: “esiste un termine greco comparabile a Qi?” oppure, “posso comparare Elementi greci e Fasi cinesi?”, ma dobbiamo porci domande sui processi e comparare i complessi di pensiero ed attività visti nelle loro circostanze originarie: come la gente si guadagnava da vivere, le loro relazioni con le strutture di autorità, i legami tra persone appartenenti allo stesso campo di studio, i metodi che usavano per comunicare ciò che sapevano, quali concetti e presupposti usavano.
Per fare questo cercherò di comparare i problemi fondamentali della scienza greca dopo il quarto secolo DC con quelli cinesi nello stesso periodo, per poi guardare al milieu sociale e culturale nel quale i diversi pensatori erano inseriti.

Pensatori e stato
In entrambe le culture le idee sul cosmo sono profondamente “cariche di valori” e la cosmologia non é separabile dall’ambito politico e morale. Le idee sul macrocosmo riflettono e si riflettono nei microcosmi del corpo e dello stato, e si fondano su concetti di armonia e buon ordine sociale.
In una analisi lucida ed esaustiva Lloyd e Sivin (2002) propongono che la differenza qualificante tra l’idea di relazione micro-macrocosmo in Grecia e in Cina risieda nella radicale differenza dei rapporti tra pensatori e autorità.
La Cina é stata caratterizzata da una tradizione ininterrotta di Impero centralizzato, che richiedeva, per la sua sopravvivenza, un consenso totale. I filosofi venivano incaricati dai governanti di costruire
una relazione tra stato e microcosmo, e per la stessa ragione i filosofi si aspettavano appoggio e sostentamento dal sovrano, che era dunque l’unico interlocutore. Questa situazione riduceva di molto l’interesse e la vis polemica dei dibattiti.
In questo ambito la cosmologia dominante era quella di una unità senza contrapposizioni interne, nella quale la discussione era limitata e l’autorità del passato non veniva mai posta in discussione. I governanti impersonavano la relazione tra micro e macrocosmo, e i filosofi erano inevitabilmente inseriti nel sistema politico. I pensatori non cercavano, come,e lo vedremo più avanti, facevano invece i pensatori in Grecia, un approccio che portasse passo passo verso una realtà oggettiva, ma piuttosto un recupero di ciò che i saggi antichi già conoscevano. Ciò si rifletteva nella tendenza dei filosofi cinesi a non creare nuovi termini, bensì ad utilizzare la terminologia già esistente piegandola a nuovi utilizzi, mantenendo così una linea di continuità ed una unità.

La situazione in Grecia non potrebbe essere stata più differente: le forme di governo erano diverse e meno stabili, non esisteva un ideale unico e condiviso, una unità di consenso. Mentre i governanti erano poco rilevanti per la formazione di idee cosmologiche, i filosofi, sganciati dalla politica, non dovevano convincere i regnanti né lavorare nel senso di una cosmologia che contemporaneamente giustificasse e limitasse l’autorità del sovrano. L’ambito era invece quello dei dibatti con i rivali. Dato che erano liberi da vincoli politici, dipendevano dalla loro capacità retorica per sopravvivere; allo stesso tempo erano molto poco condizionati dalle ragioni della politica. L’arena filosofica greca era ricca di dibattiti, in alcuni casi molto accesi ed argomentati; dispute e disaccordi, più che il consenso, caratterizzavano il mondo Greco.
A differenza della Cina, in Grecia ogni pensatore coinvolto in una disputa tendeva a creare il proprio set di termini che lo differenziassero dal suo oppositore e rendessero la sua teoria facilmente identificabile.
Quindi le differenze nel rapporto tra pensatori e stato si riflettevano anche nella creazione di concetti e negli approcci delle due culture nei confronti della realtà, dell’ontologia e delle strategie di pensiero.
E’ soltanto esaminando le relazioni tra corpo, cosmo, stato ed il ruolo del filosofo che possiamo offrire una immagine unitaria di una cultura e del suo modus operandi piuttosto che della sua opus operata.

Corpo
Si potrebbe dire, un po’ provocatoriamente, che non importa quanto simili sembrino certe strategie rivolte al corpo; se non condividiamo lo stesso corpo, queste somiglianze hanno poca importanza. Ora, se é vero che i nostri corpi sono innati per noi quanto noi lo siamo ai nostri corpi, ciò non significa che essi siano “naturali”, distanziati come sono da noi da una molteplicità di codici psicologici, sessuali, sociali e politici. Questa codifica sistematica dei corpi significa che essi sono contemporaneamente il prodotto e l’origine dell’esperienza.
E’ quindi rilevante per il nostro discorso analizzare i differenti modi nei quali il corpo é stato ‘costruito’ in Cina e in Grecia. In entrambi i sistemi é presente la correlazione tra corpo (microcosmo) e macrocosmo, ma queste correlazioni si sono create con modalità differenti.
Il corpo descritto da Aristotele é un modello del macrocosmo, perché la stessa tecnica di ricerca della verità può essere applicata ad entrambi, ed il corpo può funzionare come una mappa . Il corpo dei cinesi é invece l’universo in miniatura, non una copia, ed é allo stesso tempo uno specchio dell’ordine sociale; infatti la simbologia usata nel dialogo dell’Imperatore Giallo con il suo consigliere é la stessa usata per descrivere l’Impero.
Il sistema viene descritto in termini di uffici nella burocrazia centrale del corpo, non in termini anatomici. Gli organi sono, all’opposto che in Grecia, meri correlati del sistema di funzioni.
Anche nel caso della medicina, il corpo viene costruito in maniere completamente diverse. I limiti del corpo sono differenti, per cui anche la “semplice” traduzione di termini diviene problematica. Per tradurre il termine greco per corpo – sarkos – un termine che denota chiaramente il fisico, ci troviamo di fronte a quattro termini: shen, t’i, ch’u e hsing. Di questi i primi tre hanno una denotazione più ampia (denotano o implicano il concetto di personalità o persona), mentre il quarto, hsing (=forma) veniva raramente impiegato. Secondo Sivin (1995) il corpo cinese é “composto soprattutto da ossa e carne vagamente definita e attraversata da tratti circolatori” ; questi tratti collegano degli “insiemi di funzioni”, i cosiddetti organi, per cui si può dire, con Unshuld (1993) che la patologia cinese é funzionale.
Come si legge sul Classico dell’Imperatore Giallo: “Il soggetto del discorso…é il flusso libero ed il movimento centrifugo e centripeto del Qi divino (shen qi). Non sono pelle, carne, tendini ed ossa.” (Larre, Rochat de La Vallée 1994). L’etica buddista, colla sua idea di sacralità del corpo, ad un certo punto si innesta sulla filosofia confuciana e contribuisce a rendere il corpo cinese un tutto indiviso, per studiare il quale il medico deve osservare le funzioni, l’equilibrio delle sostanze. Un corpo dissezionato non é di alcun interesse per il terapeuta, ed é significativo che in medicina cinese la immagine tipica usata per descrivere la morte imminente sia quella di una separazione tra yin e yang.

Il corpo della medicina galenica é invece aperto e dissezionato. Esso é costituito da strutture, tessuti, organi e umori. Le patologia derivano da un disequilibrio negli umori fisici, che possono essere drenati da vasi osservabili. E tutta la teoria medica é in effetti basata su questa osservabilità. Queste strutture servono come strumenti di categorizzazione, e sopra di esse viene costruita una logica, una tassonomia della realtà; la frammentazione del corpo ci dà i mezzi per conoscere la natura, per svelare la verità. l’anatomia, per Galeno, é coestesa con le possibili modalità della ragione scientifica. In effetti, la dissezione diviene una necessità così cogente che Galeno non può neppure immaginare l’esistenza di una medicina che non vi faccia ricorso.

Apparenza e realtà
In Grecia, Nello sviluppo teorico da Parmenide ad Aristotele, si osserva una progressiva “neutralizzazione” della sacralità, per cui si passa dalla verità divina alla verità autorivelantesi. Questa nuova concezione di verità viene definita da Vegetti (1979) come non-latenza (aletheia). Essa deve essere individuata attraverso processi logici che eliminino le inadeguatezze del discorso poetico e religioso e lascino che la luce della verità emerga da sola.
Per i naturalisti greci vi é quindi una realtà (ousia) “sottostante”, nascosta, che ha a che vedere con la natura essenziale delle cose e che si contrappone alle cose come “appaiono” (phainetai) cioè le apparenze. Questa realtà può essere rivelata grazie al metodo assiomatico-deduttivo, derivato anch’esso dalla pratica legale e che non ha riscontri in Cina.
In Cina questa dicotomia non si pone almeno fino al terzo secolo DC con l’introduzione della metafisica indiana (ma anche in questo caso si parla di realtà spirituale e non fisica, vedi Zürcher 1980). Questa differenza si rivela anche nella diversa concezione di ‘esperto’: se in Grecia esso é colui che riesce ad utilizzare il metodo logico per ‘svelare’ la realtà, in Cina essere esperti significa essere degli iniziati, cioè potersi ricondurre a saggi antichi in possesso del sapere, grazie ad una linea di trasmissione testuale ininterrotta.

Cause
Dipingere una contrapposizione assoluta Grecia/Cina, con i greci interessati alle cause e i cinesi alle correlazioni, sarebbe semplicistico. I primi si mostrarono interessati alle corrispondenze (vedi la tavola pitagorica degli opposti) e i secondi studiarono il concetto di causa nel campo della diagnosi medica e in politica. Ma se si esclude la breve parentesi dei logici Mohisti, la letteratura cinese del periodo classico non fa accenni specifici alla causalità, mentre per i Greci essa diviene un problema fondamentale.
In Grecia infatti la questione delle cause é di grande importanza, e viene mutuata dal discorso legale sulle responsabilità. Essa viene però spersonalizzata: la spiegazione causale identifica ancora ciò che è responsabile degli effetti osservati, ma non si tratta più di responsabilità umane o divine, come nel discorso legale, ma di proprietà intrinseche delle cose.
Se la logica rende possibile l’espressione del vero discorso, l’anatomia rende possibile la categorizzazione razionale della Natura; la medicina che si basa sull’anatomia permette la vera conoscenza della salute e della malattia. Non é un caso che Galeno e l’autore ippocratico di ‘Della Medicina Antica’ tentino di modellare la medicina sulle scienze esatte, con metodi di prova certi ed esatti in puro stile geometrico.

L’unità delle corrispondenze
Se comparate al processo di razionalizzazione aristotelico, le concettualizzazioni cinesi appaiono molto differenti. Due tra le differenze più evidenti risiedono nella concezione unitaria del cosmo cinese, notata da vari autori (Granet 1987; Sivin 1995; Kwok 1993; Ng 1993), e nell’assenza dei classici concetti di causalità. Secondo Granet queste differenze sono dovute a divergenze fondamentali nei concetti di tempo e spazio. La temporalità logicamente strutturata di Aristotele descrive un tempo scandito, frammentato, mentre la temporalità socialmente costruita dei cinesi é più simile ad una idea empedoclea di un tutto immutabile ma dinamico, dove gli eventi che appartengono alla stessa categoria sono interconnessi, a prescindere dalla loro posizione temporale. L’idea dominante nella filosofia cinese, specialmente nel periodo post neo-confuciano, é quella di un “monismo dinamico” (Kwok 1993), dove il concetto di Ho – termine che implica “la capacità di contenere e accomodare tutti i tipi di eventi logici, qualsiasi sia la loro definizione temporale o spaziale” – é più importante del concetto di T’ung, termine che implica “logicalità”, “identificazione e identificabili” e “classificare”. Mentre i greci tentano di ridurre la Natura alle sostanze individuali o agli elementi, per i cinesi “era importante l’universo inteso come trama o pattern (wen)”.

La stessa idea di “concetto”, una entità in qualche modo astratta dalla realtà ma applicabile ad essa, é distante dalla filosofia cinese. “Niente ci invita a vedere nello Yin e nello Yang sostanze, forze o principi: sono solo emblemi animati da una forza evocativa che é indefinita, o meglio, totale” (Granet 1987).

Natura
Quindi per i Greci la natura (phisis) si identifica con il dominio sul quale filosofi e medici dichiarano di essere in grado di dare spiegazioni fisiche, che non chiamano in causa il divino. Abbiamo visto come l’introduzione di questo concetto non sia solo il risultato di una fredda analisi intellettuale, ma anche del tentativo di sconfiggere i propri rivali nel dibattito e di acquisire prestigio e soldi. Gli elementi (stoicheia) diventano uno strumento teorico e retorico importante perché danno delle fondamenta sicure per le teorizzazioni naturalistiche, e per questa ragione sono enti puramente materiali (a differenza del pneuma dei Presocratici e degli Stoici che é forse il concetto greco più vicino a quello di Qi, perché é contemporaneamente materiale e vitale – vedi Sambursky 1959).
Troviamo dei corrispettivi di natura ed elementi in Cina? I maggiori sospetti ricadono naturalmente sui concetti di Qi, Ying-Yang, e wu-hsing (le cd. Cinque fasi). Diciamo subito che questi concetti non diventano parte di un sistema organico ed integrato se non dopo il 300 AC. Tra il terzo e il secondo secolo AC essi iniziano ad essere usati insieme secondo una dottrina cosmologica matura, per ragioni in parte arbitrarie ed in parte utilitaristiche. Il Qi é un concetto abbastanza vasto e di grande applicabilità, yin-yang rappresenta una categorizzazione in base due molto adattabile come pure le wu-hsing. Con il primo secolo AC yin-yang e wu-hsing divengono vere e proprie categorie del Qi, usate per declinarlo; esso stesso viene ad essere definito in maniera più chiara: materia, materia trasformativa, materia di qualche tipo che incorpora vitalità (a differenza degli elementi greci che sono solo materiali). Non esiste una controparte cinese al termine phisis (inteso come universo fisico e materiale) almeno fino al 1881, quando i cinesi presero a prestito questo significato dai giapponesi. I cinesi non sentono il bisogno di un concetto puramente fisico, ed utilizzano il complesso qi, yin-yang e wu-hsing ad un livello di astrazione maggiore: il tao.

Conclusioni
Come scrive Sivin (1968) “la tradizione cinese é certamente scienza, secondo qualsiasi definizione che non sia completamente campanilistica, ma eccetto che a quel livello che la rende scienza, i suoi obiettivi divergono in maniera così costante dai nostri che qualsiasi similitudine diventa gratuita”.

Concetti come quello dei quattro elementi, la teoria della crasis – o complessione –  e dei quattro umori, l’incorporazione dei semplici nella teoria della qualità primarie e dell’equilibrio della complessione, l’idea della malattia come mala complexio e molte altre caratteristiche della medicina galenica hanno affascinato molti autori proprio a causa della apparente somiglianza con concetti cinesi. In effetti penso sia un argomento valido quello che pone la patologia dei “vasi” cinesi come controparte della patologia umorale greco-romana, visto anche che in entrambi i sistemi la malattia viene vista come un disequilibrio. Inoltre é vero che in entrambi i sistemi manca la nozione di una cesura radicale tra corpo e spirito, ed entrambi appaiono di natura allopatica.
Ciononostante, quando esaminiamo i sistemi nella loro interezza, nel loro decorso e non solo nelle immagini finali che ci offrono, ci colpiscono soprattutto le grandi differenze che ho tentato di descrivere nell’articolo: il diverso rapporto tra pensatori e stato dal quale poi discendono buona parte delle differenze nella creazione di concetti e terminologie. Da un lato l’attenzione dei greci per le dimostrazioni incontrovertibili, i fondamenti del sapere, la chiarezza ed il rigore deduttivo, che si accompagna alla scarsa attenzione per il consenso, uno scetticismo radicale e un favore per l’analisi. Dall’altra pare l’attenzione dei cinesi per le corrispondenze, le risonanze e le interconnessioni, la capacità di sintesi e la trasversalità tra campi di sapere divergenti, con una forte riluttanza verso il radicalismo e la critica delleposizioni dell’establishment. E poi il diverso peso dato ai concetti di causa/causalità e natura come ente fisico analizzabile; la mancanza della dicotomia apperenza/realtà in Cina; infine la diversa “costruzione” del corpo e la diversa natura dei concetti che così spesso usiamo come unico metro di paragone e che sono invece solo il risultato finale di un processo: elementi, phisis, yin-yang, qi, wu-hsing.

Bibliografia

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