Indici quantitativi in etnobotanica

Nel post precedente (qui) ho iniziato a parlare del problema della valutazione e dell’utilizzo dei dati etnobotanici e storici. Ho analizzato uno dei punti critici del processo di indagine, cioè la valutazione quantitativa della segregazione delle piante medicinali nelle famiglie botaniche, concludendo che questa segregazione esiste e sembra indicare una scelta non casuale delle piante da parte dei gruppi umani. Quali poi siano le ragioni per questa scelta è naturalmente un problema più complesso, e che quasi certamente non permette risposte mono-causali.

E’ stato proposto [1] che gli schemi di classificazione che osserviamo nelle e tra le società siano il risultato di:

  1. predisposizioni cognitive universali risultanti dall’evoluzione.
  2. l’oggettiva struttura tassonomica del bioma locale che non possiamo fare a meno di riconoscere.
  3. interpretazioni culturali relative.
  4. meri artefatti dei metodi di ricerca.

Il sapere tradizionale

Ma prima di affrontare questo argomento è necessario evocare il convitato di pietra di questa discussione, cioè il “sapere tradizionale” (o sapere ecologico tradizionale, o sapere locale, come è stato variamente definito). Fino ad ora, e nel post precedente, per comodità di trattazione ho usato questo termine (d’ora in poi ST) come se non esistessero ambiguità rispetto alla sua definizione, alla sua estensione, alle sue origini.  Ma è utile soffermarci di più sulla sua articolazione all’interno della ricerca in etnobotanica, perché è essenziale per l’esplorazione del rapporto tra dati storico-etnobotanici ed efficacia biologica, ed inoltre perché è proprio sull’interpretazione del termine e sul sull’utilizzo da fare del “sapere tradizionale” che spesso casca l’asino della discussione erboristica/fitoterapica.

Partiamo intanto con una definizione preliminare tratta da un articolo di Victoria Reyes-García del 2010.  L’autrice definisce il ST o i sistemi di sapere tradizionale come: “il sapere sulle risorse e le dinamiche dell’ecosistema, e le pratiche di gestione ad esso associate esistenti tra i membri della comunità che, giornalmente e per lunghi periodi di tempo, interagiscono per il proprio benessere e per la coesistenza con l’ecosistema stesso”. Secondo l’autrice il ST include non solo informazioni sugli usi umani di piante ed animali, ma anche sistemi di classificazione, osservazioni sull’ambiente locale e un sistema di utilizzo e gestione delle risorse, oltre a credenze su esseri non umani, sovrannaturali, e sulle relazioni che essi intrattengono con la società. In definitiva il sapere tradizionale deve essere inteso come in modo di comprendere il mondo o la “cultura”.Esso rappresenterebbe un tratto culturale adattivo per le popolazioni che favorisce la loro sopravvivenza, la produzione di cibo, la costruzione di ripari e in genere il controllo sulle proprie vite. Verrebbe sviluppato e continuamente adattato ad un ambiente in continuo cambiamento, e verrebbe passato di generazione in generazione non isolato bensì strettamente intrecciato a valori culturali ed etici.

L’altro

Vista questa definizione, torniamo a bomba al problema dello status dei dati storici ed etnobotanici. Quello che a mio parere è uno dei problemi più diffusi in questo ambito è la tendenza a polarizzare i termini del dibattito seguendo una antica tendenza della discussione sull’altro o sull’alterità, cristallizzata dall’antropologia settecentesca intorno all’alternativa “buon selvaggio” (preservato dalla corruzione della civiltà grazie alle sue doti naturali) o “cattivo selvaggio” (immerso nella miseria e depravazione a causa della sua ignoranza e pigrizia).

Succede infatti spesso che l’altro erboristico (sia esso il medico antico che seguiva i dettami della sua tradizione di medicina colta, o sia esso il guaritore contemporaneo che in una società distante utilizza rimedi della foresta) venga costruito secondo una immagine idilliaca, con un discorso impressionistico e poco rigoroso. Si richiama, con modalità talvolta ingenua e nostalgica, un passato nel quale si potrebbero ritrovare le origini più vere, la vicinanza alla fonte, qualcosa di “originario” che il presente, il progresso e la modernità ci hanno tolto. Oppure si cerca nelle popolazioni esotiche e nelle loro culture “la silhouette mobile e vaga di un selvaggio che, più vicino di noi alla natura, avrebbe rifiutato in anticipo tutto ciò che ci opprime e del quale si troverebbe ancora traccia, ricordo o testimonianza nella foresta amazzonica o nel deserto australiano” (vedi ad esempio Marc Augè).

Termini che vengono spesso usati in questo contesto sono tradizione, radici, origine, memoria, ecc., ma raramente gli autori che li usano si fermano a pensare al perché essi vengano usati, ed in che modo. Questo ragionamento schematico e dicotomico, etnocentrico al rovescio, contribuisce ad imprigionare l’altro, a sottometterlo alla nostra rappresentazione. Spesso in questo dibattito si fa uso del termine e della metafora delle radici [2], che richiama il tema delle origini, che in quanto origini sembrano più importanti, imprescindibili, contenenti in nuce ciò che da esse si svolge [3]. Ma come dice Galimberti:

“Essere più vicini alla fonte non significa custodire qualcosa di “originario”, ma essere semplicemente all’inizio di un processo: la storia, che si compie facendosi, e non abolendola dissetandosi alla fonte. All’inizio c’è solo l’avvio, e non il senso nascosto, o il silenzio custodito da ciò che in seguito si dispiegherà. E solo il rifiuto del mondo che viviamo può far ritenere che il mondo antico, con il suo corredo di simboli, disponga di segni più veri. Ma rifiuto e nostalgia sono i moti dell’anima di chi disabita il mondo che per sorte si trova ad abitare, non sono certo criteri di giudizio, ne tantomeno sentieri di verità”.

Quantificazione

Fatta questa doverosa premessa circa l’atteggiamento metodologico da tenere quando siamo confrontati da dati storici ed etnobotanici, rimane l’aspetto tecnico, interno diciamo all’etnobotanica. Cosa significa il termine sapere tradizionale o i suoi cognati? E’ possibile quantificarlo? E se si, come?

La quantificazione del sapere tradizionale è stata tentata attraverso l’utilizzo di indici di misura dell’importanza culturale delle piante, i cosiddetti indici di Importanza Culturale Relativa [RCI]. Questi indici quantitativi si usano in etnobotanica per comparare usi e importanza culturale dei differenti taxa. Sono stati usati in vari studi e la loro utilità risiede in prima istanza nel fatto che su di essi si possono effettuare analisi statistiche di vario tipo per comparare diverse specie tra loro, zone vegetazionali, habitus, taxa, ecc. Essi inoltre permettono di ottenere valori numerici integrabili ad altri indici (tassonomici, fitochimici, ecc.) utilizzabili per comparazione trans-culturali e per testare differenti ipotesi.

Gli indici RCI si sono moltiplicati negli ultimi anni, ma mi soffermo in questo momento su tre gruppi di indici che sono particolarmente importanti.

1. Indici di totalizzazione degli usi

Semplici indici enumerativi, che elencano usi e non usi per ogni pianta.  Un esempio è UT

UT

Dove UT è pari alla semplice sommatoria di tutti gli usi conosciuti per ogni specie, che possono essere categorizzati per utilità, per taxon vegetale o per tipo vegetazionale. Questi metodi non tentano di misurare i livelli di importanza per i differenti usi e non tengono conto del consenso tra gli informatori. Il taxon più importante è semplicemente quello con le maggiori citazioni d’uso. Dal punto di vista della possibilità di catturare la complessità dell’oggetto sapere tradizionale (e della misura dell’importanza culturale) questi indici non offrono molto, e dal punto di vista della rilevanza statistica e della possibilità di testare delle ipotesi sono i meno efficaci. Non registrando la provenienza dell’informazione (da quale informatore) non permettono di valutare la variabilità intraculturale. Non tenendo in conto l’esistenza di livelli diversi di importanza, il metodo è eccessivamente sensibile all’intensità della campionatura (una pianta con molti utilizzi tutti poco importanti nel gruppo studiato peserebbe di più di una pianta con meno utilizzi ma molto più importanti). Per ovviare almeno in parte a questi deficit, sono stati sviluppati dei metodi più sofisticati, come quelli detti di assegnazione soggettiva dell’importanza.

2. Indici di assegnazione soggettiva

Indici simili a quelli precedenti, ma con modificatori di importanza basati sulle valutazioni e sulla conoscenza del contesto da parte del ricercatore. Questi indici pesati permettono la misura dei gradi di importanza ma introducono un pregiudizio del ricercatore che rende più difficile l’utilizzo degli indici, ad esempio nella analisi bibliografica. Un esempio è quello del Valore d’Uso (UVs)

UVs1

 

UVs deriva da UT ma somma i punteggi generati dal ricercatore per ogni utilizzo (importante = 1 punto; poco importante = 0,5 punti).

 

Gli indici che sono stati più influenti nei decenni recenti sono però senza dubbio stati gli indici di consenso.

 3. Indici di consenso tra gli informatori

Indici basati sul consenso tra gli informatori, con pesi dati agli usi generati dal ricercatore o dall’informatore. Questi indici si basano sulla teoria del consenso culturale (CCT), una teoria antropologica sviluppata per stimare la risposta culturalmente corretta in differenti domini del sapere tradizionale. La CCT parte dagli assunti che esista una risposta culturalmente corretta per ogni domanda [4], che il sapere consista nell’accordo tra informatori [5], e che la probabilità che un informatore risponda in maniera corretta ad una determinata domanda sia il risultato della sua competenza in quel dominio di sapere [6]. Si tratta quindi di un metodo che misura il sapere in termini di congruenza con un modello esplicativo proprio del gruppo studiato. Da ciò deriva l’ipotesi che maggiore la salienza di una pianta o di un suo utilizzo in una comunità, maggiore sarà la frequenza di citazione della pianta.

Qui sotto riporto alcune delle formule più usate.

1. Valore d’uso delle specie per un informatore:

UVis

Dove UVis = numero di usi menzionati per la specie s dall’informatore i; n is = numero di interviste nelle quali l’informatore i menziona un uso per la specie s.

2. Valore d’uso di una specie per tutti gli informatori

UVs2

Dove  ni = numero totale di informatori intervistati per la specie s. Questo indice misura il numero di usi attribuiti ad un taxon relativo al numero di informatori che citano il taxon, cioè misura l’importanza del taxon se per importanza intendiamo la sintesi degli usi. Alcuni autori hanno infatti riscontrato una correlazione positiva tra numero di informatori che considerano importante una specie s, l’indice UV, e il numero di utilizzi, ed hanno concluso che l’importanza è una sintesi della molteplicità degli usi di un taxon. Altri autori preferiscono legare l’importanza sia al numero di usi sia a quanto bene è conosciuta la pianta.

UVs può essere ritenuta rilevante quando tanti informatori citano molti utilizzi, ma può essere fuorviante se vi è un solo informatore che cita molti utilizzi, oppure se una pianta è oggettivamente molto importante, ad esempio una pianta simbolo stesso della società studiata, ma ha pochi usi. Teoricamente gli indici basati sul consenso degli informatori dovrebbero favorire quei taxon con un elevato livello di consenso in una cultura, ma un indice come UV è ancora molto crudo.

3. Metodo del punteggio dell’informatore

ISs

All’uso di una pianta viene assegnato dall’informatore un punteggio variabile da 0,5 (utilizzabile ma sub-ottimale) a 1,5 (quasi ottimale) in cinque categorie. Questi punteggi vengono sommati per ottenere un punteggio finale, per una singola intervista, nella forchetta 0-7,5. ISis si calcola come il punteggio medio per tutte le interviste, e ISs si ottiene come la media tra i valori d’uso per tutti gli informatori.

Criticità

Tutte queste tecniche condividono l’assunto che gli indici misurino il sapere tradizionale, e che l’estensione del sapere tradizionale su una pianta in una data cultura ci dia una misura indiretta dell’importanza culturale percepita di tale pianta in maniera più oggettiva degli altri indici. Inoltre, quando gli indici vengono utilizzati a scopo euristico, per delimitare taxa specifici per la ricerca etnofarmacologica, ci si basa sull’assunto che vi sia un legame tra importanza culturale, sapere tradizionale, efficacia percepita e potenziale farmacologico.

Ognuno di questi passaggi presenta delle criticità.

  1. Il rapporto tra indici RCI ed efficacia percepita potrebbe non essere lineare. Vi è ad esempio il ruolo della disponibilità delle piante che può confondere questo rapporto.
  2. Esistono molte discrepanze tra dati ottenuti con metodi differenti, discrepanze che rivelano come il sapere tradizionale comprenda molte dimensioni e campi differenti, rendendo difficile incapsularlo in un’unica definizione derivante da un unico metodo.
  3. Esistono discrepanze tra “sapere attivo” (quali piante vengono usate dalle persone) e “sapere passivo” (cosa le persone sanno sull’utilizzo delle piante)
  4. La correlazione tra sapere e consenso potrebbe non essere lineare e semplice, e potrebbe dipendere:

4.1. dal fatto che stiamo studiando piante medicinali o piante alimentari o piante medicinali e alimentari.

4.2. Da chi decidiamo di intervistare come informatore (guaritore, bambini, uomini, donne, ecc.). Gli etnofarmacologi si sono quasi sempre concentrati sui guaritori professionisti perché li ritenevano i più profondi conoscitori della materia, ma se professionisti e gente comune non condividono lo stesso corpus di sapere, allora restringere la ricerca ad un solo gruppo limita e rende pregiudiziale il tipo di informazione raccolta

4.3. Dalla differenza tra sapere condiviso e sapere idiosincratico

Casagrande mette anche in dubbio l’assunto che le piante usate più di frequente siano anche quelle percepite come più efficaci. L’autore arriva a questa conclusione dopo avere riscontrato nel suo studio sul campo che:

  1. L’abbondanza di una specie è collegata alla frequenza d’uso, mentre la frequenza d’uso non è collegata all’efficacia percepita; secondo l’autore questo indica che le prime piante ad essere utilizzate in caso di malattia sono le più disponibili, le più abbondanti nella vicinità delle zone abitate, a prescindere dalla loro efficacia. Le piante più efficaci (efficacia emica) vengono usate solo in caso le prime non risolvano il problema. Visto che la severità dei sintomi può scemare anche senza intervento, è probabile che in molti casi le piante più efficaci non verranno utilizzate.
  2. L’efficacia percepita e, in misura minore, la frequenza d’uso, sono correlati alla distribuzione del sapere, ma l’organizzazione sociale, i fattori cognitivi individuali e distribuiti, i processi di trasmissione culturale strutturata e random danno forma al processo di disseminazione. A parte poche piante e malattie molto comuni, la distribuzione del sapere sarà spesso random o non prevedibile.

 

Questi risultati mettono in crisi il postulato di molta ricerca quantitativa che suppone che frequenza d’uso, distribuzione del sapere e/o consenso tra informatori si correli bene con l’efficacia percepita, e mette quindi in dubbio la correlazione tra indici RCI ed efficacia emica. I risultati metterebbero anche in dubbio l’ipotesi che le piante più disponibili siano più utilizzate perché conterrebbero più composti interessanti (come voleva Moerman): le piante più disponibili verrebbero più usate semplicemente perché sono più disponibili.

Sarebbe quindi meglio misurare direttamente l’efficacia percepita, ma anche il legane tra efficacia percepita e potenziale farmacologico non è netta, perché le informazioni variano tra le popolazioni, è quindi necessario comparare diverse comunità in aree geografiche diverse e preferibilmente lontane.

Quindi, secondo Casagrande i rapporti tra frequenza d’uso e abbondanza di una pianta non sono indicatori forti dell’efficacia percepita, mentre il consenso lo è, e comunque l’efficacia percepita ha un legame debole con il poitenziale famacologico se non viene analizzata a livello transculturale (vedi il prossimo post).

diagramma

 

Questo non significa che, secondo Casagrande, le piante usate dalle popolazioni non siano mai efficaci, ma che gli schemi di distribuzione del sapere non rappresentano una corrispondenza ottimale tra bisogni indotti dalla malattia e i composti fitochimici disponibili nell’ambiente.

Il prossimo post si concentrerà su due articoli che descrivono due applicazioni molto diverse tra loro degli indici, ma che ci possono servire per capirne meglio l’utilità.

 

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Note

[1] Casagrande, David 2004 Ethnobiology lives! Theory, Collaboration, and Possibilities for the Study of Folk Biologies. Reviews in Anthropology, vol. 33, pp. 351 to 370

[2] Una metafora molto potente perché mentre nessuno ha mai visto una tradizione o una identità, tutti hanno visto delle radici.

[3] Lo stesso concetto di tradizione viene presentato come monolitico e fisso. In effetti se non fosse presentato in questo modo non potrebbe svolgere il compito che gli viene richiesto, quello di “ancorare” le pratiche presenti ad un passato “naturale” che le giustifichi. Ma questa visione, di nuovo piuttosto ingenua, non rende conto del carattere costruttivo e dinamico della tradizione e della memoria collettiva che hanno bisogno di una serie di cornici di riferimento a carattere sociale che ne condizionano fortemente i contenuti. Al mutare dei quadri sociali muta la memoria. La memoria collettiva e la tradizione culturale si creano attraverso un processo di ricostruzione artificiale (vedi il Palio di Siena, la topografia leggendaria dei Vangeli in Terra Santa, la costruzione delle differenze etniche tra Hutu e Tutsi) (Halbwachs (1987) La memoria collettiva, Unicopli, Milano). Proprio gli antichi sembravano ben avvertiti del carattere dinamico e non monolitico della tradizione, incapace da sola a fondare una identità: Cicerone (De legibus, 2, 16, 40) racconta che un’ambasciata ateniese si recò a Delfi per chiedere ad Apollo quali riti sacri mantenere e quali no. L’oracolo rispose: eos quae essent in more maiorum, cioè “quelli conformi al costume degli antenati”, ovvero “tenetevi alla vostra tradizione”. Ma gli ateniesi tornarono poco dopo per ottenere maggiori delucidazioni sul significato dell’indicazione: infatti il costume degli antenati era mutato molte volte, quale era la tradizione che dovevano ritenere quella valida? Al che Apollo rispose: “la migliore”, rivelando che la tradizione non è ne fissa ne monolitica, cambia e si costruisce, e alla fine la scelta si basa su criteri utilitaristici, non sull’antichità.

[4] Nel senso che la realtà culturale, definita come la risposta data dalla maggior parte delle persone, è la stessa per tutti gli informatori (o le fonti di informazione, in caso si lavori su testi.

[5] Il livello di accordo tra informatori riflette il loro accordo congiunto

[6] Se consideriamo la competenza come la percentuale di riposte corrette.

 

 

Indicazioni tradizionali: come valutarle, e perché?

Ha senso interrogarsi sui dati tradizionali relativi all’uso delle piante medicinali, ai dati storici ed etnobotanici? Al di là di un mero interesse antiquario o accademico, che significato ha il sapere antico e tradizionale? Quale peso dobbiamo dare alle fonti tradizionali per le nostre decisioni rispetto all’oggetto piante medicinali?

Credo che proprio chi lavora con le piante medicinali, studiandole o usandole, dovrebbe porsi queste domande e tentare di dare loro risposte serie, credibili, aumentando la qualità della riflessione teorica senza usare scorciatoie.  Il fatto che le fonti storiche ed etnobotaniche siano abbondati è contemporaneamente un punto di forza ed un punto critico, perché può sembrare che la loro mera esistenza possa bastare a giustificare l’uso delle piante medicinali, la loro sicurezza, la loro efficacia, ecc.  Non è lo scopo di questo post approfondire le molteplici ragioni per cui questo assunto metodologico sia insostenibile.  Prenderò invece come assunto proprio il fatto che, appurata l’esistenza e la consistenza delle fonti, rimane da approfondire il problema della loro valutazione, della loro significatività, della loro interpretazione.

E allora, approfittando del traino di Erba Volant, tenterei di approfondire il ruolo dei metodi quantitativi in etnobotanica ed etnofarmacologia, e di mostrare come essi possano permettere una valutazione razionale dei dati, e di usare questi dati per intervenire nel mondo, per incidere sul reale, un argomento sul quale avevo discusso tempo fa con Andrea Pieroni.

Facciamo però un passo indietro per meglio definire i termini della questione. L’etnofarmacologia è stata definita come un campo di  studio interdisciplinare che si divide tra scienze mediche, naturali e sociali, e che ha a che vedere con l’osservazione, l’identificazione, la descrizione e la sperimentazione degli ingredienti e degli effetti delle droghe indigene.  Lo scopo di queste osservazioni è ampio, ed è cambiato nel tempo, come nel tempo sono cambiati gli scopi dell’etnobotanica, ma possiamo certamente dire che due possibili obiettivi sono la generazione di predizioni su piante non studiate, e la corroborazione dei dati sull’attività di piante poco studiate.  Il filtro etnobotanico è stato certamente il primo strumento che abbiamo utilizzato per individuare rimedi interessanti: l’osservazione del comportamento dell’uomo, e in qualche caso degli animali, ha portato alla scoperta delle piante che hanno fatto la storia della farmacologia classica, le piante cosiddette eroiche (Strophantus, Datura, Atropa, Ephedra, Physostigma venenosum, Papaver somniferum, ecc.).

Ma le piante eroiche, facilmente identificabili a causa dei loro effetti drastici, costituiscono una percentuale molto ridotta delle piante medicinali, ed identificare piante ad azione meno evidente si è fatto sempre più difficile. Il migliorare della tecnologia sembrava per un certo tempo avere scalzato il metodo della bioprospezione etnobotanica: i metodi di screening high throughput permettevano di testare migliaia di estratti in poco tempo, e la chimica combinatoria permetteva di creare decine di strutture da un unico modello naturale, e la tecnica di raccolta delle piante a random diveniva in questo modo competitiva prché permetteva la raccolta di moltissimi campioni in poco tempo e senza dover coinvolge le popolazioni locali.  Questo non ha impedito che, sotto la spinta di molti etnofarmacologi, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso l’uso del dato etnobotanico sia ritornato in auge.  Questo nonostante che lo screening etnobotanico soffra di alcuni problemi legati ad una sua non economicità (necessita infatti di operatori professionali, di molto tempo e sostegno economico), e a volte alla poca applicabilità dei dati ottenuti localmente a problematiche di salute tipiche dei paesi sviluppati.

Il problema metodologico che si presentava ai ricercatori era però importante: l’etnofarmacologia moderna doveva contemporaneamente evitare di ridursi ad una serie di rassegne meramente elencatorie senza consistenza teorica, slegate le une dalle altre, ed evitare approcci ingenui. C’era cioè la sentita necessità di produrre lavori veramente transdiciplinari, di dotarsi di strumenti analitici migliori, di metodi quantitativi in grado di generare ipotesi falsificabili, riproducibili e trattabili con strumenti statistici; solo in questo modo la disciplina poteva essere in grado di intervenire nel mondo, magari proprio in quelle comunità locali che erano state fino a quel momento solo una fonte informativa.

Un articolo determinante da questo punto di vista è certamente stato quello di Browner, De Montellano e Rubel del 1988, nel quale gli autori proponevano una piattaforma metodologica che comparasse la prospettiva “emica” (cioè determinata dagli elementi interni di una cultura e dal loro funzionamento piuttosto che da schemi esterni) dell’etnomedicina e quella “etica” (di tipo generale, non strutturale, oggettiva) delle bioscienze, per generare nuove interpretazioni dei dati provenienti dalla ricerca transculturale in antropologia medica.

Gli autori identificano come un obiettivo dell’antropologia medica quello di contribuire alla “riduzione del carico mondiale di malattie, disabilità e sofferenze” , oltre ad una nuova comprensione del significato di salute e malattia. Puntualmente essi riconoscono anche che questa proposta potrebbe sembrare a molti ricercatori qualitativi di matrice eccessivamente riduzionistica, incapace di catturare i fenomeni nel loro contesto, ma ribadiscono la loro convinzione che invece sia possibile effettuare analisi etnograficamente valide, capaci di produrre dati che siano allo stesso tempo rilevanti e significativi per gli informatori, e suscettibili di comparazione e valutazione oggettiva.

Gli autori propongono uno schema di lavoro che consiste:

A) nell’identificare i fenomeni da analizzate in termini “emici” (mal di testa, indigestione, ecc.) e le piante usate per trattarli

B) nel determinare in quale misura i fenomeni descritti possano essere compresi nei termini dei metodi e dei concetti biomedici

C) nell’identificare aree di convergenza e divergenza tra i fenomeni descritti e le spiegazioni biomediche.

Una volta effettuati i vari passaggi, sarebbe teoricamente possibile assegnare ad ogni pianta un livello di evidenza, che gli autori così definiscono:

L1: rapporti di utilizzo parallelo in popolazioni tra le quali la diffusione è improbabile.
L2: evidenza L1 supportata da analisi fitochimica che verifichi la presenza di composti chimici che possono produrre un effetto terapeutico, o che risultano positivi in saggi biologici legati all’attività terapeutica.
L3: evidenza L2 supportata da una modalità di azione plausibile che produrrebbe un effetto terapeutico in un paziente.
L4: evidenza L3 supportata da studi clinici

L’approccio di Browning e collaboratori è stato fondamentale ed ha influenzato moltissimi ricercatori nel cosiddetto paradigma biocomportamentale. Uno dei problemi riscontrati è però che, a parte il primo livello di evidenza (L1), tutti gli altri si basano su dati di tipo fitochimico, farmacologico o clinico. Ma come analizzare le moltissime piante per le quali questi dati non fossero disponibili, o lo fossero in minima parte?

Negli anni vari autori si sono cimentati nel tentativo di espandere il programma di Browner e colleghi, partendo da alcuni assunti, che riassumo in questo modo: 1. le piante importanti come medicinali secondo il sapere tradizionale di un popolo non sono campionature random delle Flore totali, 2. le piante producono una ampia gamma di sostanze interessanti per la salute umana, 3. la sperimentazione e la scelta di certe piante da parte dei gruppi umani viene aiutata da caratteristiche organolettiche delle piante legate al contenuto fitochimico, 4. esiste una correlazione tra filogenesi e fitochimica, 5. popolazioni culturalmente e geograficamente distanti hanno meno probabilità di aver condiviso sapere etnobotanico.

Come vedremo, ognuno di questi punti, se esaminato nel dettaglio, presenta delle criticità.

Iniziamo ad esempio dall’assunto della distribuzione non random delle piante medicinali e del significato di questa distribuzione.  Come si quantifica la segregazione delle piante medicinali nei taxa di una Flora specifica, e come si compara tra Flore differenti?  Inoltre, secondo quali criteri vengono selezionate le piante medicinali da parte delle popolazioni umane? E infine, parlando di sapere tradizionale, come si identifica, e come lo si compara tra culture diverse?

Uno degli studi che hanno iniziato ad analizzare il problema della segregazione tassonomica delle piante è certamente quello di Moerman e collaboratori (1999), che hanno effettuato una analisi di 5 Flore distanti fra loro, domandandosi se vi fossero famiglie botaniche dove il numero di piante medicinali fosse superiore a quello che ci si poteva aspettare da una scelta casuale.  Nello studio gli autori hanno usato il metodo della regressione lineare per identificare i valori più probabili data una distribuzione casuale, ed hanno analizzato i valori che differivano dal valore aspettato (i residui). Ad un residuo positivo elevato corrispondeva una famiglia botanica con una maggior concentrazione di piante medicinali.  Raccolti i dati sui residui per le cinque flore, gli autori le hanno poi comparate a coppie usando l’indice di correlazione di Pearson ed hanno identificato tre famiglie sovrapponibili dominanti in quattro flore su cinque: Asteraceae, Apiaceae e Lamiaceae (da notare che le quattro flore congruenti appartengono tutte all’ecozona Olartica, e l’unica non congruente alla regione Neotropicale).

Sull’onda di questa prima pubblicazione, vari autori hanno applicato la regressione lineare all’analisi comparativa di varie Flore, nel tentativo di duplicare e completare il lavoro di Moerman.

Allo stesso tempo sono state avanzate delle critiche e proposti dei miglioramenti alle tecniche statistiche.  La regressione lineare ad esempio soffre di alcune debolezze: non è adatta a generare ipotesi confutabili, tende a favorire i taxa più numerosi, perché pone un limite massimo ai residui: una famiglia con 10 specie non potrà mai avere uno scarto >10, mentre una famiglia con 100 specie potrebbe avere uno scarto di 100.  Inoltre la regressione lineare presuppone che il rapporto tra  numero di specie medicinali e numero di specie totali (SM/ST) sia lineare, ma questo presupposto non è necessariamente giustificato.  Per finire, la suddivisione in taxa usata da Moerman e colleghi permette una comparazione discreta (la spp. x appartiene/non appartiene alla famiglia y) e non continua tra le specie, e in questo modo non riflette bene la prossimità filogenetica, oltre ad essere legata alla parziale convenzionalità della classificazione tassonomica, in modo che la stessa analisi darebbe risultati differenti a seconda di un approccio tassonomico da lumpers o da splitters.

Bennett e Husby nel 2008 hanno testato la resi di Moerman nella Flora equadoriana usando il metodo binomiale, metodo che a loro parere avrebbe permesso di generare dati utili per testare ipotesi, anche se considera comunque il rapporto SM/ST come lineare.  Più di recente Weckerle e colleghi nel 2011 hanno studiato la Flora medicinale campana comparando i metodi della regressione lineare e quello binomiale ad un approccio Bayesiano, che considera il rapporto SM/ST come una variabile random, e tutte i taxa sopraspecifici come pari, prescindendo dalle suddivisioni tassonomiche, evitando quindi il problema del favorire taxa più numerosi.

Altro problema, discusso da Bletter e in altri articoli, come quello ben descritto da Meristemi, è quello dell’origine dei dati tassonomici: solo un lavoro di analisi filogenetica specifico e quindi lungo e costoso, permetterebbe una comparazione basata su un rapporto continuo di vicinanza filogenetica.
Nonostante le grandi difficoltà, mi pare assodato che i dati in letteratura indicano che il clustering tassonomico esiste, e si può quantificare. Per quanto questo dato sia importante ed intrigante, ci rimane da porci una domanda ancora più rilevante per le possibili implicazioni pratiche: quali sono le ragioni per cui i gruppi umani tendono ad usare più di frequente certe specie piuttosto che altre?  La risposta non è scontata, se alcuni autori hanno risposto che i raggruppamenti rispondono solo a criteri di tipo simbolico, mentre altri propongono approcci più o meno radicalmente adattazionisti.

Secondo Moerman la segregazione in gruppi è dovuta per lo meno a due ordini di ragioni legati tra loro: il primo ha a che vedere con la   correlazione tra filogenesi e fitochimica, per cui gli esseri umani riconoscerebbero, grazie alle loro proprietà organolettiche, piante contenenti gruppi chimici specifici (in particolare composti amari, aromatici e piccanti), e quindi, grazie al fatto che i percorsi metabolici si conservano nelle linee evolutive vicine, tenderebbero a riconoscere specie appartenenti a taxa correlati.  Il secondo ordine ha a che vedere con la trasmissione del sapere etnobotanico. La proposta di Moerman è che le flore medicinali analizzate si assomigliano perché i gruppi umani, nelle loro trasmigrazioni nel corso della storia dal paleolitico in poi, hanno portato con se un sapere tradizionale che hanno trasmesso alle generazioni successive, tramandando di fatto l’utilizzo di certe specie o taxa piuttosto che altri. Leonti e colleghi hanno poi parlato di trasmissione non di un sapere definito e specifico ma della trasmissione di un set di criteri di scelta di vario tipo: organolettici, morfologici, ecologici, simbolici.

Questo set di criteri avrebbe permesso l’adattamento del sapere tradizionale all’esplorazione di nuove regioni biogeografiche dove le specie medicinali o addirittura le famiglie più usate in precedenza non fossero presenti o importanti.  Alla base del clustering tassonomico esisterebbe quindi il legame tra le capacità percettive dell’uomo, la fitochimica delle piante, il parallelismo tra filogenesi e fitochimica, oltre a vari fattori culturali e sistemi cognitivi. Le Asteraceae verrebbero scelte perché conterrebbero principi attivi amari facilmente riconoscibili al gusto.  Tutto questo non ci porta ancora alla conclusione che la selezione sia significativa dal punto di vista dell’attività biologica delle piante.  Non va poi dimenticato che altri autori ritengono questo paradigma troppo ambizino, e ritengono che le ragioni per le quali le piante vengono preferite potrebbero essere di altro ordine, ad esempio la loro disponibilità nelle vicinanze delle abitazioni. In questo senso le Asteraceae verrebbero scelte perché si adattano bene a condizioni di crescita in ambiente ruderale e sono quindi facilmente disponibili all’uso.

Nella prossima puntata vorrei concentrarmi sul problema della definizione e quantificabilità del concetto di sapere tradizionale.

Uomo e piante 8/dimoltialtri

Dopo un lungo periodo piuttosto congestionato che mi ha impedito di buttare giù alcunchè per il blog, provo a rintrecciare le fila del discorso sul rapporto uomo e piante. L’ultima e lontana puntata la potete ritrovare qui,  e da questa puntata potete rintracciare le altre sei già disseminate.  Mi ero fermato ad un punto cruciale, avendo tentato di dare una visione d’insieme della teoria chemioecologica dell’origine dell’uso delle piante (debitore per questo interesse ai testi di Johns e della Etkin), e essendomi lasciato da affrontare il capitolo più specifico sulla medicina “botanica” vera e propria.  Riprendo da qui, in parte riassumento quanto già detto ed in parte tentando di capire se questi ragionamenti possano illuminare la storia della medicina antica, e come.

Introduzione

Il filo che lega i primi post di questa serie alla seconda, che lega cioè i fenomeni chemioecologici adattivi tra uomo e piante allo sviluppo della medicina, è certamente sottile.  Indubbiamente l’ipotesi coevolutiva, con tutti i suoi limiti, fornisce una chiave interpretativa fertile – una buona euristica – per iniziare a rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti: “come si giustifica la predominanza delle piante nelle farmacopee umane?”.  Essa propone che i rapporti tra uomini e piante si sono inizialmente sviluppati seguendo percorsi biologici di adattamento, simili a quelli che caratterizzano i rapporti tra piante ed altri animali, o tra piante e piante.[1]

D’altro canto, se volessimo estendere questo ragionamento all’intreccio sempre più complesso di pratiche, saperi, mediazioni simboliche ed istituzioni che caratterizzano la medicina come pratica culturale elaborata,[2] ci troveremmo di fronte ad ostacoli evidenti.  L’ipotesi coevolutiva, infatti, può “spiegare” solo in maniera limitata il sapere dell’uomo sulle piante medicinali; ci suggerisce la presenza di un legame “intrinseco” o “biologico”, ma questo legame non riesce, da solo, a dar ragione delle molteplici attività ed indicazioni terapeutiche attribuite, nel corso della storia, ai rimedi vegetali; è anzi probabile che possa giustificare direttamente solo gli utilizzi delle piante per parassitosi ed infezioni intestinali, più strettamente legati alla teoria dei tre livelli trofici.[3]

E’ invece ipotizzabile che l’interiorizzazione dei rapporti con le tossine vegetali [4] abbia costituito, per i primi gruppi umani, solo una base  sulla quale aggregare successive ulteriori  acquisizioni culturali di sapere farmacologico, aprendo la strada verso un utilizzo vieppiù complesso della chimica vegetale
Seguendo questa linea di ragionamento, si può tracciare una ideale (ed idealizzata) successione di momenti evolutivi[5].

Breve storia dei nostri primi rapporti con le piante

Le prime sperimentazioni

I primi rapporti complessi tra esseri umani e piante potrebbero avere avuto luogo come semplice interazione senza mediazioni culturali e senza riflessioni consapevoli da parte degli individui.  Un esempio potrebbe essere l’associazione mnemonica che avviene quando al consumo di una pianta succede un cambiamento immediatamente percepibile nello stato dell’organismo. Questa sorta di apprendimento automatico potrebbe avere avuto luogo solo per piante con effetti molto marcati e subitanei, come nel caso di piante velenose e/o farmacologicamente molto attive. Queste sono in effetti le protagoniste della farmacologia classica, le piante anestetiche, analgesiche, psicoattive, stimolanti, e ancora le piante cardiotoniche e diuretiche; ma anche piante con evidenti ed immediati effetti sul tratto gastrointestinale, un apparato sul quale le sostanze ingerite hanno un effetto spesso immediato e precedente all’assorbimento nella circolazione sistemica, sia per la sua caratteristica di essere un diaframma con il mondo esterno, sia per I meccanismi fortemente reattivi ad esso associati, posti a difesa della salute dell’organismo)[6].

Nei piccoli gruppi egalitari di cacciatori e raccoglitori del paleolitico,[7] precedenti alla rivoluzione agricola, e di solito costituiti da individui ben nutriti e in salute, le minacce per la salute derivavano principalmente da infezioni a lunga latenza, malattie croniche infettive della pelle e problemi parassitari, ferite e traumi derivati da incidenti familiari, di caccia e di guerra, mentre è improbabile che le infezioni acute e virulente, le diarree infettive, le epidemie, ecc., giocassero un ruolo rilevante, viste le ridotte dimensioni dei gruppi.[8] Infanticidio ed abbandono degli anziani erano probabili metodi di controllo della salute e della stabilità del gruppo.

Secondo molti storici  é probabile che l’origine delle malattie fosse sempre immaginata come esterna al corpo e con effetti non limitati all’individuo malato ma riverberati su tutto il gruppo di appartenenza. Inoltre, vista la ridotta complessità formale di queste società e la poca o assente stratificazione e specializzazione di ruoli, le attività di cura erano quasi esclusivamente intraprese all’interno della famiglia o della medicina popolare collettiva, non gestite da esperti con conoscenze esoteriche, e le terapie erano solitamente empiriche e magiche (piante ed incantesimi) o comportamentali (digiuno, reclusione, riposo).

Rapporti causa-effetto

É stato proposto che in questo contesto sociale le osservazioni empiriche e le associazioni consapevoli di tipo causa-effetto avrebbero iniziato a sovrapposi e ad arricchire il sostrato sopra descritto di risposte automatiche e di comportamenti appresi attraverso l’uso non mediato delle piante.  Questo utilizzo più consapevole delle piante è ad esempio evidente nel modo più sofisticato con il quale gli esseri umani, rispetto ad altri animali, usano le piante antelmintiche ed amebicide: eseguono infatti l’esame delle feci prima e dopo l’utilizzo per riconoscere e verificare  l’attivitá delle piante.  Uno strumento cognitivo di questo tipo potrebbe spiegare, ci dice Johns, l’utilizzo delle piante per il trattamento delle malattie più semplici (pensate e trattate in maniera naturalistica) come fratture, slogature, e soprattutto ferite ed infezioni della pelle, nel qual caso l’utilizzo di piante astringenti e antisettiche é aperto ad una verifica fattuale semplice e diretta [magari usare degli esempi]. Altri casi nei quali questa spiegazione potrebbe funzionare comprendono i disturbi della funzione sessuale, o ancora febbre, raffreddore, tosse, diarrea, mal di testa, ecc.

Malattie molto più complesse ed episodi più drammatici, che ponevano a rischio la stabilità e coesione del gruppo, erano invece al di là delle possibilità di comprensione naturalistica, per la mancanza di concetti di fisiologia e patologia, di statistica, di microbiologia. Le risposte offerte erano spesso di tipo soprannaturale, magico-religioso. D’altro canto, seppure non in grado di comprendere I meccanismi eziopatologici, gli individui potevano riconoscere gli schemi secondo I quali si organizzavano I sintomi, le ricorrenze, e le risposte dei quadri sintomatologici ai rimedi, quindi una dimensione empirica era pur sempre possibile, e poteva guidare, almeno in linea di principio,le scelte terapeutiche.  Naturalmente poteva anche succedere che le attività di certe piante, empiricamente osservabili, venissero sfruttate all’interno di un quadro esplicativo di tipo naturalistico, ma non perché agissero sulle cause della malattia o sui sintomi, ma perché rispondevano alle aspettative degli individui. Johns porta l’esempio dell’uso da parte degli Zuni di un trattamento emetico per trattare le gastralgie in genere; l’opinione di Johns è che questo utilizzo derivi dall’esperienza comune raccolta nei secoli sui disturbi di stomaco causati da intossicazioni alimentari. In questi casi, ma solo in questi, l’uso dell’emetico ha senso perché elimina le sostanze tossiche e quindi il disagio di stomaco. In caso di gastralgie derivate da altri problemi il trattamento non ha senso, ma potrebbe avere un certo effetto psicosomatico per il fatto di rispondere alle aspettative.

É comunque un fatto che in queste società il guaritore agiva sia nel campo naturalistico sia nel campo spirituale, in maniera sacra ed olistica, trattando sia l’individuo sia il gruppo. In un setting soprannaturale avrebbe agito come sciamano,[9] chiaroveggente, incantatore, divinatore e/o prete; in un setting naturalistico come specialista empirico: esperto di piante, specialista in ossa e legamenti, ostetrica, specialista in denti.

Tentativi di spiegazione più complessi

Il salto di qualità vero e proprio, che necessita di un livello di spiegazione diverso, arriva però con la nascita dei primi agglomerati urbani della rivoluzione neolitica, e con la conseguente crescente complessità delle società.  Il neolitico portò agricoltura ed allevamento, maggior sedentarietà ed aumento del cibo disponibile, e un surplus che si rese disponibile per lo scambio commerciale.  In risposta a questi cambiamenti la società si stratificò e divenne più gerarchizzata, alcuni gruppi di individui concentrarono nelle proprie mani più potere, più ricchezza e maggior capacità decisionale. Alcuni di questi si specializzarono in medicina e religione, dando inizio ad un primo contrasto tra sapere medico popolare e pubblico e sapere medico colto, arcano ed esoterico. La stratificazione favori un maggior pluralismo di forme di cura ed un maggior scetticismo rispetto alle terapie.

Contemporaneamente la popolazione umana aumentò e gli sviluppi dovuti ad allevamento, urbanizzazione e commercio elevarono il carico di malattie e favorirono le epidemie. L’agricoltura migliora infatti la quantità di calorie disponibili ma spesso, riducendo il ventaglio di nutrienti disponibili, porta ad elevata suscettibilità agli agenti patogeni.  Lo sviluppo dell’irrigazione facilitò con tutta probabilità la trasmissione dei patogeni per via orofecale, con aumento della mortalità infantile, mentre la creazione delle grandi vie commerciali favorì il trasporto di agenti patogeni a grandi distanze.[10] L’urbanizzazione più spinta portò ad un carico parassitario ed infettivo e a nuove malattie da contaminazione come tifo, malaria, ecc., mentre malattie ancora più esiziali (le esantematiche, il vaiolo, il colera, la sifilide) sarebbero arrivate solo più tardi.

Questi cambiamenti nella struttura della società e nella prevalenza delle malattie ebbe sicuramente effetti anche per la medicina. E’ probabile che le nuove malattie scardinarono e screditarono vecchi modi di gestire la salute e  vecchi rimedi, aprendo la strada a nuove concettualizzazioni, più sofisticate ed elaborate. Il maggior carico di malattie (più prevalenti, più diverse e più pervasive) creò inoltre la necessità di possedere un lessico specifico maggiore [11],mentre nuove necessità legate a problemi di fertilità spinsero alla ricerca di nuovi rimedi prima non necessari, ad azione contraccettiva, parturiente, galattagoga, emmenangoga ed abortiva.[12] L’aumento del carico di lavoro spinse probabilmente alla ricerca/offerta di tonici (fisici, psicologici, sessuali, della sorte). L’aumento di traumi e ferite causati dal lavoro agricolo e di allevamento, oltre che dalle attività di commercio e dalla guerra fece crescere le conoscenze in campo di cura delle ferite e riduzione dei traumi articolari.

Se per certe malattie, semplici e lineari nel loro decorso, è facile immaginare che l’uomo sia riuscito a scoprire dei rimedi vegetali secondo le modalità sopradescritte, ci sono patologie per le quali è improbabile se non impossibile che questo sia accaduto. Patologie complesse, dal lungo decorso rendono difficile associare un rimedio ad una riduzione dei sintomi, oppure semplicemente non rispondono ad alcun rimedio semplice. Gli esempi più classici sono le malattie cronico-degenerative, le malattie metaboliche, le neoplasie, l’invecchiamento e le patologie ad esso legate.

La fondamentale inevitabilità dei processi di senescenza e la morbidità e mortalità che questi comportano, in società dove ancora I soggetti incapaci di contribuire attivamente allo sforzo comune di sopravvivenza erano a rischio di perdita di status e ruolo sociale, contribuirono all’emergere di forti istanze esistenziali che stimolarono nuove riflessioni sui significati da dare alla morte, alla vecchiaia, a sofferenza e dolore, e alla ricerca di rimedi per lenire tali sofferenze ed angosce.

In gruppi umani più numerosi, nelle prime civiltà urbane con evidenti stratificazioni e gerarchie sociali, queste istanze  si legarono e vennero comprese all’interno di un più ampio contesto culturale, religioso e magico, che articolava il rapporto tra individuo, salute e malattia, e le strategie messe in atto per modificare questo rapporto.

In definitiva le istanze esistenziali si inserirono, ed in parte contribuirono a formare, un nascente sistema teorico e simbolico medico, adatto a capire e ad agire nel mondo, ed anche a motivare la ricerca di soluzioni terapeutiche [13], soluzioni che rivelano quindi inevitabilmente un inestricabile commistione della dimensione empirica, simbolica, rituale e magica. Questa commissione si rivela nel significato profondo assegnato alla Dottrina delle Segnature, alle caratteristiche organolettiche, morfologiche ed ecologiche delle piante medicinali.

Esempi di relazione tra sapere empirico e simbolico sono ad esempio le terapie usate nella medicina tradizionale in risposta all’”intrusione” di sostanze pericolose, spiriti maligni o “inquinamento sociale”  Queste terapie sono spesso di tipo naturalistico, indirizzate al tratto gastrointestinale e consistenti in digiuno, uso di rimedi emetici e lassativi (“eliminativi”), o amari.  Anche le piante dal sapore o dall’odore particolarmente forti (salienti dal punto di vista percettivo), sono state ritenute utili perché in grado di eliminare gli spiriti maligni responsabili della malattia; ne è testimonianza la grande importanza che ha l’utilizzo dei sensi chimici per la scelta dei rimedi in molte delle tradizioni colte, come nella medicina tradizionale cinese, nella medicina galenica,[14] nella tradizione medica indiana (Ayurveda, Unani-Tibb) e tibetana, ecc.  Qualche autore ha suggerito che il ruolo centrale che il tratto gastrointestinale ricopre nella maggior parte dei sistemi medici tradizionali[15] dia supporto alla teoria che il trattamento di parassitosi, infezioni o altri problemi gastrointestinali siano un tratto fondamentale associato alla nascita della medicina, e che si sia inestricabilmente associato ad istanze simboliche, che avrebbero “rivestito” un nocciolo empirico preesistente.

Voler vedere in una ricetta di medicina popolare, che associa l’uso di una pianta ad un rituale, esclusivamente il lato razionale, considerando spurio o comunque non rilevante il momento rituale o, d’altro canto, considerare rilevante solo questo ultimo aspetto eliminando a priori la possibilità che la pianta abbia una qualche azione, sono errori dovuti alla forzata ricerca di universali che tralascia i dettagli, che dissocia empirico e simbolico a priori.

Uso  delle piante nelle società tradizionali contemporanee: un utile parallelo

Di come si sia sviluppato l’uso delle piante medicinali nelle prime civiltà umane ci sarà tempo di parlare nei prossimi capitoli. Piuttosto, dopo questa analisi teorica rimaniamo disarmati di fronte ad un problema cruciale: la mancanza di dati oggettivi (scritti o iconografici) che possano confermare l’ipotesi fin qui descritta sulla preistoria della medicina delle piante. Questo fatto ci costringe ad usare dei parallelismi con l’utilizzo delle piante nelle società tradizionali del recente passato e contemporanee, nella speranza (e nella convinzione) che le forme di organizzazione della vita, gli usi e costumi e le pratiche mediche siano abbastanza simili a quelle delle prime comunità umane da darci un indizio su come siano andate le cose allora.

I dati etnografici indicano che le popolazioni con stile di vita ancora in transizione tra caccia-raccolta ed agricoltura, o nei primi stadi dell’agricoltura incipiente, usano solo una porzione limitata delle risorse vegetali a loro disposizione come medicine[16]. Le piante utilizzate a scopo medicinale si dispongono secondo uno schema non casuale e abbastanza stabile, sia se osservato all’interno di una cultura[17], sia se comparato tra culture geograficamente molto distanti[18, 19].  Tale somiglianza si può spiegare (secondo gli autori [19]) ipotizzando una convergenza tra filogenesi e fitochimica, tale per cui gli esseri umani scelgono piante appartenenti a gruppi tassonomici vicini perché portatori di corredi fitochimici simili e quindi probabilmente attivi sullo stesso tipo di patologie, oltre a fattori culturali e di trasmissione del sapere. I gruppi umani originali, nelle loro migrazioni per la conquista di nuovi territori, avrebbero portato con sé il proprio bagaglio di sapere medicinale, e lo avrebbero trasmesso alle nuove generazioni nei nuovi territori. Questo sapere “migrante” non consisterebbe semplicemente in una collezione di dati empirici,  ma dovrebbe essere inteso come un set dinamico di criteri di selezione delle piante, che comprende categorie morfologiche, organolettiche, ecologiche, simboliche e culturali in senso più ampio[20].

Secondo questa ipotesi la sperimentazione, la scoperta e l’acquisizione di nuovo sapere sulle piante (ad esempio la scelta di una nuova pianta per trattare un disturbo) e la percezione dell’efficacia delle piante stesse, si sarebbe costruita nei gruppi umani attraverso processi di analogia con le piante già conosciute, analogie basate sulla salienza percettiva delle piante, cioè sul sapore e sull’odore, sulle caratteristiche morfologiche,  oltre che su forme più astratte, simboliche e sociali, di categorizzazione (come ad esempio l’umoralismo, o la dottrina delle segnature).

E’ indubbio che il sapore delle piante giochi un ruolo apparentemente molto importante nella loro selezione e nella scelta della categoria nella quale farle ricadere. In uno studio su alcune popolazioni messicane tutte le piante medicinali culturalmente importanti risultarono essere aromatiche, e tutte le piante fortemente medicinali o salutari erano anche amare [21];  di converso, in altri studi, le piante esplicitamente non medicinali sono più spesso senza odore o sapore rispetto alle piante medicinali[22]. Nelle parole di un ricercatore: “le piante medicinali che sono più importanti per la comunità hanno aromi e sapori che sono rilevanti nella determinazione del loro utilizzo[23, 24] . Secondo alcuni questa rilevanza del gusto rifletterebbe un dato biologico basilare del rapporto chemioecologico piante-uomo: i sensi chimici sarebbero il ponte che unisce il nostro passato di primati foliovori al nostro presente di utilizzatori di piante medicinali, nel senso che ci permetterebbe di selezionare piante particolarmente ricche in composti attivi; e il raggrupparsi delle piante medicinali in pochi taxa sarebbe un semplice riflesso dell’abbondanza dei composti amari (o piccanti, o aromatici) in queste famiglie[25].

I processi adattivi richiamati all’inizio del capitolo riuscirebbero, secondo questa ipotesi, a costituire il sapere medicinale attraverso processi cognitivi universali[26] di esplorazione e scoperta guidati dalla percezione di gruppi fitochimici specifici; il gusto sarebbe un criterio chiave di classificazione, e la classificazione popolare delle piante non sarebbe arbitraria, bensì determinata almeno in parte dalla realtà biologica.

Questo modello di indagine e scoperta viene però criticato da chi [27] obietta che presumere l’esistenza di ruoli universali delle percezioni organolettiche nella selezione delle piante medicinali è prematuro. Secondo questi autori è difficile immaginare che una indagine empirica sul campo (un soggetto alla ricerca di piante) parta direttamente dai sapori[28], mentre è più realistico immaginare che le persone inizino ad esplorare le piante guardandosi intorno, osservando per prime le caratteristiche morfologiche; famiglie come le Asteraceae o le Lamiaceae potrebbero essere state favorite non per il contenuto fitochimico, bensì per la presenza di fiori ed infiorescenze peculiari e cospicue. Casagrande,[29] in un suo lavoro sul campo, ha riscontrato inoltre che il sapore non era, da solo, un fattore predittivo sufficiente né dell’importanza medicinale (percepita, emica) di una pianta, né del tipo di utilizzo della pianta stessa, e che quindi il sapore non sembrava giocare un ruolo importante nella trasmissione del sapere. Questa posizione si accorda bene con il modello bioculturale delle percezioni di Shepard[30], secondo il quale  le sensazioni devono essere intese come fenomeni bioculturali radicati nella fisiologia umana, ma anche costruiti attraverso le esperienze personali e la cultura. Intese in questo modo le percezioni organolettiche possono cambiare nel tempo e passando da una cultura all’altra, e con esse il legame tra sapore e uso medicinale delle piante.   Sempre secondo Casagrande é possibile che la prevalenza delle piante amare tra quelle medicinali rifletta semplicemente una sovrabbondanza di composti amari in natura[31], e la bassa specificità dei recettori per l’amaro non permetterebbe loro di riconoscere specifiche caratteristiche delle molecole, chimiche o farmacologiche [32].

Secondo questa posizione I sapori avrebbero giocato più un ruolo mnemonico che chemioecologico, e la combinazione di attributi delle piante con esperienza della malattia potrebbe spiegare l’esistenza di gruppi prototipici di piante usati per trattare gruppi specifici di malattie[33].

Questo non significherebbe, secondo Casagrande, che le piante usate dalle popolazioni nel passato e nel presente non siano efficaci, bensì che gli schemi di distribuzione del sapere non rappresentano un corrispondenza ottimale tra i bisogni basati sulle malattie e tutti i composti fitochimici disponibili[34], una conclusione raggiunta anche da Johnson in uno studio sui nativi nordamericani[35].

La correlazione storica tra certe piante e certi disturbi (ad esempio tra piante con forte salienza organolettica e disturbi del tratto gastrointestinale, una correlazione presente in tutte le culture e periodi storici) sarebbe quindi conseguente ad una categorizzazione mnemonica post-hoc (simile alla Dottrina delle Segnature[36]) ed anche ad un legame biologico euristico (perché I composti organolettici potrebbero essere indicatori di attività biologica).

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Note
[1] Inoltre contribuisce a guardare alla storia da una prospettiva eccentrica, da una visuale aliena, che non metta sempre al centro della storia umana l’uomo, ma ne riconosca le determinanti ambientali e contingenti. Come dice Hobhouse, (Hobhouse, Henry (2005) Seeds of Change. Counterpoint, Berkeley, USA, p.xiv) le piante sono una fonte inaspettata di cambiamento nella storia, spesso oscurata perché gli uomini erano troppo concentrati a guardare ai propri simili per accorgersene.
[2] Secondo Kleinmann (Kleinman, Arthur (1993) “What is specific to Western medicine?” In W.F. Bynum e Roy Porter (eds.) Companion Encyclopedia of the History of Medicine, Vol. 1 Routledge, London, UK, p.15) la medicina (intesa in senso lato, antropologico) può essere descritta come una struttura coerente di credenze sulla salute e l’istituzionalizzazione di pratiche terapeutiche. Le caratteristiche comuni a tutte le tradizioni sarebbero: la presenza di categorie attraverso le quali diagnosticare le malattie; la disponibilità di strutture narrrative che sintetizzino in problemi dei singoli individui in sindromi culturalmente significative; la possibilità di utilizzare metafore, idiomi ed altre forme simboliche centrali che portano alla costruzione di interpretazioni eziologiche della patologia così da legittimare azioni terapeutiche pratiche; l’esistenza di ruoli e carriere da guaritori; l’utilizzo di strategie retoriche che il guaritore utilizza per portare pazienti e familiari a cimentarsi con le attività terapeutiche; la disponibilità di una enorme varietà di terapie che combinano operazioni simboliche e pratiche, con l’intento di controllare I sintomi o le cause.
[3] Vedi il secondo post della serie Uomo e piante
[4] Evidente nella fisiologia umana – Vedi il sesto post della serie Uomo e piante
[5] Che si basa sulla combinazione dei dati archeologici con dati etnobotanici ed antropologici (Last, Murray “Non-western concepts of disease”. In Bynum, W.F., e Porter, Roy (1993) Companion Encyclopedia of the History of Medicine. Vol. 1 Routledge, London, UK, p. 634 ff. e bibliografia; Rothschild, H. (ed.) (1981) Biocultural Aspects of Disease, New York, Academic Press.
Johns
[6] cfr. Johns T. The origins of human diet and medicine. University of Arizona Press, 1999
[7] In mancanza di dati archeologici, la fonte più importante di inferenze sul passato sono le condizioni di vita odierne delle ultime popolazioni di cacciatori raccoglitori
[8] Vedi il quarto post della serie Uomo e piante
[9] Il fenomeno mondiale dello sciamanesimo è un modello molto antico (presente fin dal paleolitico) e particolare della figura del guaritore popolare, uno specialista del soprannaturale, del mondo invisibile dei poteri e delle forze divine dalle cui azioni distruttive la società deve essere protetta.
[10] E’ probabile che al contempo si osservasse una riduzione della mortalità adulta a causa dello sviluppo dell’immunità nei grandi gruppi urbani
[11] Logan, Dixon, 1994 op. cit
[12] l’impossibilità o l’impraticabilità dei tipici sistemi di controllo della popolazione tipici dei gruppi di cacciatori-raccoglitori a causa del ritmo troppo elevato di riproduzione nelle società agricole, insieme alla aumentata morbilità femminile a causa dell’elevato numero di parti e dell’anticipo del menarca (Logan, Dixon, 1994 op. cit)
[13] Un problema che non intendo qui pormi esplicitamente è quello di chiarire il legame e la relativa dipendenza o indipendenza delle teorie mediche da altre strutture concettuali proprie della società che le esprime. Capire cioè se le idee sulla malattia debbano essere comprese come sottosistemi del complesso ideologico dominante o se abbiano una loro indipendenza;  Cfr. Bynum e Porter 1993 op. cit.
[14] Galeno, Claudio De simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus, ed. Kuhn, 11:379-892; 12:1-377
[15] Nella medicina Egiziana antica, centrale nella teoria patologica era la malattia denominata whdw, costituita da una “essenza putrefattiva” che dall’intestino passava al flusso sanguigno per arrivare ai tessuti, . Nei testi di medicina tibetana si racconta che la prima malattia sia stata l’indigestione, che venne curata con un rimedio offerto ai primi uomini da Brahma: acqua calda per indurre il vomito. L’utilizzo di emetici, purganti, espettoranti e sudorifici si ritrova nella medicina tradizionale in Africa, America, ed Europa, ed anche in contesti contemporanei (come la naturopatia).
[16] Heinrich, M, Ankli, A, Frei, B, Weimnn, C, Sticher, O (1998) “Medicinal plants in Mexico: Healers’ consensus and cultural importance”.  Soc. sci. Med. 47 (11):1859-1871; Saslis-Lagoudakis C.H., Klitgaard B.B., Forest F., Francis L., Savolainen V., Williamson E.M., Hawkins J.A. (2011) “The use of phylogeny to interpret cross-cultural patterns in plant use and guide medicinal plant discovery: An example from Pterocarpus (Leguminosae).” PLoSONE, 6(7): e22275
[17] Moerman D.E., Pemberton R.W., Kiefer D., Berlin B. (1999) “A comparative analysis of five medicinal floras.” J Ethnobiol 19(1):49-67; Pardo-de-Santayana M., Tardío J., Blanco E., Carvalho A.M., Lastra J.J., San Miguel E., et al. (2007) “Traditional knowledge of wild edible plants used in the northwest of the Iberian Peninsula (Spain and Portugal): a comparative study.” J Ethnobiol Ethnomed, 3, 27; Molares S., and Ladio A. (2009) “Chemosensory perception and medicinal plants for digestive ailments in a Mapuche community in NW Patagonia, Argentina.” J. Ethnopharmacol, 123(3), 397-406
[18] Leonti M., Ramirez F.R., Sticher O., Heinrich M. (2003) “Medicinal Flora of the Popoluca, Mexico: A botanical systematical perspective.” Econ Bot 57(2):218-230; Moerman D.E., Pemberton R.W., Kiefer D., Berlin B. (1999) “A comparative analysis of five medicinal floras.” J Ethnobiol 19(1):49-67; Treyvaud Amiguet V., Thor Arnason J., Maquin P., Cal V., Sanchez-Vindas P.,  Poveda Alvarez L (2006) “A regression analysis of Q’eqchi’ Maya medicinal plants from Souther Belize.” Econ Bot 60(1):24-38
[19] Le tre famiglie mediamente più utilizzate risultavano essere Asteraceae, Lamiaceae ed Apiaceae (Moerman D.E., Pemberton R.W., Kiefer D., Berlin B. (1999) “A comparative analysis of five medicinal floras.” J Ethnobiol 19(1):49-67;  Leonti M., Ramirez F.R., Sticher O., Heinrich M. (2003) “Medicinal Flora of the Popoluca, Mexico: A botanical systematical perspective.” Econ Bot 57(2):218-230; Treyvaud Amiguet V., Thor Arnason J., Maquin P., Cal V., Sanchez-Vindas P.,  Poveda Alvarez L (2006) “A regression analysis of Q’eqchi’ Maya medicinal plants from Souther Belize.” Econ Bot 60(1):24-38
[20] Leonti M., Ramirez F.R., Sticher O., Heinrich M. (2003) Op. cit.; Treyvaud Amiguet V., Thor Arnason J., Maquin P., Cal V., Sanchez-Vindas P.,  Poveda Alvarez L (2006) Op. cit.

[21] Heinrich, M, Ankli, A, Frei, B, Weimnn, C, Sticher, O (1998) “Medicinal plants in Mexico: Healers’ consensus and cultural importance”.  Soc. sci. Med. 47 (11):1859-1871; Leonti M., Ramirez F.R., Sticher O., Heinrich M. (2003) Op. cit.
[22] Reyes-Garcia V. (2010) “The relevance of traditional knowledge systems for ethnopharmcological research: theoretical and methodological contributions.” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 6:32
[23] “Medicinal plants which are most important to the community have odors and flavors which are relevant in the determination of their use”  (Molares S., & Ladio A. (2009) “Chemosensory perception and medicinal plants for digestive ailments in a Mapuche community in NW Patagonia, Argentina.” Journal of Ethnopharmacology, 123(3), 397-406)
[24] Molares S., and Ladio A. (2009) “Chemosensory perception and medicinal plants for digestive ailments in a Mapuche community in NW Patagonia, Argentina.” J. Ethnopharmacol, 123(3), 397-406
[25] Pieroni A., Houlihan L., Ansari N., Hussain B., Aslam S. (2007) “Medicinal perceptions of vegetables traditionally consumed by South-Asian migrants living in Bradford, Northen England” J. Ethnopharmacol, 113:100-110
[26] Reyes-Garcia V. (2010) “The relevance of traditional knowledge systems for ethnopharmcological research: theoretical and methodological contributions.” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 6:32
[27] Casagrande D.G. (2000) “Human taste and cognition in Tzeltal Maya medicinal plant use.” J Ecol Anthr. 4:57-69
[28] Brett propone che le persone alla ricerca di una nuova pianta medicinale inizierebbero la loro indagine selezionando piante che hanno un sapore simile a piante delle quali si sa che inducono effetti fisiologici simili a quelli che si intendono derivare dalla nuova pianta (Brett JA (1994) “Medicinal plant selection criteria among the Tzeltal Maya of Highland Chiapas, Mexico”. Ph.D diss., University of California).
[29] Casagrande D.G. (2000) Op. cit.
[30] Shepard G.H. (2004) “A sensory ecology of medicinal plant therapy in two Amazonian societies.” Am Anthr; 106:2, 252-266
[31] Akli, A, Sticher, O, and Heinrich M (1999) “Yucatec Maya medicinal plants versus nonmedicinal plants: Indigenous characterization and selection.” Human Ecology 27:557-580.  E in mancanza di studi sistematici non è ancora possibile supporre una sovrabbondanza di piante amare nelle Farmacopee rispetto alle Flore generali.
[32] D’altro canto recenti scoperte relative ai rcettori per l’amaro e per il pungente nel tratto gastrointestinale in aree extraorali sembrerebbe poter dare un razionale all’utilizzo di piante amare e pungenti in caso di disordini dell’alto tratto gastrointestinale (cfr Valussi 2011). Nonostante sia indubbio che i recettori per l’amaro non sono abbastanza selettivi per discriminare tra i differenti gruppi chimici in grado di stimolare una attivazione recettoriale, è probabile che alcune delle modificazioni fisiologiche dello stato gastrointestinale (motilità e secrezioni) secondarie all’ingestione di questi composti siano mediate dall’interazione con i recettori stessi. Vale a dire che la risposta fisiologica è al composto amaro in quanto composto che elicita una sensazione amara, a prescindere dalle sue caratteristiche chimiche. Da questo punto di vista uindi forse un ruolo per i composti organolettici può essere preservato.
[33] Casagrande D.G. (2000) Op. cit.; Pieroni A., Nebel S., Quave C., Munz H., Heinrich M. (2002) “Ethnopharmacology of liakra: traditional weedy vegetables of the Arbereshe of the Vulture area in southern Italy” J. Ethnopharmacol, 81:165-185
[34] Casagrande D.G. (2000) Op. cit.
[35] Johnson L.M. (2006) “Gitksan medicinal plants-cultural choice and efficacy.” J Ethnobiol Ethnomed 2:29
[36] Recentemente alcuni ricercatori hanno criticato l’opinione accettata che vede nella dottrina delle segnature una superstizione primitiva, proponendo che essa sia principalmente uno strumento usato per trasferire informazioni, in particolare nelle società preletterarie. Le segnature sarebbero quindi non uno strumento euristico per scoprire nuove attività in piante sconosciute, bensì attribuzioni post hoc utili a memorizzare le proprietà delle piante e quindi a disseminare l’informazione, e sono quindi utili anche al ricercatore moderno che si interroghi sulla conoscenza tradizionale. Cfr. Bennett, B.C., et al. 2007 op. cit

Digestive Functional Foods 4

Dopo il post monografico, torniamo ad analizzare il dato etnobotanico. Nel seguente spezzone tento di riassumere parte dei dati etnobotanici più recenti relativi all’utilizzo dei cibi funzionali tradizionali latu sensu nei disturbi gastroenterici, cercando, quando possibile, di limitarmi a disturbi non specifici (indigestione, gonfiore, dispepsia, ecc.), e cercando di trarre qualche indicazione di massima sulla eventuale segregazione rtassonomica dei rimedi. Come vedrete le conclusioni sono chiare (ma con vari caveat): esistono poche famiglie nelle quali si concentrano molti dei rimedi, e questi rimedi sono caratterizzati molto spesso dalla presenza di principi amari, pungenti e/o aromatici.  Buona lettura!

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Digestive Functional Foods in the ethnobotanical literature

The author compiled a non-systematic survey of FF plants used world-wide for digestive complaints, limiting, when possible, the analysis to plants used only for non specific gastrointestinal complaints, to remain coherent with the spirit of the FF definition. The plants listed were mainly used as digestives, appetite stimulants, antidyspepsics, carminatives, and antispasmodics. Plants with very specific activities (antiulcer) or with specific indications (IBS, etc.) were excluded, when possible.[1]

In a paper on edible plants of Palestine,[2] of the 103 edible plants, 64 (62 %) were used as food-medicines, and the two most important botanical families for food-medicines were Asteraceae and Lamiaceae.  This is in agreement with the findings of a similar study on food plant consumption in seven Mediterranean countries.[3]
Of the 78 alimentary species collected in Cyprus, 20 (25,6%) belonged to the Asteraceae, 7 each to Apiaceae and Brassicaceae, and 6 to the Lamiaceae. 40 were used only as food, and 37 (47,4%) as both food and medicine.[4]

In a study on Sicilian wild food plants, of the 188 food species recorded, 37 (19,6%) were used as both food and medicine, and of these 12 (32,4%) belonged to Asteraceae,  4 (11%) to Lamiaceae,  3 each to Brassicaceae and Apiaceae.[5]

In a review of plant foods as medicines in Mediterranean Spain, the authors found that  the percentage of edible plants used as medicines varied between 13,39 and 21,42 (17,52% on average), and that of spices and culinary herbs used as medicines varied between 5,74 and 9,25 (7% on average). All in all an average of around 24,5% of edible plants and spices were used as medicines.[6] Lamiaceae  and Asteraceae played major roles both in terms of recorded medicinal uses (146 the former and 57 the latter, of all 559 recorded uses) and of number of species used in medicinal treatments (42 the former and 29 the latter).

According to Rivera and coworkers, of the 145 wild gathered food species from Southern Spain, 81 (55,9%) are also used medicinally, and, more importantly, 61 (42%) are administered orally using the same plant part used in the culinary preparations.  This proportion was halved when examining   cultivated food species.[7]

In an ethnobotanical research in Kenya, the authors found that wild edible-medicinal plants represent  30,2% of all edible plants.⁠

The main datum that emerges from this exercise is the predominance of some taxa.

At a higher level the Family Asteraceae dominates with 41 citations of 25 different Genera, amongst which Matricaria, Sonchus and Artemisia are the most often cited.  The second Family by number of citations is that of Lamiaceae, with 24 citations of 16 different Genera, vastly dominated by Mentha and Ocimum.

Also important are the Apiaceae family with 12 citations of 12 Genera, Zingiberaceae (9 citations of 8 Genera) and Rutaceae (9 citations of 3 Genera, dominated by Citrus spp.).

As an aside, similar data emerge when we examine functional foods in general: a significant percentage, between 20 and 60% (average 40%) of edible wild plants is used in traditional societies as a medicine; and secondly, the family  Asteraceae seem to be the main source of medicinal plant species used by traditional societies (at least in the northern hemisphere) and one of the main sources of functional foods/medicinal foods/food medicines.[8]  Lamiaceae and Apiaceae are also very important in terms of number of species used.[9]
These taxa share a similar chemical make-up: they contain very salient organoleptic compounds, such as essential oils, resins and pungent compounds, and bitter compounds, mainly in the Asteraceae and Cucurbitaceae, usually showing low toxicity.

Similar results can be seen in wider reviews including medicinal plants stricto sensu:  still dominant is the triad of Asteraceae, Lamiaceae and Apiaceae, but with a high frequency of  Euphorbiaceae (8 citations of 4 Genera), Fabaceae (15 citations of 12 Genera) and Solanaceae: all families with a potentially more toxic chemical profile, containing irritant latex, toxic lectins and cyanide-producing molecules, often characterized by a strong bitter taste. ⁠.[10]

Bitters and Spices

The majority of the plants rich in essential oil and pungent compounds have been historically classified as spices.  For most of human history, spices have been a canonical example of a fluid entity shifting from the food to the medicine field: they were sold by grocers and spice merchants but also by apothecaries and physicians; they have been used extensively as ingredients in the preparations of dishes, usually accompanying and exalting the main food crops, while at the same time being consumed as infusions and decoctions, like many other medicinal plants. When used as foods, they were very rarely the main ingredient, and seldom provide high primary metabolite intake. Even when used as a medicine, their sensual, organoleptic quality played an important role, quite apart from their effective therapeutic quality.

In fact spices are more akin to medicinal foods that FF proper, and they were ascribed potent medicinal qualities well before empirical validations were available, most probably because they resemble the prototypical medicinal product: “they are specific (have unique and distinguishing tastes), small (in volume), and powerful (in the stimuli they emit and, in many cases, physiologic action)”.

The characteristic aroma and taste of spices is imparted by volatile essential oils and pungents (mono- and sesquiterpenes plus a few shikimic acid derivatives, plus thioethers in Alliaceae and isothiocyanates in Brassicaceae) and non volatile pungent compounds (mainly belonging to the acid amine group, like capsaicin in Capsicum and piperine in Piper).

Although very different from spices in term of economic and cultural importance, bitters too have a recognized place in many different cultures all over the world, in promoting the state of health. The almost universal use of bitter-tasting drinks as aperitif, digestives or fasting tools emphasizes this important role.[11]

Pungent, aromatic and bitter compounds do not exhaust the chemical variety of digestive FF, and their predominance cannot be taken without some caution. It is in fact probable that this predominance is due to many cultural, economical and social factors beyond the biological ones. Having said that, these compounds are extremely interesting because they seem to be able to act on gastrointestinal physiology before or even without systemic absorption, hence potentially with low toxicity profiles.
Moreover, in the last ten years research on gastrointestinal physiology has focused more and more on the health implications of tastants and olfactants, and this research has blended very well with the hypothesis of the coevolution of plant secondary compounds and human defense mechanisms.

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[1] Dufour DL and Wilson WM “Characteristics of ‘wild’ plant foods used by indigenous populations in Amazonia” in Etkin 1994, Op. Cit.; Vickers WT “The health significance of wild plants for the Siona and Secoya” in Etkin 1994, Op. Cit.; Price LL “Wild food plants in farming environment”s in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Pieroni, A. and Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania”  in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; de Santayana, M.P., San Miguel, E., Morales, R. “Digestive beverages as a medicinal food in a cattle-farming community in Northen Spain (Campoo, Cantambria)”.  in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Volpato and Godinez 2006 Op. Cit.; Vanderbroek, I.,  Sanca, S. “Food medicines in the Bolivian Andes (Apillapampa, Cochabamba Department)” in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Ladio 2006 Op. Cit.; Ogoye-Ndegwa, C., Aagaard-Hansen, J. “Dietary and medicinal use of traditional herbs among the Luo of Western Kenya” in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Eddouks, M. “Aspects of food medicine and ethnopharmacology in Morocco” in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.; Curtin 1997, Op. cit.; Quave, C.L. and Pieroni, A “Traditional health care and food and medicinal plants use among historic Albanian migrants and Italians in Lucania, Southern Italy”. in Pieroni & Vandebroek 2007, Op. Cit.; Ceuterick, Vandebroek, Torry, & Pieroni Op. Cit; Van Andel, T and van’t Klooster, C. “Medicinal plant use by Surinamese immigrants in Amsterdam, The Netherlands: Results of a pilot market study”. in Pieroni & Vandebroek 2007, Op. Cit; Lundberg, P.C. “Use of traditional herbal remedies by Thai immigrant women in sweden” in Pieroni & Vandebroek 2007, Op. Cit; Vandebroek, I., Balick, M.J., Yukes, J., Duran, L., Kronenberg, F., Wade, C., Ososki, A.L., Cushman, L., Lantigia, R., Mejia, M., Robineau, L. “Use of medicinal plants by Dominican immigrants in New York City for the treatment of common health conditions: A comparative analysis with literatue data from the Dominican Republic” in Pieroni & Vandebroek 2007, Op. Cit; Manandhar, N.P. Plants and people of Nepal. Timber Oress, Oregon, USA, 2002; Ruffo, Birnie, Tengnas 2002 Op. Cit.; Germosen-Robineau, L Farmacopea vegetal caribena. Ed. Universitaria TRAMIL, ENDA-Caribe, 1998; Lewis, W.H., Elwin-Lewis, M.P.F. Medical Botany: Plants affecting human health 2nd edition. Wiley and sons, London, 2003; Williamson, E.M. (Ed.) Major herbs of Ayurveda. Churchill Livingstone, London, 2002; Williamson, Yongping Bao, Chen, Bucheli  2004, Op. Cit.; Akerreta, S., Cavero, R.Y., Lopez, V., Calvo, M.I. “Analyzing factors that influence the folk use and phytonomy of 18 medicinal  plants in Navarra”. Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 2007, 3:16; Lans, C. “Comparison of plants used for skin and stomach problems in Trinidad and  Tobago with Asian ethnomedicine” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 2007, 3:3; Tilahun Teklehaymanot, Mirutse Giday “Ethnobotanical study of Medicinal plants used by people in Zegie peninsula, Northwestern Ethiopia” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine 2007, 3:12; Bussmann, Sharon and Lopez 2007 Op. Cit.; John Warui Kiringe “A Survey of Traditional Health Remedies Used by the Maasai of Southern Kaijiado District, Kenya” Ethnobotany Research & Applications, 2006 4:061-073;
[2] Ali-Shtayeh et al., 2008
[3] Hadjichambis ACH, Paraskeva-Hadjichambi D, Della A, Giusti M, DE Pasquale C, Lenzarini C, Censorii E, Gonzales-Tejero MR, Sanchez- Rojas CP, Ramiro-Gutierrez J, Skoula M, Johnson CH, Sarpakia A, Hmomouchi M, Jorhi S, El-Demerdash M, El-Zayat M, Pioroni A: Wild and semi-domesticated food plant consumption in seven circum-Mediterranean areas. International Journal of Food Sciences and Nutrition; 2008, 59 (5):383-414
[4] Della, Paraskeva-Hadjichambi, & Hadjichambis, 2006
[5] Lentini & Venza, 2007
[6] Rivera & Obón, 1996
[7] Rivera et al. 2005, cited in Leonti, S Nebel, Rivera, & M Heinrich, 2006
[8] Leonti, S Nebel, Rivera, & M Heinrich, 2006
[9] Ali-Shtayeh et al., 2008; Hadjichambis ACH, Paraskeva-Hadjichambi D, Della A, Giusti M, DE Pasquale C, Lenzarini C, Censorii E, Gonzales-Tejero MR, Sanchez- Rojas CP, Ramiro-Gutierrez J, Skoula M, Johnson CH, Sarpakia A, Hmomouchi M, Jorhi S, El-Demerdash M, El-Zayat M, Pioroni A: Wild and semi-domesticated food plant consumption in seven circum-Mediterranean areas. International Journal of Food Sciences and Nutrition; 2008, 59 (5):383-414; Della, Paraskeva-Hadjichambi, & Hadjichambis, 2006; Lentini & Venza, 2007; Rivera & Obón, 1996; Rivera et al. 2005, cited in Leonti, S Nebel, Rivera, & M Heinrich, 2006
[10] (Liu, et al., 2009; Long, et al., 2009; Kala, 2005; Muthu, et al., 2006; Pradhan & Badola, 2008; Bussmann & Sharon, 2006; Volpato, et al., 2009; Luziatelli, et al., 2010; Lulekal, et al. 2008; Yineger, Yewhalaw, & Teketay, 2008; Teklehaymanot & Giday, 2007; Mesfin, Demissew, & Teklehaymanot, 2009; Bhattarai, Chaudhary, & Taylor, 2006)
[11] Mills, SY, Bone, K Principles and Practice of Phytotherapy: Modern Herbal Medicine. Churchill Livingstone, 2000; Scarpa A,  Guerci A Actes du 2e Colloque European d‘Ethnopharmacologie et de  la 1 le Conférence internationale d‘Ethnomédecine, Heidelberg. 1993, 30-33; Johns 1990 Op. Cit.

Digestive Functional Foods 2

Nella seconda installazione mi concentro su due dati interessanti: l’importanza dei disturbi gastrointestinali nelle farmacopee tradizionali, e la predominanza di alcuni taxa nelle piante medicinali ad attività gastrointestinale: Asteraceae, Lamiaceae ed Apiaceae.
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Plants used for gastrointestinal complaints in the folk traditions
In analyzing the literature on traditional remedies, it is quite evident that there is a prevalence of plant remedies used for gastrointestinal complaints. In a comparison between indigenous and biomedical pharmacopoeias cited by Balick and Cox, and summarized data referring to 15 different geographical areas, it was shown that “indigenous plant remedies are focused more on gastrointestinal disorders then western Pharmacopoeas”. In fact, the main indication for plant-based remedies was gastrointestinal disturbances (accounting for 15% of the total), equal only to dermatological complaints.[1]

These data are confirmed by more recent research.
In the now famous paper by Etkin and Ross on Hausa folk medicinal knowledge, of the 781 recipes registered, 184 (23.5%) were used for gastrointestinal complaints. Limiting the analysis to the naturalistic maladies, the percentage rises to 32%.[2]
Amongst the most cited uses of the remedies of the Masai in Kenya, gastrointestinal indications play a major role: stomachache is cited 100% of the time, loss of appetite 92% and indigestion 45%.[3] In more recent study on Kenyan ethnobotany, plant remedies for stomach problems were cited 20% of the times.[4]
Very similar percentages are found in other African areas. The proportion of remedies used for treatment of gastrointestinal related disease are for instance high in most studies conducted in Ethiopia, going from 23%[5] to 35%.[6]

In a comparison of Mediterranean folk pharmacopoeias, the percentage of plants used for gastrointestinal complaints went from 31.2 in Uzbekistan, to 21.68 in Turkey, to 16.93 in Greece, to 10.6 in Italy.[7]
In an ethnobotanical survey of the western Pyrenees the plants were used primarily for gastrointestinal or RT disorders,[8] and a survey done in a Peruvian clinic showed that gastrointestinal problems were the second most important reason for patients to use plants.[9]
In the ethnobotany of the South West of the US, around 23.6% of the remedies are used for gastrointestinal disorders.[10]

According to two papers on Brazilian ethnomedicine, 22 to 30% of the medicinal plants were used for digestive disorders, the second most frequent use of all.⁠[11]
A very similar percentage is apparent in a study on Mexican ethnobotany, where roughly 30% of all plants were used to treat colics and stomachaches.[12]
According to Volpato and coworkers, almost 50% of the remedies used by Haitian immigrant to Cuba are intended to treat general gastrointestinal disorders, and about 20% are used as digestive and carminative.[13]
In Perù, 20.3% of the 402 medicinal plant species were used to treat gastrointestinal disturbances, the second most important indication of all,[14] and 6,68% of all plant mixtures (the highest percentage of all uses) was used to treat colic and intestinal problems.[15]
The use of medicinal plants for the treatment of gastrointestinal disorders has a high prevalence in other Andean societies as well.[16]

Many papers have recorded the very high percentage of plants used for gastrointestinal disorders in India, usually the most frequent use af all. The data vary between 25,3% for indigestion,[17] to 30% for stomach related disorders,[18] to 51,2% for generic gastrointestinal disorders.[19] Even when the indications are not the most important, the percentages are still very relevant, as in two recent studies reporting percentages of 9 and 18% for gastrointestional uses.[20]
In a review of remedies used in Pakistan, 16% of the plants were used for gastric problems.[21]
In a recent paper on Nepali remedies, 14,3% of plant species were taken for indigestion, and 10,7% were used as appetite stimulants.[22]
In East Timor the digestive uses were 4th by frequency, adding uo to 6,7%.[23]
⁠In an ethnobotanical study based in China, 40,52% of plants were used to treat gastrointestinal disorders.[24]

These data refer to medicinal plants but, even when selecting only those remedies that can be ascribed to the food-medicine continuum, this trend remains evident.[25] In a study in Mediterranean Spain, the functional or medicinal foods were used in great prevalence for gastrointestinal disorders (up to 20.4%),[26] and the same was true in a study in northwest Patagonia, where a great number of edible medicinal plants were used for gastrointestinal disorders.[27]

In Cuba viandas (starchy roots and tuber crops) and fruits, typical foods used also as medicinal resources, are particularly important for gastrointestinal distress. Viandas are usually boiled in water or milk and eaten as mashed vegetables (Xanthosoma spp., given as a stomachic, for gastritis and stomach ulcers), or grated and sun dried and eaten with milk (Maranta arundinacea, given to kids as a digestive).[28] Fruits are used as simple remedies to improve digestion (Carica papaya, Mangifera indica, Citrus sinensis for example), to prevent colic and “stomach congestion” in kids.[29]

Various reasons have been proposed to explain the prevalence of use for gastrointestinal disorders. Balick and Cox put forward reasons of saliency and of danger perception: the gastrointestinal ailments were, according to the authors, easily identifiable, contrariwise to, for example, tumors; and in traditional societies or in ancient periods of our history the main risks for people were infective diarrheas, gastrointestinal parasitic diseases, alimentary intoxications, etc., much more than cardiovascular diseases, CNS disturbances or neoplastic diseases.[30] Traditional pharmacopoeias are also probably quite conservative and tend to favor gastrointestinal remedies even when the prevalence of diseases has changed.[31]

This prevalence would also be partly explained by the ancient, pre-cultural link between plants and humans. Herbal remedies were (and still are) mainly used per os, thus human beings have “explored” the secondary metabolites sphere mainly through the gastrointestinal tract, which then has a pivotal role as a first diaphragm between the external world and its dangers (xenobiotics) and the internal physiology, and had to “measure itself” against plant constituents: those constituents that represented at the same time a health risk and a pharmacological opportunity.

If the thesis that man had to live in a world rich in alimentary toxins, and at times had to adapt and “learn” to use the same toxins to his own advantage; it is possible that he developed systems of detection, management and defense and that these systems are mainly present in the same gastrointestinal tract.[32]

In fact, according to Johns, the effects of wild foods on the gastrointestinal tract has probably been one of the primary factors in the evolution of medicine and of the use of medicinal foods. Because taste has always been the messenger of many chemical messages, it has been interpreted in many contextualized manners, so that even bitter and pungent tastes could be accepted or even desired.[33]

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Notes
[1] Balick, M., Cox, L. (1996) Plants, people, and culture: the science of ethnobotany. New York: Scientific American Library
[2] Etkin NL, e Ross PJ (1994) “Pharmacological implications of “wild” plants in Hausa diet”. In NL Etkin (ed.) Eating on the wild side: The pharmacological, ecological, and social implications of using noncultigens. Arizona University Press
[3] Kiringe, John Warui (2006) “A Survey of Traditional Health Remedies Used by the Maasai of Southern Kaijiado District, Kenya”. Ethnobotany Research & Applications; 4:061-073
[4] Bussmann, R. W. (2006) “Ethnobotany of the Samburu of Mt. Nyiru, South Turkana, Kenya”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 2, 35. doi: 10.1186/1746-4269-2-35.
[5] Teklehaymanot, T., & Giday, M. (2007) “Ethnobotanical study of medicinal plants used by people in Zegie Peninsula, Northwestern Ethiopia.” Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 3, 12. doi: 10.1186/1746-4269-3-12.
[6] Tessema T, Giday M, Aklilu N (2001) “Stacking and information on the medicinal plants of Ethiopia”. In National Biodiversity strategy and action plan project Medicinal plant Team, Addis Ababa: IBDA; 2001.
[7] Everest, A and Ozturk, E (2005) “Focusing on the ethnobotanical uses of plants in Mersin and Adana provinces (Turkey)”. Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine, 1:6
[8] Akerreta, S, Cavero, RY, Calvo, MI (2007) “First comprehensive contribution to medical ethnobotany of Western Pyrenees” Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine; 3:26
[9] Bussmann, RW, Sharon D, Lopez A (2007) “Blending traditional and western medicine: medicinal plant use among patients at the Clinica Anticona in El Porvenir, Peru”. Ethnobotany Research and Applications; 5:185-199
[10] Curtin, L.S.M. (1997) Healing herbs of the upper rio grande: Traditional Medicine of the South West. Revised and edited by Michael Moore. Western Edge Press
[11] Almeida, C. D. F. C. B. R., Amorim, E. L. C. de, Albuquerque, U. P. de, & Maia, M. B. S. (2006). “Medicinal plants popularly used in the Xingó region – a semi-arid location in Northeastern Brazil”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 2, 15. doi: 10.1186/1746-4269-2-15; Albuquerque, U. P. de. (2006) “Re-examining hypotheses concerning the use and knowledge of medicinal plants: a study in the Caatinga vegetation of NE Brazil”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 2, 30. doi: 10.1186/1746-4269-2-30.
[12] Estrada, E., Villarreal, J. a, Cantú, C., Cabral, I., Scott, L., & Yen, C. (2007) “Ethnobotany in the Cumbres de Monterrey National Park, Nuevo León, México”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 3, 8. doi: 10.1186/1746-4269-3-8
[13] Volpato, G., Godínez, D., Beyra, A., & Barreto, A. (2009) “Uses of medicinal plants by Haitian immigrants and their descendants in the Province of Camagüey, Cuba”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 5, 16. doi: 10.1186/1746-4269-5-16.
[14] Luziatelli, G., Sørensen, M., Theilade, I., & Mølgaard, P. (2010) “Asháninka medicinal plants: a case study from the native community of Bajo Quimiriki, Junín, Peru”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 6(1), 21. doi: 10.1186/1746-4269-6-21.
[15] Bussmann, R. W., Glenn, A., Meyer, K., Kuhlman, A., & Townesmith, A. (2010) “Herbal mixtures in traditional medicine in Northern Peru”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 6, 10. doi: 10.1186/1746-4269-6-10.
[16] Bussmann, R. W., & Sharon, D. (2006) “Traditional medicinal plant use in Loja province, Southern Ecuador”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 2, 44. doi: 10.1186/1746-4269-2-44; Alexiades MN, Lacaze D. (1996) “FENAMADs program in traditional medicine: an integrated approach to health care in the Peru- vian Amazon”. In Balick MJ, Elisabetsky E, Laird SA (eds.) Medicinal Resources of the Tropical Forest Columbia University Press, New York:341-365; Arrázola S, Atahuachi M, Saravia E, Lopez A. (2002) “Diversidad floristica medicinal y potencial etnofarmacólogico de las plantas de los valles secos de Cochabamba Bolivia”. Revista Boliviana de Ecología y Conservación Ambiental; 12:53-85; Bastien J (1987) Healers of the Andes: Kallawaya Herbalists and Their Medicinal Plants University of Utah Press, Salt Lake City; Bastien J (1992) Drum and Stethoscope: Integrating Ethnomedicine and Biomedicine in Bolivia University of Utah Press, Salt Lake City
[17] Kala, C. P. (2005) “Ethnomedicinal botany of the Apatani in the Eastern Himalayan region of India”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 1, 11. doi: 10.1186/1746-4269-1-11.
[18] Pradhan, B. K., & Badola, H. K. (2008) “Ethnomedicinal plant use by Lepcha tribe of Dzongu valley, bordering Khangchendzonga Biosphere Reserve, in North Sikkim, India”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 4, 22. doi: 10.1186/1746-4269-4-22.
[19] Sajem, A. L., & Gosai, K. (2006) “Traditional use of medicinal plants by the Jaintia tribes in North Cachar Hills district of Assam, northeast India”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 2, 33. doi: 10.1186/1746-4269-2-33.
[20] Ragupathy, S., & Newmaster, S. G. (2009) “Valorizing the “Irulas” traditional knowledge of medicinal plants in the Kodiakkarai Reserve Forest, India”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 5, 10. doi: 10.1186/1746-4269-5-10; Ragupathy, S., Steven, N. G., Maruthakkutti, M., Velusamy, B., & Ul-Huda, M. M. (2008) “Consensus of the “Malasars” traditional aboriginal knowledge of medicinal plants in the Velliangiri holy hills, India”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 4, 8. doi: 10.1186/1746-4269-4-8.
[21] Hayat, M. Q., Khan, M. A., Ahmad, M., Shaheen, N., Yasmin, G., & Akhter, S. (2008) “Ethnotaxonomical approach in the identification of useful medicinal flora of tehsil Pindigheb (District Attock) Pakistan”. Ethnobotany Research & Applications, 6, 035-062
[22] Kunwar, R. M., Nepal, B. K., Kshhetri, H. B., Rai, S. K., & Bussmann, R. W. (2006) “Ethnomedicine in Himalaya: a case study from Dolpa, Humla, Jumla and Mustang districts of Nepal”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 2, 27. doi: 10.1186/1746-4269-2-27.
[23] Collins, S. W. M., Martins, X., Mitchell, A., Teshome, A., & Arnason, J. T. (2007) “Fataluku medicinal ethnobotany and the East Timorese military resistance”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 3, 5. doi: 10.1186/1746-4269-3-5.
[24] Long, C., Li, S., Long, B., Shi, Y., & Liu, B. (2009) “Medicinal plants used by the Yi ethnic group: a case study in central Yunnan”. Journal of ethnobiology and ethnomedicine, 5, 13. doi: 10.1186/1746-4269-5-13.
[25] Ruffo, C.K., Birnie, A., Tengnas, B. (2002) Edible wild plants of Tanzania. RELMA, Kenya; Williamson, G.; Yongping Bao; Chen, K.; Bucheli, P. (2004) “Effects of Phytochemicals in Chinese Functional Ingredients on Gut Health” In Choon Nam Ong and B. Halliwell (eds.) Herbal and Traditional Medicine Molecular Aspects of Health. Lester Packer
[26] Rivera-Nunez D., Obion-de-Castro C (1993) “Plant food as medicine in Medittìerranean Spain” In Actes du 2e Colloque Européen d’Ethnophannacologie et de la 1 le Conference internationale d’Ethnomédecine, Heidelberg, 24-27 mars 1993;
[27] Ladio AH (2006) “Gathering of wild plant foods with medicinal use in a Mapuche community of Northwest Patagonia” in Pieroni A, & Price LL Eating and Healing: Traditional Food As Medicine, The Haworth Press.
[28] Volpato G, Godìnez D “Medicinal foods in Cuba: Promoting health in the household”, in Pieroni and Price 2006 Op. Cit.
[29] Volpato, Godinez 2006 Op. Cit.
[30] Balick and Cox 1996 Op. Cit.
[31] Rivera-Nunez, Obon-de-castro, 1993 Op. Cit.
[32] Johns 1990, Op. Cit.
[33] Johns, T (1994) “Ambivalence to the palatability factor in wild food plants”. In NL Etkin (ed.) Eating on the wild side: The pharmacological, ecological, and social implications of using noncultigens. Arizona University Press

Digestive Functional Foods 1

Necessitato a fare un po’ di lavoro di background per un articolo prossimo venturo su cibi funzionali con attività digestiva, pubblico qui parte del materiale raccolto, in alcuni pezzi. La versione in italiano? Speriamo in tempi brevi :-).

Inizio con un volo d’uccello sui termini del discorso: i cibi funzionali.

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Functional foods and nutraceuticals
During the 1980s the Japanese Health Authorities identified special foods with extra-nutritional values as an important object of discussion, and in 1984 the Japanese Ministry of Education Science and Culture used the term “physiologically functional foods” or “functional foods” for the first time. In 1991, a formal category for alimentary items that had extra-nutritional activities was introduced: that of the “Foods for Specified Health Uses” (FOSHU), defined as: “foods with documented evidence of aiding specific physiological functions beyond whatever conventional nutrient exist in the food”.[1]

Around the time when the FOSHU system was under discussion in Japan, the term “nutraceutical” was introduced in the U.S., which included “any substance that may be considered a food or a part of a food and demonstrates to have a physiological benefit, or to provide medical or health benefits, including the prevention and treatment of protection against chronic  disease”,[2]  and which, although “produced from foods”, is  “sold in pills, powders, (potions) and other medical forms not generally associated with food[3] “.

Functional foods have been defined in many ways, but recent definitions describe them as: “products that have physiologic benefits beyond nutritive qualities, and are offered in the form of foodstuffs, including those that have been fortified or have ingredients reduced or removed”;[4] or as items that are: “similar in appearance to conventional foods, (…) consumed as part of a usual diet, and have demonstrated physiological benefits and / or reduce the risk of chronic disease beyond basic nutritional functions.”

Since then, many other terms have been used to describe the complex and multifaceted gray area of food-and-medicine: pharmafood, phytoceutical, phytonutrient, medicinal food, designer food, etc. However, functional food and nutraceutical remain the two most commonly encountered terms, and are often used interchangeably in the generalist news media. In fact one is the subset of the other, since by definition nutraceuticals are those functional foods that are transformed and offered in a pill or otherwise concentrated form, different from normal, common foodstuff.

Traditional functional foods
Although these two term have perhaps been around for 20 years, foods which are “good for your health” (Traditional or Folk Functional Foods) have been around for much longer. Medical historians have stressed the fact that the distinction between medicines and food was blurred and at times non-existent in ancient and preliterate societies, and that it was the advent of modern medicine which artificially constructed a defined hiatus between diet and therapy, food and medicine.[5]  Quoting Albala: ”most complex societies codify their foods investing in them a significance beyond satisfying hunger. In the West, at least since the ancient Greeks, this significance has been medical.”[6] Galen, following the Hippocratic spirit of preventive medicine of the Regimen, codified the age old belief that a good doctor should also be a good cook.[7] Boorde and Cogan could, in the middle of the 16th century, still hotly debate in favor of this belief, the first saying that: ”A good coke is halfe a physycyon. For the chefe physycke (the counseyll of a physycyon excepte) doth come from the kytchyn”,[8] the second referring to: ”cunning Cookes, or to the learned Physitian, who is or ought to be a perfect Cooke in many points”.[9]

The same can be said of ancient Chinese Medicine,[10] where the term Wei meant “taste” but carried all the potency of astronomical, political, ritual and medical theory association with the five agents (wood, fire, earth, metal, water), and the five flavors were to extend a framework of knowledge that had existed since/been constructed in early imperial times.[11]

Examples of FF are also available in contemporary times, both in pre-industrial societies and, although vanishing, in industrialized societies.[12] In the introduction to the collection of essays dedicated to medicinal foods, Pieroni and Price present some memories that could well be our own: the chestnut-meal polenta cooked in red wine as a cough remedy recalled by Pieroni[13] and the chicken soup used for colds cited by Price;[14] and  since the 1970s ethnobotanical literature has made it clear that the blurring of  boundaries between food and medicine is present in contemporary traditional societies, and that, as many studies have shown, non-cultivated wild gathered plants play an important role in the health benefits attributed to the Mediterranean diets.[15]

Ethnobotanists have pointed out that it would be more appropriate to talk about a continuum linking the opposite poles of medicines and foods in folk knowledge,[16] and Pieroni and Quave have come up with an often-cited mapping of this continuum, describing three other categories beyond those of food and medicine:[17]

  • Functional Foods: consumed as foods but acting beyond their basic nutritional function as food by providing protection or reducing the risk of chronic disease.
  • Folk Functional Foods: weedy species or foods eaten because they are healthy but with a general rather than unique and specific health action. Besides their main nutritional or denjoyment purposes they have other effects on body functions.[18]
  • Food medicines/Medicinal foods are ingested in a food context but are assigned specific medicinal properties; or they are consumed in order to obtain a specific medicinal action.

Some other plants are used multifunctionally, simultaneously used as food and medicines without any relationship between the two uses.[19]

It is, therefore, clear that, when talking about traditional functional foods, we need to go beyond the marketing hype, which often puts together (without blending them) the themes of the “natural” hence “safe” traditional food, with the scientific authority of biomedicine bestowed on the term functional.
Any research on this subject needs to be done across fields of research, combining historical, ethnobotanical and biomedical knowledge and insights, to avoid the fallacy of seeing FF as a mere container/vessel for phytochemicals, discounting the cultural construction of the objects of research.  Not only would this be methodologically incorrect, it would also  lead to an important mistake: namely, ascribing functional potential to a material simply due to the presence of an identified compound with known experimental activity; or, conversely, of choosing one compound as the sole element responsible for  the “medicinal” dimension of a food.

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Note
[1] Etkin, N.L. Edible medicines: An ethnopharmacology of food. The University of Arizona Press. 2006. p. 207; Dai Y, Luo X., “Functional food in China”. Nutr Rev. 1996 Nov; 54 (11 Pt 2):S21-3.
[2] DeFelice, S.L. “Preface”. In S.L. DeFelice (ed.) Nutraceuticals: Developing, Claiming, and Marketing Medical Foods. Pp. V-viii. Marcel Dekker, New York
[3] Recommendations for Defining and Dealing with Functional Foods, Report of the Bureau of Nutritional Sciences Committee on Fuctional Foods, Health Canada, 1996
[4] Etkin, N.L. 2006 Op. Cit. Pp. 207-208
[5] Etkin, N.L. Chapter 2: “Food in the history of biomedicine”. In N.L. Etkin 2006 Op. Cit. p. 207
[6] Albala, Kenneth “Dietary regime in the Renaissance”, in Malloch Room Newsletter, Jan. 1994,7: 1–2.
[7] Grant, M Galen on food and diet, London, Routledge, 2000, p. 62.; Powell, O Galen: On the properties of foodstuffs, Cambridge University Press, 2003
[8] Boorde, A The first boke of the introduction of knowledge and a compendyous regyment, ed. F J Furnivall, Early English Text Society, Extra Series, 10 London, Early English Text Society, 1870, p. 277; from the edition of 1547. As quoted in Andrew Wear, Knowledge and practice in English medicine, 1500–1680, Cambridge University Press, 2000, p. 170
[9] Cogan, T The haven of health: chiefely gathered for the comfort of students, and consequently of all those that have a care of their health, amplified upon five words of Hippocrates, written Epid. 6, Labor, cibus, potio, somnus, Venus .. . Hereunto is added a preservation from the pestilence, with a short censure of the late sicknes at Oxford of Thomas Cogan, London, printed by Henrie Midleton, for William Norton, 1584, p. 98, as cited in Wear, op. cit., note 2 above, p. 170.
[10] Unschuld, Paul U. Medicine in China: A History of Ideas. University of California Press, 1985; Unschuld, Paul U. Medicine in China: a history of pharmaceutics. Berkeley: University of California Press; Lo, Vivienne, and Penelope Barrett. “Cooking up fine remedies: on the culinary aesthetic in a sixteenth-century Chinese Materia Medica.” Medical History 49, no. 4 (2005): 395-422..
[11] Graham, A Disputers of the Tao, La Salle, ILL, Open Court, 1989, pp. 314–70
[12] Rivera-Nunez D., Obion-de-Castro C “Plant food as medicine in Meditterranean Spain” Actes du 2e Colloque  Européen  d’Ethnophannacologie  et  de  la 1 le Conf6rence  internationale  d’Ethnomédecine, Heidelberg, 24-27 mars 1993; Sandhu DS, Heinrich M. “The use of health foods, spices and other botanicals in the Sikh community in London”. Phytother Res. Jul 2005;19(7):633-42
[13] Pieroni A, & Price LL “Introduction” in Eating and Healing: Traditional Food As Medicine, The Haworth Press, 2006
[14] Pieroni and Price 2006 Op. Cit.
[15] Pieroni A, Nebel S, Quave C, Munz H, Heinrich M. “Ethnopharmacology of liakra: traditional weedy vegetables of the Arbereshe of the Vulture area in southern Italy”. Journal of Ethnopharmacology 2002, 81:165-185.; Bonet, M.A. and J. Vallés. “Use of non-crop food vascular plants in Montseny biosphere reserve (Catalonia, Iberian Peninsula)”. International Journal of Food Science and Nutrition; 2002. 53:225– 248; Rivera, D., C. Obon, C. Inocencio, M. Heinrich, A. Verde, J. Fajardo, and R. llorach. “The ethnobotanical study of local mediterranean food Plants as Medicinal Resources in Southern Spain”. Journal of Physiology and Pharmacology. 2005. 56 (S):97–114; Tardío, J., H. Pascual, and R. Morales. “Wild food plants traditionally used in the province of Madrid, Central Spain”. Economic Botany. 2005;  59:122– 136; Tardío, J., M. Pardo de Santayana, and R. Morales. “Ethnobotanical review of edible plants in Spain” Botanical Journal of the Linnean Society, 2006, 152, 27–71; The Local Food-Nutraceuticals Consortium “Understanding local Mediterranean diets: A multidisciplinary pharmacological and ethnobotanical approach”. Pharmacological Research. 2005; 52 (2005) 353–366
[16] Etkin, N.L. and P.J. Ross “Food as medicine and medicine as food: An adaptive framework for the interpretation of plant utilisation among the Hausa of northern Nigeria”. Social Science and Medicine. 1982; 16: 1559-1573; Johns, T. With bitter herbs they shall eat it. Tucson: University of Arizona Press. 1990; Grivetti, L.E. and B.M. Ogle “Value of traditional foods in meeting macroand micronutrients needs: The wild plant connection”. Nutrition Research Review. 2000; 13: 31-46; Ogle, B.M. and L.E. Grivetti “Legacy of the chameleon: Edible wild plants in the kingdom of Swaziland, southern Africa. A cultural, ecological, nutritional study. Part I–Introduction, objectives, methods, Swazi culture, landscape and diet”. Ecology of Food and Nutrition. 1985a; 16: 193-208; Ogle, B.M. and L.E. Grivetti “Legacy of the chameleon: Edible wild plants in the kingdom of Swaziland, southern Africa. A cultural, ecological, nutritional study. Part II–Demographics, species, availability and dietary use, analysis by ecological zone”. Ecology of Food and Nutrition. 1985b; 17: 1-30; Ogle, B.M. and L.E. Grivetti “Legacy of the chameleon: Edible wild plants in the kingdom of Swaziland, southern Africa. A cultural, ecological, nutritional study. Part III–Cultural and ecological analysis”. Ecology of Food and Nutrition. 1985c; 17: 31-40; Ogle, B.M. and L.E. Grivetti “Legacy of the chameleon: Edible wild plants in the kingdom of Swaziland, southern Africa. A cultural, ecological, nutritional study. Part IV–Nutritional values and conclusions”. Ecology of Food and Nutrition. 1985d; 17: 41-64
[17] Pieroni, A. e Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania” in A., Pieroni e L., Leimar Price (eds.) Eating and Healing, Haworth Press,  2006, p. 110
[18] Preuss, A. “Characterisation of functional food”. Deutsche Lebensmittel-Rundschau, 1999. 95:468-472
[19] Ceuterick, Melissa, Ina Vandebroek, Bren Torry, Andrea Pieroni “The Use of Home Remedies for Health Care and Well-Being by Spanish-Speaking Latino Immigrants in London: A Reflection on Acculturation” in Andrea Pieroni & Ina Vandebroek (eds.) Traveling cultures and plants: The ethnobiology and ethnopharmacy of human migrations. Bergham Books, New York, 2007

Uomo e piante 7/dimoltialtri

Dopo un imperdonabile iato concludo la prima tranche di elucubrazioni uomo-piantesche. Potete recuperare le puntate precedenti qui, qui, qui, qui, qui, e qui.

Per approfondimenti correlati ma tangenziali consiglio i sempre ottimi post di Meristemi (aka Erba Volant) qui, qui e qui.

Alcuni testi sono stati importanti per la scrittura di questo post, e più in generale per immaginare la serie stessa: questo, questo, questo, questo e questo.

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Riprendendo le fila del discorso, nella puntata incentrata sul rapporto chemioecologico e coevolutivo tra uomo e piante avevo citato vari autori (ma ho fatto e farò principalmente riferimento a Johns)[1] secondo i quali l’individuazione da parte dell’uomo di alcune piante “specificamente” medicinali fosse da far derivare dalla combinazione di vari fattori, quali:

  • lo sviluppo di meccanismi biologici, comportamentali e tecnologici di gestione del contatto con le piante e con i compostiin esse contenuti (fuoco, meccanismi di detossificazione);
  • la possibilità, resa concreta da tali meccanismi, di avvantaggiarsi delle proprietà tossiche delle piante in senso farmacologico;
  • l’avvento della tecnologia e dell’agricoltura che, modificando gradualmente ma drasticamente, la dieta umana, resero possibile l’assunzione di maggiori quantità di proteine (derivate da piante coltivate e carne di allevamento) e di minori quantità di piante tossiche nell’alimentazione;
  • il paradossale aumento della varietà di specie vegetali non coltivate (e del lessico ad esse associato) disponibili ed utilizzate dalle popolazioni di orticultori rispetto a quelle dei cacciatori-raccoglitori (il c.d. paradosso botanico-dietetico, vedi sotto).

Secondo Johns è grazie a questi fattori che l’uomo ha potuto nutrirsi con meno rischi (sviluppando meccanismi biologici e tecniche di detossificazione, e poi selezionando piante meno ricche in metaboliti secondari) ed ha potuto iniziare a isolare le piante più ricche in composti farmacologicamente attivi da quelle coltivate a scopo alimentare, quindi a distinguere il campo “terapeutico” da quello nutrizionale,[2] permettendo l’isolamento di una nuova categoria, addirittura di un nuovo oggetto: le piante “medicinali”.[3]

Quindi la medicina, intesa come pratica culturale che comprende l’utilizzo intenzionale di sostanze farmacologicamente attive, affonderebbe le sue radici in un dato biologico evoluzionistico (che fissa diciamo le condizioni di esistenza della medicina) ma nasce nel momento in cui diviene possibile isolare esplicitamente degli elementi (e quindi degli operatori) come terapeutici.

Sembra quindi che il passaggio all’agricoltura, a cui ho accennato in questa precedente puntata, oltre ad essere stato rivoluzionario dal punto di vista alimentare, sociale e culturale, abbia giocato un ruolo cardine anche nello sviluppo della medicina. Vorrei quindi soffermarmi in questa puntata proprio sui dettagli di questo passaggio, riprendendo ed approfondendo alcuni degli argomenti affrontati nei post sulla fitoalimurgia Chepang (qui e qui).

Le conseguenze del passaggio all’agricoltura: medicine alimentari e alimenti medicinali
Il graduale passaggio dalla caccia-raccolta all’agricoltura costituisce uno snodo cruciale che ha influenzato i successivi fenomeni di utilizzo delle piante. Ha influenzato sia le competenze dei gruppi umani rispetto alle piante medicinali, sia le loro competenze alimentari, e quindi la loro possibilità di curarsi e nutrirsi.

I dati etnobotanici si possono spesso analizzare secondo due assi; uno è quello che unisce piante alimentari e piante medicinali (l’asse piante alimentari-medicinali, o asse AM) e l’altro è quello che unisce piante selvatiche e piante coltivate (l’asse piante selvatiche-coltivate, o asse SC). I punti di contatto e di sovrapposizione tra questi assi, punti di contatto e relazioni spesso complesse e soggette a fenomeni di coevoluzione biologica e culturale, sono importanti per comprendere in che modo le competenze degli uomini siano state influenzate dal passaggio all’agricoltura.

Questo tipo di analisi è complesso. La distanza temporale che ci separa dall’oggetto di studio non permette di testare direttamente le ipotesi presentate, né di sapere direttamente quale fosse il rapporto tra le popolazioni preistoriche e il mondo vegetale. Inoltre, come è già stato sottolineato, il passaggio da un tipo di rapporto alimentare ad un altro non ha seguito una traiettoria inevitabile, lineare, unidirezionale, intenzionale: “e certamente non un allontanamento “naturale” e inevitabile” dalla caccia e raccolta.[4] Lungo l’asse raccolta-agricoltura sono state possibili tutte le permutazioni, alcune di esse ancora visibili al giorno d’oggi”: caccia e raccolta, orticoltura (coltivazioni estensive, a bassa tecnologia, con orti familiari a multicoltura), debbio, agricoltura (coltivazione intensiva, ad elevata tecnologia e a monocoltura) ed agricoltura industriale.[5]

La letteratura etnobotanica ci può aiutare offrendo all’analisi le conoscenze e le competenze che caratterizzano e distinguono il rapporto con le piante proprio dei cacciatori-raccoglitori da quello degli agricoltori[6]; ci offre quindi uno strumento essenziale per avanzare delle ipotesi su come sia cambiato il rapporto con il mondo vegetale durante il neolitico, su come le conoscenze e le competenze rispetto alle piante siano cresciute e cambiate, e su come tutto questo abbia a che fare con la nascita della medicina.

Per meglio valutare il significato dei dati etnobotanici è però necessario soffermarsi sulla terminologia che utilizzeremo, e sui problemi che derivano dalla necessità di semplificare la complessità. Negli studi quantitativi in antropologia è necessario, infatti, utilizzare categorie specifiche, appunto per permettere uno studio analitico. Questa necessità si scontra però con problemi definitori e di demarcazione, in particolare su due assi, quello del continuum tra piante alimentari e piante medicinali (asse AM), e quello del continuum tra piante selvatiche e piante coltivate (asse SC).[7]

L’asse AM

Anche se è sempre possibile identificare degli esemplari delle due categorie che non lasciano spazio all’ambiguità (ad esempio grano come alimento e Atropa belladonna come medicina), i confini tra piante alimentari e medicinali non sono sempre così netti. Alcuni autori sostengono, infatti, che questa distinzione è in realtà largamente assente nelle popolazioni indigene o è comunque fortemente dipendente dal contesto.

E’ necessario quindi introdurre nuove definizioni che descrivano senza semplificare eccessivamente il continuum alimentare-medicinale. Pieroni e Quave propongono tre categorie:[8]

  1. Piante usate sia come medicine sia come cibo, ma senza alcuna correlazione tra i due usi.
  2. Piante che a parte gli scopi alimentari o edonistici hanno anche altri effetti sul corpo (depurativi, alterativi, tonici del sangue, antiossidanti, ecc.): definiti come cibi funzionali.
  3. Piante che vengono consumate chiaramente come alimento ma per ottenere effetti specificamente terapeutici: definiti come cibi medicinali o medicine alimentari.

L’asse SC.

Altrettanto complessa è la categorizzazione delle piante in base al loro rapporto con l’uomo in termini di gestione. Anche in questo caso i poli estremi sono facilmente identificabili (piante selvatiche e piante addomesticate e coltivate) ma il territorio intermedio presenta molte sfumature e sovrapposizioni. Ad esempio, ci dice la Price, le piante eduli semi-selvatiche, o selvatiche ma gestite e non addomesticate, sono una caratteristica primaria dei sistemi agricoli. Allo stesso tempo sono differenti dalle piante selvatiche dei cacciatori-raccoglitori, perché provengono molto spesso da aree di successione, ruderali, bordi stradali, ecc., piuttosto che dalla foresta.

Vari autori propongono un elenco di categorie basato sulle differenti pratiche agricole e sulla selezione che operano sulle piante:[9]

  1. Piante addomesticate: geneticamente modificate e completamente dipendenti dall’uomo.
  2. Piante semiaddomesticate: parzialmente modificate e non compeltamente dipendenti dall’uomo.
  3. Piante coltivate: introdotte in sistemi agronomici e mantenute in letti di coltivazione.
  4. Piantegestite: protette grazie all’attività umana e aiutate nella competizione con le altre piante.
  5. Piante selvatiche in senso stretto: usate ma non coltivate né gestite.

Nota Bene: le piante di cui ai punti 2, 4 e 5 possono essere definite come piante selvatiche in senso lato.

Per portare un esempio calato nella realtà, Hanazaki e collaboratori, in uno studio sulle piante alimentari e medicinali in Amazzonia, distinguono 4 tipi di rapporto con le piante:[10]

  1. Piante con nessuna o ridotta gestione umana, tutte native, raccolte nella foresta, e che costituiscono il 26% delle piante totali utilizzate.
  2. Piante facilitate dalla gestione umana, native all’80%, raccolte in molti ambienti diversi, nella foresta, nelle coltivazioni a debbio, nelle zone ruderali e nelle vicinanze delle case. Costituiscono il 12% delle piante totali utilizzate.
  3. Piante coltivate ma raramente, native solo al 20%, raccolte in molti ambienti diversi ma non nella foresta: coltivazioni a debbio, nelle zone ruderali, nelle vicinanze delle case e negli orti. Costituiscono la maggior parte (56%) delle piante utilizzate.
  4. Piante coltivate. Native solo al 20%, raccolte nelle zone di coltivazione a debbio. Costituiscono solo il 6% delle piante totali utilizzate.[11]

La formazione del sapere relativo alle piante nel passaggio all’agricoltura

Logan e Dixon, cercando di dare risposta a questa domanda, propongono che le popolazioni indigene di cacciatori-agricoltori utilizzino una percentuale limitata dei taxa disponibili, scelta tramite un processo non casuale di selezione basato su caratteristiche poco usuali che permettono di distinguere facilmente alcune piante da altre. Operando questa forte selezione, tralasciando moltissime piante e concentrandosi solo su poche specie “interessanti”, da investigare, l’uomo “trasforma un problema intrattabile in un dominio di indagine gestibile”.[12]

Nancy Turner identifica alcune caratteristiche che definiscono la “salienza percettiva”, l’ ”ovvietà”, delle piante “interessanti”:[13]

  • Essere ubiquitarie
  • Morfologia, colori, aromi, sapori rari o facilmente individuabili
  • La capacità di causare forti reazioni (ad esempio dermatite da contatto)
  • L’essere libere da infestazioni
  • Il fatto che altri animali se ne cibino,
  • Il possedere caratteristiche antropomorfe

Una volta individuate, queste caratteristiche servono come strumenti euristici per categorizzare altre piante, all’interno di una tassonomia locale trasversale alla tassonomia scientifica. Ad esempio, le piante allucinogene del genere Datura [Solanaceae] sono amare, piccanti e nauseanti, e queste caratteristiche sono state utilizzate dalle popolazioni indigene per predire proprietà allucinogene in altre specie che possedevano le stesse caratteristiche.

Le conoscenze e le tassonomie popolari sono molto più sensibili al contesto e meno generalizzabili delle tassonomie scientifiche, per cui è del tutto probabile che questi processi di acquisizione del sapere e di generalizzazione abbiano portato ad incidenti (intossicazioni o avvelenamenti), ad esempio quando spostandosi da aree conosciute a nuovi territori, con nicchie ecologiche diverse, i raccoglitori utilizzano piante che paiono sovrapponibili a quelle conosciute ma ne differiscono, a volte con risvolti tossici.[14]

Un’occhiata ai dati

Louis Grivetti, uno degli autori che più hanno contribuito a definire il campo della ricerca tra cibo e medicina, riporta i risultati di uno studio effettuato nel 1973 in Botswana, nel deserto del Kalahari, tra i popoli Tswana, ed in particolare con i baTlokwa.[15]

I baTlokwa sono coltivatori con una vasta conoscenza delle piante selvatiche commestibili (Grivetti registra più di duecento specie conosciute),[16] che servono a sostenere l’alimentazione della popolazione in tempi di scarsità, quando le cultivar alimentari tipiche scompaiono per la siccità o per una stagione particolarmente povera.

Alcune di queste piante sono semplici cibi spontanei, altre sono dei cibi-medicina, altre ancora sono delle piante consumate come cibo solo in situazioni di emergenza alimentare, i cosiddetti cibi da carestia (ad esempio i frutti ed I semi di “magabalka” [Cucumis myriocarpus Naudin — Cucurbitaceae], solitamente usati come foraggio, o le foglie di “moologa” [Croton gratissimus Burch. — Euphorbiaceae], normalmente usata come pianta magica, o la radice di “motlopi” [Boscia albitrunca (Burch.) Gilg & Benedict Capparaceae o Brassicaceae], usata al posto del sorgo [Sorghum arundinaceum (Desv.) Stapf — Graminae].

Che le piante selvatiche svolgano un ruolo importante per il sostentamento della popolazione è sottolineato, secondo l’autore, dal diverso destino delle popolazioni del Kalahari orientale e del Sahel:

“(p)er più di cento anni i baTlokwa del deserto del Kalahari orientale, nel Botswana, non hanno sofferto di carestie o di ripercussioni a livello sociale a causa della siccità. Tale successo alimentare in quest’area è dovuto all’equilibrio tra offerta ambientale e decisioni culturali. Il Kalahari orientale offriva una elevata diversità di piante selvatiche eduli, ed i baTlokwa utilizzavano regolarmente tali risorse. Il messaggio più importante che emerse dopo due anni di lavoro sul campo fu che la siccità non aveva causato carestie, e che una spiegazione per il disastro del Sahel [ovvero la tremenda carestia che colpì la regione del Sahel a seguito di una lunga siccità, proprio negli anni della ricerca nel Kalahari. NdT] era l’incapacità culturale a riconoscere ed utilizzare le risorse alimentari selvatiche disponibili — cibi che in precedenza erano stati utilizzati come sostentamento durante le siccità“.[17]

In una ricerca basata nello Swaziland gli autori notano che il 40% degli informatori usa il 50% e più di piante selvatiche per l’alimentazione, raccolte nei campi coltivati o gestite negli orti casalinghi. Gli autori scoprono altresì che i bambini mostrano maggiori competenze rispetto agli anziani, al contrario di ciò che Grivetti aveva notato nel Kalahari, e propongono che ciò sia dovuto al fatto che I bambini devono attraversare varie zone ecologiche diverse per andare a scuola, e sono quindi esposti ad una maggior diversità vegetale.[18] In Nigeria, tra gli Hausa, il 93% della popolazione gestisce e protegge le piante infestanti, ed il 50% del cibo vegetale viene raccolto nel selvatico (nello specifico 39 specie raccolte negli orti familiari, 6 specie raccolte lungo i bordi dei campi e dei sentieri, e 16 specie raccolte nei terreni a gestione comunitaria).[19] Nel Burkina Faso Smith e collaboratori riportano che il 36% dei vegetali consumati nei villaggi (ed il 20% di tutti gli alimenti) sono selvatici.[20] Vainio-Mattila osserva che tra i Sambara in Tanzania i vegetali consumati includono 73 specie di piante selvatiche, ruderali o infestanti.[21]

In Kazakistan il 25% delle famiglie raccoglie piante selvatiche (bacche, bulbi, frutta, piante medicinali e funghi).[22]

Secondo la Price in Tailandia, nei terreni coltivati a riso (ed intorno ad essi), si riconoscono e raccolgono 77 specie di piante selvatiche.[23] Inoltre quasi il 90% delle famiglie gestisce piante non domesticate negli orti familiari.

La raccolta delle piante è demandata quasi totalmente alle donne, per le quali questa attività è secondaria ad altre. Dato infatti che le donne svolgono molte attività legate alla casa, alla famiglia, al gruppo sociale, e sono per questa ragione costrette a muoversi sul territorio e a trapassare molti confini ecologici, esse entrano in contatto con molte specie diverse di piante (in maniera simile a quanto visto per i bambini nello Swaziland) che vengono raccolte “sulla via per” fare qualcosa d’altro.[24]

Nel Nepal centrale, nella comunità Chepang della zona di Shaktikhor, sul massiccio del Mahabarath, la maggior parte dei nuclei familiari (ca. il 90%) usa le risorse forestali o non coltivate a scopo medicinale, per venderle al mercato, o per sopperire ad una vera e propria mancanza di cibo (il 75% dei nuclei familiari), e gestisce in qualche modo le piante selvatiche, sia attraverso una protezione in situ, sia attraverso processi preagricoli di domesticazione. Tutte le famiglie stoccano, oltre ai cereali coltivati, piante selvatiche, in particolare Githa (Dioscorea bulbifera L. — Dioscoreaceae) e Bhyakur (Dioscorea deltoidea Wall. ex Griseb.) e in minor misura dei germogli di bambù (Bambusa nepalensis Stapleton – Poaceae).

In generale le donne Chepang sono leggermente più competenti degli uomini rispetto alle piante selvatiche, ma la differenza non è molto significativa. E’ possibile che le ridotte competenze agricole dei Chepang possano in parte spiegare questa uniformità tra uomini e donne: non avendo sviluppato molto la coltivazione degli orti familiari, forse è venuta a mancare alle donne Chepang la possibilità di aumentare le loro competenze sulle piante degli ambienti di transizione.[25]

In uno studio sulla zona amazzonica Hanazaka e collaboratori sottolineano come la foresta contribuisca solo al 28% per le specie selvatiche consumate, mentre le zone ruderali e I terreni intorno alle case contribuiscono per il 52%, e gli orti e le coltivazioni a debbio per il 20%.[26] In maniera simile Dufour e Wilson notano che il 41% delle piante eduli amazzoniche sono alberi, di cui il 50% proviene dalla coltivazione a debbio.[27] Emerge quindi l’importanza delle zone a vegetazione successionale, a crescita secondaria.[28]

A Cuba su circa 260 specie di piante medicinali e alimentari, solo 25 sono delle cultigen. Tra le non-cultigen, 82 (di cui 39 cibi-medicina) provengono da raccolta in area agricola, 36 (di cui 6 cibi-medicina) dai bordi dei campi, e 56 (di cui 16 cibi-medicina) dalle terre a gestione comunitarie.[29] La ricerca di Vandebroek e Sanca sulle Ande boliviane ha riscontrato che il 58% delle specie medicinali-alimentari è selvatica, e che le famiglie con la miglior sovapposizione tra uso medicinale ed alimentare sono Lamiaceae, Fabaceae, Asteraceae, e Solanaceae.[30]

Nello studio di Ana Ladio sull’utilizzo delle piante selvatiche in una comunità Mapuche della Patagonia nordoccidentale si evidenzia che:

  • Le piante medicinali-alimentari sono raccolte più vicino agli insediamenti
  • Viene dedicato meno tempo alla raccolta delle piante medicinali-alimentari rispetto a quelle alimentari
  • Vengono raccolte quantità minori di piante medicinali-alimentari rispetto a quelle alimentari.[31]

La stessa autrice nota una buona sovrapposizione tra piante alimentari e piante medicinali, e delle chiare differenze chemiotassonomiche tra piante medicinali-alimentari (evolutivamente più recenti) e piante esclusivamente alimentari (evolutivamente più antiche).[32]

Proprio quest’ultimo dato pare particolarmente interessante. Ritornando a quanto accennato nel capitolo sull’evoluzione dei sistemi di difesa chimici delle piante, il rapporto tra la percentuale di piante medicinali presenti in una famiglia botanica ed il livello evolutivo della famiglia stessa sembra coerente con quanto sappiamo sull’evoluzione.

Prendendo per buona questa ipotesi, il riconoscimento da parte dell’uomo di questo trend dovrebbe avere un effetto sull’evoluzione antropogenica, nel senso che la selezione da parte delle popolazioni umane delle piante “utili” tenderebbe a far risaltare maggiormente questa distinzione.

Ad esempio: “nella discussione sull’addomesticamento è di fondamentale importanza includere (nell’analisi NdT) piante con potenziale farmacologico (e non solo quelle a contenuto calorico NdT) in modo da comprendere realmente il continuum delle relazioni uomo-pianta”.[33] Nel calcolo costi/benefici della raccolta piuttosto che della coltivazione è riduttivo quindi utilizzare nell’equazione solo importi calorici senza tenere presente fattori extranutrizionali. E’ probabile che le scelte effettuate dai raccoglitori dipenderenno dalla massimizzazione delle calorie e dalla minimizzazione delle spese energetiche, ma anche dalla necessità di minimizzare gli antinutrienti e di massimizzare gli xenobiotici vantaggiosi.

Questa riflessione dovrebbe ricordarci che i processi di addomesticazione sono di natura evolutiva e mostrano molti stadi e condizioni intermedie lungo un gradiente, lungo il quale “ gli esseri umani alterano la struttura genetica delle popolazioni di piante utili, modificano la loro distribuzione ed abbondanza attraverso la gestione non agricola.[34] Questo significa che le popolazioni non modificano solo il paesaggio tramite la coltivazione ma modificano anche l’ambiente dove vivono e vengono raccote le piante spontanee gestite con modalità ‘preagricole’. In ogni momento dato l’interazione uomo-pianta è il risultato di un graduale processo di aumento dell’intensità della gestione delle piante e dell’ambiente”.[35]

Il paradosso botanico-dietetico

Nonostante comunemente si ritenga che la foresta contenga un tesoro nascosto di piante medicinali, è probabile che la maggior parte di quelle usate dai cacciatori-raccoglitori venga (ora come un tempo) dalla prateria e dai bordi forestali, e che siano le piante infestanti o ruderali a giocare il ruolo più importante.

A questa conclusione arrivano molti autori sia dopo una analisi approfondita dei testi di etnobotanica che riportano la provenienza delle piante medicinali.[36] Sia a seguito di pubblicazioni specifiche sul rapporto tra piante medicinali e infestanti. Hanazaki e collaboratori hanno ad esempio evidenziato nel loro studio sull’utilizzo delle piante alimentari e medicinali in Amazzonia, come la foresta contribuisca al 28% delle specie utilizzate, le zone ruderali e i dintorni delle case al 52%, gli orti e le coltivazioni a debbio al 20%.[37] In un altro articolo sulle piante medicinali utilizzate dai nativi americani gli autori mostrano come esista una forte preferenza per le piante infestanti: in Nord America, le infestanti rappresentano solo il 9.6% della flora, ma il 26% della flora medicinale, e in Chiapas le infestanti sono il 13% della flora ed il 34% della flora medicinale.[38]
Sette delle dodici famiglie di invasive più importanti sono famiglie molto importanti come medicinali: Asteraceae, Fabaceae, Convolvulaceae, Euphorbiaceae, Chenopodiaceae, Malvacae, e Solanaceae.[39]

Una analisi del lessico relativo al mondo vegetale rivela inoltre che spesso le società orticulturali hanno una folk taxonomy e un ventaglio di termini (su piante medicinali e malattie) in media più ricco dei cacciatori raccoglitori puri.[40] Sembrerebbe quindi, dice la Price, che l’allontanarsi dalla dipendenza totale dalla foresta come fonte di cibo comporti un aumento, e non una diminuzione, della diversità di piante consumate, che l’avvento dell’agricoltura abbia comportato certamente una perdita in biodiversità selvatica (tanto maggiore quanto più intensa/iva l’agricoltura), ma che paradossalmente in certi casi abbia aumentato la biodiversità alimentare, delle piante da carestia e delle piante cibo-medicina.[41]

Le ragioni di questo paradosso sono varie, ed includono:

1. Gli ambienti agricoli ed orticulturali hanno biodiversità comparabile o più elevata a quella della foresta.[42] L’impatto degli insediamenti umani e dell’agricoltura sul territorio avrebbe creato zone periagricole, zone di confine tra foresta e coltivazioni, e ambienti disturbati dall’attività umana, come campi, bordi, sentieri, ecc. che offrono un habitat importante per molte specie colonizzatrici, infestanti e ruderali. Questo processo avrebbe aumentato il numero di specie presenti e facilmente osservabili. Alcune di queste piante vennero addomesticate o rimasero comunque all’interno del continuum tra piante alimentari e medicinali, rivestendo ora un ruolo ora l’altro a seconda delle condizioni contingenti, andando ad arricchire il lessico delle popolazioni locali. Come ha rilevato la Price spesso la maggior diversità di piante utilizzate dipende dal fatto che le donne, per il ruolo da esse svolto nelle società tradizionali, si occupano della casa e del giardino e quindi sono in diretto contatto con tutte le aree transizionali tra foresta e coltivazioni.[43]

2. Le infestanti sono nella maggior parte dei casi piante a rapida crescita, opportunistiche, colonizzano rapidamente un’area e rapidamente muoiono. Per questa ragione esse si basano per la loro difesa sulla produzione di composti chimici qualitativi (metaboliti molto attivi e tossici come alcaloidi, terpeni, glicosidi cardiaci, ecc.) piuttosto che composti quantitativi (tannini e lignine, antinutrizionali ma non tossici), più tipici nelle piante perenni non successionali (piante da climax).[44]

3. La dieta agricola si era fortemente semplificata, passando dalle decine di piante usate come alimento dai cacciatori-raccoglitori a solo due-tre piante (a volte addirittura solo una, come nel caso del mais [Zea mays L. — Graminae] in Mesoamerica) alla base dell’alimentazione degli agricoltori.[45] Questa semplificazione portò probabilmente al desiderio di usare le piante aromatiche e resinose nella preparazione degli alimenti, per diversificare I sapori, e questo a sua volta portò ad una maggior complessità del lessico legato a sapori ed odori.

4. La conoscenza delle piante spontanee, da carestia, ecc. Funzionava da meccanismo di sicurezza in caso le coltivazioni non riuscissero a sostenere la popolazione.[46]

Conclusioni

Che conclusioni si possono trarre dai dati appena esposti?
Il concetto che la nascita dell’agricoltura e la natura ambigua delle infestanti (al limine tra alimenti o medicine) abbiano influenzato il crescere della conoscenza sulle piante sembra supportato dai dati, e permette ad alcuni autori di formulare nuove ipotesi sulla nascita di questa conoscenza, differenti da quelle unilineari che fanno dipendere la “scoperta” delle piante medicinali dal loro utilizzo come cibo. Etkin e Ross propongono ad esempio, sulla base del loro studio sulla dieta degli Hausa in Nigeria, che le piante possano essere prima identificate come portatrici di “salienza percettiva”, vengano quindi manipolate ed entrino nel continuum tra spontaneo e coltivato, vengano usate come medicine e successivamente, sotto la pressione delle emergenze, diventino anche “cibi selvatici” o “da carestia”; successive manipolazioni possono poi spostare le specie più adatte verso la domesticazione ed il passaggio a pianta decisamene alimentare.[47]

Da questa prospettiva risulta allora più chiaro il perché, ad esempio, la maggior parte delle piante con azione sulla fertilità e riproduzione umane in varie parti del mondo siano delle piante invasive, coltivate o addomesticate, ed anche perché siano spesso usate come spezie: peperoncino, menta spicata, cipolla, aglio, chiodi di garofano, noce moscata, cumino, pepe, avocado, ananas, papaia, puleggio, sesamo, agrumi.[48]

Certamente che non è possibile tracciare dei percorsi lineari nel rapporto uomo-piante. Percorrendo lo spettro tra caccia e raccolta ed agricoltura spinta, ciò che colpisce è che seppure la dieta e le competenze naturali degli agricoltori intensivi siano certamente di inferiore qualità rispetto a quella dei cacciatori-raccoglitori, in alcuni degli stadi di passaggio tra i due poli le competenze sono aumentate, e non diminuite, e probabilmente anche la dieta, fino a quando le piante selvatiche ricche in composti farmacologicamente attivi sono rimaste parte integrante della dieta, seppure iniziando a distinguersi dalle piante esclusivamente alimentari.

L’ipotesi di Johns sulla nascita della medicina grazie alla possibilità di scindere le piante alimentari da quelle medicinali sembra plausibile, ma una divisione assoluta dei due campi, anche materialmente, si avvera solo con l’agricoltura intensiva dell’epoca contemporanea, e coincide con una perdita in qualità dell’alimentazione. Nella estremizzazione dello spettro (piante solo alimentari, solo caloriche, strippate di ogni contenuto allelochimico, e farmaci estremamente attivi, monomolecolari, estremamente potenti) si sono perse (si stanno perdendo) le competenze rispetto a quel mondo ambiguo e variegato nel quale possiamo ingerire alimentandosi sostanze farmacologicamente attive. Ma durante il processo che ci ha portato qui l’uomo ha imparato a distinguere I due campi pur continuando ad utilizzare piante-medicina nell’alimentazione.


Note

[1] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press

[2] Distinzione che però si esplicita solo nell’era moderna, se è vero che per tutta l’antichità classica ed il medioevo i due campi sono ancora molto sovrapposti

[3] Johns 1990 op. cit.

[4] Sarebbe ad esempio scorretto pensare ai cacciatori-raccoglitori come a dei meri sfruttatori del territorio nel quale raccolgono il cibo; anche essi, come gli agricoltori, lo gestiscono, seppure in maniera differente. (Logan M.H., Dixon A.R. “Agricolture and the acquisition of medicinal plants knowledge”. In N.L., Etkin (ed.) (1994) Eating on the wild side: The pharmacologica, ecological, and social implications of using noncultigens pp. 25-45; Moerman D.M. “North american food and drug plants”. In N.L., Etkin (Ed.), 1994 op. cit. pp. 166-184; Diamond, Jared (1997) Guns, Germs, and Steel: the fates of human societies. W.W. Norton & Co. Ed italiana Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni. Torino, Einaudi 2000).  I Siona-Secoya del bacino del Rio delle Amazzoni, ad esempio, derivano il loro cibo principalmente da piante coltivate (in giardini che ricavano nell’intorno della foresta e vicino ai villaggi), da caccia e pesca, ma consumano frequentemente anche i frutti di piante spontanee (in realtà meglio descritte come “antropofite” o invasive) come le palme Ita [Mauritia flexuosa L.f.] e Tucuma [Astrocaryum tucuma C. Martius], il Tacay [Caryodendron orinocense Karsten — Euphorbiaceae], le Inga spp. [Fabaceae], lo Zapote [Quararibea spp. — Bombacaceae], Pseudolmedia laevis [Moraceae], Physalis angulata [Solanaceae] e Phytolacca rivinoides [Phytolaccaceae]. (Vickers WT (1994) “The health significance of wild plants for the Siona and Secoya”. In NL Etkin (1994) pp. 143-165)

[5] Etkin, NL (2006) Edible medicines: An ethnopharmacology of food. Arizona University Press

[6] La separazione tra i due campi non è netta, sono cioè esistiti cacciatori-raccoglitori sedentari, agricoltori non sedentari. E’ probabile che la percentuale di cacciatori-raccoglitori sedentari fosse molto più elevata 15.000 anni fa (quando tutti erano cacciatori-raccoglitori.) che in tempi moderni, perché le risorse erano maggiori

[7] Hanazaki N, Peroni N, Begossi A (2006) “Edible and healing plants in the ethnobotany of native inhabitants of the Amazon and Atlantic forest area of Brazil”. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[8] Pieroni, A. e Quave, C. “Functional foods or food medicines? On the consumption of wild plants among Albanians and Southern Italians in Lucania” in A., Pieroni e L., Leimar Price (eds.)  (2006) Eating and Healing, Haworth Press,  p. 110

[9] Price LL (2006) “Wild food plants in farming environment”s. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York.; Johns T (1994) Ambivalence to the palatability factors in wild foods plants. In NL Etkin (ed.) Eating on the wild side: The pharmacological, ecological, and social implications of using noncultigens. Arizona University Press, pp. 46-61e Huss-Ashmore e Johnson 1994 “Wild plants as cultural adaptations to food stres” in NL Etkin (1994) op. cit. pp.

[10] Hanazaki et al. (2006) op. cit.

[11] Si nota quindi che le piante non gestite sono tutte native e coincidono quasi perfettamente con le piante della foresta, mentre le piante coltivate sono per la maggior parte introdotte e si trovano esclusivamente nelle zone ad addebbio

[12] Logan, Dixon, 1994 op. cit.

[13] Turner N.J., (1988) “The importance of a rose: Evaluating the cultural significance of plants” American Anthropology 90:272-290

[14] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[15] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[16] L’autore nota anche una perdita di competenze da parte dei giovani a causa di un ridotto trasferimento verticale delle conoscenze tradizionali, un dato riportato da moti altri autori

[17] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) (2006) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York. Questa indagine stimola in Grivetti alcune domande centrali rispetto al ruolo delle piante selvatiche in società in transizione tra caccia-raccolta e agricoltura: le piante selvatiche eduli erano centrali o secondarie rispetto al mantenimento della qualità dell’alimentazione? Esse duplicavano o complementavano l’energia ed i nutrienti derivanti dalle piante coltivate? E’ lo stesso autore a proporre che le competenze sulle piante selvatiche abbiano rappresentato per i baTlokwa una risorsa di duttilità ed adattabilità alimentare che ha aumentato la capacità di rispondere alle emergenze e la variabilità alimentare

[18] Ogle BM e Grivetti LE (1985) “Legacy of the chamaleon. Edible wild plants in the kingdom of Swaziland, southern Africa. A cultural, ecological, nutritional study. Part 1: Introduction, objectives, methods, Swazi culture, landscape, and diet”. Ecology of Food and Nutrition 17:1-30

[19] Etkin NL, e Ross PJ (1994) “Pharmacological implications of “wild” plants in Hausa diet”. In NL Etkin (ed.) 1994 op. cit. ; Humphry C, Clegg MS, Keen C, e Grivetti LE (1993) “Food diversity and drought survival. The Hausa example”. International Journal of Food Sciences and Nutrition 44:1-16

[20] Le piante più comuni sono il baobab [Adansonia digitata L. — Bombaceae], la marula [Sclerocarya birrea (A. Rich.) Hochst. — Anacardiaceae] e il tamarindo [Tamarindus indica L. — Leguminosae]. La raccolta viene effettuata soprattutto (81%) da donne e ragazze per uso familiare, mentre gli uomini raccolgono piante solo per uso personale. cfr. Smith GC, Clegg MS, Keen CL e Grivetti LE (1995) “Mineral values of selected plant foods common to southern Burkina faso and to Niamey, Niger, West Africa”. International Journal of Food Sciences and Nutrition 47:41-43; Smith GC, Duecker SR, Clifford AJ, e Grivetti LE (1996) “Carotenoid values of selected plant foods common to southern Burkina Faso, West Africa”. Ecology of Food and Nutrition 35:43-58

[21] Vainio-Mattila K (2000) “Wild vegetables used by the Sambara in the Usambara Mountains, NE Tanzania”. Annales Botanici Fennici 37:57-67

[22] Dalsin MF, Laca EA, Abuova G, e Grivetti LE (2006) “Livestock-owning households of Kazakstan. Part 1: Food systems”. Ecology of Food and Nutrition 41:301-343

[23] Price LL (2006) op. cit.

[24] Ogle BM e Grivetti LE (1985) op. cit.

[25] Rijal, Arun. (2008) “A Quantitative Assessment of Indigenous Plant Uses Among Two Chepang Communities in the Central Mid-hills of Nepal.” Methods 6: 395-404

[26] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[27] Dufour DL e Wilson WM (1994) “Characteristics of “wild” plant foods used by indigenous populations in Amazonia”. In NL Etkin (ed.) 1994 op. cit.

[28] Vickers 1994 op. cit.

[29] Volpato G, Godìnez D (2006) “Medicinal foods in Cuba: Promoting health in the household”, in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[30] Vandebroek I e Sanca S (2006) Food medicines in the Bolivian Andes (Apillapampa, Cochabamba Department) in A. Pieroni, LL Price (eds.) op. cit.

[31] Secondo l’autrice questa differenza è spiegata dalla teoria del rapporto tra contenuto calorico della pianta ed energia spesa per ottenerla, ma la teoria non tiene conto delle possibili variabili extranutrizionali

[32] L’autrice riporta che tra le piante alimentari e medicinali (che comprendono il 63% di tutte le specie selvatiche) le famiglie botaniche più rappresentate sono le Apiaceae (con 4 specie), le Asteraceae e le Oxalidaceae (2 specie), e le Lamiacese e Caryophylaceae. Lo schema è diverso per le piante eduli: le famiglie più rappresentate sono: Araucariaceae, Berberidaceae, Rosaceae, Celastraceae, Myrtaceae, e Saxifragaceae. cfr. Ladio AH (2006) “Gathering of wild plant foods with medicinal use in a Mapuche community of Northwest Patagonia” in A. Pieroni, LL Price (eds.) op. cit.

[33] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[34] Harlan JR (1995) The living fields. Our agricoltural heritage. Cambridge, Cambridge University Press

[35] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[36] Alcorn, J.B. Huastec Maya ethnobotany. University of Texas Press, Austin, Texas, 1984, pp. 311–312.; Arvigo, R., Balick, M. Rainforest Remedies: 100 Healing Herbs of Belize. Lotus Press, Twin Lakes, Wisconsin, 1993; Caniago, I. & Siebert, S.F. (1998) “Medicinal plant ecology, knowledge and conservation in Kalimantan, Indonesia”. Econ. Botany 52:229–250; Frei, B., Sticher, O. & Heinrich, M. (2000) “Zapotec and Mixe use of tropical habitats for securing medicinal plants in Mexico”. Econ. Botany 54:73–81; Posey, D.A. “A preliminary report on diversified management of tropical forest by the Kayapó Indians of the Brazilian Amazon”. In: Prance, G.T., Kallunki, J.A. (Ed.), Ethnobotany in the Neotropics. New York Botanical Garden, New York, 1984, pp. 112–126

[37] Hanazaki, Peroni, Begossi (2006) op. cit.

[38] Stepp J. R., F.S. Wyndham e R.K. Zarger (eds.) Ethnobiology and biocultural diversity.  Proceedings of the Seventh International Congress of Ethnobiology, University of Georgia Press, 2002; Moerman, D.E. (2001) “The importance of weeds in ethnopharmacology” Journal of Ethnopharmacology, 1(75): 19-23

[39] Holm L. (1978) “Some characteristics of weed problems in two worlds”. Proc. West. Soc. Weed Sci. 31:3–12

[40] Meilleur BA (1994) “In search of ‘keystone societies’ ”. In NL Etkin (1994) op. cit.

[41] Price LL (2006) op. cit. A movement away from dependance on plants from forest as food and medicine appears to be accompanied by an increase in comnsumption of plant foods and medicines gathered from the farming environment, and that this occurs as a cross-cultural phenomenon. Thus as agricolture grows and old forest growth declines and is farther and farther away from the dwellings (and gatherers) there is growing reliance on plant foods fron environments disturbed by human activitiy, individual fields, border areas, footh paths etc. Undoubtedly, species composition changes with land use change and agronomic practices. New species are brought into the diet through a process of experimentation, but not without difficulty.

[42] Conklin H (1961) “The study of shifting cultivation”. Current Anthropology 1:27-61; Kunstader P (1978) “Ecological modification and adaptation: An ethnobotanical view of Lua’swiddeners in northwesterne Thailand”. In R. Ford (Ed.) The nature and status of ethnobotany. Ann Arbor: University of Michigan Museum of Anthropology

[43] Price LL (2006) op. cit.

[44] Stepp (2002) op. cit.; Moerman (2001) op. cit.

[45] Per inciso, questa semplificazione ha in certi casi portato ad un peggioramento dello stato di salute, se è vero che, come indicano i dati sulle popolazioni di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti, gli agricoltori lavoravano di più ed erano peggio nutriti, con un minor tasso di sviluppo neonatale, un maggior tasso di malattie (di solito con maggiori infestazioni parassitarie), e minor longevità rispetto ai cacciatori-raccoglitori (probabilmente per un impoverimento della varietà di nutrienti e composti secondari ingeriti). Diamond 1997 op. cit.; Johns 1990 op. cit.; Kiple 1993 op. cit.; Vickers 1994 op. cit.

[46] Logan, Dixon, 1994 op. cit.

[47] Etkin N.L. (Ed.) 1996 op. cit.

[48] Va sottolineato che l’identificazione delle piante come medicinalmente attive da parte delle popolazioni non coincide necessariamente con una loro effettiva efficacia. L’effetto placebo e le influenze culturali sono sempre presenti.

Uomo e piante 6/dimoltialtri

Ritorno dopo un momentaneo ma necessario “stacco” alla mia soap su uomini e piante. Se siete ancora con me 🙂 siamo arrivato alla puntata numero 6, e le precedenti sono qui, qui, qui, qui, e qui

E’ arrivato il momento di esplicitare meglio l’ipotesi co-evolutiva della nascita della medicina, e per fare ciò è necessario fare un passo indietro per giustificare l’idea che esista una connessione significativa e preculturale tra uomo e piante.

La teoria unificata delle comunicazioni cellulari
Come ci ricorda Meinwald [1] il nostro è un modo di suoni e visioni, e tendiamo a non renderci conto degli eventi chimici che ci circondano, del fatto che tutti gli organismi emettono e rispondono a segnali di tipo chimico, formando una vasta rete di interazioni comunicative fondamentali, attrattive, difensive, associative, ecc.

Fin dalle origini della vita infatti, il problema che i primi organismi cellulari hanno dovuto risolvere è stato quello della comunicazione tra cellula ed ambiente circostante e tra cellula e cellula, ed il problema è stato risolto da tutti gli organismi nello stesso modo, attraverso il linguaggio di molecole che possono penetrare le membrane e interagire con il nucleo oppure che trovano recettori specifici sulla membrana cellulare che mediano poi dei cambiamenti interni.

Ragionando da una prospettiva abbastanza ampia è quindi ovvio che uomini e piante, anzi, animali e vegetali, debbono mostrare dei legami, non soltanto filogenetici ma di relazione, comunicativi: affinché la vita di organismi diversi, anche appartenenti a Regni differenti,  possa prosperare in uno stesso ambiente, vi sono state, e vi devono essere state, continue relazioni mediate da un linguaggio molecolare.

La “teoria unificata delle comunicazioni cellulari” vuole che queste relazioni, ed i percorsi biogenetici del metabolismo secondario che creano le molecole messaggere, siano nati molto presto nella storia dell’albero evolutivo e siano spesso comuni tra i Regni Animalia e Vegetalia. [2] Ciò significa che nonostante la distanza filogenetica tra organismi appartenenti ai due Regni, essi possano però riconoscere gli stessi messaggeri. [3] Questo dato di base spiega la possibilità delle interazioni tra piante ed animali ed il ruolo di intermediari che hanno i metaboliti secondari.

Come rispondere all’ambiente

La possibilità per una pianta di “leggere” i messaggi di altre piante le permette di rispondere a degli indizi ambientali modificando il proprio schema di risposta. Organismi animali possono usare questi indizi per riconoscere lo stato dell’ambiente esterno ed “decidere” come allocare le proprie risorse energetiche.

Un esempio di questo utilizzo dei messaggi molecolari negli animali superiori potrebbe essere legato al fenomeno della senescenza. Organismi che si siano evoluti in ambienti mutevoli possono trarre vantaggio dalla capacità di puntare su un successo riproduttivo immediato a scapito della longevità in caso di ambiente più favorevole, o di puntare sulla longevità e su una ritardata maturazione sessuale in caso di condizioni sfavorevoli. [4]

Esempi di questi percorsi di allarme comprenderebbero varie chinasi legate alla sopravvivenza delle cellule, i fattori di trascrizione NRF2 e CREB, e le deacetilasi istoniche della famiglia della sirtuina, una proteina nota come Sir2 nei lieviti e SIRT1 nell’uomo.

Le Sir2 (Silent information regulator 2), sono presenti in tutti gli organismi, dagli eubatteri agli eucarioti, compresi gli esseri umani. Svolgerebbero due funzioni primarie nei mammiferi: la prima è  coordinare gli schemi di espressione genica (ovvero decidere quali geni sono attivati e quali disattivati in ogni singola cellula, per evitare ad esempio che una cellula renale inizi ad esprimere tendenze epatiche) e mantenere la stabilità di certe regioni cromosomiche e sopprimere l’esagerata espressione di certi geni (silenziamento genico) aumentando la stabilità del genoma; la seconda è funzionare da agenti riparatori emergenziali in caso di danno al DNA. [5] Il problema sorge dal fatto che quando le sirtuine sono occupate a riparare il DNA non regolano più l’espressione dei geni. Fino a che i danni al DNA sono rari le sirtuine riescono a compiere entrambi i compiti con efficienza, ma quando questi danni aumentano (tipicamente con l’età) la de-regolazione dell’espressione genica diventa cronica, e questo sembra essere legato, nei modelli animali utilizzati, a fenotipi di senescenza. [6]

Negli ultimi decenni sono stati scoperti molti composti di origine vegetale (tre esempi sono resveratrolo, i sulforafani ed i curcuminoidi) sintetizzati in risposta a vari tipi di emergenza (siccità, radiazioni, attacchi di insetti, infezioni, ecc.) per stimolare diverse risposte adattive e la rigenerazione cellulare stimolando una maggior espressione di sirtuine ed allungando la vita media,  proteggendo le cellule da lesioni stimolando la produzione di antiossidanti, fattori neurotropici ed altre proteine correlate allo stress.

Il modello coevolutivo

Ma il legame che viene proposto va oltre al dato generalizzato della teoria unificata delle comunicazioni cellulari, anche se si fonda su di essa. Esso si basa sull’ipotesi che l’utilizzo delle piante come fonte privilegiata di nutrienti abbia plasmato la fisiologia dell’uomo.

I nostri antenati, secondo l’ipotesi antropologica attualmente più accreditata, erano onnivori-foliovori, nel senso che avevano una decisa preferenza, certamente ispirata dalla necessità, per le piante ed in particolare per le foglie. E’ molto probabile che l’uomo preferisse sempre cibo denso in energia e povero di composti tossici (carne, tuberi, frutta) piuttosto che foglie; d’altro canto tuberi e frutti non sono disponibili tutto l’anno e sono più difficili da scovare, mentre le foglie sono più facilmente sfruttabili perché sono sempre presenti su tutto il territorio antropizzato, ed è probabile che siano sempre stati parte della dieta, oltre ad essere un “salvavita” in caso d’emergenza.

Questa forzata “convivenza alimentare” con le piante ci ha costretti a confrontarsi con molteplici messaggi chimici (spesso difensivi e quindi tossici) ai quali è stato necessario fornire delle risposte, cioè adattarsi, in qualche modo co-evolversi con essi e con le piante che li contenevano.

La tesi sostenuta da un certo filone antropologico (vedi Johns [12]) è che l’adattamento abbia fatto sì che le proprietà che rendevano le piante tossiche o non commestibili (limitando le possibilità di alimentazione dell’uomo) siano le stesse che le hanno rese attive a livello farmacologico (rappresentando quindi un fattore di promozione della salute). La nostra specie, nell’adattarsi alle tossine delle piante, le ha portate ad essere una parte essenziale della nostra ecologia interna, le ha “introiettate” facendo sì che non ci danneggiassero (o almeno non ai livelli ai quali le ingeriamo) ma anzi che potessero esserci utili.

Ne consegue l’ipotesi che gli esseri umani selezionino le piante sulla base della loro composizione chimica e che l’ingestione dei composti chimici vegetali sia parte di una risposta adattiva integrata che possiede elementi biologici e culturali, e che la nostra eredità biologica, associata allo snodo essenziale costituito dalla rivoluzione neolitica (la domesticazione delle piante e la loro coltivazione), pongano le basi per la nascita dell’uso medicinale delle piante. [7]

Questa ipotesi è andata rafforzandosi nei decenni grazie ai molti studiosi che l’hanno corroborata con vari pezzi di puzzle.


Prove indirette: i nostri simili
Un supporto, seppur indiretto, alla tesi che l’utilizzo delle piante a scopo medicinale da parte dell’uomo abbia origini preculturali e coevolutive viene dagli studi sulla zoofarmacognosia, ovvero sull’automedicazione con le piante da parte degli animali non umani. [8]

Glander, Lozano, Huffman ed altri autori portano vari esempi di zoofarmacognosia, alcuni dei quali riporto di seguito. [9]

Gli elefanti malesi si cibano di una leguminosa [Entada schefferi Ridley – Fabaceae] prima di intraprendere un lungo cammino; in India i cinghiali selvatici dissotterrano e si nutrono in maniera selettiva delle radici di Boerhavia diffusa L. [Nyctaginaceae], usate anche dagli esseri umani come rimedio antelmintico, mentre i maiali si ciberebbero delle radici del melograno [Punica granatum L. — Punicaceae] per la sua tossicità sui nematodi. Gli scimpanzè maschi della Tanzania occidentale, nei periodi dell’anno nei quali aumentano le infestazioni di nematodi, utilizzano le foglie di Aspilia spp. (spesso A. mossambicensis) [Asteraceae] seguendo un rituale molto particolare e completamente diverso dalla ritualità normalmente associata all’alimentazione: arrotolano le foglie, le mettono tra lingua e guancia e poi le ingoiano senza masticarle.

Va notato che Aspilia contiene principi attivi antibatterici, antifungini e antelmintici (thiarubrina A), e che la modalità di assunzione potrebbe favorire l’assorbimento di tali composti attraverso le mucose della guancia. Gli scimpanzè mostrano altri comportamenti molto interessanti: le femmine ingeriscono foglie di Lippia plicata Bak. [Verbenaceae] (usata dagli indigeni come stomachico ed insetticida) quando sembrano avere dei disturbi gastrointestinali, e vari maschi malati sono stati notati mentre succhiavano il midollo del fusto di Vernonia amygdalina Del. [Asteraceae], una pianta molto amara (contiene lattoni sesquiterpenici amari, antelmintici e antischistosomiaci), raramente usata a scopo alimentare ma comune nella medicina tradizionale dell’Africa orientale in caso di febbri malariche, schistosomiasi, dissenteria amebica, elmintiasi, diarrea, mal di stomaco, inappetenza e scorbuto, e dagli agricoltori in caso di parassiti intestinali dei maiali.

Negli esseri umani la Vernonia è efficace contro Giardia lamblia, ossiuri e nematodi dei generi Ancylostoma, Uncinaria, Necator. E’ interessante notare come i primati utilizzino raramente le foglie e la corteccia della pianta, nonostante la maggior concentrazione in composti attivi. Il fatto che queste parti della pianta contengano anche composti tossici è una possibile spiegazione di questo comportamento. I primati utilizzano in maniera simile anche i fusti di Palisota hirsuta (Thunb.) K. Schum. [Commelinaceae] e Eremospatha macrocarpa (Mann and Wendl.) Wendl. [Palmae].

Alouatta palliata (una scimmia urlatrice) mostra una frequenza molto ridotta, rispetto agli scimpanzè, di carie o gengiviti, dato in parte spiegabile con la dieta povera in frutta zuccherina, ma forse anche con il consumo di anacardi [Anacardium occidentale L. — Anacardiaceae], frutti che contengono acido anacardico e cardolo, composti attivi contro i batteri gram-positivi tipici della carie; le stesse scimmie urlatrici sono soggette a parassitosi gastrointestinale, ma quelle di loro che si alimentano anche con frutti dei ficus [Ficus spp. — Moraceae] lo sono di meno. Dato che il latice di Ficus è antelmintico, è possibile che il consumo di foglie e frutti contribuisca ad abbassare il carico di parassiti. [10]

Uno dei primati meno comuni (Brachyteles arachnoides) è preda, come altri, di parassitosi intestinale, ma tra i gruppi che ne soffrono di meno si nota uno schema di alimentazione particolare.  All’inizio della stagione delle piogge questi individui fanno uno sforzo particolare per mangiare piante che prima non assaggiavano, in particolare le leguminose Apuleia leiocarpa (J. Vogel) J.F. Macbr. e Platypodium elegans Vogel. [Fabaceae] (ricche in composti antimicrobici e isoflavoni).

I Colobus rossi normalmente preferiscono foglie giovani, ricche in proteine e povere in tannini ed altri composti fenolici, ma di quando in quando mangiano foglie ad elevato contenuto in tannini, che potrebbero servire per detossificare gli alcaloidi e ridurre il gonfiore intestinale. [11]

I babbuini soffrono comunemente di schistomatosi, ed è stato notato, nei gruppi che vivono presso le cascate Awash (Etiopia), un comportamento particolare degli individui che ne sono affetti gravemente: essi si nutrono di foglie e frutti di Balanites aegyptiaca (L.) Del. [Zygophyllaceae], che contengono diosgenina, attiva contro Schistosoma cercariae.

Prove dirette: la fisiologia ed il comportamenti umani. [12]
Se l’ipotesi appena esposta è valida, ci deve essere rimasta qualche traccia del processo co-evolutivo nel nostro organismo, sia di tipo fisiologico che comportamentale. La difficoltà sta però nel riconoscere se e quali di queste caratteristiche siano tracce coevolutive, perché ci è dato interpretarle come tali solo a posteriori, senza il beneficio di una prova diretta, ma solo tramite inferenze.

Ad esempio, gli esseri umani hanno un intestino adatto a cibi densi di nutrienti ma mantengono una certa capacità di digerire fibre, e possono sopportare dosi relativamente elevate di composti allelopatici; l’uomo è inoltre capace di sopperire al proprio fabbisogno di acidi grassi essenziali tramite i loro precursori presenti nei vegetali.  Queste caratteristiche potrebbero indicare una consuetudine dell’uomo con le piante. Si è anche ipotizzato che la preferenza dell’uomo per il sale (di più di un ordine di magnitudo superiore al suo fabbisogno) potrebbe essere spiegato con la carenza di sodio nelle piante della savana dove Homo si è evoluto, e, come si è visto più sopra, l’incapacità di sintetizzare la vitamina C potrebbe essere spiegata con la sua ubiquità ed abbondanza nei vegetali.

La presenza nella saliva dell’uomo di proteine ricche in prolina (PRP) è un altro importante esempio: l’uomo è in grado di rispondere all’ingestione di tannini mantenendo le parotidi in uno stato di induzione, tanto che il 70% delle secrezioni salivari è del tipo PRP: queste PRP possono servire a legare i tannini presenti nel cibo e renderli meno irritanti per il tratto gastrointestinale e forse per renderli meno attivi sul cibo che ingeriamo (riducendone gli effetti antinutrizionali).

Esempi più generici del rapporto dell’uomo con sostanze velenose sono il vomito ed i sensi chimici.


Il vomito è un istintivo meccanismo di rigetto di una sostanza che si è immediatamente riconosciuta come tossica o in qualche modo non desiderata.

I sensi chimici, gusto ed olfatto mostrano di poter discriminare sostanze vegetali potenzialmente pericolose da altre potenzialmente utili (discriminando tra amaro e dolce ad esempio), e mostrano di poter attivate risposte condizionate molto potenti, in particolare quelle negative associate al cibo. Ciò significa che a seguito di un malessere gastrointestinale legato temporalmente (a prescindere dal legame causale) all’ingestione di cibo, il sapore e l’odore di quel cibo saranno legati al malessere rendendo molto difficile cibarsene ancora. Questo è un tipo di meccanismo di apprendimento, perché una sostanza che abbia provocato un malessere gastrointestinale probabilmente è tossica, o comunque dobbiamo considerarla come tale. [13]

C’è una differenza importante tra olfatto e gusto, perché il primo, essendo molto più plastico del gusto, è meno legato alla percezione negativa, mentre quest’ultimo, essendo limitato alla discriminazione di quattro o cinque sapori, è più fortemente e più meccanicamente legato alla risposta condizionata.


Altro indizio molto rilevante è la presenza di enzimi detossicanti a livello epatico (e in misura minore renale, intestinale e polmonare), enzimi che rendono meno tossiche e facilmente eliminabili varie sostanze di origine vegetale, e che non sono molto specializzati, non hanno cioè la capacità di detossificare sempre e con efficienza una sostanza particolare, ma hanno la capacità plastica di adattarsi a molti problemi diversi, e questo è un indizio che si situa bene nel quadro di una dieta umana prevalentemente onnivora-foliovora (da cui l’esistenza di enzimi che hanno come substrato delle sostanze vegetali), con fonti alimentari molto diversificate (da cui la necessità di plasticità nella risposta).

Possiamo considerare il ruolo degli enzimi detossificanti in congiunzione con la neofobia, cioè il fatto che l’uomo adulto mostri la tendenza ad esser circospetto rispetto alle sostanze che deve assumere. [14]

Dato che il meccanismo epatico esiste per detossificare una sostanza potenzialmente tossica, il fatto di assaggiare sempre piccole quantità di un cibo o di una sostanza nuova permette di non avvelenarsi accidentalmente, e di non sovraccaricare i meccanismi detossificanti. Quindi la combinazione dei due meccanismi ci può permettere di assaggiare un cibo nuovo che può essere pericoloso senza però morire dopo averlo assaggiato.

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Note al testo

[1] Eilser T, Meinwald J (1995) “Preface” in Thomas Eilser and Jerrold Meinwald (eds) Chemical ecology: The Chemistry of Biotic Interaction National Academy Press Washington, D.C. 1995

[2] Roth J., Leroith D. (1987) The Sciences, May-June:51

[3] Lamming D.W., Wood J.G., Sinclair D.A. (2004) “Small molecules that regulate lifespan: evidence for xenohormesis”. Mol Microbiol; 53(4):1003-9; Howitz, K.T., Bitterman, K.J., Cohen, H.Y., Lamming, D.W., Lavu, S., Wood, J.G., et al. (2003) “Small molecule activators of sirtuins extend Saccharomyces cerevisiae lifespan”. Nature 425: 191–196; Mattson MP, Cheng A. (2006) “Neurohormetic phytochemicals: Low-dose toxins that induce adaptive neuronal stress responses”. Trends Neurosci; 29:632–9

[4] Kuzawa C et al. (2008) “Evolution, developmental plasticity and metabolic disease” in SC Stearns and JC Koella (eds.) Evolution in health and disease 2nd edition Oxford UP; Austad SN, Finch CE (2008) “The evolutionary context of human aging and degenerative disease” in in SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.; Ackermann M e Pletchr SD (2008) “Evolutionary biology as a foundation for studying aging and origin-related disease”. In SC Stearns and JC Koella (eds.) op. cit.

[5] Guarente, L. (2000) “Sir2 links chromatin silencing, metabolism and aging” Genes Dev 14:1021-1026

[6] Oberdoerffer et al (2008) “SIRT1 redistribution on chromatin promotes genome stability but alters gene expression during aging”; Cell 135,  6

[7] Con questo non si intende proporre l’appiattimento della cultura sulla natura, la riduzione della medicina a fatto biologico e della malattia a rapporto ecologico. Nè si suppone che l’utilità presente dei composti xenobiotici per l’organismo che li ingerisce siano in parte o del tutto riconducibili ad adattamenti passati. Una origine evolutiva, spiega bene Gould (Gould, S.J. “Darwin tra fondamentalismi e pluralismo”. In Pino Donghi (a cura di) La medicina di Darwin. Roma, Laterza, 1998) non si appiattisce su quella adattiva, perché la selezione naturale non esaurisce tutti i meccanismi evolutivi, e l’enorme chemiodiversità delle piante (che esprimono circa i 4/5 di tutti i i composti farmacologicamente attivi conosciuti) offrirebbe comunque materiale farmacologicamente attivo al di là dei rapporti ecologici animale-pianta.

[8] Nel lavoro seminale in questo campo (Rodriguez, E., R. Wrangham. H. Stafford e Downum K. eds., (1993) “Zoopharmacognosy: The use of medicinal plants by animals”. Recent advances in phytochemistry, 89-105) gli autori (responsabili anche del conio del termine zoofarmacognosi) scrivono che:

“The combination of natural products, trichomes and other leaf features are important in the fitness of wild animals,”…“the observation of animals using plants is not new since Amazonian Indians and many people of the African forests tell of how animals use plants and how they copy the animals”

[9] Glander K.E. “Nonhuman primat self-medication with wild plant foods”. In N.L., Etkin  (Ed.), 1994 op. cit. pp. 227-239; Lozano, G.A. (1998) “Parasitic stress and self-medication in wild animals” Advances in the study of behaviour. 27: 291-317; Huffman M.A. (2001) “Self-medicative behavior in the African Great Apes: An evolutionary perspective into the origins of human traditional medicine”. BioScience.; Vol. 51(8): pp. 651-661.

[10] Una ipotesi più difficile da sostanziare ma affascinante è quella che vuole che l’ingestione di piante da parte delle femmine di Alouatta serva a modificare il normale rapporto maschio/femmina della prole, Glander (1994 op. cit.) ipotizza che alcuni composti delle piante ingerite possano modificare la concentrazione ionica delle mucose vaginali delle femmine, e che questo a sua volta possa modificare selettivamente l’accesso degli spermatozoi che portano un cromosoma X rispetto a quelli a Y dato che X è elettropositivo mentre Y è elettronegativo.

[11] Lo stesso fanno altri primati ed è difficile spiegare questo comportamento senza chiamare in causa la zoofarmacognosi anche perché i tannini sono forse l’unico gruppo di composti che non sono detossificabili se non parzialmente. I tannini possono legarsi e precipitare, e quindi inattivare, le molecole azotate, come appunto gli alcaloidi. Interessante notare che i Colobus mangiano anche terre ricche in caolino (geofagia), che grazie alla loro elevata capacità di adsorbimento possono intrappolare e rendere indisponibili all’assorbimento varie tossine (e nutrienti).

[12] Johns T (1990) The Origins of Human Diet and Medicine. University of Arizona Press; Consiglio, C. e Siani V. (2003) Evoluzione e alimentazione: il cammino dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri

[13] Le risposte condizionate positive, cioè quelle che potrebbero essere molto utili, sono invece molto meno forti, più labili, di quelle negative.

[14] Il bambino è molto meno neofobico, ed anche questo è un meccanismo evolutivo: esso deve infatti poter fare esperienza del mondo, deve poter “assaggiare” in vari modi la realtà che lo circonda. L’uomo adulto invece, raggiunto il suo bagaglio di esperienze, sta più attento.

Macrobiotica? No, microbioma…

Un bel post di Not Exactly Rocket Science sul ruolo della flora batterica intestinale (microbioma) nella digestione e nella salute umana, che analizza e condensa gli studi degli ultimi anni (qui, qui e qui tre lavori recenti) che hanno analizzato non solo come il microbioma possa agire sul cibo che ingeriamo, con conseguenze sulla salute, ma anche su come ciò che ingeriamo modifichi il microbioma, di nuovo con importanti riflessi sulla salute. L’applicazione di una ottica evoluzionista favorisce uno sguardo laterale al problema, lega il problema della sterilizzazione dell’ambiente in cui viviamo, della modificazione della dieta, dell’allattamento materno, con fenomeni di modificazione radicale o impoverimento della diversità genica del microbioma, che a sua volta potrebbe influenzare l’incidenza di vari stati patologici, come le allergie, i disturbi infiammatori intestinali, ecc.

Fitoalimurgia Chepang 2/2

Eccoci qui, quindi, alla seconda puntata.

Come argutamente notava Meristemi, non è che proprio che non abbia fatto capire la mia posizione relativamente al valore delle piante selvatiche .

Allora, nella seconda puntata mi sbilancio per dire che: si, credo che le piante appartenenti al continuum tra selvatico e non-ancora-coltivato-ma-quasi rappresentino un potenziale bacino sia di fattori nutrizionali sia di fattori non-nutrizionali ma funzionali che può fare la differenza per la sicurezza alimentare e per il mantenimento della salute.

Certamente queste piante sono un potenziale critico proprio in quelle situazioni di potenziale deficit nutrizionale che si presentano in molti paesi del sud del mondo, ma in maniera meno evidente possono giocare un ruolo simile anche nei nostri paesi di relativa opulenza alimentare [1].

Dato che il mio obiettivo al momento è molto limitato (vorrei parlare di quello che ho visto durante un viaggio) mi limito a fare alcune considerazioni ed a citare alcuni autori, certo che proprio in questo momento Meristemi sta cucinando qualcosa di succoso. Me la cavo quindi citando due volumi recenti che raccolgono molti dei dati più interessanti a questo riguardo: il volume edito da Pieroni e Price [2] ed il testo della recentemente scomparsa Nina Etkin. [3]

Proprio da quest’ultimo ricavo una citazione. Louis Grivetti [4] ricordando la sua prima esperienza sul campo, riporta che:

“(p)er più di cento anni i baTlokwa del deserto del Kalahari orientale, nel Botswana, non hanno sofferto di carestie o di ripercussioni a livello sociale a causa della siccità. Tale successo alimentare in quest’area è dovuto all’equilibrio tra offerta ambientale e decisioni culturali. Il Kalahari orientale offriva una elevata diversità di piante selvatiche eduli, ed i baTlokwa utilizzavano regolarmente tali risorse. Il messaggio più importante che emerse dopo due anni di lavoro sul campo fu che la siccità non aveva causato carestie, e che una spiegazione per il disastro del Sahel [ovvero la tremenda carestia che colpì la regione del Sahel a seguito di una lunga siccità, proprio negli anni della ricerca nel Kalahari. NdT] era l’incapacità culturale a riconoscere ed utilizzare le risorse alimentari selvatiche disponibili — cibi che in precedenza erano stati utilizzati come sostentamento durante le siccità.“

L’autore continua rimarcando il pericolo insito nella perdita di conoscenze riguardo alle piante selvatiche, perdita che si può tradurre in ridotte possibilità di sopravvivenza durante il periodo di crisi, perdita che in parte è secondaria ad un processo di trasformazione dell’agricoltura e della società più in generale, che porta al rifiuto delle pratiche tradizionali viste come primitive.

D’altro canto l’argomento è complesso, e sarebbe improvvido pensare ad un automatismo che leghi l’avanzare dell’agricoltura con la perdita in saperi o risorse. Come avverte nello stesso volume Lisa Leimar Price [5], l’allontanarsi dalla dipendenza totale dalla foresta come fonte di cibo comporta un aumento nella quantità di piante raccolte da ambienti agricoli, da ambienti disturbati dall’attività umana, dai campi, dai bordi, dai sentieri, ecc. Questo passaggio sembra portare con sè un aumento, e non una diminuzione, della diversità di piante consumate.

E spesso questa maggior diversità di piante utilizzate dipende fortemente alle donne, per il ruolo da esse svolto nelle società tradizionali, come coloro che si occupano della casa e del giardino, e quindi che sono in diretto contatto con tutte le aree transizionali tra foresta e coltivazioni. Una riduzione dei saperi sulle piante selvatiche, avverte la Price, può invece dipendere dallo stigma sociale ad esse associato, e fortemente legato al tema della povertà. [6]

Ecco allora che emergono alcuni temi che mi sono stati utili nel ripensare al mio viaggio:

  • l’importanza di riconoscere la parziale artificiosità della divisione cibo/medicina, fondamentale per valutare gli effetti sulla salute globale della popolazione dell’utilizzo delle piante selvatiche
  • evitare rigidità di pensiero rispetto alla supposta dicotomia tradizione/modernità, selvatico/agricolo
  • evitare l’associazione tra consumo di piante selvatiche ed idee di povertà, arretratezza, primitività, un tema come si vedrà centrale nel caso di studio del Nepal.

I problemi

Nel 2004 e poi nel 2009 sono stato a visitare i villaggi Chepang nella valle del Kandrang, nel VDC di Shaktikor, del Distretto del Chitwan.

La zona è caratterizzata da foresta mista dominata da Mallotus philippensis (Lamm.) Muell. Arg. (Euphorbiaceae), Schima wallichii (DC) Korth. (Theaceae), Shorea robusta Roxb. Ex Gaertner f. (Dipterocarpaceae), Bombax ceiba L. (Bombaceae), Betula alnoides Buch.-Ham. ex D.Don. (Betulaceae), e naturalmente Diploknema butyracea.

Nel 1993 un quinto delle terre di proprietà nella valle era ancora gestita a Khorya (debbio). A parte il terreno a Khorya, le comunità possiedono anche particelle minori di terra, detta bari, relativamente più fertile e produttiva del Khorya, e una parte di terreno intorno alla casa gestito come orto familiare.

Fino a 25 anni fa il periodo di maggese (Lhotse) era di 10-15 anni, e il Khorya forniva una parte minoritaria del sostentamento alimentare, ancora prevalentemente dipendente dalla foresta. Con l’aumentare della densità della popolazione il periodo di coltivazione venne allungato e quello di Lhotse accorciato fino a 1-6 anni, cosa cosa che rese il sistema sempre meno sostenibile, portò a raccolti sempre più poveri a causa della riduzione della fertilità del suolo e dei fenomeni erosivi.

A questo si sommava la riduzione della biodiversità forestale. A tutti gli effetti l’equilibrio tra raccolta di piante selvatiche nella foresta e cibo coltivato a Khorya era stato invertito, sempre più cibo proveniva dall’agricoltura e sempre meno dalla foresta, che però perdeva comunque in diversità a causa del ridotto Lhotse.

Dal punto di vista dei Chepang il sistema Khorya è una necessità, quindi insostituibile per il supporto della popolazione nel breve termine; dal punto di vista ambientale, il sistema, come è strutturato oggi, è una tragedia a lungo termine, che mette a rischio la stabilità e la fertilità del suolo, e la vera e propria esistenza della foresta, in cambio di un misero raccolto.

Il sapere tradizionale

La maggior parte dei nuclei familiari della zona (ca. Il 90%) usa le risorse forestali o non coltivate a scopo medicinale, per ricavarne dei soldi al mercato, o per sopperire ad una vera e propria mancanza di cibo (il 75% dei nuclei familiari).

Tutte le case stoccano al primo piano, oltre ai cereali coltivati, piante selvatiche, in particolare Githa (Dioscorea bulbifera L. — Dioscoreaceae) e Bhyakur (Dioscorea deltoidea Wall. ex Griseb.) e in minor misura dei germogli di bambù (Bambusa nepalensis Stapleton — Poaceae).

Quasi tutti gestiscono in qualche modo le piante selvatiche, sia attraverso una protezione in situ, sia attraverso processi preagricoli di domesticazione.

Secondo una ricerca recente relativa proprio a quest’area in generale le donne sono leggermente più competenti degli uomini rispetto alle piante selvatiche, ma la differenza non è significativa, e certamente minore rispetto a quello che mi sarei potuto aspettare sulla scorta degli studi citati precedentemente.

E’ possibile che le ridotte competenze agricole dei Chepang possano in parte spiegare questa uniformità tra uomini e donne. Non avendo sviluppato molto la coltivazione degli orti familiari, forse è venuta a mancare alle donne Chepang la possibilità di aumentare le loro competenze sulle piante degli ambienti di transizione [7].

Lo studio nota anche delle differenze genere-specifiche: gli uomini sono più competenti delle donne nel campo delle piante medicinali, probabilmente un riflesso del fatto che tradizionalmente gli sciamani Chepang (Pande) sono tutti uomini; anche la composizione etnica della popolazione si riflette sulla conoscenza delle piante: in aree abitate da soli Chepang il sapere sulle piante è maggiore che nelle aree a popolazione mista (Chepang e immigrati da altre aree), probabilmente (secondo gli autori) perché l’influenza dei non-Chepang  svalutata agli occhi dei Chepang le risorse raccolte dal selvatico, associandole ad idee di arretratezza culturale, primitività, ecc. che, come abbiamo visto, sono state (ed in parte sono ancora) associate alla comunità Chepang.

E’ anche possibile che questi contatti abbiano indirettamente ridotto le attività comunitarie, fondamentali per la trasmissione, verticale ed orizzontale, dei saperi tradizionali.

Questo trend è ravvisabile anche tra le differenti classi di età: gli individui sotto i 30 anni sono meno competenti dei più anziani, probabilmente per una riduzione del trasferimento di sapere in famiglie sempre meno multigenerazionali. [8]

Oltre al declino del sapere relativo alle piante selvatiche, la popolazione denuncia un declino nel numero e nella varietà delle piante stesse. Gli anziani tra i Chepang attribuiscono il declino a molti fattori: la deforestazione, il modificarsi del sistema di Khorya, la pressione demografica ed immigratoria, il cambiamento nei costumi alimentari (diretto verso cibi più cosmopoliti, o meno caratterizzati come Chepang), l’aumento delle monoculture, la mancanza di strategie di conservazione e di sostenibilità.

Le strategie

Vi è qui un nodo centrale: alcune pratiche tradizionali (Khorya e raccolta spontanea) sono inserite in un nuovo contesto demografico, sociale e culturale, e questo (mal)adattamento ha delle conseguenze sul germoplasma e sulla sostenibilità di tali pratiche; perché se è vero che le  piante selvatiche e non coltivate sono una risorsa culturale, alimentare e medicinale fondamentale, è necessario riconoscere che un sistema di sfruttamento tradizionale può risultare fortemente inadeguato alle nuove richieste ambientali, ed entrare in crisi.

Per fare solo alcuni esempi, al momento nell’area è del tutto impossibile anche solo pensare ad un periodo di maggese di 10-15 anni: la pressione demografica (interna ma anche esterna, se negli ultimi 45 anni l’immigrazione è aumentata molto mettendo in crisi anche I modelli culturali locali) [9] è troppo forte, ed aumenterà ancora nel futuro; le risorse forestali non possono stare al passo con questa pressione, e la riconversione del Khorya in terrazzamenti è possibile solo in minima parte a causa della natura estremamente ripida dei terreni.

Ciò che manca è una strategia per gestire questa crisi senza sacrificare i saperi tradizionali.

Considerate le condizioni del territorio in cui abitano i Chepang, le loro grandi competenze rispetto agli NTFP, la grande valenza culturale della raccolta nel selvatico e la possibilità che le specie non coltivate apportino un contributo importante alla dieta, non completamente riducibile ad apporto calorico o di macronutrienti, è razionale pensare ad un possibile spazio aperto per l’etnobotanica applicata, perché essa raccolga il sapere che sta scomparendo sulle proprietà nutrizionali e medicinali delle piante selvatiche, perché lo integri ai progetti di ricerca e sviluppo per offrire strategie percorribili ed accettabili dalle comunità locali (vedi rispetto a questo il lavoro svolto negli anni dall’International Centre for Underutilized Crops e dalla Global Facilitation Unit for Underutilized Species, recentemente accorpatesi per formare Crops for the Future)

Circa 15 anni fa gli stessi Chepang misero sul piatto diverse proposte per superare il problema della Khorya:

  1. Favorire la conoscenza di orti familiari, dove coltivare piante, ortaggi ed alberi da frutto e da foraggio: permettono raccolti maggiori e un maggior ritorno economico. Alberi “poliedrici” come il Chiuri sono particolarmente promettenti.
  2. Negli orti familiari potrebbero essere coltivati, lungo I limitari, specie ad elevato valore aggiunto come I bambù, le piante da saggina, utili per l’artigianato, in particolare per I manufatti intrecciati, attività nella quale I Chepang primeggiano.
  3. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda le piante medicinali
  4. Altrettanto importante sarebbe imparare nuove e migliori forme di gestione della foresta, per migliorare e rendere più efficiente la raccolta di piante selvatiche, e per ridurre il rischio di impoverimento del terreno.

Grazie allo sforzo di varie organizzazioni locali gli orti famigliari sono aumentati e sono di miglior qualità, ma rimangono ancora insufficienti per il sostentamento. Le piante più utilizzate sono:

Ma veniamo allora ai kandamools, ovvero alle piante selvatiche utilizzate. Non volendo allungare oltremodo il già lungo post, non elenco tutte le specie utilizzate (qui e qui potete trovare articoli che descrivono in dettaglio le specie più importanti) ma citerò solo quelle che ho visto nei viaggi, o delle quali ho parlato direttamente con un abitante della valle. Quello che presento non è che un suggerimento per ulteriori approfondimenti.

Le piante selvatiche (kandamools)

From Chepang Khilendra 2009
From Viaggio tra i Chepang di Musbang

1. Yoshi/Chiuri. Diploknema butyracea (Roxb.) H.J. Lam — Sapotaceae

Ban Yoshi: Chiuri selvatico; Rang Yoshi: Chiuri coltivato

Probabilmente la pianta più importante per I Chepang. E’ una pianta fondamentale per l’identità del gruppo: definisce la cultura Chepang, fornisce una fonte fondamentale di materiale per l’alimentazione, la cultura materiale, il sostentamento economico. Praticamente ogni parte della pianta viene sfruttata. I Chepang si tramandano una tassonomia popolare molto dettagliata sulla pianta, sulle sue varietà, sulla germinazione dei semi, sulle cure dell’albero, sulla raccolta dei frutti, del nettare, sull’estrazione del burro dei semi, ecc., e utilizzano più di 30 nomi per la pianta a seconda del periodo di fioritura; del colore dei frutti, delle foglie, sella corteccia, dei rami e dei semi; della forma del tronco; delle dimensioni, odore e sapore del frutto; della produttività.

Una racconto mitologico sull’origine dell’albero sottolinea la centralità della pianta:

“Molto tempo fa, di notte, una bufala scappò dalla stalla dove stava riposando, ed andò in un campo di miglio per mangiare fino a che non fu completamente sazia. Ma quando decise di tornare alle stalle, perse la via del ritorno a causa dell’oscurità, e cadde in un pericoloso burrone e lì rimase, incastrata a metà. Nessuno riuscì ad aiutarla a risalire, e ella morì lì. Si narra che nel medesimo luogo, fertilizzato dalla carcassa della bufala, nacque il primo albero di Chiuri”

Narra sempre il mito che è possibile leggere nel Chiuri questa lontana origine: I suoi frutti danno un succo lattiginoso (il latte della bufala) e il burro estratto dai semi è il burro di bufala. I piccoli grani neri nella polpa del frutto sono i grani di miglio che la bufala si era mangiata. Inoltre I Chepang usano ancora una frase tipica: il Chiuri è per noi come una bufala.

Usi

  • Semi: medicinali
  • Burro dei semi: cibo, olio da lampade, medicinale
  • Cake dei semi: agricoltura (come pesticida ed insetticida), pesca, foraggio (dopo la lisciviazione)
  • Frutti: cibo, medicina, Raksi
  • Fiori: nettare, apicoltura, medicina, bevande fermentate
  • Foglie: foraggio, piatti, cartine per tabacco
  • Corteccia: medicina, combustibile, pesca
  • Legno: costruzione, cultura materiale, combustibile
  • Latice: gomma da masticare, trappole per insetti ed uccelli

In particolare il burro ricavato dai semi viene utilizzato per cucinare, internamente per costipazione cronica e febbri. A livello topico per pelle infiammata, reumatismi, tenia pedis. Il burro viene usato nelle lampade dei templi perché non emette cattivi odori e brucia con fiamma luminosa, bianca e senza fumo.

Potenzialmente il burro potrebbe essere usato non solo per cucinare ma come margarina, come fonte di acido palmitico per l’industria farmaceutica, per fare delle candele, come sostituto dell’olio di cocco per fare saponi, pr fare unguenti e creme e come balsamo per i capelli mescolato a degli attar.

2. Ghitta (Dioscorea bulbifera L.), Bhyakur (D. deltoidea Wall. ex Griseb), Chunya (D. pentaphylla L.) e Bharlang (Dioscorea spp.) — Dioscoreaceae

Come in molte aree del mondo le Dioscoree rappresentano una risorsa insostituibile per il sostentamento alimentare. E come in molti casi le Dioscoree selvatiche non sono immediatamente fruibili, a causa della presenza di alcuni composti tossici. In particolare le specie utilizzate in Nepal sono caratterizzate da un contenuto in proteine e fibre più elevato delle varietà coltivate, e non sono particolarmente tossiche. Non contengono alcaloidi e quantità relativamente basse di nor-diterpeni furanoidi come la diosbulbina A ed in particolare la diosbulbina B, più composti cianogeni ben entro i limiti di sicurezza. I rari casi di infiammazione e tossicità riportati in letteratura sono più probabilmente dovuti alla presenza di cristalli di ossalato.

Per quanto poco tossiche, queste specie vengono comunque trattate in maniera complessa per eliminare la parte amara: dopo aver pelato i tuberi, questi vengono fatti a fette (eliminazione di metaboliti presenti nella corteccia) e messi a bollire con acqua e cenere (tecnica della cottura ed adsorbimento) per tre volte cambiando ogni volta l’acqua di bollitura (eliminazione dell’acqua e cenere saturate); il materiale così trattato viene poi posto per un giorno a bagno nell’acqua corrente di un torrente (lisciviazione), per poi essere trasformato in farina alimentare.

Le Dioscoree non sono importanti sono a livello alimentare: nel distretto del Gorkha vengono consumate come piante sacre durante il festival Hindu del Maghe Sankranti: il primo giorno del festival i tuberi vengono bolliti, poi fritti, e mangiati.

In altre regioni vengono anche usate come rimedi antelmintici.

3. Sisnu/Nelau (Urtica dioica L.) — Urticaceae

Certamente uno dei cibi selvatici più comuni ed utilizzati dalla gente delle colline. I germogli giovanili e le foglie primaverili vengono raccolte e cotte insieme ai germogli di bambù, usate nelle zuppe o mescolate alla polenta di mais, grano o Eleusine coracana (con aggiunta di sale e peperoncino).

La radice viene utilizzata come rimedio per tosse e raffreddore, miscelata insieme a Woodfordia fruticosa e Castanopsis indica (Roxburgh ex Lindley) A. de Candolle.

4. Rimsi & Gotsai

Rimsi/Koiralo (Bauhinia variegata L.) Fabaceae

Le giovani foglie, i fiori ed i frutti vengono fatti bollire e consumati come direttamente o conservati in salamoia e usati come achar.

Sono importanti piante medicinali: corteccia e fiori si usano per linfadenia, elmintiasi ed amebiasi, disturbi gastrici, e localmente in polvere per tagli e ferite (probabilmente grazie alla presenza importante di tannini).

5. Gotsai sag/Tanki (Bauhinia purpurea L.) — Fabaceae

I germogli floreali, le cime giovani ed i frutti acerbi vengono cotti e consumati direttamente o come achar, i semi vengono fritti e mangiati come snack, mentre le foglie adulte vengono usate come foraggio. La corteccia ricca in tannini viene usata come astringente in caso di diarrea e dissenteria, e come agente colorante.

From Dolakha 2009

6. Gaidung (Asparagus racemosus Willd.) — Asparagaceae/Liliaceae

I germogli giovanili e le foglie tenere si consumano come verdura cotta o come achar. Viene usato come rimedio insetticida e come tonico. Nel Dhading la frutta viene consumata per trattare problemi della pelle come foruncoli.

In Nepal le radici vengono arrostite sul fuoco e lasciate all’aperto per tutta la notte, quindi vengono polverizzate, mescolate con acqua e usate in caso di minzione dolorosa o urente.

In Ayurveda la radice viene considerata un rimedio Rasayana molto importante, usato in moltissime condizioni patologiche.

Nella valle del Khandrang alcuni nuclei abitativi hanno iniziato la domesticazione della pianta, in parte a causa dell’ottimo potenziale di mercato delle radici, in parte a causa del rischio di perdita di germoplasma nel selvatico (è una specie in pericolo).

7. Tama bans (Dendrocalamus hamiltonii Nees & Arnott ex Munro o Bambusa nepalensis Stapleton) — Poaceae

I germogli vengono fatti bollire o preparati per la conservazione come achar per il consumo personale; nella stagione secca (da febbraio ad aprile) vengono conservati come germogli fermentati (tama), un prodotto moto venduto nei mercati locali ed importante per il sostegno economico delle famiglie.

Il bambù adulto si usa come fonte di fibre per intrecciare cesti, stuoie e recinzioni.

8. Tore Nyuro (Thelypteris ciliata (Wallis ex Bentham) Ching e spp.) — Thelypteridaceae.

Le fronde tenere si consumano lesse o conservate come achar.

Il succo del rizoma si usa in caso di febbre, disturbi gastrici, diarrea ed indigestione.

9. Danthe Nyuro (Dryopteris cochleata (D. Don) C. Christensen) — Dryopteridaceae

Una delle felci più importanti nel distretto del Gorkha. Fronde e germogli giovanili si consumano lessi in famiglia (una volta fatti bollire si mantengono fino a 15 giorni) e vendute nei mercati locali.

Il succo delle radici si usa in caso di dissenteria e diarrea.

Sta diventando rara nel selvatico a causa dell’eccessiva raccolta (è una pianta considerata in pericolo)

10. Pani Nyuro & Chyan (Diplazium esculentum (Retzius) Swartz ex Sch. & Diplazium polypodioides Blume) — Woodsiaceae/ Dryopteridaceae

Le fronde tenere di Pani Nyuro vengono consumate lesse.

Il succo dei rizomi si usa in caso di febbri malariche, e una pasta ottenuta battendo le fronde si usa sulla pelle in caso di foruncoli o scabbia. Il succo della radice del Chyan Nyuro si applica su ferite ed abrasioni.

11. Thotne/Chaunle (Aconogonon molle (D. Don) H. Hara) – sin: Persicaria mollis; Polygonum molle) — Polygonaceae

I germogli giovanili consumati come verdura fresca o bollita, o come achar, particolarmente ricercato per il suo sapore acre.

Le foglie si usano in caso diarrea nel distretto del Manang.

Anche questa è una specie in pericolo, a causa della raccolta non sostenibile e della perdita di terreno forestale.

12. Porali/Ghiraula (Luffa cylindrica (L.) Roemer) Cucurbitaceae

Pianta già introdotta negli orti familiari. Il frutto tenero si consuma come verdura, mentre da secco viene venduto sul mercato come spugna vegetale.

I Tharu mescolano I semi macerati in acqua insieme ai semi di Zizyphus mauritiana Lam. e al succo della radice di Callicarpa macrophylla Vahl., quindi filtrano il tutto ed usano il liquido in caso di varicella, quando l’eruzione cutanea non “esce”.

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[1] The Local Food-Nutraceuticals Consortium (2005) “Understanding local Mediterranean diets: A multidisciplinary pharmacological and ethnobotanical approach” Local Food-Nutraceuticals Consortium Pharmacological Research 52 (2005) 353–366; Estruch R,et al. (2006) “PREDIMED Study Investigators Effects of a Mediterranean-style diet on cardiovascular risk factors: a randomized trial”. Ann Intern Med. 4;145(1):1-11; Salas-Salvadó J, et al. (2008) “Effect of a Mediterranean diet supplemented with nuts on metabolic syndromestatus: one-year results of the PREDIMED randomized trial” Arch Intern Med. 8;168(22):2449-58; Shai I, et al.  (2008) “Dietary Intervention Randomized Controlled Trial (DIRECT) Group. Weight loss with a low-carbohydrate, Mediterranean, or low-fat diet”. N Engl J Med. 17;359(3):229-41

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[3] Etkin, N (2008) Edible medicines: an ethnopharmacology of food. University of Arizona Press

[4] Grivetti LE (2006) “Edible wild plants as food and as medicine: Reflections on thirty years of field works” in A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[5] Price LL (2006) “Wild food plants in farming environment”s. In A. Pieroni, LL Price (eds.) Eating and Healing: Traditional food as medicine. Food Products Press, New York

[6] Price LL (2006) op cit.

[8] Rijal, Arun. (2008) “A Quantitative Assessment of Indigenous Plant Uses Among Two Chepang Communities in the Central Mid-hills of Nepal.” Methods 6: 395-404

[9] Rijal, Arun. (2008) op. cit.

[10] Chhetri NS, Ghimire S, Gribnau C, Pradhan S, Rana S (1997) “Can Orange Trees Blossom on a Barren Land”. In Identification of development potentials of Praja communities in Chitwan Distict SNV, Kathmandu