Siplhion, finalmente! (parte 2)

Le ragioni di un successo.
Perché il silfio è stata una pianta così importante dal punto di vista economico? Per quali ragioni era usata?  Nonostante fosse una pianta importante nella farmacopea greca e romana, è indubbio che la sua fortuna sia dovuta alla passione smodata degli antichi per il suo sapore.

I greci lo usavano sia con i vegetali che con le carni, in particolare arrosti e trippa. In questo modo ne parla il poeta ed epicureo Archesastro di Gela, citato da Ateneo di Naucrati in Deipnosophistai (101c, 311a), il quale però non approvava del suo uso con il pesce fresco. Altri autori non erano però dello stesso avviso, come nel caso di Senocrate, un autore citato da Oribasio nelle sue Collectiones medicae (2.58.114), che indicava di cuocere l’uovo di mare (Microcosmus sulcatus) con “silphium della Cirenaica, aceto, sale e ruta”.

Anche i romani apprezzavano moltissimo la spezia, tanto da consigliare di controllarne con cautela la qualità. Come ci spiega Dioscoride, essa “è di qualità quando è rossastra e traslucente, simile alla mirra e con un profumo molto potente, non verdastra, non grezza in sapore, e che non muta facilmente il suo color in bianco”.
Il testo del IV o  V secolo d.C. detto Caelii Apicii de opsoniis et condimentis sive de re culinaria (o De re coquinaria) (scaricalo in zip qui) propone (in 3.7) il suo utilizzo in una ricetta di pepones et melones:

Piper, puleium, mel vel passum (vino molto dolce ottenuto dalla bollitura del mosto e forse di altri ingredienti come miele), liquamen (salsa di pesce salata), acetum. Interdum et silfi accedit.

In 4.1 lo propone con cucurbitas:

Cucurbitas coctas expressas in patinam conpones. Adiccies in mortarium piper, cuminum, silfi modice id est laseris radicem, rutam modicum, liquamine et aceto teraperabis, mittes defritum modicum ut coloretur, ius exinanies in patinam. Cum ferbuerint iterum actertio, depones et piper minutum asparges.

Certamente importante per capire lo status raggiunto dal Silfio (e più in generale dalle spezie) è analizzare il gusto dei romani per il lusso, inteso sia come benessere e ben-vivere sia come ostentazione, segno di ricchezza, potere, capacità d’influenza e di pressione sociale e politica.

Le piante aromatiche attraggono certamente per il piacere sensoriale che possono dare, e per le attività fisiologiche che svolgono, ma anche perché permettono lo sviluppo delle conoscenze scientifiche. Grazie alla ricchezza di stimoli organolettici derivanti dall’uso delle spezie, il corredo linguistico legato ai fenomeni percettivi (si arricchisce di molto, nascono molteplici categorie descrittive e quindi si influenza lo sviluppo delle capacità descrittive.

Da spezia a farmaco
Del Silfio come medicamento piuttosto che come spezia sappiamo sin dai tempi di Ippocrate, che ne consiglia l’utilizzo come purgante, per le febbri, come rimedio per il prolasso dell’ano, in caso di dolori addominali e per disturbi ginecologici (De diaeta in morbis acutis).

Dal punto di vista medico, il silfio era considerato dai classici un rimedio caldo (calefaciens et ardorem producit: Dioscoride. I.71), disseccante (siccandum madorem toto corpore ciet Dioscoride. III; vim habet molliendi, attrahendi, calefaciendi: Dioscoride. III. 88)  e  risolutivo (vim habet calefaciantem, urentem, attrahentem, discutiendem: Dioscoride.III. 87; aperiunt ora in corporibus quod stoma Graece dicitur. Celso.V.4; crustas vero resolvit Celso.V.11; incipientem suffusionem dissipat: Dioscoride. III. 84; laevat quod exasperatum est: Celso.V.13).

Gli autori antichi gli attribuivano molti utilizzi terapeutici (elencati da Koerper e Kolls 1999), tra i quali i più importanti erano quelli digestivi. Secondo i greci era eccellente per la digestione, ma così potente da poter disturbare chi lo usasse per la prima volta (I testi ippocratici ci dicono anche che il silfio e la sua resina potevano dare disturbi intestinali e causare bile secca ai soggetti non abituati. cfr. Dalby); era attivo sia sullo “stomaco” sia sul “colon” sia sull’ “ileo” in particolare per i dolori addominali (adrodatur et rubeat maximeque si corpus durum et uirile est. Paulatim deinde faciendus est transitus ad ea, quae ventrem conprimunt. Assa caro danda ualens, et quae non facile corrumpatur: potui uero pluuialis aqua decocta, sed quae per binos ternosue cyathos bibatur. Si uetus uitium est, oportet laser quam optimum ad piperis magnitudinem deuorare, altero quoque die uinum uel aquam bibere, interdum: Celso.IV.19.4.1.), ed aveva anche indicazioni di tipo “epatologico”.
I romani, oltre che per problemi di digestione, lo usavano nei colliri mescolato a resina di lentisco o gomma ammoniaca (Dorema ammoniacum D. Don – Apiaceae).

Pianta spesso connotata magicamente (in inglese varie spp. di Ferula si chiamano volgarmente “devil’s dung”), Plinio (Naturalis Historia XX.98) ripete la cautela che esagerare nel consumo del fusto può portare a mal di testa, e cita l’indicazione di altri autori per il trattamento  dell’epilessia, a condizione che venga assunta dal 4 al 7 giorno della lunazione (qui).

Altre attività ed sui attribuiti alla pianta: antiastenica; antipiretica e sudorifica. Una indicazione simile è presente nella medicina egiziana: silphium e mirra come rimedio per la quartana (Marganne M.H. Inventaire analytique des Papyrus grecs de Médecine: Genève, Librarie Droz, 1981. Leggi la review qui); diuretica, utile al trattamento di nefriti e  cistiti; analgesica (“ad omnem dolorem veterem” Scribonio Largo); asma e “dispnee”; “pleuriti” e “polmoniti” Plinio (Naturalis Historia XXII.100); tosse acuta e cronica (Celso.IV.10.3.1); dolori articolari in paticolare la “podagra” (Scribonio Largo)

Ma certamente l’uso più famoso e controverso è quello relativo alla sfera genitale femminile. Molti autori, antichi e moderni, ritengono che fosse una pianta anticoncezionale o abortiva. In questo senso ne parlano Teofrasto, Plinio il Vecchio, Sorano di Efeso (in Sorani Gynaeciorum vetus translatio Latina 1882; leggilo qui) e Serenus Sammonicus (che però nel suo poema Liber medicinalis riprende il contenuto del Naturalis Historia di Plinio); Sulllivan (1979) è stato uno dei primi a offrire evidenza critica che le asserzioni di Sorano e di Serenus Sammonicus sull’azione abortiva del silphion avessero basi biologiche.

Più di recente altri autori hanno supportato questa ipotesi (Riddle 1985; Riddle, Estes 1992; Riddle, Estes, Russel 1994; Fisher 1996), e alcuni dati sperimentali relativi ad altre specie di Ferula (Ferula assa-foetida, Ferula jaeschkeana, e Ferula orientalis) tenderebbero a supportare l’idea di una azione antifertilità (Prakash et al 1986; Singh et al 1988), abortifacente ed anticoncezionale (Farnsworth et al. 1975).

Altri autori (Koerper e Kolls 1999) ritengono che il dato iconografico e numismatico indichi un utilizzo afrodisiaco, o che al contrario, siano le immagini irifalliche e testicolari delle monete a evocare un legame tra pianta, uso per la funzione sessuale ed uso apotropaico; essi portano a supporto gli scritti di Avicenna (che attribuisce qualità afrodisiache ad un sostituto del silphion) e a Catullo (che lega il silphion al piacere sensuale – Fisher 1996).

Plino parla della pianta come di un “prezioso regalo della natura” e racconta che ai suoi tempi veniva primariamente importata dalla Siria, ma che questa varietà siriana era inferiore a quella Partiana (Persia orientale = Afganistan) ma superiore a quella Media (Persia occidentale =Iran); tutte  queste erano però inferiori, a detta dell’autore, a quella della Cirenaica.

Sembra ormai chiaro che le varietà persiana, partiana ed altri cosiddetti silphion erano in realtà varietà di asafoetida, che, forse, vennero accettate nonostante il profilo organolettico “inferiore” a causa della sempre maggior scarsezza del silfio originale.

Perché si estinse?
Perché, o meglio in che modo, il silfio si sia estinto non è chiaro. Non è neppure chiaro quando esattamente si estinse, proprio perché la gente iniziò a sostituire al silfio altre ferule.
Plinio scrive che, semplicemente, i pastori iniziarono a nutrire le pecore con la pianta, perché la carne di pecora nutrita a silfio era particolarmente ricercata, e questo, unito alla già elevata richiesta di spezia, portò alla sua estinzione; l’ipotesi sembra poco ragionevole, dato che certamente il siflio doveva valere molto di più della carne di pecora.
Il geografo Strabone, che scrive circa un secolo prima della sua scomparsa, sembra suggerire che i problemi che portarono alla scomparsa derivassero da scontri tra i raccoglitori (pastori Libici) e i commercianti di Cyrene. I raccoglitori, ci dice Strabone, durante degli scontri, sradicarono e distrussero un grande numero di piante, in segni di rivolta, e lasciarono che le pecore devastassero le piante, probabilmente, secondo Shimon Applebaum perché non erano soddisfatti dei guadagni miseri derivanti dalla raccolta.

Alfred Andrews propone una teoria completamente diversa: secondo lo storico, quando, nel 74 a.C. Roma   trasformò Cirene e Creta, in una unica provincia senatoriale, i governatori che si succedettero al comando sfruttarono pesantemente la pianta per ottenere guadagni rapidi ed elevati (i governatori non avevano salario e potevano intascarsi ciò che ottenevano sfruttando la provincia).

Cento anni più tardi, nel primo secolo d.C., la scarsità della pianta portò al crollo dell’economia della regione, tanto che poco tempo dopo Plinio riporta che “ormai da molti anni il silphion non è stato visto nella regione, dato che le persone che affittano la terra da pascolo, vedendo possibilità di maggiori profitti, lo sfruttano eccessivamente per farne pascolo per pecore. L’unico fusto trovato a memoria d’uomo è stato mandato all’Imperatore Nerone”.
Dopo il primo secolo nessuno riporta l’uso del silphion, e nonostante vi siano stati nei secoli vari autori che hanno annunciato che il silphion era stato trovato, risulta molto difficile credervi, poiché se veramente fossero esistite delle colonie sopravviventi, le popolazioni, ben consce del suo valore, lo avrebbero sfruttato commercialmente e noi avremmo delle fonti che riportano di questo commercio.

Seppure la fine del mercato non coincide con la scomparsa della specie, ovvero della estinzione in senso stretto, è ipotizzabile che la pianta scompaia del tutto tra il secondo e il terzo secolo d.C., e possiamo concludere che la sua scomparsa sia legata all’ipersfruttamento e alla mancata obbedienza alle regole imposte dal governo di allora che regolava la quantità e la modalità di raccolta della resina.

Dialoghi etnobotanici due

Riprendiamo il filo di una bella discussione che ha segnato il primo post di questo blog. Il dialogo riprende con Andrea Pieroni, che fino a poco tempo fà era Senior Lecturer presso la Division of Pharmacy Practice/Medical Biosciences Research Focus Group, dell’Università di Bradford, GB, mentre ora è professore onorario di Botanica presso l’Università delle Scienze Gastronomiche di Bra.

Rimane comunque membro della Linnean Society di Londra e della Royal Society of Medicine, Presidente della International Society for Ethnopharmacology, Editor-in-Chief del Journal of Ethnobiology and Ethnomedicine (Editor-in-Chief) e membro del board di Journal of Ethnopharmacology, Journal of Ethnobiology e Food and Foodways.

Silphion: allora, caro Andrea, per riprendere le fila del discorso, dato che sono un tipo cocciuto ritornerei su di un argomento che a te pareva mal posto, cioè traditional knowledge (TK) vs. Evidence Based Medicine (EBM) [un argomento che fa parte di una più ampia discussione che presenterò in futuro intervistando Sue Evans, una erbalista che ha scritto un recente articolo proprio su questa contrapposizione], ma dato che sono anche un tipo educato te lo ripropongo in maniera diversa 🙂
Prima di tutto ti chiederei di chiarire, se vuoi, il significato della tua risposta di allora, cioè:

“si tratta di due concetti assai sghembi, sarebbe come relazionare banane e zibetti.  Perfino nella fitoterapia tradizionale ho problemi a intravvedervi folk knowledge, nel senso che la fitoterapia tradizionale è certo stata toccata dalla folk knowledge, ma come anche la medicina ufficiale, la chirurgia, il gioco degli scacchi, l’aranciata, la Coca-cola, ed i fast food.”

Pieroni: Il significato di quello che volevo dire è che le medicine tradizionali non hanno molto a che vedere con la folk knowledge, che è generalmente trasmessa oralmente. Infatti si parla sempre distintamente, in inglese almeno, di TMs e Folk Medicines, che sono le medicine che si basano sulla folk knowledge.
Le TMs (che hanno codificazioni consistenti) hanno poco di “folk”. Ciò non significa ovviamente che questo sia un male.

Si.: azzardo una riflessione. E’ un fatto che un settore delle cosiddette CAM, in particolare i fitoterapeuti di scuola tradizionale (tra i quali ci metto quelli appartenenti alla mia tradizione, britannica), dà per scontato il rapporto diretto tra folk knowledge e moderna fitoterapia tradizionale, una connessione originaria, più intima e vera, della fitoterapia con la tradizione. Mentre è ancora poco approfondita la riflessione su cosa significhi “rifarsi” alla tradizione, ed anche il riconoscimento del carattere “costruito” della tradizione.

Saltando di palo in frasca, riprendo un tuo commento nella discussione precedente, quando parlavi della rilevanza dell’etnobotanica e “di popoli che costruiscono il loro futuro”. Ti chiedo questo: nella natura composita dell’etnobotanica, c’è una tensione tra questa dimensione di cui tu parli, del fare parte di un processo dinamico, quindi di cambiamento, e la dimensione conservativa, sia nel senso biologico sia culturale?

P.: Sì c’è questa tensione, in coloro che ci riflettono. Ma l’etnobotanica dei migranti è un esempio molto bello di superamento del conflitto. Ovviamente sono ancora tanti gli etnobotanici che pensano che la “tradizione” sia statica e sia di per sé sempre bella e virtuosa. E quindi vedono in termine astorici le cose, perché “conservare” fino in fondo non è mai possibile (meno male!).

Si.: C’è il rischio dell’idealizzazione delle radici e delle tradizioni?  E d’altro canto non è in fondo questo un ruolo fondamentale, la difesa dall’erosione da parte della modernità? Anni fa ad un convegno IASTAM (International Association for the Study of Traditional Asian Medicine) si parlava appunto del destino della tradizione ayurvedica cannibalizzata dall’ayurveda americano “di ritorno”, new age. Naturalmente a prima vista era chiaro con chi stare, i predicatori americani dell’ayurveda “a la page” non erano simpatici. D’altro canto questo ritorno portava linfa, interessi e soldi alle università tradizionali ayurvediche che rischiavano di svanire.  Ma questo ritorno portava anche ad una grande semplificazione, le pratiche più “popolari” e meno esportabili sparivano a favore di quelle più “canoniche”.

P.: In qualsiasi “migrazione”, c’è da fare i conti con l’”adattamento culturale”, e soprattutto con negoziazioni culturali sempre dinamiche.
Direi che la virtù forse stia nel vedere con più curiosità ed empatia ciò che succede durante queste “migrazioni”, di capire cosa avviene, invece di dare giudizi.
Forse anche gli ayurvedici americani hanno aiutato gli ayurvedici “puristi” a “vedere” nuove cose. Non è il succo della vita quello di imparare sempre da un “incontro”?
Qualsiasi pratica medica – per lo parlare della ”scienza” – avrebbero molto da dare e ricevere se si facessero aperta alle osmosi con l’”altro da sé”.

Si.: Allora prendo questo spunto, perché mi pare molto interessante parlare di etnobotanica dei migranti. Mi pare un buon esempio dell’evoluzione dell’etnobotanica, e anche un esempio antiromantico, lontano dallo stereotipo tipico che vuole l’etnobotanica sempre esotica, avventurosa, legata alla scoperta di piante utili per la farmacologia moderna, legata all’antico o al “primitivo”, comunque legata al tradizionale.

Vuoi spendere due parole sull’etnobotanica dei migranti? Ritornando al testo di cui sei coeditor (con Ina Vandebroek: Traveling cultures and plants: the ethnobiology and ethnopharmacy of human migration) sbaglio se vedo in questi saggi da una parte un approccio cognitivista (comparazione di differenti tassonomie folk, di differenti saperi e classificazioni), e dall’altro un forte interesse per i risvolti di salute pubblica e di diritti alla salute delle comunità immigrate, l’uso dell’etnobotnica come chiave di lettura per gli studi sull’identità culturale? Mi pare un campo affascinante perché svela il carattere complesso delle relazioni piante-uomini, una complessità che forse rimane più nascosta, mascherata dall’immaginario romantico-avventuroso, negli studi o nelle divulgazioni sull”etnobotanica classica”.

P.: Gli studi sull’etnobotanica dei migranti ci permetterebbero di analizzare molto bene come la TK legata alle piante cambia nel tempo e nello spazio.
È questione non da poco in termini scientifici.
E‘ vero: il lato di public health c‘è sempre (e ci dovrebbe sempre essere) dietro una ricerca etnobotanica, ma certo nelle società occidentali urbane  risalta molto di più, perché l’agenda dei public health services mette al primo posto il discorso sulla salute dei migranti.
Penso che paradossalmente da questi studi possano arrivare di ritorno anche spunti ed idee per l’etnobotanica “classica”, spesso impantanata tra studio del folklore, romantica osservazione di un presupposto equilibrio società umane-natura, ed un pizzico di esotismo.
C’è il lato del public health, ma anche quello della public nutrition, dell’organizzazione e percezioni degli spazi verdi urbani in contesti multi-culturali, della sostenibilità ambientale e sociale di pratiche ed esperienze urbane.

Si.: Saltando ad un’altra frasca, ho pensato a te l’altro giorno quando un professore di farmacologia mi ha chiesto: “oltre alla medicina cinese e quella ayurvedica, non ce ne sono altre di medicine tradizionali che ci dicono ancora qualcosa, no?”. Pensavo a come è forte lo stereotipo che comunque reitera sempre la stessa cesura tra medicina alta, colta e medicina popolare, per cui anche un rappresentante della biomedicina si troverà a suo agio con le medicine alternative ma solo se sono canonizzate.

P.: Sì questa è la classica fata morgana per cui  un codice standardizzato di per sé significhi “poter dire qualcosa”… In realtà tutto ha da dirci qualcosa, e “ci parla”, anche le culture orali, non codificate, ed in fondo ogni esperienza umana.
Abbiamo ancora tantissimo da imparare (o ri-imparare) sulla dignità dei saperi tradizionali manuali ad esempio, che hanno “fatto” le medicine popolari e le TMs per molti secoli.
Ma per questo bisogna ripensare le cose su piccola scala, ed avere altri “modelli di sviluppo”, come li chiamavamo una volta.
Il collasso economico di oggi è un’opportunità straordinaria per cominciare a praticare sul serio la sostenibilità ambientale, sociale ed economica…

Si.: Finirei chiedendoti del panorama dell’etnobotanica in Italia, sia dal punto di vista delle aree di ricerca che a tuo parere meriterebbero attenzione, sia dal punto di vista formativo: se cioè un giovane studente desiderasse avvicinarsi a questo campo, cosa deve aspettarsi? Che percorsi può/deve fare (a parte andare in Germania o GB)?

P.: Non è possibile “studiare” etnobotanica in Italia, e nemmeno in Europa, né a livello di Laurea, né a livello di Master  vero e proprio (a parte un piccolo Master in Etnobotanica della durata di 12 mesi all’Università di
Kent a Canterbury, però molto focalizzato su aspetti antropologici).
Ma ci sono certo piccoli gruppi di ricerca nelle università italiane che hanno cominciato anche seriamente ad occuparsi anche un pochino di ricerca etnobotanica, ed a cui potenziali laureandi potrebbero afferire:

a Firenze i Proff. Signorini e Bruschi (Agraria) e la Prof.ssa Giusti (Lettere/Antropologia Culturale);

a Pisa il Prof. Tomei (Agraria);

a RomaTre la Prof.ssa Caneva (Biologia); a Roma/La Sapienza la Prof.ssa Leporatti (Farmacia);

a Milano la Prof.ssa Fico (Farmacia);

a Genova il Prof. Mariotti (Biologia);

a Cagliari i Proff. Maxia e Ballero (Farmacia);

a Sassari il Prof. Camarda (Agraria);

a Palermo la Prof.ssa Lentini (Farmacia);

a Catania la Prof.ssa Napoli (Biologia).

Ed infine il sottoscritto a Bra (Scienze Gastronomiche).

Per aspetti invece strettamente e fitoetnolinguistici:i Proff. Trumper e Maddalon (Univ. della Calabria a Cosenza) e il Prof. Sanga (Venezia/Ca’ Foscari), tutti a Lettere.

Si: bene, come sempre, grazie mille, e a presto

Biodiversità informatica

La Encyclopedia of Life, il mega progetto di informatizzazione e coordinamento delle informazioni su tutte le forme di vita, insieme al Natural History Museum e a molte altre istituzioni ed associazioni collegate al mondo della conservazione e della ricerca sulla biodiversità, organizza presso il Centro Conferenze The Queen Elizabeth II a Londra una conferenza sull’informatica applicata allo studio della biodiversità (e-Biosphere 09 International Conference on Biodiversity Informatics)

Ecco qui il poster, e qui la possibilità di partecipare alla conferenza on-line.

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International Conference on Biodiversity Informatics

Important Dates

  • 9 February 2009: Launch of Online Conference Community (OCC)
  • 7 March 2009: Deadline for submission of poster abstracts and applications for travel bursaries.
  • 1 April 2009: Deadline for applications for exhibit space and database/software demonstrations
  • 1 April 2009: Announcement of accepted poster abstracts and awards for travel bursaries.
  • 15 April 2009: Deadline for proposals for discussion group topics and side-events.
  • 1 May 2009: Registration deadline
  • 1 May 2009: Release of abstract volume
  • 1 May 2009: Realease of Third Conference Announcement with final agenda
  • 1-3 June 2009: e-Biosphere 09 Conference

The e-Biosphere 09 International Conference on Biodiversity Informatics will bring together an exceptional array of speakers and participants to highlight the achievements in Biodiversity Informatics today and to discuss strategies for its future. This conference presents a unique opportunity for a wide range of professionals, researchers, and students to come together to help plan the future of the field.

Who Should Attend?

The Conference has been designed as a meeting-ground for researchers and users of biodiversity data, such as: content providers in fields such as taxonomy, genetics, and ecology; content aggregators; policy-makers; developers of biodiversity databases, software, and data standards; and users from diverse fields such as conservation, land use, agriculture, and sustainable development. Computer scientists and engineers interested in biodiversity informatics are encouraged to join us and share their expertise and perspectives. Participants from public research funding agencies, private foundations and donor organizations are also welcome, as they will play a key role in determining the next steps for biodiversity informatics.

An Interactive Conference

Planned with an eye towards innovation, e-Biosphere 09 aims to be interactive as well as informative. Attendees are encouraged to take a participatory role in this event by submitting a poster abstract, or suggesting a topic for Break-Out Discussion Groups. The dynamic Online Conference Community, a series of electronic discussion forums, offers researchers and users of Biodiversity Informatics the opportunity to interact and prepare for the conference.

Appello dei civilisti

L’incontro di ieri con il senatore Ignazio Marino a Verona sul tema del testamento biologico mi ha ricordato di postare questo appello, firmato da 30 civilisti italiani, sottoscritto anche da una trentina di giuslavoristi e da proceduralisti, mandato a tutti i quotidiani italiani ma pubblicato (su carta, che sul web Bioetiche ha risposto subito) solo da Micromega:

Appello dei civilisti sul testamento biologico

1. Nelle ultime concitate settimane si sono verificate attorno al caso Englaro forzature istituzionali molto preoccupanti in sé e per sé, ma assolutamente inaccettabili quando si controverte di valori fondamentali della persona come il significato del diritto alla vita, la dignità dell’uomo, l’habeas corpus, il diritto all’autodeterminazione: temi che per rispetto delle radici stesse della convivenza civile in una società pluralistica richiedono di essere affrontati, in sede normativa, sulla base di approfondite e documentate conoscenze, di mediazione ed ascolto delle diverse posizioni etiche, e con procedure adatte a consentire la discussione, il confronto, la ricerca di un attento bilanciamento.

2. Ora il Parlamento sta per approvare in tempi stretti una legge in materia di direttive anticipate (c.d. testamento biologico). A quanto è dato di conoscere, la maggioranza pare intenzionata ad una discussione rapida di un testo fortemente limitativo del fondamentale diritto all’intangibilità del corpo. Verso questo obiettivo si procede a passi spediti, senza tener conto dei principi costituzionali di diritto interno e sovranazionale ed ignorando l’esigenza di rispetto di posizioni morali diverse.

3. Sembra quindi necessario richiamare alcuni capisaldi giuridici in materia:

    a) La Convenzione di Oviedo, che l’Italia ha sottoscritto e di cui è stata approvata la legge di ratifica, dispone all’art 5, che “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”. La previsione non riguarda solo le terapie in senso stretto, ma ogni “intervento nel campo della salute”, espressione più ampia che può corrispondere a quella di “atto medico”, vale a dire qualsiasi atto che, anche a fine non terapeutico, determini un’invasione della sfera corporea.

    All’art 9 si prevede che “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”, ove se da un lato non si qualificano i “desideri” come vincolanti, dall’altro è evidente che il rispetto va dato non soltanto alle “dichiarazioni di volontà” (men che meno alle sole dichiarazioni solenni come l’atto pubblico) ma ad ogni espressione di preferenze comunque manifestata.

    b) La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea protegge il diritto alla vita (art.2) e il diritto all’integrità della persona (art.3) nel titolo dedicato alla Dignità, che è anche il primo, fondamentale diritto della persona (art.1). All’integrità della persona, in ragione della dignità, è consustanziale il principio di autodeterminazione stabilito nel secondo comma dell’art. 2, secondo il quale Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge, ecc.” Ancora una volta il principio non è limitato ai trattamenti terapeutici, ma riguarda la libera determinazione nel campo medico-biologico.”

    c) La Costituzione italiana, che tutela l’autodeterminazione all’art. 13, configura all’art. 32 il principio del consenso come elemento coessenziale al diritto alla salute, e prevede che anche nei casi in cui il legislatore si avvalga del potere di imporre un trattamento sanitario, “in nessun caso possa violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Tale dignità non può essere intesa solo in un senso affidato a criteri oggettivi, ma implica il rispetto dell’identità senza la quale cade la ragion d’essere della dignità dell’uomo.

    d) Il principio che consente il rifiuto di atti medici anche benefici è un’acquisizione consolidata della giurisprudenza europea, a valle di una evoluzione che risale alla fine dell’800; e più volte si è confermato che anche di fronte allo stato di necessità il libero, consapevole, lucido dissenso dev’essere rispettato. Un tale diritto di rifiutare le terapie, anche di sostegno vitale, non ha nulla a che fare con l’eutanasia, che consiste invece in una condotta direttamente intesa a procurare la morte.

    e) Egualmente estraneo all’eutanasia è il principio condiviso in bioetica e in biodiritto per cui l’interruzione delle cure, anche senza volontà espressa del paziente divenuto incapace, debba essere praticata non solo quando le cure sono sproporzionate (c.d. accanimento terapeutico) ma anche quando esse siano inutili o abbiano il solo effetto del mantenimento in vita artificiale (cfr. l’art. L 1110-5, 2° comma, del Code de la santé publique, modificato dalla L. n. 2005-370 del 22 aprile 2005 “Relativa ai diritti del malato ed alla fine della vita”, e l’art. R 4127-37 del Code de la santé publique, modificato dal decreto n. 2006-120 del 6 febbraio 2006).

Confidiamo che il legislatore italiano saprà e vorrà tenere in conto questi principi e adeguare ad essi la disciplina delle direttive anticipate, evitando di espropriare la persona del diritto elementare di accettare la morte che la malattia ha reso inevitabile, di combattere il male secondo le proprie misure e – se ritiene – praticando soltanto il lenimento della sofferenza, senza rimanere prigioniera, per volontà di legge, di meccanismi artificiali di prolungamento della vita biologica.

Il documento è sottoscritto dai seguenti Professori di diritto civile:
(in ordine alfabetico)

Guido Alpa – Università di Roma La Sapienza
Giuseppe Amadio – Università di Padova
Tommaso Auletta – Università di Catania
Angelo Barba –  Università di Siena
Massimo Basile – Università di Messina
Alessandra Bellelli – Università di Perugia
Andrea Belvedere –  Università di Pavia
Alberto Maria Benedetti – Università di Genova
Umberto Breccia –  Università di Pisa
Paolo Cendon –  Università di Trieste
Donato Carusi –  Università di Genova
Maria Carla Cherubini – Università di Pisa
Maria Vita De Giorgi –  Università di Ferrara
Valeria De Lorenzi –  Università di Torino
Raffaella De Matteis – Università di Genova
Gilda Ferrando – Università di Genova
Massimo Franzoni – Università di Bologna
Paolo Gaggero – Università di Milano Bicocca
Aurelio Gentili –  Università di Roma Tre
Francesca Giardina – Università di Pisa
Biagio Grasso –  Università di Napoli Federico II
Gianni Iudica – Università Bocconi Milano
Gregorio Gitti – Università di Milano Statale
Leonardo Lenti – Università di Torino
Francesco Macario – Università di Roma Tre
Manuela Mantovani – Università di Padova
Marisaria Maugeri –  Università di Catania
Cosimo Marco Mazzoni – Università di Siena
Marisa Meli – Università di Catania
Salvatore Monticelli – Università di Foggia
Giovanni Passagnoli – Università di Firenze
Salvatore Patti – Università di Roma La Sapienza
Paolo Pollice – Università di Napoli
Roberto Pucella – Università di Bergamo
Enzo Roppo – Università di Genova
Carlo Rossello – Università di Genova
Liliana Rossi Carleo – Università di Napoli
Giovanna Savorani – Università di Genova
Claudio Scognamiglio – Università di Roma “Tor Vergata”
Chiara Tenella Sillani – Università di Milano Statale
Giuseppe Vettori – Università di Firenze
Alessio Zaccaria -Università di Verona
Mario Zana – Università di Pisa
Paolo Zatti – Università di Padova